Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


13 aprile 2008

I CITTADINI E LA POLITICA SCELGANO, NON GLI ARCHITETTI

Vittorio Sgarbi ha proposto che siano i cittadini di Milano a decidere se realizzare o meno le tre torri di CityLife, di cui una “storta”, attraverso un referendum. Aldilà delle pur legittime scaramucce fra forze politiche diverse, l’argomento è di grande interesse perché investe un principio fondamentale della democrazia: chi ha il potere di decidere le scelte importanti che riguardano la forma, il disegno, la vivibilità di una città.
L’architetto Libeskind, progettista della torre storta, non ha dubbi in proposito: è l’architetto che deve decidere e scegliere ciò che è bene e ciò che è male, perché è l’architetto che ha il potere, la conoscenza, la verità e si scaglia, in maniera non troppo urbana contro i suoi critici, in particolare contro Berlusconi, accusandolo di essere, oltre che fascista, talmente ignorante da non capire che il suo progetto è imparentato nientepopòdimenoche con Leonardo da Vinci.

Ora, ammesso e non concesso che questo sia vero (e ragionando per assurdo lo voglio ammettere per un istante) nulla dice l’architetto in cosa consista tale parentela, nulla spiega, neanche per accenno, se sia, che so, la forma flessa e sinuosa a richiamare le morbide linee pittoriche del maestro oppure l’analogia tra la asimmetria dell’edificio e il lieve strabismo della Monnalisa oppure una qualche affinità tra la concezione della modernità del suo grattacielo con i disegni di Leonardo per Milano in cui vi si può leggere la modernità della separazione dei percorsi. Fine del ragionamento per assurdo, si torna alla realtà.
In realtà quello che è più significativo non è il contenuto dell’analogia in se, ma la sproporzione tra l’affermazione fatta e l’intenzionalità della mancanza di spiegazione, per il semplice fatto che l’esperto non deve spiegare nulla, non ne ha bisogno in quanto l’essere esperto comprende in sé stesso il fatto di avere risposte ad ogni dubbio e i non esperti, cioè tutti gli altri, devono, oltre che possono, fidarsi ciecamente; d’altronde, se così non fosse, che razza di esperto sarebbe? Se non ci fosse l’esperto, allora sì sarebbe ragionevole, secondo questa logica, avere una discussione in cui si esprimono opinioni diverse e contrastanti ma se l’esperto c’è non c’è neanche il motivo logico per discutere. L’esperto racchiude in sé ogni risposta, è la sintesi assoluta, non serve né tesi né antitesi. Affermazioni come queste hanno lo scopo di lasciare l’interlocutore privo di argomentazioni e di confutazioni, perché non c’è proprio alcuna risposta coerente, l’importante è sconcertare, spiazzare, mettere l’altro in condizione di inferiorità: tutto, fuorché spiegare.
Di un processo decisionale come questo, l’episodio di Milano è solo un esempio come tanti altri, che mi interessa come architetto e che ha avuto in questi giorni vasta risonanza nella stampa, ma è solo uno dei sintomi della tirannia degli esperti che, come dice Ernesto Galli della Loggia sul Foglio, “è un sostituto delle ideologie ….che prende piede perché offre qualcosa che in fondo piace a tutti gli esseri umani: li deresponsabilizza”. E’ vero che questo ragionamento era riferito agli esperti che si occupano di scienza medica, alla tecno-scienza che vuole decidere della nostra vita, che ci vuole per forza belli e forti e sani ed eterni ma, a parte la differente scala di valori tra una possibile eugenetica e l’architettura, il ragionamento che sottintende alla logica dell’esperto è lo stesso.
Chi deve decidere le scelte fondamentali della città, chi ne ha titolo? Ma la domanda vera è la seguente: a chi appartiene la città, con le sue strade, le sue piazze, le sue case, le sue fabbriche, i suoi edifici pubblici, se non a tutti coloro che la vivono, la abitano, vi svolgono la loro attività e la loro esistenza? La città è l’ambiente dell’uomo, creato, inventato, sviluppato dall’uomo stesso, in un rapporto continuo con la natura e la geografia dei luoghi, talvolta dominandola, talvolta assecondandola. Non sono stati gli esperti a decidere, essi hanno solo aiutato, hanno fornito il loro talento e gli strumenti tecnici, ma è stata la società nel suo complesso a scegliere, in un equilibrio certamente difficile in cui ora il potere dominante ha sopraffatto le scelte individuali, ora la spontaneità proveniente dal basso ha vinto. Certamente mai un architetto ha deciso da solo, neanche nelle città ideali del Rinascimento dove niente egli avrebbe potuto senza la volontà del committente-ispiratore, papa o principe che fosse; e anche in questo caso l’architetto non ha progettato fuori della storia e della tradizione, semmai ne ha idealizzate forme e principi facendone un modello ideale appunto ma sempre sulla scorta dell’esperienza del passato e del presente.
Una società in cui le scelte siano totalmente delegate agli esperti è deresponsabilizzata e intrinsecamente totalitaria e anti-democratica, è la repubblica di Platone governata dai filosofi, l’esatto opposto della democrazia.
Se è vero che nel nostro paese esiste un problema di troppi livelli decisionali che nella stragrande maggioranza dei casi rallentano o addirittura impediscono la realizzazione di opere di qualsiasi tipo, è anche vero che non si può scavalcare il sistema affidandosi ciecamente ad un architetto creativo, rendere tutto possibile in nome di un brand, di una griffe.
La soluzione è dunque quella di affidare al giudizio popolare le scelte più importanti per la città, vuoi attraverso il referendum, nel caso di progetti contestati, vuoi attraverso un voto, eventualmente non vincolante, per i concorsi d’architettura, dove ormai la scelta sfugge di mano non solo ai cittadini ma anche agli amministratori che hanno ottenuto il voto proprio per decidere.
Se gli architetti sono sicuri del fatto loro non avranno difficoltà a farsi giudicare da coloro che saranno i veri padroni delle loro opere; e se si vuole alleggerire la lunga teoria di pareri, permessi, nulla-osta rilasciati dagli innumerevoli organismi che la illimitata creatività burocratica degli italiani ha inventato per decidere la realizzazione di un’opera, non manca certo il materiale dove intervenire per sottrazione, essendovene molti di inutili, e introducendone uno che invece è essenziale e decisivo: il parere dei cittadini.
Ricordo a quanti non lo sapessero che a Groningen, in Olanda, un nostro connazionale, l'architetto Adolfo Natalini ha potuto realizzare un’opera molto bella, molto moderna e rispettosa della tradizione a seguito di una votazione popolare. (Groningen ha continuato con questo metodo)Vogliamo forse accusare l’Olanda che ha creato la propria terra sottraendola al mare di essere un paese incapace di decidere?

P.S. Leggo ora sul Corriere che un politico milanese, Bobo Craxi, sui grattacieli ha detto: "decidano gli esperti" (che poi vuol dire si facciano i grattacieli ma nascondendosi dietro ad altri). Ironicamente direi che non ha letto questo post, realmente penso che buona parte della classe politica ha paura della responsabilità di scegliere. Perfetto tempismo per dimostrare le ragioni di Galli della Loggia.

Pietro Pagliardini


4 commenti:

Anonimo ha detto...

IL discorso è interessante e andrebbe senz'altro approfondito. Però definire l'edificio di Natalini molto bello, non me la sentirei proprio. Anzi... Quei tre grattacieli sono brutterelli pure, non si può negare!

Pietro Pagliardini ha detto...

In effetti ho definito gli edifici di Natalini "belli" per esemplificare. Hanno secondo me il pregio, come molti progetti dello stesso, di evocare ed utilizzare elementi della tradizione (archi, colonne, materiali, gronde, ecc.)senza per questo che possa essere tacciato dell'infame appellattivo di "vernacolare". Inoltre mi sembra che, specialmente nella parte che si vede poco nella foto, siano assolutamente rispettosi della tradizione. Se poi guardi la planimetria, che non c'è nel post, si può osservare che l'impianto urbanistico è molto corretto.
Insomma, come avrai capito, a me sembrano proprio belli.

Anonimo ha detto...

"Carlo Emilio Gadda e l’architettura" è il titolo di un dibattito tenutosi alla Triennale di Milano il 30 Novembre 1993, che prende spunto da una sua frase, tratta dal noto "Libello" del 1938, "Milano è una brutta e mal combinata città…..." , come ben sanno tutti (che Milano è brutta, non che c’è stato il dibattito).
Per inciso, personalmente ho sempre pensato che un dibattito sull’architettura centrato sulle parole di uno scrittore, seppure ingegnere elettronico, dovesse per equità essere accompagnato da un omologo dibattito sullo scrivere centrato sulle parole di un architetto, il che non è mai accaduto, forse perché, per dibattere, gli scrittori sono molto più bravi degli architetti ed in un certo senso, prevaricano,
Quella della bruttezza di Milano è una questione annosa, un’aspettativa costantemente delusa, una speranza incompiuta e, forse, un destino che non sta scritto nello sviluppo delle città, di nessuna città.
Probabilmente se Milano, anziché in Lombardia, fosse nel Texas, sarebbe una città bellissima, ma in Italia, dove è presente più del 50% dei siti e dei reperti archeologici di tutto il mondo, dove si trova il 95% delle opere d’arte di tutta la parte conosciuta del pianeta, beh, qui è in po’ dura vedersela anche con un piccolo paesino dell’Umbria o della Toscana. Io che milanese non sono mi sento tuttavia di spendere sull'argomento queste poche righe:
Milano è una città bottegaia, essenziale, con una sua cultura rustica di stampo celtico, spiccia, laboriosa, ha l’architettura che si merita, che solo per il fatto di essere “giusta” per i suoi cittadini, è anche “bella”, perché se Milano fosse una città raffinata, estetizzante, pervasa da quella che Gadda chiama “ una coscienza d’arte”, allora ci abiterebbero i Fiorentini, o i Veneziani, non i Milanesi! Credo però che questo concetto sia del tutto ostico, non solo per Gadda, ma soprattutto per Libeskind.
vilma

Pietro Pagliardini ha detto...

Parole sante!
Io ad esempio sono di Arezzo. Arezzo è equidistante da Firenze e da Siena, solo 60 km, eppure la sua architettura (come il suo dialetto e il suo cibo) è completamente diversa: scarna, essenziale, anche povera, perfino nei suoi monumenti più belli. E' come i suoi abitanti, gente laboriosa, che guarda al sodo, un pò ignorante, essendo principalmente di origine contadina; è la città giusta per noi. Ma è così perchè l'hanno fatta gli aretini non le ...multinazionali dell'architettura. Non voglio fare un discorso autarchico, voglio dire che i costruttori hanno risposto alle richieste dei committenti. Oggi questo non è più possibile perchè si è persa, da tempo, la coscienza collettiva che ha reso possibile la nascita dei nostri centri storici (che il mio collega arch. Grifoni definisce una "unità costitutita da una somma di tanti gesti individuali"); se la coscienza collettiva non c'è più spetta agli architetti (purtroppo) leggerla, interpretarla e riproporla come scelta culturale individuale, supportata dalla disciplina architettonica.
Basta condividerla questa scelta, però, altrimenti a voglia Libeskind in sedicesimo!!!
Saluti
Piero

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