Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


30 novembre 2009

UNA CITTA' DIVERSA E' POSSIBILE: LEON KRIER E PIER CARLO BONTEMPI (1)

Nel luglio 2002 si tenne ad Arezzo un Workshop in occasione della redazione del Piano Strutturale. Il Consulente scientifico del piano era, al tempo, Peter Calthorpe. Al Workshop erano stati invitati, tra gli altri, Lèon Krier e Pier Carlo Bontempi. Di quei pochissimi giorni di lavoro cui seguì una mostra e un dibattito pubblico di grande successo e interesse, sembra che si sia persa ogni traccia: nel sito del Comune c’è una cronologia puntigliosa e dettagliata dei lunghi anni di gestazione del PS, ma del workshop solo questa comunicazione.
Poiché a suo tempo avevamo fatto foto e raccolto un po’ di materiale, sono andato a ripescarlo e lo pubblico in due parti.


In questa prima parte ci sono stralci della relazione di Lèon Krier e alcuni dei suoi disegni, nella prossima ci saranno stralci della relazione di Pier Carlo Bontempi, sempre con disegni.

Stralci dalla relazione svolta da Lèon Krier:
Calthorpe è forse, all’interno del movimento del New Urbanism, il teorico che più di ogni altro fa riferimento alla grande scala territoriale, riuscendo a fare una sintesi di concetti molto atomizzati, simili alla mia concezione di quartiere o di struttura della città della piccola città.
Calthorpe ha concepito l’idea della città policentrica, basati su una catena di villaggi collegati tra loro da sistemi di trasporto pubblico. Penso che Arezzo sia una città “felice” per la sua collocazione geografica, ma che la sua periferia presenti le stesse problematiche delle altre aree suburbane italiane.
In particolare Arezzo presenta problemi difficili da risolvere dal punto di vista strutturale, poichè i suoi sobborghi risultano estremamente frammentati dalla presenza di infrastrutture del traffico, dei trasporti e dei percorsi d’acqua; elementi questi che non aiutano una buona forma urbana.


Il grande concetto di Calthorpe è di “legare” la città diffusa, periferica, in una catena di quartieri a forma di “ipsilon” e di concentrare la crescita futura della città su questi tre assi. Mi sembra una scelta molto pragmatica ma anche possibile, perché su questi tracciati ci sono vaste aree per lo sviluppo, che possono permettere ad una grande città di espandersi ulteriormente, come ha fatto negli ultimi 50 anni.
Dunque, invece di una crescita atomizzata, si potrà prevedere il completamento dei quartieri, e avere così una crescita all’interno, piuttosto che una crescita esplosiva.
(omissis)

Girando per la città ci rendiamo conto quanto sia vero l’assunto che una grande quantità di spazio è contraria ala qualità urbana dello spazio. Le immagini che seguono sono un esempio che mostra quanto queste aree frammentate possano nel futuro divenire aree di crescita urbana, fino a raggiungere una densità forse non uguale a quella del centro storico, ma certamente uguale alla qualità spaziale del centro storico, anche se meno densa.

Gli isolati che abbiamo disegnato, oltre a contenere gli edifici esistenti, avranno in futuro la tendenza a creare fronti edilizi continui, anche se di diversa altezza, secondo il vecchio sistema di facciate e di muri, talcolta così raffinati nei centri storici o nei piccoli nuclei di campagna fuori città. Questi servono come modello diretto, e li percepiamo non come segni della storia, ma segni della tecnologia per creare nuovi centri storici. (Omissis)

Ogni quartiere avrà il suo centro, e una piazza, e un suo limite chiaramente leggibile. (Omissis)

Automobile e pedoni devono poter coesistere in armonia piuttosto che in conflitto. (Omissis)
Strade come Corso Italia e Via Roma, che attraversano tutto il corpo della città antica, hanno la capacità di legare al centro storico tutti i quartieri della nuova Arezzo, e soprattutto di superare la terribile frattura creata dalla ferrovia e permettere alla città di collegarsi all’università e all’ospedale, che in futuro potrà espandersi e diventare un quartiere indipendente”.

E’ ovvio che lo scopo di questo e del prossimo post non è quello di alimentare un dibattito su Arezzo, dato che sarebbe impossibile per chi non conosce la città; tuttavia dal confronto del testo con le immagini si comprendono bene i principi essenziali che stanno alla base del pensiero di Lèon Krier e di Peter Calthorpe e che, pur applicati ad una situazione specifica, hanno una portata assolutamente generale:
1. una città costruita in continuità con il centro storico, fatta di quartieri ognuno dotato di un proprio “centro storico”, capace di ridare dignità a zone oggi monofunzionali e anonime;
2. un potenziamento del trasporto pubblico con la valorizzazione del sistema ferroviario attualmente esistente lungo il quale andare ad individuare le aree di crescita della città, alleggerendo così la pressione del traffico privato in ingresso e in uscita dalla città;
3. una città che cresce su se stessa con densità molto alte simili a quella del centro storico;
4. una crescita che si innesta sui due assi viari principali esistenti.

Ma il successo di questi propositi non è indifferente al tipo di disegno urbano, e questo non è una variabile indipendente tale da dare esiti positivi qualunque esso sia: quando si dice alta densità si intende che il pieno deve prevalere sul vuoto, non che si realizza con edifici di maggiore altezza; si intende che il nuovo tessuto urbano dovrà essere analogo a quello della città storica, fatto da isolati e strade racchiuse da fronti edilizi continui. Senza queste caratteristiche i buoni propositi, le scelte “politiche”, sono destinate al fallimento e alla ripetizione degli errori del passato, lontano e più recente.

Per questo c’è da augurarsi che, a distanza di sette anni, questi disegni non siano stati rimossi dalla memoria, oltre che abbandonati in archivio come spesso accade nei nostri comuni, che vengano ripresi, sviluppati, perfezionanti, anche corretti se è il caso. Non esiste progetto che non contenga errori o analisi non del tutto condivisibili, e anche questo non sfugge alla regola, ma il workshop è stata una occasione davvero unica e straordinaria di elaborazione concreta di proposte e progetti fatti da straordinari architetti e urbanisti quali Lèon Krier, Pier Carlo Bontempi, Peter Calthorpe; nato probabilmente per caso, se non addirittura per un equivoco, ha fornito materiale di grande qualità che sarebbe insano fare finta che non sia mai esistito per ricominciare con nuovi progetti, naturalmente nel solito filone modernista.


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29 novembre 2009

LANGONE ANCORA CONTRO I GRATTACIELI

Su Il Foglio ancora una Preghiera di Camillo Langone contro i grattacieli.


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26 novembre 2009

UN OMAGGIO AI RAFFINATI DISTINGUO SU LE CORBUSIER (e sui suoi seguaci)

Pietro Pagliardini

Quella che alcuni giudicano essere una demonizzazione acritica perpetrata da parte di questo blog ai danni di Le Corbusier pare essere invece una corrente di pensiero piuttosto diffusa e che si va consolidando sempre più. Evidentemente l’aumento della distanza temporale fa perdere i freni inibitori verso quell’aura di intoccabilità e sacralità che si “deve” avere verso un personaggio che, nel bene o nel male, fa parte della storia del XX secolo.
Un esempio addirittura eclatante ne è un articolo di Theodore Dalrymple sul City Journal, segnalatomi ancora una volta da Angelo Gueli, il cui titolo non lascia spazio a incertezze: L’Architetto Totalitario.
Ma è l’attacco del pezzo assolutamente fulminante:

Le Corbusier sta all’architettura come Pol Pot sta alle riforme sociali”.



Difficile trovare qualcosa di più dissacrante. Come si vede non si lavora secondo le raffinatezze critiche che talvolta nascondono l’incapacità di vedere la realtà nella sua crudezza.

Continua l’articolo:
In un certo senso egli ha meno attenuanti per la sua attività di Pol Pot: diversamente da questo egli possedeva un grande talento, persino del genio. Sfortunatamente ha orientato i suoi doni a fini distruttivi e non è una coincidenza il fatto che abbia servito volentieri sia Stalin che Vichy. Come Pol Pot egli voleva ripartire dall’Anno Zero: prima di me, niente, dopo di me, tutto.
Con la loro presenza, le torri rettangolari rivestite di freddo cemento che lo ossessionavano, spazzarono via secoli di architettura.
Difficilmente ogni paese o città in Gran Bretagna (per prendere solo una nazione) non ha avuto la sua forma distrutta da architetti e urbanisti ispirati dalle sue idee
”.

Quest’ultima è, secondo me, la conseguenza fondamentale che sfugge ai più: il contributo degli allievi, consapevoli o meno, che, nonostante i soliti raffinatissimi critici neghino decisamente, continuano imperterriti e impuniti sulla scia del Maestro a disegnare piani e progetti; ed è normale che sia così perché l’imprinting culturale ha memoria lunga e si può cambiare solo con il tempo o con una scossa, come quella che è avvenuta nella prima metà del secolo scorso, ovviamente diretta da pochi ai danni di molti. Sui meccanismi di questa aristocratica imposizione dall’alto di canoni sgraditi ai più è illuminante Tom Wolfe in Maledetti architetti, uno dei primi libri a fare contro-informazione in questo campo (ma anche Tom Wolfe viene giudicato poco meno che uno zotico dai nostri esigentissimi critici).

Prosegue l’articolo:
Gli scritti su Le Corbusier iniziano spesso con un riconoscimento alla sua importanza, qualcosa come: "E 'stato l'architetto più importante del ventesimo secolo”. Amici e nemici sarebbero d'accordo con questo giudizio, ma importante è, ovviamente, l’ambiguità morale ed estetica. Dopo tutto, Lenin è stato uno dei politici più importanti del ventesimo secolo, ma fu la sua influenza sulla storia, non i suoi meriti, a renderlo tale: allo stesso modo Le Corbusier. Eppure, proprio come Lenin è stato venerato a lungo dopo che la sua mostruosità avrebbe dovuto essere evidente a tutti, così Le Corbusier continua ad essere venerato”.

L’articolo, che è molto lungo, prosegue parlando di libri e mostre che recentemente hanno celebrato LC e l'autore racconta episodi a lui accaduti durante la visita ad una di queste mostra a Londra:
Ho segnalato alle signore una sezione della mostra dedicata al piano Voisin, un progetto di Le Corbusier per sostituire un ampio quartiere di Parigi con edifici fondamentalmente dello stesso disegno di quelle che abbellisce la periferia di Novosibirsk e di ogni altra città sovietica (per non dire niente di Parigi stessa e delle sue alienanti banlieues). Se realizzato, il piano avrebbe cambiato, dominato, e, a mio avviso, distrutto l'aspetto di tutta la città. Qui, la mostra trasmetteva un film del 1920 che mostrava Le Corbusier di fronte a una mappa del centro di Parigi, una gran parte del quale egli procedeva a coprire con un pennarello nero con tutto l'entusiasmo di Bomber Harris (1) che pianifica l'annientamento di una città tedesca durante la seconda guerra mondiale.

Le Corbusier esaltava questo tipo di distruttività, come immaginazione e coraggio in contrasto con la convenzionalità e la timidezza di cui ha accusato tutti i coetanei che non siano caduti in ginocchio davanti a lui. Dice qualcosa dello spirito di distruzione che alligna ancora in Europa il fatto che un simile film venga fatto vedere non per suscitare orrore e disgusto, o almeno ilarità, ma ammirazione
”.

Salto tutta la parte centrale, di cui consiglio vivamente la lettura, e riporto la conclusione del pezzo:
Le Corbusier non appartiene così tanto alla storia dell'architettura quanto a quella del totalitarismo, a quella deformità spirituale, intellettuale e morale degli anni tra le due guerre in Europa. Chiaramente, non era solo, era sia un creatore che un sintomo dello Zeitgeist. I suoi piani per Stoccolma, dopo tutto, sono stati una risposta a un concorso ufficiale svedese su come ricostruire la bellissima città vecchia, e la sua distruzione era sul programma. È un segno della forza ancora presente della tentazione totalitaria, come il filosofo francese Jean-François Revel l’ha chiamata, il fatto che Le Corbusier sia ancora venerato nelle scuole di architettura e altrove, piuttosto che universalmente vituperato”.

A chi pensasse che questo su Le Corbusier è un giudizio solo politico che però nulla toglie alle qualità dello stesso e che il giudizio sul genio architettonico deve essere tenuto separato e distinto da quello sull’uomo e sulle sue debolezze io dico che non ha capito niente del personaggio e del suo pensiero e che, tra l’altro, non gli renderebbe giustizia.
Le Corbusier ha fatto azione politica per mezzo della sua architettura, della sua urbanistica, della sua teoria e del suo pensiero e le opere, sue e dei suoi seguaci, sono l’espressione materiale della sua visione  della politica e della società: non si può apprezzare l’architetto e teorico e condannarne il pensiero politico; il pacco va preso tutto insieme, volenti o nolenti.



***

Theodore Dalrymple, un medico, è un redattore di City Journal e Dietrich Weismann Fellow presso l'Istituto di Manhattan. Il suo libro più recente è Non con un bang, ma con un gemito.

(1) Soprannome del comandante in capo della RAF durante i bombardamenti inglesi sulla Germania.

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21 novembre 2009

LE ARCHISTAR SECONDO MARC AUGE'

Pietro Pagliardini

Salvatore d’Agostino ha pubblicato su Wilfing Architettura un articolo di Marc Augé tratto da Le Monde, dal titolo L’architettura globale. Rimando al link per la lettura del testo.
L’analisi che Augé svolge sul fenomeno archistar, facendo ricorso a concetti del tutto analoghi a quelli di Nikos Salìngaros nel libro No alle archistar, LEF, 2008, e non tanto diversi da quelli ripetuti più volte in questo blog, è oggettiva; le proposte per il futuro che auspica rischiano di essere, a mio avviso, peggiori del male.
La critica all’architetto demiurgo che progetta per il villaggio globale non sembra affatto finalizzata al rispetto delle culture locali e dei luoghi ché anzi, dice Augé:
Le polemiche sull’importanza di adattarsi al contesto non hanno senso in un’epoca in cui ogni contesto locale vuole anche essere globale e in cui la firma dell’architetto diventa il simbolo di questo cambiamento di scala”.
Quindi l’autore sembra prendere atto di questa realtà giudicandola coerente con le aspettative delle comunità locali.(1)



Poi prosegue:
La retorica dei suoi discorsi (dell’architetto) serve a conquistare mercati: per questo, spesso imita l’ideologia degli imprenditori. Per lo stesso motivo incarna il cammino della storia”.
Ma dove vada la storia, per fortuna, neanche Augé si azzarda a prevederlo. Da notare che Augé non distingue la figura dell’architetto da quella dell’archistar, a riprova che sono proprio loro, le archistar, a dare il passo agli architetti in genere. E non è un caso che l’antropologo abbia colto nella mitica espressione “cultura del progetto”, che poi altro non è che la "cultura del proprio progetto”, ciò che accomuna gran parte degli architetti.

Ma a questo punto c’è il passaggio decisivo, il cambio di marcia. La disapprovazione di Augé per gli architetti che sono “più affascinati dalla possibilità di lasciare la loro impronta sui luoghi più importanti del pianeta… che dall’idea di affrontare i problemi tecnici e sociali causati dall’urbanizzazione mondiale” non è però rivolta alle loro architetture nè all'essere le archistar simbolo di una globalizzazione che rende tutti uguali “i luoghi più affascinati del pianeta” (con progetti di seconda mano dice addirittura) e che quindi dopo il loro intervento tanto affascinanti non saranno più, bensì è rivolta alla mancanza di un impegno sociale che si dovrebbe esprimere nella formulazione di proposte “sugli alloggi in città, su come affrontare l’emergenza pensando anche sul lungo periodo”.

Assolutamente incomprensibile e contraddittorio il confronto in negativo con Le Corbusier, che Augé stesso riconosce avere fatto molti danni proprio per la sua mania di risolvere il problema dell’abitare facendo tabula rasa e rifiutando la città storica!
Ebbene, cosa chiede Augé agli architetti? Di preoccuparsi del problema dell’abitare e di “tornare ad essere visionari del mondo”, esattamente quello che lui riconosce come contributo negativo di Le Corbusier! Tornare a preoccuparsi d’altro che di architettura e di città ma di problemi globali, quelli che, ad esempio, Bauman esclude possano rientrare nel campo di azione e di controllo a parte degli architetti.

L’alternativa all’archistar egomaniaca sarebbero dunque l’archistar visionaria in chiave socio-politico-utopica, un deja vue fallimentare.

Sembra che all'autore del'articolo sfugga un aspetto assolutamente elementare: che gli architetti debbono fare il loro mestiere e lasciare i problemi globali alle dinamiche della società, alla cui risoluzione possono certamente contribuire positivamente ma solo con la loro disciplina che consiste nel dare forma all’ambiente di vita dell’uomo, ciò che da decenni non sembra essere al centro dell’attenzione di molti.
Seguendo invece il suo invito si continuerebbe nella sperimentazione di nuovi modelli abitativi e urbani (e di modelli di ingegneria sociale) che hanno dato esiti catastrofici per la città e i suoi abitanti.
Ce n’è voluto di tempo per tornare a parlare di forma urbis e di disegno urbano, e adesso Augé ci propone un nuovo ’68 con l’immaginazione al potere!?


(1) Per smentire questa realtà si legga questo articolo del Corriere della Sera, I dieci edifici più brutti del mondo.

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17 novembre 2009

200 ANNI IN ....12 SECONDI

Ringrazio Angelo Gueli di avermi segnalato questo divertente e significativo video sulla trasformazione di una strada di New York:

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16 novembre 2009

DORATO INCUBO METROPOLITANO

PALM BEACH, FLORIDA, USA

Foto 1



Foto 2

Foto 3

Foto 4

Foto 5 (altro incubo in costruzione)

Immagini tratte da Google Earth

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12 novembre 2009

SARA' VERO?

Un link al giornale Libero con un'intervista a Luca Molinari, curatore del Padiglione Italia della prossima Biennale:


La domanda è: sarà vero? A giudicare dalla biografia del nuovo direttore della Biennale, Kazuyo Sejima, non c'è da esserne affatto certi!

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8 novembre 2009

MURI CADUTI E MURI...CADENTI

Pietro Pagliardini

Durante la presentazione del libro di Nikos Salìngaros, No alle archistar, LEF, 2009, tenutasi a Firenze, si è svolto un dibattito che, dato il tema, non avrebbe potuto che essere alquanto radicalizzato.
Ma non è questo l’argomento, quanto la seguente affermazione del Prof. Arch. Gianfranco Di Pietro, che presentava il libro, detta a completamento di un suo punto vista sulla pensilina di Isozaki a Firenze:
Una cosa è sicura: nei centri storici non si deve più costruire architettura contemporanea”.



Prima un brevissimo profilo del Prof. Di Pietro: in Toscana è stato, per lungo tempo, tanto autorevole quanto temuto membro della C.R.T.A, in pratica la commissione urbanistica della regione presso la quale tutti i PRG e i piani attuativi dovevano necessariamente transitare, oggi abolita ma allora dotata di ampi poteri decisionali, di interdizione e di indirizzo (e di cui si comincia a rimpiangere la fine). Redattore di piani regolatori, piani paesistici, piani territoriali di coordinamento, tra cui quello delle Province di Arezzo e Siena, i suoi piani sono impostati su schedature dettagliatissime e su norme fortemente vincolistiche. Ha svolto attività di progettazione sia nel campo della nuova edilizia sociale che nel recupero di fabbricati storici. Già docente di urbanistica alla facoltà di Architettura di Firenze, ha pubblicato libri insieme ad Edoardo Detti.

Premetto che Di Pietro, pur condividendo la critica del libro al fenomeno archistar, non ha nascosto le sue perplessità in ordine all’analisi di Salìngaros, da me invece condivisa, che buona parte del disastro architettonico e urbanistico delle nostre città affonda le sue origini nelle avanguardie del novecento, ed ha anche detto di provare ammirazione, per la loro impronta etica, per diversi interventi di quel tempo, citando in particolare il Weisenhof e le Siedlungen di Bruno Taut.




Cosa c’è dunque dietro l’idea stessa di escludere ogni forma di architettura contemporanea dai centri storici da parte di chi non rifiuta affatto l’architettura moderna?
A quali conseguenze porta un scelta di questo tipo?
La più semplice ed immediata risposta è l’ovvia constatazione che tra il contrasto e il contesto è preferibile quest’ultimo. Non ha detto infatti: non bisogna intervenire nei centri storici ma: "non bisogna farlo con progetti che sono per loro natura dissonanti e contrastanti".

Dunque un architetto che apprezza l’architettura moderna esclude che questa possa armonizzarsi con l’architettura della storia. Ma il prof. Di Pietro non è solo amante dell’architettura moderna, è anche un tipologo e un appassionato custode dei centri storici e del paesaggio.
La contraddizione è tanto evidente quanto, per assurdo, apparente.

E’ evidente perché certifica il riconoscimento di una indiscussa superiorità dell’architettura del passato su quella presente. Se, infatti, così non fosse e dato che la città storicamente si è sempre trasformata ed evoluta con l’aggiunta e la sovrapposizione di edifici di epoche successive fino alla configurazione attuale che noi tanto apprezziamo, allora non si capirebbe il motivo per cui non dovrebbe continuare a crescere con edifici contemporanei.

La contraddizione è tuttavia apparente per il fatto che modernità fuori e conservazione dentro sono due facce della stessa medaglia, la conseguenza di quella rottura violenta con la tradizione e con la storia voluta dalle avanguardie che segna una linea di confine netta e invalicabile tra un prima e un dopo e perciò anche tra un centro e una periferia. In giorni di celebrazione del 9 novembre 1989, è fin troppo facile la metafora della costruzione di un “muro” che divide un passato superbo, ritenuto morto, da un futuro fatto di sperimentazione di nuove forme architettoniche e urbane di cui l’avanguardia rivendica la paternità e la guida.

Io credo che questa “doppia morale”, mi piace chiamarla così, ha sì il merito di salvare il centro storico ma condanna la città nel suo complesso.
Di Pietro ha detto, e c’è del vero, che la ricerca effettuata nella prima metà del secolo affondava le sue ragioni nei velocissimi cambiamenti sociali ed economici delle società occidentali e che occorreva perciò trovare risposte a nuovi fenomeni quali la mobilità individuale e collettiva, l’inurbamento e la formazione di nuove classi sociali, ecc. Tuttavia è altrettanto vero che la oleatissima macchina dell’avanguardia non è stata capace di accorgersi in tempo del fatto che le soluzioni date erano profondamente sbagliate sia nelle forme architettoniche, completamente prive di ogni radice con il passato e quindi non accettabili proprio da coloro verso cui diceva di orientarsi la ricerca, cioè gli esseri umani (ed esistono prove in tal senso divertentissime sulla trasformazione spontanea da parte dei residenti di nuovi quartieri funzionalisti), sia nella struttura della città, la quale ha dovuto subire la rozza ed elementare razionalizzazione di essere frammentata in zone diverse che tuttora viene insegnata e perpetrata e di cui la città tutta, compreso il centro storico (che ha assunto appunto questa sacrale funzione), sta pagando il prezzo.

L’avanguardia non ha saputo né voluto fermarsi ed ha cristallizzato il suo potere e la sua ideologia occupando tutti gli spazi possibili e anche di più. Da avanguardia che voleva essere si è trasformata nella peggiore accademia, con i relativi accademici, fondendosi con il potere economico dei media fino alla sua forma più evoluta nell’ambito della globalizzazione con il fenomeno delle archistar, i divi creatori di forme nuove per definizione, indifferenti ai luoghi e alle genti, ogni nuovo progetto delle quali “deve” diventare evento mediatico globale per vendere gli stessi oggetti edilizi a Dubai come a Ostia, a New York come a Savona.

Se dunque l’identità dei luoghi e dei popoli va perduta con l’architettura moderna e tanto più contemporanea, è opportuno conservare e congelare ciò che resta del patrimonio storico urbano e architettonico come un reperto archeologico.

Questa, credo, sia la molla che crea questa “doppia morale”. Fare i conti con la storia significa anche salvare quel poco di buono che può esserci stato e gettare a mare tutto il resto senza rimpianti; non significa, invece, perfezionare ciò che è sbagliato in origine, non significa arrampicarsi sugli specchi giustificando gli errori come “deviazioni”, significa riconoscere un fallimento e basta, al pari dell’abbattimento del muro di Berlino che è un gesto liberatorio di condanna totale di un passato sbagliato e disumano. Ma non è facile che avvenga, o almeno non dal di dentro, visto che insieme al muro cadrebbero anche i suoi fedeli Vopos.

A coloro che in questi giorni condannano e dileggiano i “frattali”, consiglio di fare i conti con ciò che esiste e che hanno davanti agli occhi ogni giorno, e di cui potrebbero essere in parte responsabili, invece di trastullarsi nel gioco autoreferenziale del critico che si scaglia contro ciò che potrebbe minare la sua personale posizione di potere.

Oggi riprendere il cammino interrotto vuol dire, prima di tutto, cercare di ricostituire un corpo disciplinare minimo condiviso tra gli architetti e soprattutto nelle università, dopo aver fatto i conti veri con la storia e mettendo da parte la folle idea primaria di creatività e artisticità e puntare sul mestiere.
E’ necessario tornare a fare della buona edilizia e riporre l’Architettura nella valigia dei sogni di ognuno di noi, pronta ad essere tirata fuori nei rari casi della vita in cui è lecito pensare di fare ricorso ad essa, e non scomodarla in ogni circostanza, come inculcato nelle aule universitarie e come mostrato nelle riviste, dal caminetto della signora Gina alla riqualificazione delle piazze del sindaco di turno. Questo significherebbe, parafrasando Di Pietro, dare una forte impronta etica al nostro mestiere.

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6 novembre 2009

ANCHE SEATTLE HA IL SUO "PIANO CASA"

Visitando il blog Planetizen ho trovato un link a questa notizia: "Il cottage nel giardino di casa ha avuto l'OK a Seattle".

Di che si tratta: di un piccolo "piano casa" per cui ogni abitazione, limitatamente ad una zona della città, potrà costruire nel giardino di casa un'altra abitazione della superficie massima di circa 74 mq e a determinate condizioni che sono dettagliate nell'articolo e per chi avesse voglia di approfondire nell'ordinanza del City Council, approvata all'unanimità.

Lo scopo è quello più naturale, cioè offrire la possibilità di costruire una casetta a costi bassi per la famiglia o da mettere sul mercato degli affitti a costi contenuti. Mi sembrano considerazioni molto poco ideologiche, ragionevoli e valide anche per la realtà italiana. Tutto qui.

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2 novembre 2009

SALINGAROS INTERVISTATO DA GIORGIO SANTILLI

Nikos Salìngaros intervistato da Giorgio Santilli su Il Sole 24 ore:


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