Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


26 gennaio 2011

SCRIVE UN ARCHITETTO DI BILBAO....

Un architetto di Bilbao, che ringrazio e che preferisce rimanere anonimo, mi ha mandato questa mail sul tema dei post precedenti, che io pubblico volentieri senza traduzione, per ora. Poiché non conosco lo spagnolo e anche se è abbastanza comprensibile e facile da tradurre con l'aiuto di Google, non vorrei tuttavia interpretare male.

*****

Yo he escrito y comentado respecto al efecto Bilbao, en el mismo sentido que usted.
No hay ninguna duda que el "Efecto Bilbao" es pura propaganda para justificar una determinada política.
Esta política consiste en tomar la ciudad como un campo de acción para grandes operaciones inmobiliarias, suprimiendo cualquier crítica mediante el recurso a las estrellas de la arquitectura.
Hoy las "estrellas de la arquitectura" no son, ni representan ninguna vanguardia, ni teórica, ni ideológica, ni ética.
Creo que esto debiera decirse bien alto, porque todavía piensan ellos que si representan la vanguardia.
El efecto Bilbao, es absolutamente mediático. Desgraciadamente se toma como excusa para operaciones oscuras en todas las ciudades del mundo.
Pero Usted, Pietro, tiene razón; en Bilbao se han llevado a cabo operaciones mucho más importantes que el museo, y que son las que han transforemado realmente la ciudad:

- El metro.
- El Palacio de Congresos.
- Los nuevos puentes sobre la Ría.
- La nueva terminal del aeropuerto.
- La regeneración urbana de la periferia.
- La construcción de nuevos barrios.
- La limpieza de edificios.
- La mejora del mobiliario urbano.
- La creación de grandes estacionamientos subterráneos de vehículos.
- La creación de nuevas plazas y espacios públicos.
. La creación de parques.
- Un nuevo alumbrado público de las calles.
Etc.

Pero SOBRE TODO, las dos grandes obras sobre las que los turistas y los periodistas no se percatan:

1.- La ampliación del Puerto. La más grande de las obras llevadas a cabo por las autoridades vascas.
2.- La limpieza de la Ría. Mediante la creación de enormes depuradoras.

Ante estas dos obras, el Museo es una minucia, algo insignificante desde el punto de vista de gasto o inversión.
Las cosas son así.

Ahora bien, el "Efecto Bilbao" sigue utilizandose en todo el mundo, en un sentido negativo.
Y es entonces, cuando si se critica el "Efecto Bilbao", es cuando las autoridades vascas se enfurecen; porque lo interpretan como una crítica a su gestión. Y no es eso.
En resumen, el "Efecto Bilbao" se utiliza de modo muy sectario, pero se ha de decir que si Bilbao suscita interés como ciudad, se debe a toda una pléyade de acciones, como las que he citado arriba.
Reciba un cordial saludo y mis felicitaciones por su espléndido blog.

"Un arquitecto de Bilbao"

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25 gennaio 2011

UN CHIARIMENTO SULL'EFFETTO BILBAO

Poichè il post precedente ha provocato due garbate repliche, molto omogenee tra loro, di precisazione che spiegano abbastanza bene la situazione, mi sembra doveroso mostrare il link a questo articolo del sito

che documenta molto meglio la reale situazione.
Confermo tuttavia il fatto che in Italia "l'effetto Bilbao" è stato ridotto al museo e utilizzato come un grimaldello da una parte della "cultura" urbanistica italiana ed anche dalla politica per favorire operazioni promozionali delle archistar. Fortunatamente per Bilbao non hanno solo il museo ma molto di più e molto più di sostanza. E sono felici e orgogliosi della loro città.

Pietro Pagliardini

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23 gennaio 2011

L'EFFETTO BILBAO E' FINITO, MA SI SONO DIMENTICATI DI DIRCELO

Giandomenico Amendola, sociologo, ha scritto un libro, Tra Dedalo e Icaro, Laterza, sottotitolo: La nuova domanda di città, 2010. Amendola analizza la città sotto 10 profili diversi e ad ognuno di essi attribuisce un nome come si trattasse di città ognuna diversa dall’altra: La città sostenibile, La città impresa, ecc. Poi è chiaro che, come egli stesso scrive alla fine, le città si sovrappongono e i confini di ognuna si confondono con le altre. E’ un metodo interessante e anche di piacevole lettura che tra l’altro consente di ridurre a relativa semplicità ciò che è invece molto complesso. Non è detto che non comporti forzature interpretative e anche che non si soffermi su suggestoni molto di moda, rischiando perciò di tralasciare altri aspetti che magari non sono adesso in voga, tuttavia io non sono un sociologo e non voglio entrare troppo nel merito.

Mi interessa invece estrarne un tema comune, appunto, a due tipi di città, quella dell’Impresa e quella dello Spettacolo, e che riguarda i simboli dell’architettura contemporanea, cioè le opere delle archistar.
Scrive Amendola della Città dell’Impresa:

La creatività da sola non basta: l’obiettivo strategico è l’innovazione di cui la creatività diffusa è condizione necessaria ma non sufficiente. A differenza della semplice creatività, che può apparire anche in maniera fulminante ma può con uguale rapidità declinare e sparire, l’innovazione è caratterizzata da sequenzialità, irreversibilità e cumulabilità in quanto deve non solo avviare ma anche sostenere e radicare i circoli virtuosi dello sviluppo. Gli stessi casi di Glasgow e Bilbao, sin qui ritenuti esempi da manuale di esplosione di creatività urbana, vengono oggi riconsiderati criticamente. Le crepe che si sono aperte nelle loro economie dopo una felice ma breve stagione di crescita stanno mostrando come la creatività di per sé non sia sufficiente se non innesca un processo sequenziale, cumulativo e tendenzialmente irreversibile di innovazioni produttive, organizzative e politiche.
Il problema principale dell’innovazione è che essa deve radicarsi. Mentre, infatti, è abbastanza semplice individuare – quantomeno per grandi approssimazioni – i fattori capaci di attrarre soggetti creativi, è ancora aperta la questione su ciò che sia necessario perché questi talenti si radichino in una città e non la abbandonino al primo vento di crisi. Tra i fattori di radicamento centrali sono i network, che anche se gli attori dei settori più propriamente artistici tendono a disconoscerlo, legano sinergicamente i protagonisti della città creativa sia tra di loro che agli attori del sistema produttivo e politico tanto locale che nazionale. [….]
Nella logica della competizione tra città, un gran peso assume oggi l’architettura e in particolare quella iconica. Uno degli strumenti che gli amministratori ritengono, a ragione o a torto, fondamentale per affermare la propria città sulla scena internazionale è la grande architettura. La vicenda di Bilbao che ha trasformato il proprio panorama urbano facendo ricorso ai maggiori architetti del mondo, da Frank Gehry a Norman Foster, da Santiago Calatrava a Cesar Pelli, ha fatto scuola. Gli star-architects, gli architetti dalla firma prestigiosa e dalla visibilità mondiale, sono diventati ormai ingrediente costante di tutte le politiche di sviluppo delle città ed elemento di forza delle azioni di marketing urbano. Il rischio è che, paradossalmente, lo sforzo che ogni città fa di distinguersi con l’intervento del grande architetto, possa portare a un’omologazione formale della città.
Nello sforzo di piacere e di conquistare il mercato le città corrono il rischio di somigliarsi sempre più ricorrendo agli stessi architetti di grido, organizzando eventi simili, realizzando fronti mare e arredi urbani talmente uguali che i mercanti d’arte li chiamerebbero eufemisticamente multipli
. Ciononostante sembra che il gioco valga la candela. Stazioni, aereporti, piazze, waterfront, banche, grandi magazzini: tutto viene ripescato dalla banalità funzionale per diventare icona e immagine. Sulla scena urbana sono apparsi i musei che, dopo un lungo periodo di disattenzione, sono tornati ad avere un ruolo simbolico starrdinario persino maggiore di quello che – in quanto luoghi dove si concentra e diventa visibile la storia culturale e politica della nazione – avevano svolto per un lungo periodo incoronando le città capitali. […]
L’aura del museo si estende fino a coprire e valorizzare qualunque cosa avvenga al suo interno, anche se priva di alcun rapporto con la cultura. There’s no party like a Museum Party titola il supplemento del “New York Times” del 25 settembre 2009. Il riferimento è ai numerosi party, per lo più promozionali, organizzati da corporation e da privati nei locali del Moma e del Guggenheim
”.

Ed ecco un piccolo estratto dalla Città dello Spettacolo:
“Non solo la città produce e contiene spettacoli ed eventi ma, l’obiettivo finale, è che essa stessa diventi spettacolo. La città stessa, in definitiva, può essere un evento. Bilbao è evento così come Berlino è evento: perché evento è, recita il dizionario, “qualcosa che accade in un certo punto a un certo momento” e che merita attenzione. E che fa notizia. Vi sono perciò momenti in cui la città stessa può diventare evento come è accaduto per la Berlino della caduta del muro, la Bilbao del Guggenheim, la Glasgow delle politiche culturali, la Barcellona postolimpica, la Napoli del dopo G8. La città diventa evento ma “dopo”, dopo che è terminato l’evento vero e proprio e la città è riuscita – impresa certamente non facile – a metabolizzarne gli effetti e a farli propri”.

Anche da queste poche righe credo risulti chiaramente che il metodo della scomposizione tematica della città produce risultati apprezzabili. Ma veniamo al contenuto.
Intanto c’è la chiara presa d’atto che l’effetto Bilbao ha esaurito la sua “spinta propulsiva”. Cade così un mito, sul quale in verità da tempo è stata messa la sordina e qualche sospetto era venuto, e quei media e quei soggetti interessati che tanto lo hanno decantato e preso come esempio virtuoso da seguire hanno invece taciuto il rovescio della medaglia. Hanno fatto cioè disinformazione. Solo per questo è valsa la pena comprare questo libro, perché l’autore non è soggetto che sembra avere partito preso contro questo sistema e quindi lo si può ritenere del tutto credibile.

Nonostante questo pare che il mito dell’effetto Bilbao in Italia sia ancora forte, dato che sia per l’EXPO 2015 che per il Ponte sullo Stretto ci si affida a nomi altisonanti, quali Daniel Libeskind, che, tra l’altro, in quest’ultimo caso dove c’è da ottemperare ad un inserimento nel contesto ambientale, sembra una scelta doppiamente immotivata. Effetto Bilbao, che non funziona più, o provincialismo di ritorno, che non ha mai funzionato?
Amendola analizza poi un aspetto oggi dominante nel dibattito urbano, non solo nelle aree metropolitane, da cui ha origine, ma ormai esteso a centri medi e piccoli, almeno nelle intenzioni dei loro amministratori: la tentazione di ricorrere al grande creativo, alla firma dell’architettura, è utilizzata come una scorciatoia alla mancanza di creatività, ma direi di “politica”, da parte della “politica”. Ci si affida ad una o più figure esterne alla città, come in verità si è spesso fatto, che però adesso avrebbero quel quid plus costituito dalla fama mondiale indiscussa(?) e indiscutibile(?), non solo per firmare un progetto capace di fare marketing urbano a livello internazionale, ma anche per “trovare” l’idea capace di cambiare in meglio la condizione della città.
Ci si affida dunque all’architetto, o meglio all’archistar, non solo in quanto progettista famoso ma anche perché lo si ritiene capace, con un solo edificio, di trasformare una città mediante un’espressione architettonica ma anche “funzionale” - che in verità spetterebbe alla politica - capace di concentrare sulla città stessa un interesse esteso e di produrre capacità attrattiva e di stimolo per energie nuove e, naturalmente, creative.
La prima domanda da porsi è: come è possibile che una persona, un architetto, venuto da fuori a svolgere un incarico progettuale possa conoscere la realtà sociale, economica, produttiva, culturale di una città con quattro visite pubbliche e risolva tutti i problemi? Evidente che non può essere così, evidente che siamo nel campo della pura immagine e della propaganda.

Altra considerazione: quand’anche l’archistar di turno penetrasse davvero nell’anima e del corpo della città, cosa offre e cosa produce, in genere? Servizi, evidentemente: culturali, sociali, commerciali, dello spettacolo, del benessere, del tempo libero e quant’altro. Questa condizione presuppone una società di qualche tempo fa, forse solo immaginata più che reale, se non per poche limitatissime aree e città, in cui tutti consumano, si divertono e spendono, ma pochi o nessuno produce, se non i servizi che molti dovrebbero consumare. I fatti recenti legati alla FIAT insegnano però altro e cioè che se non c’è lavoro produttivo per molti i soldi da spendere per pochi, a meno che non speriamo che tutte le aziende de-localizzino e il nostro paese possa vivere, non si sa come, sul lavoro degli altri paesi. Non sembra proprio che questo sistema funzioni anzi sembra che sia stato fatto anche per troppo tempo. Il sistema economico basato solo sui servizi e sui consumi senza fine, sul tempo libero, sulla “cultura”, chiamiamola così, a gogò, mi sembra qualcosa di molto simile alla finanza creativa che ha portato alla crisi del 2008: ricchezza finta che genera povertà vera.
Non è possibile che in ogni città, in ogni paese addirittura, si possa pensare di fare un bel “centro” di qualsiasi cosa, sempre frequentato da gente disposta a spendere e che la storia possa durare.

Qui si immagina una città dello spettacolo, degli eventi continui, dell’effimero portato a condizione permanente. Non sono un economista, ma se due più due fa quattro, la città che ne esce non è per tutti, anzi è davvero per pochi privilegiati, ma il sogno di una vita fatta di eventi e novità continue viene alimentato ugualmente. E poi danno la colpa alla televisione che sarebbe cattiva maestra!

Ultima considerazione, facile da comprendere ma niente affatto scontata, e cioè l’omologazione delle città progettate allo stesso modo, con “multipli”, come eufemisticamente li chiama Amendola. In una città che dovrebbe essere caratterizzata dalla convivenza tra diversi, come scrive l’autore in altre parti del testo, e come è tanto allegramente quanto acriticamente decantato dalla vulgata buonista, tutte le città dovrebbero essere invece uguali tra loro piuttosto che rimarcare le proprie differenze, la diversità, la specificità di ciascuna storia e di ciascun contesto geografico.
Il tempo e lo spazio sarebbero omologati come se il primo dovesse fermarsi, non fosse esistito prima e non avesse lasciato segni caratteristici e il secondo, prodotto del primo, dovesse cambiare per confondersi in un amalgama indistinto e terribilmente anonimo, senz’anima e senza caratteri distintivi.

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22 gennaio 2011

IL LATO B DI AREZZO

Con elegante stile letterario il prof. Brilli ci ha restituito un’immagine viva e vera del quartiere la Catona. Ha fatto, anzi, molto di più, perché ha colto il tratto essenziale e unico di Arezzo: quello di avere “un davanti e un retro”, un lato A e uno B. Con tono garbatamente allusivo, Brilli assimila la forma della città alla figura umana, descrivendocela come aperta davanti ma chiusa e impenetrabile dietro, ed evocandone lo stupore nelle rare volte che qualcuno riesce a “prenderla alle spalle”. A quale altra città è concessa una simile, carnale, metafora?
La forma a ventaglio di Arezzo, il cui lato nord è segnato dalle mura che marcano il confine tra città e campagna è stata colta anche dai progettisti dei vari piani regolatori. Sia il padano Gregotti che l’americano Calthorpe avevano subìto il fascino e intuito le ragioni geografiche e climatiche della naturale inedificabilità della zona, e che tale condizione si sposava felicemente con l’armoniosa bellezza del duetto tra città e campagna.


E’ una percezione immediata e istintiva che non necessita di difficili ragionamenti per essere dimostrata vera, basta girare la sguardo dalla Fortezza; è l’essenza stessa di Arezzo, orientata a sud, accessibile da est e da ovest, ma chiusa a nord.
Ma nonostante questa evidenza c’è chi giudica quel vuoto a nord una povertà, piuttosto che una ricchezza, e pensa che la città debba essere richiusa “come tutte le altre città”. Eppure proprio questa espressione dovrebbe suscitare il dubbio che sarebbe meglio non perdere l’unicità assoluta di Arezzo. Purtroppo proprio Calthorpe, forse per curare il “rachitismo” del quartiere di cui parla Brilli, ha formalizzato l’edificabilità di parte della zona.

Nel frattempo quel retro, il lato B, veniva violato dalle scale mobili: ciò che prima era eccezione si è fatta regola, e turisti e aretini, su e giù per le scale, provano quotidianamente il fascino della trasgressione, banalizzandolo e unendo ciò che prima era diviso. Abbiamo perduto “il piacere di penetrare in una città da un ingresso inconsueto”.

E’ difficile non pensare che proprio le scale, che ci hanno assuefatto a “prendere la città alle spalle”, diventino il grimaldello per poter affermare che è maturo il tempo di espandersi a nord, di trasformare una città a ventaglio in una città radiocentrica, di cancellare il lato B, ormai privo di segreti, e di omogeneizzare sapori forti in un amalgama insipido.
Se dopo secoli di storia quella parte di Arezzo è rimasta campagna, non sarà certo perché i nostri avi non sapessero costruire città! Né si penserà, spero, che Arezzo sia stretta in una vallata che non offre più spazio e che rimanga solo quella parte per farla crescere, ammesso ve ne sia bisogno!
Arezzo, nei confronti di mille altre città italiane, è unica per l’insieme, più che per le singole parti; occupare quel retro umido e ombroso sarebbe un intervento di chirurgia estetica irreversibile e l’insieme non sarebbe più lo stesso.
Abbiamo grossolanamente abbattuto le mura urbane, ma per la nobile causa di aprirsi al progresso, alla modernità, al mondo stesso, ed oggi le rimpiangiamo; però non saprei trovare un solo scopo nobile, o semplicemente utile, per riempire quel vuoto a nord.
Pietro Pagliardini


Articolo pubblicato su La Nazione, cronaca di Arezzo

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16 gennaio 2011

UN'ALTRA LUMINARIA

A proposito di "luminarie" nel senso di un precedente post, ho l'occasione di presentarne un'altra di genere tutto diverso. Si tratta di uno spettacolo organizzato in Piazza Grande ad Arezzo per il ritorno nella sua sede storica dopo oltre 200 anni della Fraternita dei Laici, società di carità e assistenza risalente al 1200 e benemerita anche in campo culturale per il suo grande patrimonio artistico.
E' uno spettacolo di luci sulla facciata della sede e io la mostro come spot pubblicitario ad Arezzo.

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10 gennaio 2011

IL NON-LUOGO PERFETTO

Un articolo sulla cronaca locale de La Nazione, scritto da Salvatore Mannino, a commento di un progetto di massima per una grande e importante area di Arezzo redatto dallo studio 5+1AA, mi suggerisce una riflessione sul rapporto tra l’uomo, la città e l’auto, e sulla ormai crescente tendenza a cacciarla sotto terra, sotto forma di parcheggi e di strada.
In sostanza, la principale viabilità di accesso alla città, il raccordo autostradale che penetra diritto verso il centro e che è adiacente all’area oggetto del progetto, è stata prevista completamente interrata allo scopo, assolutamente condivisibile, di ricostituire una continuità tra questa e l’area adiacente. Si tratta di un lungo tratto di qualche centinaio di metri, non di un sottopasso; dunque una scelta importante, sia sotto il profilo tecnico che economico. Ugualmente, nell’area progettata, gran parte delle circolazione e dei parcheggi sono previsti interrati.
Scrive Mannino:
Si tratta di una soluzione assolutamente innovativa, almeno per l’Italia…..All’estero, invece, è uno scenario sul quale si lavora da un pezzo.


A Madrid, ad esempio, è già in programma l’interramento di decine di chilometri delle tangenziali che lambiscono la capitale e delle direttrici che penetrano verso il centro. Alla luce del sole resta solo il prato dei parchi, il traffico viene ingoiato dalle viscere della terra, quasi fossemo nel ventre della città caro a Zola, quasi le auto fossero un oggetto un po’ osceno da nascondere il più possibile alla vista….I parcheggi, dunque, sono sotteranei sia quelli a servizio del triangolo del commerciale che quelli a disposizione delle torri del direzionale e residenziale, le strade asfaltate ridotte al minimo indispensabile, in favore di una rete molto estesa di piste ciclabili….”.

Una scelta, a prima vista, a favore della natura, della città e della salute mentale e fisica dell’uomo: liberarci dalla vista e dall’inquinamento prodotto dall’infame scatoletta meccanica protagonista assoluta degli ultimi cent’anni della nostra storia.
Liberarci da tutto, ma non dalla sua presenza, dato che tutto quanto oggi accade sopra, domani verrebbe semplicemente traslato sotto.
Astraiamoci dallo specifico progetto aretino e immaginiamo di estendere questa filosofia alla generalità dei casi di nuovi insediamenti e alla ristrutturazione urbana delle nostre città.

A questo proposito viene utile citare un articolo di Vilma Torselli su Artonweb, Anche l’urbanistica non è più quella di una volta:
…..La metropolitana è il mezzo d’elezione di cui tutte le grandi città cercano di dotarsi per gli indubbi vantaggi legati ad una viabilità interrata rispetto ad una di superficie, ed è proprio la metropolitana che ha cambiato radicalmente quello che si potrebbe chiamare il ‘senso del viaggio’.
Perché il viaggio non si svolge più nello spazio, ma nel tempo, tanto che si comincia da più parti a parlare di progetto urbano time oriented.
"La città del futuro nella quale già viviamo [.......] - scrive Sandra Bonfiglioli (Convegno 'Il senso del tempo', Torino 20-21 novembre 2006) - è una città del tempo. [.....] I luoghi per eccellenza della città del tempo sono gli spazi della mobilità: i percorsi "viari" [......]
Il panorama urbano non esiste più, il percorso è un alternarsi di buio e lampi che non forniscono alcuna informazione sulla direzione, il tracciato, i luoghi, un viaggio cieco che termina con l’emersione alla luce in uno spazio urbano raggiunto senza sapere come. La maggior parte della gente percorre in metrò ogni giorno lo stesso tragitto, quasi sempre il percorso casa/lavoro (ma anche /centro commerciale, /università, /scuola, /ospedale ecc.), ignorando del tutto quale parte di città ha attraversato: niente sfilata di palazzi, di facciate note, di vetrine, piazze ed attraversamenti conosciuti, incontri, lo spostamento si concentra in un inizio ed una fine, in mezzo il buio delle gallerie e un tempo marginale ed improduttivo che deve essere il più breve possibile.
Il luogo di imbarco e quello di sbarco, il più possibile vicini alla destinazione in modo da ottimizzare l'abbattimento dei tempi di spostamento, rappresentano l’unico scenario urbano con cui si viene in contatto.
Brandelli di città fine a sé stessi, i luoghi sono riconoscibili per “quel” monumento o palazzo, indifferenziati “oggetti urbani” di grande impatto ambientale che fungono da cronotopi, sorta di matrici spazio-temporali in grado di generare e caratterizzare la dinamica della città e della sua “narrazione” (parafrasando Bachtin).
In questo quadro generale acquistano senso e giustificazione gli interventi delle tanto discusse archistar e la loro architettura autoreferenziale e decontestuale, portatrice di un messaggio personale frutto di un soliloquio che non cerca né confronto né dialogo. Perché l’abitante metropolitano la percepisce nello stesso modo segmentario e parziale con il quale essa viene concepita e calata nel territorio urbano, secondo un processo di interazione nel quale il fruitore chiede solo che quello spazio urbano sia riconoscibile ai fini dell’orientamento spazio-temporale.
Cosicché la presenza di un grattacielo storto piuttosto che di un museo/wc o di un’inaspettata installazione policroma, segni forti non necessariamente comprensibili, ma assolutamente caratterizzanti, possono determinare per ognuno una diversa strategia di “immaginabilità urbana”, in relazione alla individualità dell’esperienza….
”.

Basta sostituire “metropolitana” con “rete stradale sotterranea” e il contenuto dell’articolo è perfettamente riferibile al caso nostro, con conseguenze, però, elevate all’ennesima potenza. E con una differenza sostanziale: la metropolitana viene vissuta come infrastruttura puramente tecnica e svolge una funzione prettamente collettiva, ed ha, a suo modo, una motivazione, una spinta etica accanto a quella utilitaristica, riassumibile in questa frase: “diminuisco il traffico in superficie, spendo meno e arrivo anche prima”. La metropolitana diventa una scelta corretta e utile, anche se non particolarmente gradita e amata.

Ma l’auto non è un mezzo collettivo, è il mezzo privato per eccellenza, è il moderno simbolo della libertà individuale di movimento. Relegarla al piano di sotto significa relegarvi chi la guida, cioè la generalità degli individui.
Significa fare una città parallela ma diversa da quella di sopra, anche se ad essa funzionale.
Significa, come scrive Mannino, che: “le macchine sono come il sesso per gli inglesi, qualcosa che c’è ma di cui non si parla (e non si guarda per decenza)”.

L’auto resta dunque e crea due città fasulle: quella di sotto, buia, pericolosa e irrespirabile, quella di sopra, luminosa e verde nell’immagine, ma morta nella sostanza, priva di vita perché la sua vita si svolge sotto, dove la gente trascorre una buona parte del proprio tempo per spostarsi, per recarsi al lavoro o al supermercato o a casa, o all’università o alla multisala.

I movimenti dei cittadini si svolgeranno tutti in ambiente artificiale e andare all’aria aperta sarà un’altra, non prevista, funzione aggiunta a quelle teorizzate da Le Corbusier e imposte dal sistema della produzione di massa. La zonizzazione non sarà dunque solo orizzontale ma anche verticale, ma non nel senso virtuoso del termine, cioè della stratificazione delle funzioni sui singoli edifici che determinano la vitalità della strada e della città europea, bensì estesa a tutta la città.

Il sogno di una città senz’auto si trasforma nell’incubo di una città senza persone perché a questo punto è chiaro che ha, e sempre di più avrà, ragione Vilma Torselli quando afferma che gli oggetti decontestualizzati progettati dagli, o in stile, archistar meglio si prestano a diventare il segno forte e riconoscibile da trovare quando si riemerge in superficie! Che senso avrebbe, infatti, una città costituita da sequenze urbane, da muri pieni e da spazi vuoti che si susseguono e si articolano in un tessuto continuo se tutto il sistema circolatorio, quello che conta e che fornisce la vita e il movimento, si trova in un piano diverso e in un non-luogo oscuro e malsano?

La città diventa un’imitazione degli outlet che imitano, a loro volta, il villaggio tradizionale e il sopra sarà dunque indifferente alla forma, al disegno, all’aggregarsi di spazi e funzioni; potrà avere qualsiasi forma essendo questa solo uno scenario senza vita o con una vita pianificata a intervalli. La città sarebbe schizofrenica e presenterebbe aspetti della personalità completamente diversi.

Non potrebbe più esserci, a questo punto, nessuno stimolo a riaggregare la città in un organismo vitale in cui ogni parte collabori con le altre, perché sarebbe come un corpo umano funzionante grazie alla circolazione extra-corporea, cioè alimentato da macchine.
Se la spinta iniziale di questa scelta è di tipo ecologico e ambientalista, i risultati la negherebbero del tutto perché una metà della città sarebbe completamente dipendente dall’energia, sia di giorno che di notte e l’inquinamento delle auto, che conserverebbe intatto il suo valore assoluto, sarebbe solo concentrato in determinati nodi.

Ho certamente estremizzano un concetto ma se la tendenza fosse questa la fine sarebbe segnata.
La sfida è invece quella di fare convivere civilmente l’uomo con le sue auto o con qualunque altra delle diavolerie che eventualmente le sostituiranno. La sfida è quella di fare una città vitale alla luce del giorno che sia capace di tenere insieme i vantaggi della modernità con quelli della forma tradizionale.

Concludo con un brano ancora da un articolo di Vilma Torselli, La fine dei luoghi:
Ora, entrata in crisi l’idea di città come luogo rappresentativo di un ordine territoriale specchio di un ordine sociale, assistiamo al diffondersi di una sostanziale equivalenza di stili e di luoghi perfettamente intercambiabili, nei quali emerge l'uso funzionale ed efficientista del modello di città meglio rispondente alle esigenze di mobilità, libertà e flessibilità, unici valori riconosciuti da una cultura eminentemente tecnicista e a-finalistica, che si limita a rappresentare il presente, senza prospettive sul futuro e senza finalità alcuna”.
Chiaro, no?



Per vedere e leggere qualcosa di piacevole sulle città sotterranee seguire questo link:
http://www.fabiofeminofantascience.org/RETROFUTURE/RETROFUTURE12.html
Da questo sito è tratta la foto all'inizio


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9 gennaio 2011

INTERVISTA A JULIUS CESAR PEREZ

Julio César Pérez: "La città deve essere sognata, progettata e concepita per il futuro" Intervista apparsa in due parti in Cuban Art News, il 6 gennaio 2011. Il mese scorso, il 16 dicembre, l'architetto e urbanista cubano Julio César Pérez (nata a San Antonio, 1957) ha aperto una mostra di architettura e pianificazione presso la Eduardo Abela Provincial Gallery, nella città di San Antonio de los Baños.
Pérez, che si è laureato alla scuola di architettura dell'Avana nel 1982, ha insegnato e tenuto conferenze presso la Harvard University, il Boston Architectural Center, e l'Università di Toronto. E 'autore di Inside Cuba (Taschen, 2006), L'isola: Visioni di Cuba (Editoriale Samper, 2009).
Altre notizie su Pérez sono reperibili qui.
La versione originale in lingua inglese dell’intervista è consultabile qui.

Le mostre di architettura e urbanistica non sono comuni a Cuba. Cosa ti spinge a presentare un decennio di progetti?
Davvero non ricordo nessun mostra collettiva di architettura, ad eccezione di quelle fatte dagli allora giovani laureati degli anni '80 - ed io stesso tra loro, nel 1987 (presso il Centro di sviluppo per le Arti Visive, e nel 1991 (a La Cabaña).

La mia ultima mostra personale ha avuto luogo nel 2002 presso la School of Design alla Harvard University . Lì, ho presentato una selezione di 20 opere e progetti realizzati tra il 1989 e il 1999. In precedenza, con gli architetti Céspedes Milvia e Esteban Martinez, ho fatto una mostra a San Antonio de los Baños durante la 6° Biennale de L'Avana nel 1997. In tutti i casi, l'intenzione era di mantenere in vita l'architettura come una vocazione, e di proiettare una visione di questa professione che continua la tradizione e il savoir faire che ha caratterizzato la sua pratica nel nostro paese nel corso degli ultimi quattro secoli.
Adesso 
mi ha spinto di nuovo questa necessità. E'utile anche per analizzare un periodo di lavoro, per confrontarsi con idee e approcci e, soprattutto, per dimostrare che l'architettura rimane una delle belle arti, se ci si avvicina ad essa con una prospettiva artistica rigorosa.

La vostra mostra copre una vasta gamma di argomenti: residenze personali, paesaggi urbani, ristrutturazione di edifici storici, pianificazione urbana. Corrispondono ad una vasta gamma di interessi in architettura?
Per me, la pratica dell'architettura inizia con il rapporto tra l'ambiente naturale e quello culturale, che è un tutto indivisibile, e l'essere umano. La città è l'elemento più importante, in quanto è espressione di rapporti umani e l'archetipo culturale essenziale. I miei interessi sono ampi, e io rinuncio alla visione riduzionista e alla specializzazione che hanno fatto molto male a questa professione in tutto il mondo. L'architetto deve sempre essere un uomo del Rinascimento che agisce in modo responsabile nel suo tempo; egli deve fare i conti sia con gli eterni problemi che con i conflitti contemporanei derivanti dalla sua situazione concreta. Questo richiede uno studio costante, soprattutto per coloro che si dedicano all'insegnamento.

Quando si avvicina alla casa - un tema "tradizionale" e un laboratorio per gli architetti cubani - sembra che lei usi tecniche di costruzione e competenze già ben consolidate nel repertorio popolare.
La casa è il punto di partenza, il soggetto più vicino agli esseri umani, per l'architetto. Io credo che gli studenti dovrebbero imparare a progettare una casa prima di ogni altra cosa. Molti giovani architetti non si sa come, e questo è deplorevole, non hanno nemmeno un'idea precisa di quello che sia una casa, di che cosa sia la loro casa. E' un esercizio di buon insegnamento. La scala consente di iniziare da un'idea generale e di passare ai dettagli, di partire da una situazione specifica in termini di localizzazione, relazioni spaziali, requisiti funzionali, programma, contesto, scopo, per poi arrivare ai dettagli.
Si tratta di un processo che permette l'apprendimento. E'indispensabile per progettare bene, per costruire bene - si tratta di una lezione antica e tuttora valida. La tradizione fornisce le istruzioni necessarie da cui gli architetti possono esplorare e innovare, e trovare la propria lingua oltre la moda e le tendenze.
D'altra parte, a Cuba non ci sono molte opzioni per quanto riguarda l'utilizzo di tecniche di costruzione non tradizionali e materiali - soprattutto nelle abitazioni. Il fallimento totale e ripetuto della prefabbricazione è stato il fattore più eloquente a favore di un ritorno alle tecniche di costruzione tradizionali. La perdita di questo lavoro (progettare case) è, inoltre, uno dei fattori che hanno intaccato il prestigio della professione. Questo è triste, dato che l'industria delle costruzioni in questo Paese è stata caratterizzata da un alto livello di abilità, che ha raggiunto il suo apice nel corso del 1950. Ho imparato il rigore, la disciplina, e il mestiere del lavoro con mio padre, un eccellente muratore e capomastro.

Nel vostro piano per la crescita e la sviluppo futuro dell'Avana, quali giudichi che siano gli elementi chiave?
Il piano è basato su un decalogo, un programma in dieci punti che riassume una serie di idee interconnesse e integrate. Tutti i punti devono essere considerati insieme, sulla base della loro ovvia relazione e la necessità di affrontarli tutti con la massima economia di tempo e risorse.
1. Valorizzazione del Waterfront. Questo darà alla città una nuova immagine e ci permetterà di cogliere il maggior vantaggio del suo litorale. Sono previsti edifici ad uso misto: usi culturali e commerciali al piano terra e l'uso residenziale ai piani superiori. Ciò stabilisce una continuità con le tradizioni della città e offre un modello in linea con le tradizioni europee basandosi su caffè all'aperto, gallerie d'arte e ristoranti, bar, negozi e bazar. D'altra parte, c'è il settore del porto di L'Avana, la cui rigenerazione è un modello per l'intera città. Abbiamo intenzione di trasformare questa zona in un moderno centro commerciale e sportivo che contribuirà ad una nuova immagine della città e consentira la ri-creazione della sua storia, il riciclaggio delle sue funzioni economiche, ed aumenterà l'attrattiva della capitale in generale.
2. Un Approccio Maggiormente Policentrico. Questo è essenziale. Esso comprende la creazione di nuovi centri urbani nella proposta di sviluppo di impianti a ovest (sito del vecchio campo d'aviazione Columbia) e ad est. Questo approccio riduce l'espansione della città verso le sue periferie, limitando la necessità di eccessivo traffico e di viaggio.
3. Un Nuovo Sistema di Trasporto Pubblico. Ciò permetterà un uso efficiente e razionale delle infrastrutture stradali esistenti e proposte, e permette di disporre di vari e moderni mezzi di trasporto (treno, autobus, automobili) che non inquinano l'ambiente. Il piano prevede il trasporto di superficie e sotterraneo, e uno dei suoi rami prevede la costruzione di un tunnel parallelo alla linea di costa, che creerà una "promenade" lungo la costa da Jaimanitas a Cojimar.
4. Rinnovamento delle Infrastrutture. Attualmente, le infrastruttura della città sono obsolete, del tutto inadeguate e insufficienti. Questo rinnovamento migliorerà l'Avana e amplierà i servizi dell'acqua, dell'elettricità, delle fognature, del telefono, di internet ad alta velocità, e di altri servizi. E' pianificato un incremento dello spazio pubblico per rispondere alle idiosincrasie di Cuba, dei suoi costumi e delle sue tradizioni. Nella zona costiera e nella baia sarà istituita una zona cuscinetto che conterrà un possibile aumento del livello del mare dovute ai cambiamenti climatici derivanti dal riscaldamento globale.
5. Integrazione Sociale e Culturale. Il punto di arrivo di un pieno utilizzo della città, dei suoi quartieri e dei suoi spazi da parte di tutte le persone, con libero accesso a tutte le strutture ed edifici.
6. Sicurezza Ambientale e Aumento delle Aree Verdi.
7. Una Nuova Immagine della Città. Con questo si intende trasformazione della città e vitalità come risultato di azioni urbane e civili.
8. La Rivitalizzazione delle Strade e delle Altre Vie a Livello Cittadino.
9. Uso misto. Questo è parte della tradizione della città. Esso prevede la vitalità e la varietà necessaria per la vita urbana, combinando varie funzioni che indirizzino i diversi gruppi sociali.
10. Una Visione Ampia Combinata con un Dettagliato Disegno Urbano. La città deve essere sognata, progettata e concepita per un futuro che trascenda il segno di un'epoca particolare, e la cui costruzione sia la risultante degli sforzi e dell'intervento di diverse generazioni. Il piano urbanistico dovrà proporre progetti di diversa scala che potrebbero essere costruiti in diversi momenti nel tempo, e la cui flessibilità accetta le trasformazioni richieste dalle circostanze.

Che cosa rende questo progetto diverso dagli altri che l'hanno preceduto?
Proponiamo una visione olistica e integrata. I piani precedenti non ha considerato l'Avana per quello che è: un insieme, un territorio con un ecosistema particolare che deriva dalla sua condizione geografica, dalle sue idiosincrasi e dalla sua cultura. Per la prima volta nella storia, e questo è forse il suo più grande merito, questo Master Plan inventa e sviluppa idee per trasformare la capitale nel breve, medio e lungo termine, e di trasformarlo in una città moderna che fa onore alla sua lunga storia ed esprime il suo continuo processo di cambiamento. A differenza dei piani delineati nel periodo coloniale, che erano di natura militare, quelli della Repubblica, che sono stati frammentati e limitati solo ad alcune zone, e quelle formulate dal Dipartimento di Urbanistica durante il periodo rivoluzionario, che sono stati dettati dal governo e dale sue priorità, il Piano per L'Avana del 21° secolo cerca di preservare i valori della città esistente pur sottolineando la necessità di creare nuovi valori economici e urbani.
Inoltre, questo piano non segue alcun dettame o ordine governativo. Si tratta di un lavoro di amore per la città, fatto senza compenso. E' un dono, un contributo personale.

Come si caratterizza lo stato attuale dell'architettura a Cuba? Dove si trovano le sue principali contraddizioni?
Lo stato attuale dell'architettura è pietoso. Nessuna attenzione viene data alla qualità dei progetti o di ciò che è costruito, il che si traduce in un grande spreco: di terre, di risorse, di talenti e di tempo. Questo dimostra l'ignoranza e l'apatia. Non esiste un sistema di valori che differenzia l'architettura dalla costruzione semplice. Le contraddizioni iniziano nelle scuole: gli insegnanti non hanno l'indispensabile prestigio e l'autorità professionale, in quanto non hanno organi del lavoro che convalidino le loro carriere. L'insegnante dovrebbe essere un esempio. Quando l'insegnamento è necessario per conoscere e imparare, per avere un esperienza di lavoro, una solida cultura. Per questo motivo, un neolaureato non può insegnare, poiché non hanno alcuna esperienza professionale e nessuna capacità di insegnamento. Questo è un grave errore.
La mancanza di una guida, con comprovate credenziali e una solida reputazione basata su meriti accademici e professionali - essenziali per occupare posizioni di leadership nella scuola e reparti livelli - ha contribuito alla formazione inadeguata di diverse generazioni di architetti.
La professione dell'architetto richiede sacrificio e dedizione al di là del necessario e l'indispensabile chiamata o il senso della vocazione. La successiva motivazione è parte del compito dei docenti la cui condotta e il cui lavoro dovrebbe servire da modello per i futuri architetti. Un altro fattore è la mancanza di una pratica professionale che contribuisce ad una graduale, progressiva formazione, che insegna a correggere gli errori.
Un altro elemento è l'assimilazione acritica di progetti stranieri e il rifiuto di architetti cubani a favore di professionisti stranieri di dubbia reputazione. Il processo di investimento è pieno di opinioni negative e di grande corruzione. Ciò ha contribuito alla perdita di autorità e di prestigio degli architetti locali, abbandonati da istituzioni create per garantire i loro interessi, e una perdita di autostima e di dignità personale e professionale.
L'assegnazione dei progetti e dei posti di lavoro a soggetti stranieri senza gara formale non comporta solo costi eccessivi, ma favorisce i pericoli ideologici della globalizzazione, che ignora la cultura, la storia e la stessa professione. Altri modelli e schemi sono già stati implementati.
Gli esempi abbondano, tutti negativi. Si va dagli hotel costruiti dalla catena alberghiera spagnola Meliá (L'Avana, Cohiba, Varadero) a quelli fatti per altre catene alberghiere: Novotel o LTC a Monte Barreto, per il Gran Dutch Tulip (Central Park), le costruzioni immobiliari (per gli investitori a Monaco), al 5° Avenue, o quelli costruiti a Monte Barreto (come il Miramar Trade Center). In questa zona, l'ignoranza del disegno urbano tradizionale sembra essere stato raccolta e sintetizzata, incapace di assimilare o i valori del contesto, naturale e costruito, o l'uso misto. Questi progetti falliscono perfino nel corretto orientamento degli edifici e delle loro relazioni spaziali, portando alla svalutazione di una delle poche aree verdi a L'Avana.
Sul piano della pura architettura, gli edifici mancano della qualità di base del progetto e dimostrano la mancanza di padronanza della scala e dell'uso dei materiali. Sembra che gli alberghi abbiano istituito un concorso a premi per emulare il peggior edificio costruito dai loro predecessori. Tra loro ci sono l'ambasciata Russa e disfunzionali hotel Tritone e Nettuno.

Insieme ai vostri progetti, voi conducete anche workshop intensivi con studenti di architettura. Qual è la sfida più grande: la creazione di una "scuola intorno a un insegnante" o intorno alla realtà concreta?
Entrambe le cose. Preferisco descrivere un'esperienza nel processo di creazione della Scuola Nazionale di Pianificazione e Architettura, che ha scommesso sulla città, i suoi monumenti, ma anche sui suoi edifici sensibili integrati nell'ambiente circostante. A L'Avana, ci sono molti esempi di tutte le epoche, che vanno dal Castello di Morro, dove lo scoglio e l'edificio si fondono armoniosamente, ai palazzi del tardo 18° secolo - un'architettura urbana di straordinario valore.
I seminari già accennati come pure L'Avana Charette uniscono, incoraggiano, propongono ed esprimono la volontà di invitare tutti senza escludere nessuno. Essi cercano di instaurare una tradizione (e ci sono stati quattro workshop consecutivi) di consultazione: per mostrare quanto è stato fatto, senza pregiudizi. La cosa importante è trasmettere agli studenti l'amore per la città e i suoi dintorni, oltre che una responsabilità verso essa e il suo futuro, se vogliamo rimanere a L'Avana, la città magica, poetica e magnetica che cattura tutti con il suo fascino, illumina il cammino con la sua progettazione, e ispira con la sua architettura. La realtà impone sfide, ma dobbiamo distinguere le sfide temporanee e dettate dalle circostanze e temporanee da quelle reali, veramente critiche.

Credi in una architettura d’"autore" - nota negli Stati Uniti come "starchitecture"?
L'architettura d'"autore" è un inganno, un'architettura orientata verso l'oggetto, non verso la città. Generalmente, le opere create da architetti che sono famosi per essere iconoclasti non resistono al tempo. O molto poche sopravvivono al passare del tempo o alla giudiziosa, obiettiva critica quando sono analizzate nel loro contesto e non in riviste e libri gestiti da fotografi qualificati.
Il fatto è che solo un piccolo gruppo di architetti sopravvive alla critica obiettiva, e questo è vero ovunque. Penso che tra loro ci sono Frank Lloyd Wright e Louis Kahn, di quelli del passato. Tra quelli attuali c'è Renzo Piano, il cui rigore nella progettazione e costruzione supera il resto. E forse il giapponese Tadao Ando. C'è un sacco di spazzatura costruita in nome della "architettura dell'autore."
Il più grande problema causato da questo modo di fare è il danno alla mentalità e alla formazione di studenti, perché introduce modelli di imitazione favorita da insegnanti ignoranti, che sono privi di cultura visiva e in grado di sviluppare il proprio personale lavoro. La maturità di un architetto, io credo, è quella di imparare in modo che il loro lavoro non sia appesantito dall'architettura di "un altro autore". E' la più grande sfida e una grande prova di onestà intellettuale.

Recentemente, hai avuto un percorso lungo e intenso come docente di scuole e università americani. Come descriveresti l'approccio degli Stati Uniti nei confronti del patrimonio architettonico di Cuba e delle sue trasformazioni future?
C'è grande ammirazione e grande apprezzamento per il patrimonio architettonico di Cuba e dei valori di L'Avana. Un grande rispetto. Mi sento molto orgoglioso, molto felice quando parlo di L'Avana, la sua architettura, la sua urbanistica, che è intatta fino ad ora, nonostante tali edifici perduti. Ecco perché è così importante conservare la città al di là di qualsiasi edificio o gruppo di edifici.
La gente mi incoraggia nel mio lavoro. Essa lo riconosce. Parlo di L'Avana con amore e grande ammirazione. Tutti vogliono vedere L'Avana, vogliono venire a L'Avana. Coloro che sono stati qui vogliono tornare. Questo deriva anche dal fatto che la nostra nazione è più vecchia, ha le sue radici europee, e ricordiamo che le città di Cuba sono state fondate dagli europei - che è senza dubbio di enorme valore. La pianificazione urbana spagnola era di qualità elevata e questo, combinato con il necessario adattamento al nostro clima, la nostra geografia, e altre caratteristiche (come la disponibilità dei materiali) ha prodotto un'architettura vernacolare di grande valore. Nella sua essenza, "vernacolare" significa creatori anonimi - l'antitesi del concetto di "architettura d'autore".
Inoltre in Nord America ci sono solo poche città storiche, e la gente riconosce i valori storici che sono custoditi a L'Avana, insieme con i valori architettonici e urbanistici. Molti professionisti dell'architettura, e la gente in generale, hanno espresso la loro preoccupazione per la futura evoluzione della città, attraverso l'emergere della sensibilità del mercato e la possibilità di perdere L'Avana, cambiando la sua immagine seducente e romantica. Quando ne parlo dico sempre che questo è il concetto del Master Plan per il 21 ° secolo all'Avana.

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6 gennaio 2011

STRADE- 11°: RAYMOND UNWIN

Post dedicato a Raymond Unwin con LA PRATICA DELLA PROGETTAZIONE URBANA, Il Saggiatore, 1995, libro ormai fuori catalogo.

Dedico questo post a memmo54, che diverso tempo fa mi chiese di pubblicare i disegni di Unwin e rimando ogni commento al testo ad un post successivo. Per ovvi motivi i disegni sono solo una piccola selezione.

RAYMOND UNWIN
La pratica della progettazione urbana
Il Saggiatore, 1995


4- Indagine sulla città
Il primo compito del progettista, quindi, deve essere quello di studiare la sua città, l’ambiente, la gente e le loro necessità. Non c’è da temere che questa linea di condotta porti a progetti banali, che freni i voli della fantasia e subordini gli effetti principali alla futile convenienza. La fantasia di colui che riesce a creare soltanto quando la mente è libera da condizioni, ha probabilmente poco valore, mentre l’opera di chi, pur mancando di slanci geniali, è in grado di comprendere e provvedere alle necessità del caso, è almeno prudente e utile. In questo campo non possiamo dire che le considerazioni pratiche precedono quelle artistiche, o che le artistiche precedono quelle pratiche: sono entrambi interdipendenti e devono essere valutate insieme. Vi è tuttavia questa differenza, e cioè che le considerazioni pratiche sono ben precise, mentre l’espressione artistica può prendere forme varie. Le fognature non possono scorrere verso l’alto per adeguarsi al più splendido dei piani; né la gente, per assecondare il più imperioso dei progettisti, andrà dove non ha voglia di andare, o si asterrà dall’andare dove ha necessità di andare, e dal prendere la via più breve per arrivare in un dato luogo. Le fognature e le direttrici del traffico possono subire modificazioni, ma soltanto entro limiti molto ridotti; e l’urbanista che pone il suo piano contro le forze che definiscono questi limiti, farà soltanto naufragare il progetto…..

7-Della organizzazione, della sistemazione e della disposizione del verde nelle strade principali
…Le strade tuttavia non sono soltanto strutture per il traffico, ma assolvono anche la funzione secondaria di delimitare e fornire aree edificabili, e non sempre accade che il tipo di strada o di incrocio più conveniente per il traffico offra necessariamente le migliori aree edificabili, o permetta la migliore disposizione degli edifici; in alcuni casi sarà quindi necessario fare alcune concessioni in un senso o nell’altro, e a volte sacrificando la bellezza degli edifici a favore del traffico, e a volte sacrificando in parte la continuità del flusso del traffico a favore di una migliore disposizione degli edifici.
L’aspetto pittoresco delle vecchie città gotiche è dovuto in buona parte alla dimensione ridotta delle sezioni stradali. Queste dimensioni non soltanto definiscono e danno un senso di completezza alle prospettive stradali, ma è molto più facile, con queste strette strade, creare un effetto di spazio circoscritto nella place in cui confluiscono. Se le strade sono ampie e fiancheggiate da piccoli edifici, è facile che la loro caratterizzazione vada completamente perduta, poiché il rapporto fra i due lati della strada non può essere colto con esattezza, e per ottenere risultati positivi può darsi che si debba ricorrere a tutt’altro tipo di effetti. Sembra che non vi siano ragioni per non prevedere anche nelle città moderne un certo numero di strade più strette e di passaggi che diano accesso a edifici le cui caratteristiche non richiedono una vasta superficie libera.
Abbiamo visto parlando delle places e delle piazze quale importanza hanno ai fini dell’effetto generale la definizione dello spazio e la continuità degli edifici che racchiudono questo spazio e il discorso è valido anche per le strade. Considerando perciò gli edifici come un mezzo per garantire una sufficiente continuità della scena stradale, sentiremo la necessità di chiudere di tanto in tanto la prospettiva; questo risultato si potrà raggiungere mediante una interruzione del tracciato, o un cambiamento di direzione, o una curva, espedienti che mettono in risalto alla fine della strada alcuni fra gli edifici posti sul lato concavo…..


8- Del “site planning” e delle strade residenziali
Nel site planning uno studio accurato del territorio e una indagine sulle quote, con l’indicazione degli alberi esistenti, delle prospettive e di ogni elemento interessante che l’area può offrire sono altrettanto essenziali al fine di ottenere un buon risultato che nel caso del town planning. Troppo sovente i site planners hanno redatto i loro piani soltanto sulla carta, e, per evitare fastidi, hanno eliminato alberi e siepi se questi capitavano sulla loro strada. Non vi è sistema peggiore di questo, poiché una nuova zona residenziale, nel migliore dei casi, avrà un aspetto freddo e povero, i giardini appariranno vuoti o pieni soltanto di miseri arbusti e di povere piante, e, a prima vista, nulla giova maggiormente a un’area edificabile della conservazione degli alberi esistenti e, a volte, anche delle siepi.

Se, per esempio, si fa scorrere una strada parallelamente a una vecchia siepe ben coltivata, immediatamente si assicura alla strada una splendida decorazione e un carattere particolare, mentre i giardini acquistano un senso di privacy, che una siepe appena piantata permetterebbe forse dopo molti anni.


Una delle prima preoccupazioni nel pianificare un’area fabbricabile, sia grande che piccola, dovrebbe essere quella di determinare il centro del progetto. É probabile che in ogni area, a eccezione di quelle piccolissime, siano necessari edifici di uso pubblico di dimensioni maggiori di quelli per abitazione, come, per esempio, chiese, cappelle, sale pubbliche, istituti, biblioteche, bagni, lavatoi, negozi, locande o alberghi, scuole elementari o di altro tipo; una volta previsti gli edifici necessari, ammesso che ve ne siano, sarebbe forse bene concentrarli in una posizione adatta a fare di questi il centro del progetto. Chiese e cappelle devono essere facilmente raggiungibili, in luoghi prominenti e non troppo vicine le une alle altre o a altri edifici destinati ad essere utilizzati la domenica, poiché le funzioni potrebbero essere disturbate dai canti provenienti dalle chiese vicine.
Nel caso di negozi e di luoghi di ristoro e di luoghi di ristoro si pongono necessità diverse; il fatto essenziale è che siano situati sulla strada principale, dove il traffico è, o dovrebbe essere, più intenso. I negozi, inoltre, hanno generalmente maggior successo se sono riuniti in numero sufficiente a formare ciò che i commercianti chiamano un “mercato”; i negozi sparsi non riscuotono molta simpatia. A volte sarebbe meglio limitare i centro ad una parte di un’ampia arteria, che potrebbe comprendere i negozi e alcuni edifici pubblici, come accade nella strada principale dei paesi, dove ognuno si sente di casa. In altri casi sarà possibile riunire i negozi nelle strade principali e contemporaneamente creare di fronte a questi uno spazio verde o una piazza intorno alla quale raggruppare alcuni degli altri edifici. Non vi sono dubbi, tuttavia, qualunque ne sia la forma, circa l’importanza anche nelle piccole aree di un elemento centrale, quale punto di riferimento del progetto.
Nel pianificare un’area a scopo residenziale molto spesso non sarà possibile conseguire effetti architettonici definiti, come sarebbe consigliabile nel pianificare una città; il pianificatore deve fare attenzione a non sacrificare a qualche particolare effetto di suo gradimento la comodità e la felicità di coloro che occuperanno gli edifici, altrimenti, con tutta probabilità, il suo progetto non sarà realizzato.


La bellezza dell’ambiente circostante costituisce indubbiamente uno dei piaceri e delle attrattive maggiori dei quartieri residenziali, e sarà probabilmente economico dedicare molte attenzioni, denaro e spazio alla progettazione di queste aree allo scopo di renderle piacevoli; si devono tuttavia cercare delle forme di bellezza che non contrastino con i forti pregiudizi o i desideri dei futuri abitanti. Ciò spesso porterà a una distribuzione delle case più diffusa di quella desiderabile da un punto di vista puramente architettonico.
Anche qui, tuttavia, raggruppando gli edifici sarà possibile dare loro una vista più ampia e un senso di apertura più generale di quanto sarebbe stato possibile se gli stessi fossero maggiormente distanziati, e sarà anche facile convincere coloro che desiderano una casa unifamiliare circondata da un pezzo di terra a occuparne una compresa in un gruppo, se questo sarà organizzato in modo tale da offrire un vantaggio evidente per ciò che riguarda la vista.
Anche nel campo del site planning si pone subito il problema di una organizzazione formale o informale già discusso in relazione al town planning, e buona parte di quei principi sono applicabili anche in questo caso. È probabile che la varietà delle soluzioni possibili per una organizzazione ordinata di edifici e strade residenziali sia molto più ampia di quanto a prima vista potremmo aspettarci.


Il territorio stesso, di solito, fornirà motivi sufficienti a imporre o suggerire la realizzazione di edifici irregolari e di altri elementi accidentali di un certo interesse, che possiamo accogliere di buon occhio, poiché alla loro abile organizzazione sono legati il successo e la bellezza del piano una volta portato a termine. Nel site planning, tuttavia, come in architettura, la ricerca fine a se stessa di elementi caratteristici è facilmente soggetta a generare confusione. È molto più prudente, sia che un piano abbia caratteristiche formali che informali, non fare nulla senza motivi ben precisi. Abbiamo presente l’importanza di certi piccoli spazi aperti, luoghi dove la gente può ripararsi dal trambusto della strada per fermarsi e riposare un momento…..


È importante che il town planning e il site planning impediscano la separazione completa delle diferenti classi sociali, che è una caratteristica notevole delle città inglesi moderne.
La signora Barnett nei suoi scritti ha dato particolare enfasi a questo problema e ha additato i molti mali dovuti al fatto che ampie aree sono interamente abitate da gente appartenente a una unica classe sociale….. Al town planner non è data la facoltà di modificare i pregiudizi della gente, o di impedire l’espandersi dell’ “east end” e del “west end” in una città. Molto tuttavia può essere fatto in questa direzione con accurate previsioni, e certamente non vi è alcuna difficoltà, entro limiti più o meno ampi, a alternare case di diverse dimensioni. I pregiudizi della gente non possono giustificare la costruzione su ampie di case delle stesse dimensioni e dello stesso tipo; l’espansione di sobborghi occupati soltanto da un’unica classe sociale, qualunque essa sia, è negativa sia dal punto di vista sociale che economico e estetico. …..
Nei paesi inglesi troviamo case di ogni tipo che si alternano lungo la strada principale o intorno al verde, dalla più piccola casa dell’operaio alla grande casa del ricco agricoltore, del dottore o dell’industriale locale e, a volte, anche la residenza del signore del luogo. Dalle figure è possibile capire in quale misura questa varietà contribuisca a accrescere il fascino della strada principale del paese……

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