Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


31 agosto 2009

ELOGIO DELLA NORMALITA'

Questa bella donna qui sotto non è solo una bella donna ma è una buona notizia: si chiama Lizzi (o Lizzie) Miller e il Corriere della Sera la definisce la modella oversize che riscuote un successo enorme negli USA (credo sia apparsa su una copertina di Glamour). La buona notizia è, o sarebbe, appunto questa, il fatto cioè di un ritorno ad un modello estetico più normale, familiare, naturale, umano dopo i fasti della magrezza, della astrattezza corporea, dell’anoressia grave addirittura.
Il post potrebbe finire qui, e sarebbe già tanto, ma quando ho letto la notizia, e soprattutto ho visto la foto, non ho potuto fare a meno di associarla all’architettura e di immaginare non tanto le conseguenze che potrebbe avere, perché non ne avrà alcuna, quanto qualche confronto tra i due opposti ideali di bellezza femminile in atto e quelli tra l’architettura classica e quella contemporanea.


Che vi sia una relazione tra la percezione che la società ha del corpo umano e quella dell’architettura è un dato abbastanza evidente. Basta confrontare architetture di qualunque epoca con dipinti o sculture coeve, per rendersene conto: le Madonne gotiche hanno in genere linee flessuose e slanciate, le figure e le composizioni di Piero della Francesca sono strutturate come autentiche architetture rinascimentali; nel caso poi dell’Eretteo architettura e scultura costituiscono un tutt’uno inscindibile.

E allora questa giunonica, solare, carnale ma imperfetta Lizzi la accosterei alle curve di questa umanissima Chiesa della Salute, un’esplosione controllata di curve e attributi:



Confrontiamo ora i due opposti modelli di bellezza femminile:


Certo, il secondo è un caso estremo ma quello più “comune” non cambia poi molto. Cosa c’è di umano in quell’immagine? Poco, perché siamo nel campo della pura astrazione geometrica, drammaticamente applicata ad un corpo di donna, ridotto a campo di sperimentazione per la “valorizzazione” dei capi che indossa: siamo alle estreme conseguenze (talvolta mortali) dell’uso del corpo umano come strumento di vendita di prodotti di tendenza (mi domando, per inciso, quale superiorità morale possiamo accampare nel condannare i cinesi che sfruttano i lavoratori nel momento in cui noi occidentali facciamo di questo sfruttamento un fenomeno da star e quindi da imitare).

Il prototipo architettonico che si presta a questo ideale di bellezza potrebbe essere il seguente:


Mi sembra che la poetica da era post-atomica dello scheletro sia anche qui portata alla estreme conseguenze.

Il contrasto, non solo stilistico, tra due concezioni dell’architettura l’ho rappresentato con queste due immagini accostate:


Da una parte una cupola, quella di Sant’Ivo alla Sapienza, in cui il dinamismo e la "trasgressione" delle regole sono impostate su una complessa simmetria (o euritmia, come spiega Guido Aragona su questo post del suo Bizblog), dall’altra un edificio spigoloso, scontroso, enfaticamente asimettrico e senza la riconoscibilità dei singoli elementi architettonici; quali le pareti e quale la copertura? E come saranno i solai? Non ha nemmeno senso domandarselo perché non c’è, in questo tipo di architettura, alcuna figurabilità (imageability) e quindi nessun riferimento, anche lontano, alla natura e alla figura umana. Pensare che Bernini ha scritto del Borromini: "non fonda le proporzioni sul corpo umano... ma sulle chimere"!

E viene a proposito un bell’articolo su Il Foglio di sabato scorso scritto da Roberto Persico su un libro di Clive Staples Lewis, Quell’orribile forza, Adelphi,1999, che Persico definisce “una celebrazione della bontà della carne e della vita quotidiana”. C’è un brano che ha attinenza con l’argomento:
Il programma per la distruzione del «sistema delle preferenze istintive» prevede a un certo punto il soggiorno in una stanza in cui tutto, proporzioni, colori, quadri alle pareti, è strano, storto, squilibrato: l’allievo deve imparare che le vecchie prospettive a cui è abituato o queste nuove sono equivalenti. Ma proprio qui avviene la svolta: «Dopo circa un’ora, quella bara alta e stretta che era la stanza cominciò a produrre su Mark un effetto che il suo istruttore forse non aveva previsto. Come il deserto insegna per la prima volta ad amare l’acqua, o come l’assenza rivela per la prima volta l’affetto, su quello sfondo sgradevole e distorto si sovrappose una visione di ciò che è dolce e retto. A quanto pare esisteva davvero qualcos’altro - qualcosa che egli definì vagamente il Normale. Non ci aveva mai pensato prima, e invece eccolo lì – solido, massiccio, con una propria forma, simile a ciò che si può toccare o mangiare o di cui ci si può innamorare. Era un miscuglio di Jane, di uova fritte, di sapone, di sole, di corvi gracchianti a Cure Hardy, e del pensiero che fuori di lì, da qualche parte, in qualsiasi momento, c’era la luce del giorno». E Mark prende la sua decisione: «Sceglieva la parte con cui schierarsi: il Normale. Se il punto di vista scientifico conduceva lontano da tutto quello, al diavolo il punto di vista scientifico!».

Contro una visione anoressica dell'architettura, e soprattutto dell'umanità, questa foto:



Pietro Pagliardini

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29 agosto 2009

L'ARTISTA IMPRENDITORE

Pierre Sauvanet, in Elementi di estetica, Il Mulino 2009, così descrive l’evoluzione della condizione dell’artista avvenuta tra l’800 e il ‘900:
È dunque per progressiva derivazione che la parola «artista» si è estesa alle altre arti oltre che alla pittura e la poesia. Ciò facendo, ha portato con sé in tutte le arti il suo seguito di significati simbolici: vocazione, bohème, artista maledetto, ispirazione, genio, follia, malinconia, eccetera.
La sociologa Nathalie Heinich distingue tre, anzi quattro fasi nell’evoluzione dello status dell'artista: mestiere, professione, vocazione, e vocazione accentuata in regime di singolarità. Per la prima fase, quella del mestiere, le stesse parole «arte» o «artista» non esistono; gli artigiani pittori del Medioevo appartengono a una corporazione e sono relegati ai gradi più bassi della scala sociale. La seconda fase, quella della profes¬sione, corrisponde a una volontà di emancipazione dell'artigianato, e di riconoscimento dell'arte come arte liberale.



Quanto alla vocazione come terza fase, appare verso il 1830 (con il termine «apprendista»), si conferma alla fine del XIX secolo (in particolare con la figura di Van Gogh) e non fa che affermarsi nel secolo seguente (in particolare con la posizione di Duchamp): gli artisti evocano ora il primato della vocazione sull'apprendistato, dell'innovazione sulla tradizione, e del genio sul lavoro. È questo mito dell'artista assolutamente singolare, dapprima associato alla vita da bohème, poi all'originalità a tutti i costi, che, a torto o a ragione, ancora oggi è alla base di buona parte delle nostre rappresentazioni.

L'artista in regime di singolarità moltiplica allora i paradossi: come essere ancora singolare quando l'essere fuori dalla norma diviene la norma? Come sfuggire ai modelli volendo divenirne uno? L'anti-accademismo non è a sua volta un nuovo accademismo? E così via. Da qui, questa logica conseguenza: «L'artista non sarà più colui che produce delle opere d'arte, quanto colui che riesce a farsi riconoscere come artista».

Al limite, la questione dell'artista oggi non è più quella dell'arte, e nemmeno dell'opera, ma quella del riconoscimento. Oggi ad un artista - salvo eccezioni - produrre un'opera durevole interessa meno che essere immedia¬tamente riconosciuto dal mercato fluttuante in una società effimera. Ecco per esempio cosa rispondevano rispettivamente l'austriaca Elke Krystufek e il cinese Cai Guo-Qiang a una domanda della rivista «Beaux-Arts Magazine» all'alba dell'anno 2000 («secondo voi, che cosa significa essere artista oggi?»): «Viaggiare tutto il tempo. Passare più tempo a parlare con la gente che al lavoro. Passare più serate a delle cene d'affari o delle feste che nel proprio atelier»; «significa che bisogna correre alle ambasciate per ottenere nuovi visti, passare la dogana, attendere una sistemazione, prendere aerei, ispezionare dei siti, fare proposte e calcolare budget, tutto ciò sopportando il cambiamento di fuso orario...» [«Beaux-Arts Magazine» 1999, 26]. Si potrebbe dire che l'artista contemporaneo deve comportarsi come il capo di un'impresa, il capo della propria impresa artistica, che porta il suo nome, la sua firma, e che vende i suoi prodotti attraverso una rete internazionale di distribuzione. In ogni caso, essere un artista è divenuto «fare l'artista», cioè essere obbligato a recitare un ruolo, a mettere in scena sé stesso. Per essere riconosciuto, è ridotto alla tautologia: l'artista non fa altro che produrre ritratti dell'artista come artista
”.

Mi sembra una rappresentazione distaccata dell’evoluzione della percezione che l’artista ha di se stesso e del suo ruolo nella società e in cui, sostituendo Architetto ad Artista, si può leggere lo stato dell’architettura contemporanea, di cui la manifestazione paradossale delle archistar è la punta dell’icerberg e il punto di arrivo di un processo iniziato proprio con le avanguardie artistiche.

Le archistar, al pari dell’artista contemporaneo di successo, sono vere e proprie aziende produttrici di progetti che non conterebbero molto in se stessi, se non fosse che, a differenza dei quadri, permangono nel tempo nelle città a inquinarle e, soprattutto, a sconvolgere l'evoluzione disciplinare e l’insegnamento dell’architettura.

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24 agosto 2009

LEON KRIER A FIRENZE SUL PIANO DI NOVOLI

Mi sono occupato di questo incontro di Lèon Krier con i cittadini a Firenze per illustrare il suo Piano di Novoli e confrontarlo con quanto realizzato in altro post.
Sono quattro video di circa 10 minuti ciascuno su You Tube della registrazione effettuata. Nella seconda metà del quarto video c'è una parte del dibattito.








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19 agosto 2009

EISENMANN NON VIVREBBE NELLE SUE ARCHITETTURE

Pietro Pagliardini

Questa mi era proprio sfuggita:Peter Eisenmann non vivrebbe nelle case da lui stesso progettate!
Non è calunnia o faziosa interpretazione ma la sua risposta ad una domanda nell'intervista di Piergiorgio Odifreddi su Repubblica.
Odifreddi non sembra attribuire grande importanza alla cosa mentre chi mette ben in evidenza questa che sembra una contraddizione (ma non lo è affatto) è invece Pierluigi Battista sul Corriere della Sera, con tanto di titolo ad hoc.

Non c'è contraddizione perché è ormai noto che l'architetto modernista (meglio se archistar, attuale e anche quella di qualche tempo fa) progetta per se stesso, nel senso che quel tipo di architettura è funzionale solo alla sua professione, ma vive in belle ed accoglienti case fatte da altri, magari anonimi capomastri o architetti, trattandosi generalmente di costruzioni antiche!

Mi aspetto sottili distinguo giustificazionisti o negazionisti e commenti sulla rozzezza di questo post!
Ma la verità è rozza o è solo vera?

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18 agosto 2009

ANCORA UNA PREGHIERA DI LANGONE. SU BOTTA

Come vincere la tentazione di un altro link a Camillo Langone su Mario Botta!
Io ci ho provato, ho anche aspettato tre giorni, ma alla fine ho ceduto. Nel caso fosse sfuggito a qualcuno...

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13 agosto 2009

LEGGERO POST DI MEZZ'AGOSTO

Il Direttore de Il Foglio, Giuliano Ferrara, in una risposta ad un lettore sulla chiesa di Fuksas a Foligno, sospese il giudizio riservandosi di andare prima a visitarla. Tuttavia concluse la risposta scrivendo, più o meno: “ però mi sembra imponente…..”. Questo post di ferragosto è una lettera virtuale al Direttore.


*****
Direttore, lei chiude una sua risposta sulla Chiesa di Foligno definendola "imponente .….” e io mi attacco a questi puntini. Definizione di imponente: “che si impone all’attenzione per la propria grandezza, maestosità o potenza”. Quale scegliere tra i tre attributi? Al massimo direi l’ultimo, la potenza, come constatazione del fatto che “si impone” per la sua forma in rapporto alle dimensioni e per l’uso del materiale, il cemento armato, che è potente per natura.
E’ potente come le torri di raffreddamento delle centrali nucleari o i caveau delle banche, è potente per la sua semplicissima e, allo stesso tempo, inconsueta forma cubica e fuori scala rispetto a tutto ciò che sta intorno.

E’ la potenza della geometria astratta che si materializza nella realtà, al pari delle piramidi dice qualche entusiasta, con la non insignificante differenza che quelle rappresentano il punto di arrivo, anche tecnico, di una tradizione costruttiva millenaria , sono intimamente legate all’idea di morte degli egizi ed espressione della conoscenza geometrico-astronomica di una civiltà di circa 5000 anni fa e, soprattutto, sono montagne artificiali, luogo di contatto tra la terra e il cielo, come dice Norberg-Shultz. Ma oggi non ci stupisce più la costruzione di un cubo, di una sfera o di una piramide come, ad esempio, quella del Louvre, che non ci ha certo stupito per la sua tecnica ma per il fatto di essere stata collocata in quel determinato contesto. Né è in grado di stupirci questo para-cubo (è un parallelipedo, in realtà) con la sua rude e ordinaria tecnologia, dovuta tra l’altro agli ingegneri più che all’architetto, e neppure il simbolismo del cubo che, da solo, non appartiene al cristianesimo ma ad altri culti.

Se questo edificio ci trasmette un’idea di potenza maggiore di quella di un inceneritore, del quale richiama la poetica, questo deriva dal fatto dell’essere noi informati, senza capirlo però istintivamente, che esso è un luogo di culto cattolico. Poiché la forma è impropria e inusitata per una Chiesa, ci meraviglia e si impone all’attenzione, cioè è potente. Dunque l’unica potenza vera che esprime è quella comunicativa e mediatica in base alla quale lei ha scritto, io sto scrivendo e centinaia di altri hanno scritto, non importa se bene o male. E’ la potenza del suo autore e del sistema di cui egli fa parte che “si impone” all’attenzione dei media e che spingerà anche lei ad andare a visitarla. Siamo nel campo dell’effetto Bilbao che evidentemente ha fatto breccia anche nelle gerarchie cattoliche. Spogliata di questa componente essenziale, la Chiesa di Foligno non è una Chiesa cattolica e forse nemmeno cristiana.

Quando varcherà quella lunga feritoia che è la vetrata d’ingresso da supermercato anche lei, pure così “imponente”, dovrà abbassare la testa e piegare la schiena stringendosi nelle spalle, non per il rispetto dovuto alla sacralità del luogo, ma per la paura che quella giacobina lama di ghigliottina in c.a. possa improvvisamente scivolarle addosso e ridurla a ben più misere proporzioni. E una volta entrato esiterà nel procedere sotto quella cappa di camino in c.a., da super-villa hollywoodiana, sospesa innaturalmente in aria e incombente, anche quella, sulla testa dei fedeli, anzi fedelissimi, e una volta entrato…..questo non lo so perché, non essendoci stato, non posso prevedere quali sensazioni o emozioni possano eventualmente provocare i decantati effetti di luce.

Ma il deambulatorio idealmente tracciato intorno alla cappa non è, nell’atto necessario del sostare, nemmeno una lontana metafora del dantesco Purgatorio, perché mi risulta esserci in quel luogo l’attesa bramosa di entrare in Paradiso mentre qui temo vi sia la titubanza, se non la paura, di avanzare, per non fare la fine di Peppone intrappolato sotto la sua campana comunista e poi salvato dalla potenza, non solo fisica, di Don Camillo.

Questo edificio suggerisce un movimento esattamente contrario a quello delle Chiese a noi familiari, perché si esprime per linee di forza che agiscono verso il basso, che tendono a schiacciare e ad opprimere, non a elevare e liberare(1). Sembra un luogo di culto per un Dio vindice e non per un Dio fattosi uomo per annunciare la vita eterna; è un Dio che comunica paura e non speranza, timore e non amore.
Dunque più che “imponente” a me sembra più adeguato l’aggettivo “incombente”.

A meno che, una volta entrati sotto la cappa sia talmente forte il senso di elevazione, l’idea di essere aspirati in alto, come i fumi nel camino dell'inceneritore (e se riuscirà ad aspirare lei è probabile che lo faccia con quasi tutti i comuni mortali), da suggerire la metafora di un cammino dalla dolorosa vita terrena a quella eterna. In fondo una sola "m" divide il cammino dal camino.

Ma anche in questa ipotesi, che si potrà verificare solo di persona, permane la visione di una vita su questa terra non propriamente gioiosa. Sarebbe comunque meglio di niente.


1) A onor del vero, il Vescovo di Foligno Monsignor Gualtiero Sigismondi, ha detto all'apertura della Chiesa: "In alto i cuori: questo è l'appello che la nuova "casa della Chiesa", realizzata su progetto di Massimiliano e Doriana Fuksas, rivolge a chiunque vi entri". Mi viene il dubbio che avesse già preparato il discorso prima di visitarla! O forse mi sbaglio io...

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11 agosto 2009

VOTATE CONTRO LO SPRAWL!!!

Votate contro lo sprawl!!! Proprio così, votate on line in un concorso di urbanistica con varie proposte per le periferie.
Andate in questo sito, REBURBIA, e votate uno dei progetti.
Io consiglio questo progetto di Galina Tahchieva dello studio DPZ, cioè Duany Plater-Zyberk.
Lo so che mi tradirete ma non importa, almeno guardatelo e non fate i furbi, non tentate di mettere più di un voto, non funziona.
Il concorso è vero, con tanto di $ in premio (per il vincitore, non per i votanti).
Chissà quante bocche farà storcere ma a me decisamente piace. Una menzione merita anche il sito Veritas et Venustas che lo segnala.

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10 agosto 2009

ZAHA HADID SECONDO GREGOTTI

Pietro Pagliardini

Non sono un appassionato di Vittorio Gregotti, soprattutto non lo sono del Gregotti simbolo di una stagione dell’architettura legata intimamente alla politica; mi suona sempre stucchevole il suo rimpianto dei bei tempi (per lui) che furono, del suo snobistico atteggiamento di superiorità antropologica nei confronti di coloro che sono condannati a vivere nel suo Zen. Non può piacere a nessuno il Gregotti dell’ormai famosa intervista delle Iene e anche se quell’atteggiamento è largamente condiviso, nella quotidianità, da molti architetti questo non costituisce attenuante, a maggior ragione in un architetto di successo in ogni campo, anche se, a differenza di altri, il Gregotti progettista ha indubbiamente qualità e meriti.
Ma Gregotti ha molte sfaccettature e questa volta è riuscito a sintetizzare la condizione dell’architettura contemporanea con pochi tratti di penna, contrariamente alla sua abituale, tortuosa prosa che gira intorno ai problemi senza stringerli. E’ di qualche giorno fa sul Corriere della Sera un articolo su Zaha Hadid che è esemplare nel tratteggiare il carattere non solo dell’archistar irachena quanto di quel mondo della “architettura” globale, in ogni senso, che ha in Rem Koolhaas il suo geniale e disinvolto vate.
Dice Gregotti, con uno stile insolitamente efficace:

La nostra fortuna ……..è che (l' architetto?) Zaha Hadid ha costruito poche cose, in rapporto alla sua rutilante attività di illustratrice ed al minaccioso numero dei suoi progetti. Perché i suoi disegni, in uno stile che ricorda la fascinazione dell'idea di aerodinamica che ha travolto molti grafici e mobilieri, specie americani, negli anni post art déco (e che non ha niente a che vedere con i grandi artisti russi suprematisti e costruttivisti e con i loro ideali utopici), non possono che definirsi illustrazioni; né pittura, né scultura, né tanto meno architettura”.

E continua:
In quanto aderente alla tesi della «liquefazione» delle arti all' interno della multimedialità ed alla loro «coincidenza» con l'immagine intesa come comunicazione riproducibile, le sue illustrazioni hanno la pretesa di fondare un gusto figurativo la cui bizzarria è tutt' altro che gratuita. Ma che, invece, rappresenta bene le necessità di singolarità di forma indispensabile al commercio di ogni oggetto di consumo e la sua coincidenza con il conveniente successo del soggetto «creativo», come oggi si definiscono quasi tutte le attività. Peraltro, poiché le merci sono anche immateriali, esse comprendono anche la loro configurazione immaginaria come merce. Quindi, quando tutto è immagine e obbligatoriamente «estetico», niente è più distinguibile, né giudicabile. Abitabilità, ordine, costruzione, relazione con il contesto, senso della storia in generale e di quella dell' architettura in particolare, responsabilità civili e di disegno urbano sono i principali nemici delle illustrazioni progettuali di Zaha Hadid. Piuttosto che il nuovo fondato sulla differenza, esse sono il ritratto della sua definitiva dissoluzione per far posto ai mondi stellari di Flash Gordon. Tutto deve essere curvo e sghimbescio: aerodinamico, appunto. Non si tratta solo di oblio della tradizione classica, gotica del progetto europeo, ma anche di quella islamica o indiana, cinese o persiana. Futuro assoluto, sospeso al di sopra del suolo e di qualsiasi miseria umana?”.

Viene qui colta la caratteristica di indifferenza alla realizzabilità dei progetti di Zaha Hadid, il loro non appartenere al campo dell’architettura ma appunto dell’illustrazione e della pura immagine, capaci di avere influenza sui più disparati prodotti e perciò stesso indifferenti ad ogni contesto e totalmente svincolati dal luogo. I “progetti” di Zaha Hadid sono in fondo manifesti che si riproducono sempre simili a se stessi e che svolgono, nella loro ossessiva ripetitività, la funzione di creare un’immagine adatta ad ogni tipo di merce. Contrariamente a Koolhaas però, che è pura griffe vivente di se stesso e delle aziende che avvicina e i cui progetti contano poco ai fini della ripetizione da parte di seguaci ed emuli, quelli della Hadid esercitano una fascinazione sugli architetti e producono ricadute reali sul territorio, come osserva anche Gregotti nel suo articolo. Koolhaas è il teorico, Hadid è l’esecutrice. Koolhaas crea eventi chiusi in sé ma che contribuiscono a fare marketing pubblicitario per l’azienda e per se stesso, in un rapporto sinergico di straordinaria amplificazione del messaggio difficilmente spiegabile in maniera razionale, Hadid “illustra” forme, crea modelli riproducibili poi nelle scarpe, negli orologi, nei mobili, negli arredi dei negozi, negli accessori, nel design.

In questa capacità di stare sul mercato delle merci e di influenzarlo in maniera così pervasiva io ci vedo genialità e spregiudicatezza e non solo non ne sono scandalizzato ma piuttosto ammirato, invece quello che mi sconcerta è la creduloneria di architetti e critici vari nel discorrerci sopra, quasi fosse architettura, e nel coglierci “nuove spazialità”. Questo fatto dà il senso della crisi dell’architettura, confusa ed assimilata in maniera grossolana ad una merce qualsiasi, mentre l’architettura e la città hanno carattere di permanenza (che non vuol dire immobilità) e non di provvisorietà ed è una contraddizione che la nostra laicissima e secolarizzata società si perda in maniera fideistica, idolatrica ed irrazionale nel culto di personalità cui viene attribuita un’aura magica capace di trasformare, si suppone in meglio, il nostro ambiente e le nostre città.
Non si tratta di magia ma di illusione e Gregotti ha contribuito a svelarne il trucco.

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7 agosto 2009

CAMILLO LANGONE: PREGHIERA DEL 6 AGOSTO

UN LINK ALLA PREGHIERA DEL 6 AGOSTO DI CAMILLO LANGONE SU IL FOGLIO.
VI SI RACCONTA DI UN ARCHITETTO DI PARMA,
ANDREA PACCIANI, IL CUI SITO E' IN TESTA AI MIEI LINK

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4 agosto 2009

LA CHIESA DI FUKSAS A FOLIGNO

Giulio Rupi

Strani tempi i nostri, in cui il concetto di natura viene stiracchiato dal Politica-mente Corretto verso direzioni opposte e contraddittorie, a seconda delle convenienze del momento.
Da una parte, se ci si dispone a discutere di bioetica e di diritti civili, guai a tirare in ballo la natura e il diritto naturale: nell’uomo tutto è cultura e artificio, fin nelle differenze di genere tra maschio e femmina.
In questo campo il richiamo al diritto naturale come unico baluardo della libertà della persona nei confronti delle leggi della città viene considerato un argomento reazionario volto a bloccare qualsiasi evoluzione e autonomia dell’uomo.


Sull’altro versante, secondo i fondamenti dell’ecologismo, qualsiasi intervento artificiale, cioè eseguito dall’uomo (l’uomo: “il cancro del pianeta”) a modifica della natura aumenta il degrado entropico ed è un atto profanatore della divinità pagana di Gaia, un’entità in sé perfetta in cui la venuta dell’homo sapiens ha sconvolto ogni equilibrio, oltrepassando il punto di non ritorno verso la propria autodistruzione.

In Architettura le cosiddette Archistar, che producono oggetti di design anziché edifici, che progettano torri storte e sbilenche son certo da ascriversi al primo atteggiamento, quello del rifiuto di ogni riferimento alla natura.
Ed è questo il discrimine tra la tradizione architettonica di sempre e questa mo-dernità: la perdita del riferimento alle forme della natura, forgiate dalla forza di gravità e secondo le forme della crescita dettate dalla necessità dell’adattamento.
La primordiale capanna, al pari di una pianta secolare, si costruiva su solide fondamenta (come le radici della pianta), si erigeva sulla verticale a contrastare la gravità (come il tronco) e si concludeva in alto con un tetto a punta o a cupola a dialogare con il cielo (come la cupola trasparente di una querce o la punta svettante di un cipresso). Così un bambino disegna una casa: un segmento orizzontale, due segmenti verticali, due segmenti inclinati e convergenti.

Così per millenni, fino a quando Le Corbusier disse che odiava la confusione dei tetti dei centri antichi e che si dovevano demolire per sostituirli con delle coperture piane praticabili e che gli edifici dovevano alzarsi da terra per poggiarsi su pilotis, lasciando libero il suolo. Alla capanna poggiata sul terreno si sostituì il cubo librato nell’aria e l’edificio perse la sua funzione di mediatore tra la terra e il cielo.

Ma non fu solo questa la discontinuità del Moderno. Nella tradizione quel “pog-giarsi, levarsi, concludersi” non si limitava all’intero edificio ma si ripeteva ad ogni scala, in ogni finestra ben riquadrata, nel portale di ogni chiesa, così come nella pianta la forma totale si ritrova nella forma dei rami, fino alle venature delle foglie. E anche nell’edificio questo ripetersi ad ogni scala partiva dalla scala più minuta, perche le superfici non erano lisce e disadorne, ma articolate nella tessitura minuta del materiale e arricchite dalla decorazione.

Fino a quando Le Corbusier proclamò la sua devozione per le superfici di liscio cemento e per la somma di partizioni tutte uguali anziché per l’articolazione dell’autosomiglianza a tutte le scale.
Invece, comunque la pensi Le Corbusier, il disagio istintivo che ogni persona sensibile prova di fronte alla parola cementificazione non deriva dall’idea dell’aggregazione di nuovi volumi a una città compatta, ma dalla repulsione per le superfici di questi volumi, superfici vergognosamente lisce, opache, amorfe, non decorate che questo materiale evoca, con il richiamo ovvio e giustificato alla recinzione dei lager.

E veniamo infine alla “Casa di Dio”, dove la figura del levarsi lungo la verticale conta più che in ogni altro luogo perché assume per ogni religione un valore simbolico di evocazione della possibile ascesa dell’uomo a stati superiori dell’essere.
Così, ad esempio, nella chiesa romanica, le navate e il transetto individuano uno schema a croce che rappresenta il percorso terreno, definito dai quattro punti cardinali. Ma questo percorso converge sul punto centrale, su cui sta l’altare, cioè il punto focale del piano terrestre da cui si erge la verticale, quella verticale che attraversa la cupola nel suo punto più alto e raggiunge la cupola del cielo, dal microcosmo al macrocosmo.

Il significato di questa ascensione è rappresentato dalla dialettica tra le colonne (la terra) e le soprastanti volte o cupole (il cielo) e una Casa di Dio che non esprima, sia all’esterno che all’interno, questo valore ascensionale, è l’espressione di una religiosità che ha dimenticato la possibilità, per l’uomo, di salire su questo asse verticale. Ma questi concetti figurali valgono non solo per le chiese cristiane, valgono per la pagoda buddista, per i minareti delle moschee e per i templi di ogni religione.

Vediamo adesso, da tutte queste premesse, di progettare una Casa di Dio che realizzi l’esatto contrario di ognuno di questi principi, i principi attraverso i quali, da sempre e in ogni religione, si è tentato di raffigurare il rapporto tra l’umano e il divino.
Per eliminare ogni accenno alla verticalità ascensionale togliamo del tutto quella parte dell’edificio che simboleggiava il rapporto tra terra e cielo, la copertura a cupola, a tetto, a pagoda o che altro e chiudiamo il dialogo con una copertura piana.
Per eliminare anche dalle pareti dell’edificio questo rapporto, realizziamo pareti che sia all’esterno che all’interno, siano lisce, senza alcuna tessitura, con portali di ingresso e feritoie casuali, dettati dal design e senza accenni di verticalità, appunto pareti cementificate.
Avremo così una immagine esterna e uno spazio interno in cui viene esclusa qualsiasi possibilità di percepire, di intuire quel cammino ascensionale per via simbolica, cioè attraverso delle mediazioni materiali, umane, quali sono gli edifici, le immagini, i rituali, i simboli.

Questo è la Chiesa di Fuksas a Foligno, e la Religione che l’ha prodotta ha evidentemente perso ogni capacità di proporre ai suoi fedeli quel cammino verticale di salita verso il cielo.


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