Pietro Pagliardini
Salvatore d’Agostino ha pubblicato su Wilfing Architettura un articolo di Marc Augé tratto da Le Monde, dal titolo L’architettura globale. Rimando al link per la lettura del testo.
L’analisi che Augé svolge sul fenomeno archistar, facendo ricorso a concetti del tutto analoghi a quelli di Nikos Salìngaros nel libro No alle archistar, LEF, 2008, e non tanto diversi da quelli ripetuti più volte in questo blog, è oggettiva; le proposte per il futuro che auspica rischiano di essere, a mio avviso, peggiori del male.
La critica all’architetto demiurgo che progetta per il villaggio globale non sembra affatto finalizzata al rispetto delle culture locali e dei luoghi ché anzi, dice Augé:
“Le polemiche sull’importanza di adattarsi al contesto non hanno senso in un’epoca in cui ogni contesto locale vuole anche essere globale e in cui la firma dell’architetto diventa il simbolo di questo cambiamento di scala”.
Quindi l’autore sembra prendere atto di questa realtà giudicandola coerente con le aspettative delle comunità locali.(1)
Poi prosegue:
“La retorica dei suoi discorsi (dell’architetto) serve a conquistare mercati: per questo, spesso imita l’ideologia degli imprenditori. Per lo stesso motivo incarna il cammino della storia”.
Ma dove vada la storia, per fortuna, neanche Augé si azzarda a prevederlo. Da notare che Augé non distingue la figura dell’architetto da quella dell’archistar, a riprova che sono proprio loro, le archistar, a dare il passo agli architetti in genere. E non è un caso che l’antropologo abbia colto nella mitica espressione “cultura del progetto”, che poi altro non è che la "cultura del proprio progetto”, ciò che accomuna gran parte degli architetti.
Ma a questo punto c’è il passaggio decisivo, il cambio di marcia. La disapprovazione di Augé per gli architetti che sono “più affascinati dalla possibilità di lasciare la loro impronta sui luoghi più importanti del pianeta… che dall’idea di affrontare i problemi tecnici e sociali causati dall’urbanizzazione mondiale” non è però rivolta alle loro architetture nè all'essere le archistar simbolo di una globalizzazione che rende tutti uguali “i luoghi più affascinati del pianeta” (con progetti di seconda mano dice addirittura) e che quindi dopo il loro intervento tanto affascinanti non saranno più, bensì è rivolta alla mancanza di un impegno sociale che si dovrebbe esprimere nella formulazione di proposte “sugli alloggi in città, su come affrontare l’emergenza pensando anche sul lungo periodo”.
Assolutamente incomprensibile e contraddittorio il confronto in negativo con Le Corbusier, che Augé stesso riconosce avere fatto molti danni proprio per la sua mania di risolvere il problema dell’abitare facendo tabula rasa e rifiutando la città storica!
Ebbene, cosa chiede Augé agli architetti? Di preoccuparsi del problema dell’abitare e di “tornare ad essere visionari del mondo”, esattamente quello che lui riconosce come contributo negativo di Le Corbusier! Tornare a preoccuparsi d’altro che di architettura e di città ma di problemi globali, quelli che, ad esempio, Bauman esclude possano rientrare nel campo di azione e di controllo a parte degli architetti.
L’alternativa all’archistar egomaniaca sarebbero dunque l’archistar visionaria in chiave socio-politico-utopica, un deja vue fallimentare.
Sembra che all'autore del'articolo sfugga un aspetto assolutamente elementare: che gli architetti debbono fare il loro mestiere e lasciare i problemi globali alle dinamiche della società, alla cui risoluzione possono certamente contribuire positivamente ma solo con la loro disciplina che consiste nel dare forma all’ambiente di vita dell’uomo, ciò che da decenni non sembra essere al centro dell’attenzione di molti.
Seguendo invece il suo invito si continuerebbe nella sperimentazione di nuovi modelli abitativi e urbani (e di modelli di ingegneria sociale) che hanno dato esiti catastrofici per la città e i suoi abitanti.
Ce n’è voluto di tempo per tornare a parlare di forma urbis e di disegno urbano, e adesso Augé ci propone un nuovo ’68 con l’immaginazione al potere!?
(1) Per smentire questa realtà si legga questo articolo del Corriere della Sera, I dieci edifici più brutti del mondo.
13 commenti:
Premetto che ho una predilezione per Marc Augé e che trovo i suoi scritti sempre illuminanti. Forse hai ragione nel dire che questo articolo non lo è in modo particolare, c'è anche un po' di retorica in ciò che afferma, ed una certa vaghezza.
Ma va considerato che sono parole di un antropologo, di certi fatti non può che prendere atto e valutarli cercando i motivi che li rendono possibili, le archistar sono un fenomeno del nostro tempo (come il buco nell'ozono e forse altrettanto dannoso) legato al potere economico, alla globalizzazione, più che capire dove sta andando la storia, l'antropologia si chiede dove è arrivata.
La critica a LC non ha una relazione logica con l'accettazione della città storica, ed infatti Augé non ci pensa nemmeno, perché la storia ci sta dimostrando di andare in un'altra direzione.
Da antropologo, non può che sperare che gli architetti si muovano sullo stesso cammino e 'facciano il loro mestiere' prendendo atto delle nuove problematiche, inventandosi il modo di risolverle. E' un augurio, forse una raccomandazione, non la ricetta per la progettazione perfetta!
Vilma
A me sembra che più che retorica vi sia un po' di confusione e molta contraddizione. Non chiedo che l'antropologo prenda posizione contro o a favore delle archistar il cui fenomeno secondo me, chiarisce in un modo che considero essere oggettivo, nel senso che lo descrive per quello che palesemente è.
Ma se lo leggi e lo rileggi quell'articolo e gli togli tutta la parte su LC vedrai che, pur non trovandomi ugualmente d'accordo sulle conclusioni, acquista un sapore diverso, più logico, più coerente, meno confuso. Davvero non riesco a comprendere come possa tirare dentro LC in un discorso del genere. I casi sono due: o è servito ad allungare o, all'opposto, è mancato spazio per chiarire meglio il motivo per cui, nonostante gli errori, oggi dovremmo ripercorrere la sua stessa strada.
Mi rifiuto di credere che volesse dire: architetti, seguite l'esempio di LC ma non commettete i suoi errori, perché vorrebbe dire davvero che l'antropologo ha ceduto il passo all'ideologo oppure alla banalità.
Ciao
Pietro
Ho sempre pensato che Marc Augè sia uno dei pensatori più sopravvalutati di tutti i tempi.
Solo una epoca come la nostra, in cui qualsiasi cosa che non sia "pensiero debole" è stata di fatto bandita, e in cui il "blablaismo" ha un ruolo maggiore del pensiero rigoroso e sodo, uno come Marc Augè può avere un ruolo di primo piano nel dibattito.
Il suo tanto abusato concetto di "non luogo" non serve assolutamente a nulla. Però è un passe partout per le chiacchiere confuse e "mid cult", da qui il suo grande successo.
Biz scusami ma sono stato occupato in questi giorni.
Io confesso candidamente di non essere riuscito ad arrivare in fondo al libro di Augè. Non ce l'ho fatta proprio perchè vi ho trovato, insieme a qualche sprazzo di luce, molta fumisteria. Però questo mi succede con i sociologi e la sociologia in genere, che reputo molto laterale all'urbanistica e all'architettura ed anzi per certi versi dannosa perché ostacola (ed ha ostacolato) di focalizzare sull'obiettivo principale: la forma della città. Per cui non sono un giudice obiettivo su Augé.
Su Augé in genere, voglio dire, non su questo articolo di Le Monde.
Ciao
Pietro
La 'forma' della città è paradigma della 'forma' dei rapporti e delle gerarchie della società, per questo c'è una stretta relazione tra sociologia e urbanistica.
Sta agli architetti leggerne le interrelazioni e focalizzare le loro attenzioni sulla forma della città, i sociologi non hanno mai preteso di farlo al posto loro. Augé non suggerisce come progettare, semmai cerca di capire/spiegare perché si progetta così.
Vilma
Vilma, lo so bene che i sociologi non progettano ma il fatto è che l'architetto si è nutrito di sociologia fino ad oggi, a far data almeno dal '68 e i risultati sono quelli che sono.
Focalizziamo il nostro lavoro sull'architettura e poi prendiamo i contributi buoni da sociologi, politici, psicologi perfino, antropologi e quanti altri.
Io ci aggiungerei anche i contributi dei committenti, i quali fanno sociologia applicata.
Ciao
Pietro
Pietro,
una sociologia urbanistica spicciola.
Krienti:
http://www.youtube.com/watch?v=CAurYLSliTE
http://www.youtube.com/watch?v=jb3apm3-5dU
http://www.youtube.com/watch?v=w5fsriJd1Jw&feature=related
http://www.youtube.com/watch?v=blimCkX4do0&feature=related
Kruenti i intellettualoidi:
http://www.patrikschumacher.com/Texts/Parametricism%20-%20A%20New%20Global%20Style%20for%20Architecture%20and%20Urban%20Design.html
Saluti,
Salvatore D’Agostino
Salvatore, vedo che a te interessa molto la sociologia spicciola, essendo molto ben documentato.
Io ti ringrazio ma non ho nè voglia nè tempo di passare le mie giornate su YouTube.
Saluti
Pietro
"l'architetto si è nutrito di sociologia fino ad oggi"
io son stato allevato a pane, acqua e autonomia dell'architettura e, come me, moltissimi altri architetti.
"i contributi dei committenti"
qui in veneto lo facciamo già, tanto che si potrebbe parlare si commit-star: l'edificio come prosecuzione del proprio egocentrismo all'esterno.
ma che ci vuoi fare, qui mica comandano quei lerci dei comunisti. qui comandano governi come dio comanda.
iddio vi assista, amen
rob
benissimo robert, se sei stato allevato ad autonomia dell'architettura sei d'accordo con me.
Qual'è il problema?
Mi pare tu non sia contento della tua regione: vieni a trovarci.
Comunque grazie per gli ottimi auspici.
Ciao
Pietro
non sono io che son d'accordo con te, semmai sei te che sei d'accordo con me, e nemmeno tanto perchè io non penso che gran parte degli architetti si comportino da sociologi, te sì.
regione: non la cambio manco a pagarmi, dove cavolo lo tovo un paesaggio così vario? la toscana se lo sogna. c'abbiam pure la california venturiana in salsa veneta....
rob
Robert, non ho problemi a riconoscere il diritto di primogenitura ad altri.
Però un'esperienza nella nostra bella terra Toscana ti farebbe capire meglio il significato della parola "sovietico" e dunque faresti un tuffo nella storia dell'arte, dell'architettura e dell'archeologia politica.
Ciao
Pietro
mica l'ho inventata io l'autonomia, solo che degli architetti sociologi non ne conservo memoria.
io invece il veneto non te lo consiglio, se vuoi mantenere le tue attuali idee politiche (e architettonico-urbanistiche).
rob
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