Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


25 marzo 2012

DANILO GRIFONI: LA NATURA DELLA CITTA'

Pubblico una autentica Lectio magistralis sulla Natura della città, di Danilo Grifoni, architetto e urbanista, autore di numerosi piani regolatori in Provincia di Arezzo, .
Si tratta di 4 video registrati sabato 22 marzo, nell'ambito di un ciclo di incontri organizzati dai giovani del Partito Democratico, finalizzato a dare una preparazione in campo urbanistico ai giovani del PD per un loro eventuale futuro impegno politico nelle amministrazioni. Un'ottima iniziativa durata 4 pomeriggi.
Non ho partecipato alle prime tre, ma quello di ieri è stato un finale con il botto.
Danilo Grifoni ha tenuto una vera lezione di oltre un'ora sulla nascita, lo sviluppo e la natura della città, in cui Arezzo era, in fondo, solo l'esempio utile a trovare riscontri su quanto raccontava.
Si tratta di quattro video della durata complessiva di circa 70 minuti, un tempo molto lungo per poter essere seguiti con attenzione in internet, a differenza della realtà dove Grifoni ha inchiodato i presenti alle poltrone.
Il tema della giornata era "Chi l'urbanistica", che voleva indicare il rapporto che esiste tra i cittadini e la città, i cittadini e l'urbanistica. Anche questo argomento è stato toccato, cavallo di battaglia di Grifoni che è stato anche amministratore al Comune di Castiglion Fiorentino, ma è solo uno dei tanti punti da lui toccati.

Consiglio chi avesse tempo e voglia di seguirle tutte perchè si tratta davvero di merce rara, e questo giudizio non è inquinato o falsato dall'amicizia, che direi anzi l'amicizia essere nata in conseguenza della stima.



GUARDA GLI ALTRI 3 VIDEO

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18 marzo 2012

IL GREGOTTI SCATENATO

Sull’ultimo numero di Sette, magazine del Corriere della Sera, ci sono quattro pagine di un’intervista di Vittorio Zincone a Vittorio Gregotti. Il professore è letteralmente scatenato ed anche molto incisivo: la forma dell’intervista evidentemente gli si confà perchè lo costringe alla massima sintesi.
Inizia con una sparata contro l’abuso dei rendering: “Il nostro dovrebbe essere un lavoro di approssimazioni successive. Se, invece, basta un clic per realizzare un progetto…… si perde il rapporto tra la mente e la mano. Che è fondamentale”. A parte l’ingenuità del clic, difficile dargli torto sul fatto che l’uso esasperato dei software attuali per la progettazione tende a cambiare la sostanza del processo progettuale e del progetto stesso, per cui la tecnica va ben oltre l’aspetto meramente rappresentativo, trasformandosi da strumento per il progetto a essenza del progetto stesso, fino ad assumere, in architettura, il significato che nella comunicazione ha la famosa frase di Mc Luhan: “ Il medium è il messaggio”, vale a dire “Il software è il progetto”.

Venezia: Cannaregio di V.Gregotti - Foto di Steve Cadman

Inoltre, quel richiamo alla relazione tra “mente e mano” è il segno di una cultura antica in gran parte persa, a onor del vero già da prima dell’uso massivo del computer, dove il bel disegno, la bella rappresentazione grafica, certamente fondamentale, sembrava potesse prescindere dal contenuto.

Alla domanda su CityLife e sui tre grattacieli di Zaha Hadid, Arata Isozaki e Daniel Libeskind, è lapidario: “Abominevoli”.

Poi continua osservando come i nomi siano solo il pretesto per gli affari dei costruttori. Non è la scoperta dell’America per questo blog, tanto meno per l’amico Nikos Salìngaros che ci ha scritto un libro, No alle Archistar, LEF, Firenze, e ha imperversato, rara avis, su quotidiani e riviste italiane e straniere, però è pur sempre un’affermazione importante.

Gregotti dice poi di apprezzare Renzo Piano ma alla richiesta di un suo giudizio sull’Auditorium di Roma, la definisce “un’opera sfortunata….. che con Roma non c’entra nulla. Tra gli architetti contemporanei c’è un’ideologia diffusa per cui ci si deve ribellare alla storia e al contesto”.
Zincone domanda se un sindaco, un presidente di Regione o un premier non abbiano il diritto di voler lasciare il proprio segno in una città e Gregotti risponde: “Anche i Papi volevano lasciare un segno. Ma almeno si rivolgevano alla persone giuste. E poi non si può ragionare in termini di competizione: a chi lo fa più alto. Anche perché se no si finisce come Shangai, con 2.000 grattacieli tutti diversi e paradossalmente non più distinguibili. Quando manca una regola, l’eccezione non esiste”.

In questa settore dell’intervista, pur trasparendo una sorta di rimpianto per i tempi che furono, quelli cioè in cui Gregotti era il dominus della cultura urbanistica italiana, una sorte di santone chiamato ovunque, e quando aveva anche forti relazioni politiche, certamente determinate anche da una sua passione civile figlia del momento storico, tuttavia fa un richiamo alla responsabilità della politica che ha, anche secondo il mio parere, il diritto e il dovere che le deriva dal voto popolare, di fare scelte per la città di cui possano e debbano rispondere. Scelte che, con la paura della corruzione e del clientelismo, che peraltro continuano imperturbabili ad ogni legge (l’onestà non si ottiene per legge), sono affidate ormai al caso e comunque escono dall’ambito di responsabilità e di decisione dell’amministratore. Che sia concorso o che sia gara, resta tutto nell’ambito degli uffici e, a posteriori, l’amministratore deve necessariamente subire ma farsi vanto dell’opera realizzata. Potrebbe fare altrimenti? Una situazione a dir poco grottesca.

Notevoli le considerazioni sul rifiuto della storia da parte degli architetti contemporanei e sulla mancanza di regole (non di leggi, che straripano, ma di regole urbane) che determina la mancanza di qualità.

L’intervista è molto più lunga e non posso riassumerla tutta né trascriverla per ovvi motivi, ma non mancano giudizi su Ghery, su Meier, sul MAXXI - di cui dice: “Pura calligrafia. Senza senso. E con errori elementari. C’è più superficie di percorso che superficie espositiva” - sulla eco-sostenibilità - “è un mezzo, non un fine….. Il verde verticale non mi pare molto diverso dal balcone pieno di piante di mia zia” - e, verso la fine, investe necessariamente il suo progetto dello Zen, che Gregotti continua a difendere con le stesse argomentazioni di sempre. Sorvolo. Degna di nota invece la proposta urbanistica che segue la fatidica domanda sul quartiere Zen: “Ne hanno fatto un quartiere abbandonato, monoclasse e monofunzionale. Nelle città, invece, ogni quartiere dovrebbe avere una sua articolazione: un centro, i servizi, il verde pubblico, ecc….. Alle grandi città bisogna restituire la qualità diffusa”. Un esempio di qualità diffusa è “….San Gimignano o una qualsiasi città europea medievale. La qualità diffusa [è uscita dai progetti urbanistici] dagli anni Settanta. L’idea del “disegno urbano” ha lasciato il posto alla prevalenza dimostrativa dei singoli oggetti architettonici”.

Trascurando lo Zen e senza considerare un certo distacco tra teoria e prassi professionale, tra pensiero e opere, Gregotti con gli anni è migliorato parecchio: in genere è vero il contrario.

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15 marzo 2012

RIPAVIMENTARE PIAZZA SIGNORIA?

Il professor Alberto Asor Rosa è un ben strano ambientalista-conservatore del patrimonio culturale! Sulla ipotesi di rifacimento della Piazza Signoria a Firenze in cotto al posto della pietra dice:
Una proposta distruttiva almeno quanto lo possono essere interventi di degrado in ambito edile e territoriale. Anche l’antiquaria ed il restauro obbediscono alle leggi della storia. Se si dovesse ragionare con il criterio di Renzi, dovremmo rifare il Colosseo e, perché no, magari in cemento armato. Dubito che si possa ritrovare il cotto così come si faceva nel Rinascimento” (fonte: Corriere della Sera del 3/3/2012, ma l’articolo linkato è quello della redazione fiorentina).

Come paradosso, quello di ricostruire il Colosseo in c.a. è proprio scadente e non fa nemmeno sorridere, ma è proprio la costruzione intera della dichiarazione ad essere confusa: che cosa sarebbe “l’antiquaria.... che risponde alla legge della storia"? Troppo difficile addentrarsi nei meandri dei ragionamenti di AAR. Davvero è impossibile capire il nesso logico tra gli “interventi di degrado in ambito edile”, con la quale espressione immagino si riferisca a Monticchiello o a nuovi interventi edilizi in luoghi di pregio paesaggistico, e la ripavimentazione di una piazza del centro storico. Non c’è proprio relazione.


Mette insieme, AAR, problematiche diverse al solo scopo di essere contro; a chi non saprei dire. C’è però nelle sue parole l’eco di una cultura del restauro intesa come congelamento assoluto della situazione e con l’iperbole del Colosseo da ricostruire (non in c.a. ovviamente) non viene nemmeno un momento sfiorato dall’idea che in molti casi il ricostruire il monumento con le stesse tecniche originarie sia operazione di restauro vero e non di conservazione, secondo le definizioni di Paolo Marconi, il quale, non a caso, si dice favorevole all’ipotesi Renzi, insieme a Sgarbi e Portoghesi.

La proposta di Renzi mostra una concezione della città storica non immobile e fissata una volta per tutte a…quando non si sa, diciamo allo stato attuale, ma di una città bella e degna di tutte le attenzioni e il rispetto possibile, ma non completamente museificata ed esclusa del tutto dal processo naturale di trasformazione. Il Sindaco ha fatto solo una proposta sensata e tutta da verificare alla luce della storia ma anche in virtù del risultato finale che, fatta salva la qualità del materiale da impiegare, a me appare decisamente migliore della omogeneizzante pietra. Non so se Asor Rossa si sia scandalizzato per il progetto realizzato di piazza Santa Maria Novella, quello sì sbagliato anche a prescindere dalla “storia” ma proprio in relazione allo spazio circostante: una pavimentazione in pietra con tessitura e trattamento superficiale “moderno”, neanche fosse l’interno di un negozio.

Il professore non sembra essersi posto nemmeno lontanamente il “merito” della proposta Renzi, cioè non “l’antiquaria” ma la qualità dello spazio e il progetto, il confronto tra come è adesso la piazza e come potrebbe essere alla luce di un quadro esistente di Francesco Rosselli del 1498, così come è riportato sul Corriere e di una simulazione, un rendering in sostanza, che mostra un probabile risultato finale (purtroppo non l'ho trovato in rete). Quella di Asor Rosa è una preconcetta ostilità ad ogni cambiamento in nome di una malinteso senso della conservazione ad ogni costo.

In effetti ci troviamo nella assurda condizione, nel caso dei centri storici, di essere stretti tra atteggiamenti estremi: da una parte progetti fantasiosi opera di architetti creativi in cerca di un facile successo d’immagine, dall’altra invece lasciare tutto come è, anche se è peggiore di come potrebbe essere e addirittura di come in effetti era.
E’ una ben strana situazione questa che condanna questo paese al degrado o per stravolgimento del patrimonio cittadino o per abbandono. E’ una condizione molto sovrintendenziale: conservare il bene ma inserendovi elementi dichiaratamente nuovi per leggere le varie epoche. Gli estremi si incontrano, come al solito.
Malignità? Niente affatto, Alberto Asor Rosa era favorevole alla pensilina di Isozaki, guarda un po’!
Vedi link: Pensilina di Isozaki e concorsi

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10 marzo 2012

A MILANO STOP ALLO ZONING!

Scrive Marco Romano sul Corriere della Sera del 9 marzo 2012:
Tra le modifiche alle norme edilizie proposte nella nuova stesura del Pgt (Milano), spicca per il suo carattere virtualmente radicale la liberalizzazione delle destinazioni d’uso dei fabbricati: d’ora in avanti tutti potranno costruire quanto loro consentito senza dover rispettare alcun vincolo di destinazione. La norma constata quanto da tempo tutti sanno per esperienza diretta, che cioè la destinazione d’uso dei fabbricati cambia nel tempo mentre la forma della città, il suo aspetto visibile nelle strade e nelle piazze, resta il medesimo per secoli, e dunque non possiamo progettare un piano regolatore con la destinazione d’uso delle varie zone delle città legate poi insieme da una rete di strade e di trasporti, proprio come una circolazione sanguigna lega i diversi organi del corpo umano”.
Poi fa un richiamo al PRG di Milano del 1884, un piano disegnato evidentemente, di cui descrive alcuni esiti positivi.
Quindi conclude:


E’ il momento – se portiamo alla sua conclusione il processo iniziato dalle abolizioni delle destinazioni d’uso – di riprendere il disegno di quel piano e di estenderlo a quei quartieri che ancora restano da costruire, ridisegnando con i medesimi criteri le loro sequenze di strade e di piazze. Tutti sembrano concordare che la cultura è sviluppo, e che la bellezza delle città è la radice della nostra cultura: se vogliamo passare dalle parole ai fatti, è il momento di fare di Milano una bella città. Le regole di quel piano – fatto di disegni e di una breve relazione di dodici pagine – consentivano a quanti disponevano di un lotto affacciato su una strada di costruire liberamente – senza che fosse necessario come oggi l’intermediazione di un imprenditore immobiliare – un fabbricato alto in proporzione esteticamente armonica con la sua larghezza, sicchè la densità edilizia era l’esito di un progetto estetico che poteva venire anche concordemente migliorato con, per esempio, i grattacieli del Centro svizzero e della Velasca.
Vogliamo tornare a fare di Milano una città bella?


Finalmente qualcuno che ha ricominciato a ragionare e ad osservare la realtà: non è a Marco Romano che mi riferisco, lui non ha mai smesso, ma al Comune di Milano che ha fatto una scelta di grande coraggio e intelligenza a dimostrazione, se ce ne fosse bisogno, che un Piano regolatore si fa avendo alle spalle cultura e idee non solo una somma di leggi e informazioni il più delle volte inutili e fuorvianti.

Non tragga in inganno il termine liberalizzazione, il cui significato, così come usato nel'articolo, non ha molto a che vedere con quello di gran moda oggi relativo esclusivamente alla concorrenza e ai problemi della finanza. La liberalizzazione delle destinazioni d’uso attiene strettamente alla storia della città ed è semmai un ritorno all’antico dopo la lunghissima parentesi della selvaggia zonizzazione orizzontale, di cui Le Corbusier è stato, se non l’inventore, il grande teorizzatore e divulgatore, il cui pensiero ha contribuito a cristallizzare nella cultura urbanistica e nella mente di architetti, politici e perfino dei cittadini la divisione in zone funzionali classificate con lettere nella legge urbanistica del 1942.

Poi, certo, esiste anche una componente dirigistica di tipo più strettamente politico che si è sovrapposta, aggravandola, a quella strettamente urbanistica, e in questo senso, ma solo in questo, liberalizzazione acquista un significato più vicino alla cronaca. Ma il significato autentico resta quello di orientarsi verso una città vera, densa, viva, vitale e realmente sostenibile, grazie al mix di funzioni, alla zonizzazione verticale, come la chiama Gabriele Tagliaventi, a significare che nello stesso edificio possono (è una libera scelta, non un obbligo) coesistere attività diverse, con le attività commerciali e artigianali al piano terra, a contatto diretto della strada.

La liberalizzazione delle funzioni è solo un primo passo, ma importantissimo, che permette di porsi in un’ottica realmente urbana che sarà del tutto raggiunta solo con il ritorno della strada tradizionale. Una volta rotto il tabù delle aree funzionali, sarà inevitabile ripensare alla forma della città.
Frantumato lo schema a blocchi (in senso grafico e mentale) che è stato ed è ancora l’ideogramma della città moderna, caratterizzato dalle sue connessioni semplici e inefficaci, non si potrà non porsi il problema della rete di connessioni complesse che caratterizzano la vera città e che sono il principio della vita, esattamente come la circolazione corporea.

Se la città torna ad essere un insieme unico, un unico organismo in cui tutte le funzioni urbane sono presenti, il problema della costruzione della rete - fatta di arterie principali ma anche di molti capillari - e del disegno della città risalterà in tutta la sua imprescindibilità.

Sarà come passare da poche tessere sparse sul tavolo, che necessitano solo di connessioni costituite da semplici aste, ad un’unica, grande tessera e, a quel punto, sarà impossibile non cominciare a scavarvi dentro alla ricerca di connessioni interne. Di qui al disegno il passo è, solo concettualmente, breve.

Spero che questa metaforica prefigurazione di come si potrebbe evolvere il processo negli anni a venire, se la scelta di Milano farà scuola, sia imprecisa o fantasiosa solo nella descrizione del modo in esso avverrà ma non nel risultato finale.



Concludo con una selezione ristretta di link pertinenti all'argomento, tra cui un mio commento su Antithesi in risposta a Vilma Torselli, partito da un argomento diverso ma arrivato, chissà come, a questi argomenti:

Commento su Anthitesi
Gabriele Tagliaventi: La città che vorrei
De Architectura: Strade, piazze, funzioni, eventi
De Architectura: Società liquida, città solida


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9 marzo 2012

MAURO ANDREINI SUGLI INTELLETTUALI

Mauro Andreini, un architetto che nei suoi progetti riesce a far coesistere una forte originalità personale con richiami evidenti alla tradizione, ha scritto per presS/Tletter di Luigi Prestinenza Puglisi un articolo sugli intellettuali gustoso e acuto che linko molto volentieri.
Un dubbio mi rimane rispetto a quanto egli scrive: ma esistono ancora gli intellettuali? O meglio, sono proprio quelli che Mauro descrive gli intellettuali nostrani? Infatti, più andavo avanti nella lettura e più mi rendevo conto che Mauro ci racconta di soggetti che fanno parte del mondo dei media, dello spettacolo e della politica e che noi inquadriamo nella categoria intellettuali per il solo fatto che sono loro stessi a fregiarsi di questo appellattivo.
Non che prima, negli anni '70, fosse molto diverso, a onor del vero, ma il fenomeno era più oscuro, velato e non così evidente come lo è oggi. Forse, tra tanti difetti, la sincera passione civile di pochi contribuiva a far apparire migliori i molti. I vizi che Mauro descrive sono gli stessi di quelli di allora ma in forma di copia sbiadita e parodistica, una rappresentazione imperfetta dell'idea originale, anch'essa peraltro assai mitizzata.
Voglio forse dire che l'intellettuale non esiste? No, voglio dire che gli intellettuali veri a questo punto non possono essere che quelli che non appaiono o che appaiono solo saltuariamente, quelli che non lo fanno per mestiere, un prodotto di nicchia insomma.
Quindi Mauro, non li invitare al bar, perchè ci rimetteresti solo una bevuta in cambio di poco.

Il rapporto conflittuale tra l'intellettuale e il Bar dello Sport

di Mauro Andreini


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6 marzo 2012

PREGHIERA DI LANGONE

Una Preghiera di Camillo Langone su Il Foglio in ricordo di Lucio Dalla e in omaggio alla città


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4 marzo 2012

DIVERSE MODERNITA'

"Un'altra modernità è possibile", Lèon Krier


CONTINUA....








Vilma Torselli, a corredo del suo commento, mi manda le due foto che seguono, Ronchamp di Le Corbusier, che presentano analogie negli effetti di luce con le due foto della Pieve di Arezzo e con la chiesa di Foligno di Fuksas.
Emanuele ha colto ironia nel mio post fotografico. Una certa ironia c'è senz'altro ma è probabilmente involontaria.
In verità il post nasce da una passeggiata della domenica mattina nella parte alta della città, quando non c'è quasi anima viva, da qualche scatto con il cellulare e dalla ovvia constatazione che molti elementi architettonici vengono riproposti nel tempo in forme e all'interno di architetture e contesti completamente diversi.
Anche per questa ovvietà ho evitato di scrivere perchè mi sembrava, e mi sembra, superfluo, visto che le foto sono già abbastanza eloquenti. Ho lasciato che ognuno giudicasse in base alle proprie convinzioni, avendo io espresso la mia attraverso il titolo e la famosa frase di Léon Krier.
Il confronto più intrigante è quello della prima foto dove è la luce a farla apparentemente da padrona. Dico apparentemente perchè la luce è il prodotto e il risultato dell'architettura, non dell'illuminazione artificiale. La luce con la sua suggestione è ingannevole nel senso che può produrre effetti diversi in funzione dello spazio entro cui si colloca: in una chiesa la si giudica, o forse la si percepisce, come elemento fortemente legato al sacro con un richiamo evidente al cielo, all'infinito, all'atto della creazione; in uno spazio museale o dedicato all'arte esalta e valorizza le opere esposte e l'architettura stessa. Per certo la luce di Foligno, almeno giudicando quel solo scatto, non ha alcunchè di sacro, provenendo da una serie di aperture leziose, manieriste e banalotte, più adatte all'arredo di una discoteca, impressione prima che ho avuto anche dall'insieme del progetto. Quella di LC fornisce indubbiamente una suggestione più intensa, ma la composizione delle aperture, ancorchè su una parete dotata di una notevole massa muraria, unita alla consueta purezza della superficie intonacata bianca, restituisce un senso di astrattezza compositiva geometrica molto formalista.
La facciata interna della Pieve, con l'ordine regolare delle bucature a contorno del rosone, inserite in un muro di cui è ben visibile la trama delle pietre da costruzione, che svolge, come dice Salìngaros, la necessaria funzione di elemento di passaggio tra la piccola e la grande scala percettiva, restituisce allo stesso tempo suggestione e ne connota in maniera evidente il suo essere parte di una chiesa, oltre che contribuire all'illuminazione di fondo dello spazio. Eppure anche questa facciata ha elementi puristi, con il taglio netto delle finestre su una parete liscia priva di decori. Da qui la sua modernità.






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