Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


27 settembre 2009

APPENDICE AL POST PRECEDENTE

Stamani compro il Giornale e trovo un’intervista a Frank Gehry che viene, come si usa dire, come il cacio sui maccheroni: nel precedente post osservavo la consuetudine di molti architetti di risolvere i problemi in base alla banale discriminante progetto-buono, progetto cattivo, cioè architetto-bravo, architetto-incapace, ed ecco cosa risponde Gehry a Luigi Mascheroni, autore dell’intervista:d
Archistar! Chi cazzo l’ha inventata questa parola? Che cazzo vuol dire questa parola? L’avete inventata voi giornalisti e non significa nulla: io non sono un’archistar, sono un architetto e basta. Non esistono le archistar, esistono architetti che progettano e realizzano opere, a volte buone, altre meno buone, a volte funzionali, a volte catastrofiche dal punto di vista architettonico o da quello economico”. I suoi edifici (questo lo sintetizza il giornalista) sono tra quelli “buoni” (quindi lui è un bravo architetto).
Eccoci qua, dunque è il progetto che conta e perciò il progettista. Ogni progetto va bene purché sia un buon progetto. Continua, come dicevo, la fiera dell’ovvio, della tautologia, del non significante.
Però Gehry ha anche una sua filosofia e la spiega:
La contaminazione è inevitabile e inarrestabile. La fusione tra culture è arrivata a un punto tale che è impossibile opporvisi, bisogna seguire il flusso e cogliere gli stimoli”.
Relativismo assoluto e assolutamente strumentale all’affermazione precedente: va bene tutto, tutto va così perché c’è il flusso da seguire e non potrebbe andare diversamente, quello che conta è la qualità del progetto e del progettista.
Non risponde alla domanda sulle accuse mossegli da John Silber nel suo libro Architetture dell’assurdo ma dice che “l’architetto deve fare i conti con i luoghi e i tempi in cui vive e lavora”.
Mah!


N.B. Non posso fare il link all'articolo in questione perhè ancora non l'ho trovato in rete

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26 settembre 2009

OGGETTI ARCHITETTONICI

Pietro Pagliardini

In questi giorni è in corso nella mia città un dibattito giornalistico sulla costruzione ormai iniziata di un grattacielino di 30 metri circa, più correttamente definibile come edificio a torre. Non siamo affatto nel campo della scelta ideologica del “grattacielo simbolo di modernità”, nel senso che il progetto nasce dall’impossibilità, se non in altezza, di altro tipo di ampliamento dell’edificio, che ospita un albergo ormai da anni in attività.
Tuttavia l’impatto visivo ed emotivo in una città di circa 90.000 abitanti è forte e la sua altezza, unita alla forma, anch’essa obbligata dal lotto e da ragioni strutturali, riduce fortemente la veduta del centro storico da una delle direttrici stradali principali; e per fortuna che, per ora, resta ancora qualcosa della veduta di Arezzo alta così come rappresentata negli affreschi di Piero della Francesca.
Chiacchierando con alcuni colleghi sull’argomento, ho constatato che c’è la tendenza a liquidare il problema spostando il tema sulla “qualità del progetto”, quindi sulla qualità dell’architetto.
Schematizzo il ragionamento in questi termini: “Il problema non è l’altezza ma la qualità del progetto”.


Non che questo tipo di ragionamento mi sia nuovo, che anzi è un ritornello sentito infinite volte, ma sono sinceramente stupito quando viene fatto non da fanatici entusiasti della modernità (almeno a parole) o della ovvia ed ineffabile “cultura del progetto” (un progettista quale cultura deve avere se non quella del progetto?), ma da colleghi attenti che, parallelamente alla loro professione, coltivano e mantengono interesse e attenzione per gli aspetti più generali legati all’architettura.

Cosa sottintende l’affermazione: “Dipende dalla qualità del progetto (cioè del progettista)”?
Intanto sottintende una serie di ovvietà:
- se il progettista è una capra è altamente probabile che qualunque progetto risulterà simile all’autore;
- un progetto ben fatto è meglio di un progetto malfatto, oppure, dovendo scegliere tra due progetti è meglio scegliere quello migliore.

L’ironia è facile ma non gratuita perché è insita proprio in quel tipo di ragionamento che è assolutamente tautologico, privo di informazione e ha, al massimo, valore solo in negativo. E non è neanche facile replicare a discorsi del genere che infatti tendono a esaurire il dialogo, restando aperto quello, scarsamente avvincente, di chi potrebbe essere l’architetto giusto per fare un progetto migliore di……. uno peggiore oppure quello del tipo “io l’avrei fatto…”.

Sforzandomi di approfondire di più, e con l’avvertenza che si tratta di una mia interpretazione, quasi di tipo psicologico, direi che un ragionamento di questo tipo rivela la difficoltà di isolare, restando al tema grattacielo, la categoria generale, cioè il tipo-grattacielo, dal caso particolare, cioè il progetto-grattacielo, che invece è un problema del secondo ordine. Una cosa è discutere della qualità del progetto specifico di un determinato grattacielo, altro è astrarre la tipologia del grattacielo e valutarla in base a considerazioni generali e comuni a tutti gli edifici di quel tipo, relative alla possibilità o meno di integrarla nella città e nel territorio, stimarne i pregi e i difetti sia su coloro che vi risiedono che sui cittadini che lo subiscono, valutare gli effetti climatici indotti (è noto che questi edifici alterano e di molto le condizioni del vento al proprio intorno), le conseguenze urbanistiche sul traffico e sulle infrastrutture in genere, l’inserimento nel contesto da vari punti di vista, tra cui quello dell’ombra prodotta intorno, il loro (pessimo) bilancio energetico, il significato simbolico, le conseguenze sui rapporti sociali e umani all’interno di quell’ambiente separato e autonomo da tutto il resto e al proprio interno tra i vari livelli, ecc.

Probabilmente il punto nodale per cui vi è questa difficoltà di cogliere gli aspetti generali (il tipo) rispetto a quelli particolari (il progetto) dipende non tanto dalle qualità dei singoli, quanto da un atteggiamento culturale che tende, ormai da decenni, a considerare l’architettura come l’arte di progettare e produrre “oggetti” architettonici in cui il contesto non esiste o peggio esiste solo in funzione e spesso in opposizione all’oggetto stesso.

Così scrive Sergio Los in Regionalismo dell’architettura, Franco Muzzio, 1990:

…..Ma quando emerse quella polarità? Penso che essa risalga al momento in cui l'architettura assunse, per la prima volta all'inizio del Rinascimento, una determinata organizzazione teorica che istituiva l'oggetto edilizio come delimitazione spaziale del suo ambito disciplinare specifico.
Da quel momento l'edificio parve estratto dal suo contesto e il livello tipologico (che esso rappresentava) cessò di essere uno dei tanti ma assunse un ruolo dominante, diventando talvolta addirittura l'unico pertinente all'ambito teorico della composizione architettonica. Questa operazione costitutiva faceva scomparire il carattere multi¬scala dell'architettura (il suo essere intreccio di tipi a vari livelli tipologici, dalla stanza al sistema insediativo), essa finì per rendere naturale l'esistenza dell'oggetto edilizio come oggetto privilegiato del lavoro progettuale. Ci furono in seguito discussioni accanite sulle differenti modalità di costruzione del progetto e sulle mutevoli caratteristiche dell'oggetto edilizio, senza riconoscere come tutte condividessero e confermassero quella iniziale operazione costitutiva che estraeva l'edificio dal suo contesto urbano (e rurale) per separarlo da esso, contrapponendone la logica evolutiva.
L'edificio dunque è diventato un oggetto formalmente chiuso e monolitico; la stessa città quando è divenuta tema di progettazione ha assunto lo statuto di grande oggetto formalmente chiuso e monolitico, di megastruttura. Basta pensare ai disegni delle città ideali, che accompagnano lo sviluppo dell'architettura teoretica
".

Pur ritenendo io che istituire questo legame così diretto tra Rinascimento e nascita dell’oggetto edilizio possa portare a risultati fuorvianti, ma riconoscendo che nella nascita della figura dell’architetto come figura autonoma e specialistica c’è il germe di quanto accaduto in seguito fino ai nostri giorni, non c’è dubbio che Los riassuma bene la condizione di differenza e opposizione tra oggetto edilizio e contesto urbano così come oggi si è ormai configurato e quindi la difficoltà culturale a staccarsi da un modo di valutare la realtà per parti separate. Questo metodo è indotto, oltre che dalle scuole di architettura, da tutta la pubblicistica, specializzata e non, che tende ad esaltare il genio architettonico e la “ricerca” sull’oggetto, trascurando del tutto ciò che sta intorno. Troppo complicato, troppe variabili in gioco che costringerebbero ad una maggiore prudenza, che è ovviamente nemica del “gesto”.

Il gesto, lo schizzo, l’intuizione, l’attimo è appunto la cifra caratterizzante del discorso architettonico contemporaneo, almeno nella sua diffusione mediatica. La figura demiurgica dell’archistar ne è il simbolo eclatante e vistoso.
Ma non solo: l’urbanistica della città per parti separate funzionalmente e geograficamente è l’altra faccia della medaglia della progettazione di oggetti architettonici. Ogni parte deve essere vista chiusa in sé, a prescindere: il centro storico è da salvaguardare come testimonianza storica, le zone residenziali devono essere studiate in base al verde, ai parcheggi e alla distribuzione dei servizi, le aree commerciali in base al bacino di utenza, le zone produttive in base alla accessibilità dalle viabilità principali e alla vicinanza alle infrastrutture. Se anche ogni parte fosse perfettamente ordinata (e non accade mai) e se ogni progetto fosse “di qualità” (idem c.s.), la città che ne risulterebbe sarebbe disgregata e dissonante, fatta di parti diverse non comunicanti, come un’orchestra composta da ottimi musicisti, ognuno dei quali suonasse un pezzo diverso e senza la guida del direttore.
Mettere in crisi questo pensiero schematico e parcellare è il primo passo per ripensare la città nella sua unità.

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20 settembre 2009

RITORNO ALLA CITTA':PARTE 2°

Concludo la sintesi del convegno "RITORNO ALLA CITTA'", iniziata nel post precedente, con l’ultima relazione, quella di Sergio Los. Chiarisco che su questa sarò molto più lacunoso in quanto mi sono distratto nel tentativo, mal riuscito, di fotografare con il cellulare le slides che ha mostrato. Per cui potrò riportare sommariamente solo i contenuti principali. Me ne scuso con lui.

SERGIO LOS
Sergio Los, di cui ho apprezzato i contenuti ma anche il suo senso dell’ironia e la serenità con cui esprime il suo pensiero spesso controcorrente, ha iniziato la sua relazione più o meno con queste parole:
Noi non siamo una generazione capace di costruire città. Siamo capaci ad andare sulla Luna, sappiamo fare ottime automobili ma le città non le sappiamo proprio fare. Lo sviluppo dell’impiantistica, che è diventata sempre più invasiva negli edifici, ci ha fatto perdere la conoscenza della bioclimatica. Le città del passato restano molto migliori delle nostre”.


Ha quindi parlato della sua idea di base che parte dal principio dell’inevitabile esaurimento del petrolio e quindi dalla necessità di risparmiare energia. E poiché dai dati risulta che il settore che maggiormente consuma energia (non solo come consumi per la gestione ma anche per la produzione) è quello dell’architettura, è necessario progettare come gli antichi, sapendo sfruttare al meglio il ciclo solare, non tanto nella produzione di energie alternative quanto nell’esposizione e nel saper prevedere il giusto rapporto di insolazione.

Ma ecco la novità, almeno per me: Los non si riferisce mai ai singoli oggetti edilizi, alle singole abitazioni svincolate dal contesto perché sa che la città è un valore, non ha un approccio specialistico e monoculare al problema; lui e il suo gruppo hanno studiato i tessuti urbani da questo punto di vita e dal confronto hanno trovato che il tipo più efficiente energeticamente è l’isolato urbano orientato in direzione nord-sud ed est-ovest, come le città romane con il cardo e il decumano orientati approssimativamente in quelle direzioni. A supporto di questa affermazione porta una serie di grafici e tabelle.

La città più efficiente dal punto di vista energetico è dunque una città di isolati correttamente orientati, densa, fatta di strade diversificate tra quelle pedonali e quelle per le auto. Di questa città (che a parte la distinzione dei percorsi corrisponde in tutto alle nostre città storiche [questa è una mia osservazione]) Los apprezza anche la possibilità dello scambio sociale tra le persone, che lui esemplifica con una vignetta: la città verticale è come un lungo tavolo da pranzo in cui i commensali però si danno le spalle mentre la città orizzontale è come un tavolo in cui le persone siedono l’una di fronte all’altra, cioè la città orizzontale è “conviviale”.

Le città devono essere solari ma anche sociali. La bioclimatica deve andare d’accordo con l’effetto città e produrre in ambito urbano un clima “conviviale.
E’ necessario un forte ridimensionamento della climatizzazione artificiale a vantaggio appunto dello studio della corretta insolazione, senza per questo continuare a polverizzare la città, anzi valorizzandola. Porta l’esempio del centro storico di Firenze che, prima dell’intasamento completo degli isolati, era dal punto di vista bioclimatico del tutto corretta. Non per questo Los si azzarderebbe mai a ipotizzare la demolizione delle costruzioni che nel corso dei secoli hanno intasato i lotti.

Los presenta poi un suo studio per un tessuto urbano fatto di isolati ma con due griglie di percorsi, quella pedonale e quella carrabile, che sono sfalsate tra loro.
Sulle energie alternative e sulla moda attuale di mettere pannelli fotovoltaici e pale eoliche ovunque è apparso se non scettico certamente disincantato. Ha infatti smitizzato, ironizzandoci sopra, l’energia fotovoltaica con una vignetta in cui le celle alimentano una…sedia elettrica, commentata con queste parole: “il fotovoltaico non è né buono né cattivo in sè, dato che con esso si può, appunto, alimentare anche una sedia elettrica”. L’intenzione dissacratoria di colpire l’idolatria del fotovoltaico è abbastanza evidente.

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Al termine di questa sintesi qualche mia impressione.
La più importante: è stata rappresentata da tutti una città con proprietà e caratteristiche comuni che rimandano alla città storica europea. Ognuno dei relatori parte da angolazioni diverse e affronta il tema in base alle proprie sensibilità ma il punto di arrivo delle analisi di ognuno è abbastanza simile quando non lo stesso. Nessuno, salvo Tagliaventi, ha parlato di architettura (ma anche lui è stato sfumato su questo), quanto di disegno urbano, di urbanistica, consapevoli del fatto che questo è il nodo di fondo da sciogliere della città moderna e contemporanea.
Certamente che le relazioni sono state influenzate dal tema del convegno, il ritorno alla città, ma in altri tempi, non lontani, le proposte sarebbero state ben diverse!
Certamente che i relatori saranno stati scelti conoscendone la loro idea di città ma questo nulla toglie al fatto che ognuno ha portato argomenti di grande razionalità a giustificazione della proprie convinzioni.

Solo Purini è stato più sfumato, più in imbarazzo nello scegliere nettamente una direzione di marcia; come spiegare diversamente il fatto di voler tenere insieme due opposti quali il Palazzo di Giustizia di Leonardo Ricci e il piano di Lèon Krier? La parola può molto ma non tutto e, comunque la si pensi, le due concezioni sono nettamente antitetiche e inconciliabili, due modelli agli antipodi che l’espediente letterario del contrasto collina-pianura, pur elegante e immaginifico, non può riuscire a far stare insieme, nemmeno come dialettica tra gli opposti.
E’ vero però che l’enunciazione delle sue parole chiave per il ritorno alla città sono coerenti con una visione di una città.

Marco Romano e Gabriele Tagliaventi sono stati per me una conferma, Sergio Los una rivelazione; le sue analisi sono originali e anticonformiste.
Qualche perplessità mi è rimasta sui risultati progettuali che ho visto ma avrei certamente bisogno di conoscerli meglio.



N.B. Mi scuso per la pessima qualità delle foto della relazione di Sergio Los.

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19 settembre 2009

RITORNO ALLA CITTA': SINTESI DI UN CONVEGNO

A Firenze il 16 settembre sé tenuto un bel convegno dal titolo “RITORNO ALLA CITTA'”, organizzato da un gruppo di giovani e attivissimi architetti che si raccolgono in una associazione chiamata STUDIUMCITY e patrocinato dall’Ordine di Firenze.
La mattina hanno parlato Marco Romano, Franco Purini, Gabriele Tagliaventi e Sergio Los.
Proverò a riassumere a memoria e con i pochi appunti presi, cercando più possibile di attenermi ai contenuti da loro espressi:

MARCO ROMANO
Marco Romano, profondo conoscitore delle città di ogni continente, dopo aver esaltato la ricchezza della città europea che ha “inventato” la piazza, ha ribadito quanto scritto nel suo ultimo libro, cioè che la città è un’opera d’arte perché gli edifici, sia quelli pubblici o rappresentativi (i temi collettivi), sia quelli privati sono stati realizzati, a partire dal 1200, con intenzione estetica.

La città tuttavia crea disparità nei cittadini, in base all’appartenenza a classi o per censo; infatti nobili e benestanti abitano nel centro vicini alle piazze e ai temi collettivi e i meno abbienti abitano in prossimità delle porte, cioè in periferia. La periferia esisteva già 1000 anni fa e ciò che caratterizzava la periferia era non solo la distanza dal centro ma soprattutto la mancanza in essa di temi collettivi (i temi collettivi sono perciò una ricchezza).

Come fare a riequilibrare questo diverso uso della città per attenuare le differenze? Qui Romano ha portato diversi esempi di città che hanno affrontato e risolto questo argomento, tra cui San Giovanni Valdarno, città di fondazione, in provincia di Arezzo, su progetto di Arnolfo di Cambio: tutte le strade convergono nella piazza centrale e questo è un modo intenzionale, secondo Romano, per far percepire agli abitanti delle strade meno importanti e più periferiche che anch’essi fanno parte a pieno titolo della città e per farli sentire meno lontani dal centro rendendolo visibile dalla strada.

Anche a Milano e a Parigi, come a Barcellona e a Madrid ci sono viali che partono dal centro e si spingono fino in periferia. Ha poi portato ad esempio un suo piano per una parte periferica di Modena intorno alla stazione dell’Alta Velocità, risolta non imitando il centro storico ma integrandola al centro mediante una rete di strade e viali tematizzati.

FRANCO PURINI
Purini ha fatto un omaggio alla fiorentinità con un richiamo letterario a Palazzeschi che contrappone la varietà delle colline dall’anonimato della pianura leggendo questo brani da Le Sorelle Materassi:
"Dirò altresì, non per migliore chiarezza ma per scolpire meglio con un’immagine la positura, che in questa terra la collina tiene il posto della signora, e quasi sempre signora vera, principessa, la pianura vi tiene quello della serva, cameriera o ancella;…
Riporterò alcuni nomi di queste colline riuscendo essi, meglio dele parole, a dimostrarsi tale evidenza: Bellosguardo, e notate che molte ve ne sono dove lo sguardo è ancora più bello, Il Gelsomino, Giramonte, Il Poggio Imperiale, Torre del Gallo, San Gersolé, Settignano, Fiesole, Vincigliata e Castel di Poggio, Montebeni, Il Poggio delle Tortore, Montiloro, L’Apparita e L’Incontro, Monte Asinario, Il Giogo, Monte Morello… Sentite invece i nomi della pianura: Rifredi, Le Caldine, Le Panche, Peretola, Legnaia, Soffiano, Petriòlo, Brozzi, Campi, Quarto, Quinto, Sesto… anche la fantasia pedestre si spegne, sembrano gli evirati dell’immaginazione"
.

Naturalmente questa bella citazione non è stata fatta a caso ma per dire che la pianura è in qualche modo il luogo della sperimentazione e della ricerca per apportare a quel territorio naturalmente piatto e monotono quella fantasia e varietà che la collina invece possiede per dono naturale. Per questo, prosegue Purini, il Palazzo di Giustizia a Novoli di Leonardo Ricci, se pur non del tutto coerente nella sua esecuzione all’idea originaria dell’autore, deve essere valutato in questo contesto, come se fosse una collina in mezzo alla pianura. Poi prosegue dicendo che è certamente apprezzabile anche il vicino Piano di Novoli di Lèon Krier che arricchisce la pianura con le sue strade tortuose e articolate. Su questo argomento aggiungerò un mio commento nel prossimo post.

Passa poi ad indicare alcune parole chiave per il ritorno alla città:
-Densificazione
-Equivalenza teorica e pratica tra nuovo e vecchio (recupero sì ma è inevitabile costruire anche il nuovo)
-Semplificazione normativa
-Scala media: gli interventi edilizi non devono essere di dimensioni spropositate.

GABRIELE TAGLIAVENTI
Ha svolto una spumeggiante relazione che è arduo e riduttivo da raccontare con le sole parole perché faceva tutt’uno con una ricca quantità di immagini che illustravano i concetti espressi e arricchita da una notevole quantità di dati statistici significativi di cui ho potuto tenere traccia solo dei più significativi.
Prima ha decretato la morte dei grattacieli e dell’insana rincorsa verso l’alto, e questo grazie alla crisi.
Poi ha affrontato il tema della densità urbana, dichiarando che una città per essere efficiente deve essere densa e compatta e a questo proposito ha riportato i seguenti dati:
Bologna, la sua città, a fronte di un decremento notevole di popolazione è cresciuta in termini di superficie a dismisura raggiungendo attualmente i 9.000 ettari. Questo vasto territorio è cresciuto come un’ameba, completamente priva di una forma riconoscibile tanto da rendere difficilissimo un sistema di trasporti pubblici efficienti e addirittura impossibile una metropolitana che dovrebbe raggiungere quartieri sparsi ovunque e senza un disegno compatto. Il tutto a fronte di una popolazione attuale di circa 360.000 abitanti.
Nella stessa superficie territoriale di Bologna, 9.000 ettari, è invece compreso tutto il centro di Parigi che conta però circa 2.200.000 abitanti. E Parigi, dice Tagliaventi, è una città bellissima grazie a molte cose, tra cui il piano del barone Hausmann ma anche grazie alla sua densità che la rende viva ed efficiente con un piano terra occupato da negozi e botteghe, cosa ormai impossibile a Bologna perché è dispersa, non c’è la strada e soprattutto c’è una grande quantità di mall e ipermercati.

Questi, nati negli USA, sono però ormai da tempo in assoluta decadenza in quel paese, tanto che nel 2008 non ne è stato costruito nemmeno uno e quest’anno anzi ne sono stati demoliti 45 (se ho capito bene) per fare posto a cittadine vere e proprie con strade, negozi, drogherie al piano terra e abitazioni e uffici ai piani superiori.
Lo stesso fenomeno sta avvenendo in Francia dove si stanno demolendo centinaia di condomini nelle banlieue per sostituirli con piccole cittadine, sempre con le stesse caratteristiche di mescolanza di funzioni e con architettura regionale.
Porta l’esempio, tra gli altri, di Plessis Robinson (foto sopra e sotto) un comune della cintura parigina, dove sono stati distrutti i soliti fabbricati alti e anonimi per essere sostituiti con un vero centro urbano ben visibile nelle foto aeree. In effetti sembra un centro storico ma è invece quanto costruito al posto dei casermoni che ancora si vedono intorno.



Poiché il post rischia di diventare troppo lungo rimando ad un post successivo sia alcune mie considerazioni sia il resoconto dell’intervento di Sergio Los che, per me che non lo conoscevo se non di nome, è stata una vera e piacevolissima scoperta. Spero di poter mostrare alcune foto delle sue divertentissime e incisive diapositive, che però immagino saranno di pessima qualità perché scattate con il cellulare.

N.B. L'immagine di San Giovanni Valdarno è tratta dal sito Le belle città, di Marco Romano
Le immagini di Plessis Robinson sono tratte da Google earth e da Virtual Earth.


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13 settembre 2009

ANTICHISTI E MODERNISTI

Pietro Pagliardini

Il vivace scambio di commenti che c’è stato nel precedente post mi ha suggerito una riflessione non tanto sul progetto al centro del post quanto sul rapporto che corre tra due mondi e due modi diversi, e spesso opposti, di intendere l’architettura e l’urbanistica, che con una grande semplificazione per capirci chiamerò "antichista" e "modernista".
Vorrei però spersonalizzare e, a parte l'esempio di Fantozzi che riprendo, in quello che ho scritto non c'è niente che faccia riferimento diretto agli autori dei commenti stessi.
Antichista è, appunto, una grande semplificazione, al limite dell’errore, che non dice il vero perché chi auspica un ritorno alla tradizione non è un nostalgico e non pensa affatto di fermare il tempo, ma è convinto, come ne sono convito io, che nella tradizione, cioè nel patrimonio di conoscenze acquisite dall’uomo nel corso di secoli di civiltà urbana, c’è una grandissima quantità di elementi che sempre più appaiono utili e necessari alla modernità. Non è un caso che uno degli slogan di Lèon Krier sia: un’altra modernità è possibile.


Quindi gli “antichisti” si sentono a pieno titolo estremamente moderni, nel senso appunto che auspicano un miglioramento della vita urbana, e perciò della vita dei cittadini, mediante il recupero di tecniche costruttive, tipologie edilizie, tessuti edilizi già adottati con grande successo in passato, almeno fino alla rottura delle regole voluta e attuata dal movimento moderno.

Ma non è di questo che vorrei parlare, quanto della convivenza con pari dignità culturale di entrambe queste due visioni urbane e ambientali e, direi, del fatto se sia veramente possibile e a quali condizioni questa convivenza.

Per farlo è forse più facile capire quali siano i punti di conflitto insanabili, quelli cioè su cui è quasi inutile sperare in una serena discussione e quelli invece in cui è possibile e necessario, da parte di entrambe le posizioni, trovare dei punti di dialogo, tenendo però sempre presente la spaventosa asimmetria informativa che caratterizza le due visioni che rende gli antichisti necessariamente più sospettosi per la paura di essere assorbiti in discussioni fuorvianti.

Intanto l’antichista non è uno sprovveduto che vive fuori dal mondo e che non comprende la società; è un uomo del suo tempo e sa benissimo quanto questa sia frammentata, ne conosce le spinte centrifughe, sa che un mondo costituito da individui non è una società organica in cui pochi possono decidere tranquillamente per tutti. Sa anche che non esiste una concezione unitaria del mondo, solo che non si rassegna supinamente a questo fatto e, prescindendo dalle visioni politiche o religiose di ognuno, ritiene che la città sia comunque un bene collettivo da salvaguardare e, se deve scegliere tra un disegno frammentario e un disegno unitario propende per quest’ultimo, dato che non esiste motivo di assecondare, per una non giustificata coerenza intellettuale, un disegno che incrementa il caos.
Quanti progetti di grande scala urbana vengono realizzati! Quante EXPO, fiere internazionali, olimpiadi, eventi mediatici comportano la costruzione di parti di città importanti che lasciano un forte segno! E allora perché perpetrare la stessa astratta geometria che non permette alcuna vita sociale? Perché non applicare a questi grandi eventi le regole che ci hanno dato le nostre città storiche? E quando si fa un piano regolatore perché continuare con lo stesso non-disegno fallimentare che ha prodotto le periferie e i suburbi che nessuno può ragionevolmente difendere?

Esiste poi un altro aspetto che rende l’antichista particolarmente sensibile e lo fa apparire quasi ridicolo agli occhi di molti ed è legato al suo stare fuori dal pensiero collettivo. Se mi è consentito un paragone politico l’antichista oggi è considerato come lo era l’uomo di destra ai tempi della prima repubblica: un paria, un impresentabile, un intoccabile, un escluso. Questo fatto indiscutibile è legato al fatto che dice “verità” diverse, il suo non è un pensiero omologato, può essere sbagliato, ma certamente non si adegua al pensiero dominante. Progettare una casa con il tetto e la gronda, per esempio, si può fare e viene fatto quotidianamente (quasi) senza problemi, ma non si può neanche lontanamente sperare o immaginare che possa assurgere al grado di canone culturale, di regola da insegnare agli studenti. Chi lo dicesse sarebbe poco meno, o poco più, che un mentecatto, un ignorante, un incolto e certamente non degno di poter rappresentare in alcun modo qualcosa che abbia a che vedere con la cultura.
D’altronde che notizia può rappresentare per le patinate riviste di moda il progetto di un architetto che faccia le case con il tetto? Ecco, direi che l’architetto antichista non vuole stupire nessuno, non cerca la sorpresa in architettura.
Ecco perché, in questa situazione, portare ad esempio Fantozzi non significa una necessaria adesione culturale a quel modello, almeno per me, ma, inquadrato nel suo contesto storico, il dire che la Corazzata Potiomkin è una “boiata pazzesca” è un gesto oggettivamente liberatorio e dissacratorio in un periodo in cui uscivamo da una fase di conformismo da cineforum con film brasiliani, ungheresi e, naturalmente, sovietici e polacchi di una noia mortale cui era difficile opporsi. Insomma l'antichista dice cose scomode e, in opposizione ad un ambiente culturale bacchettone e conformista, le dice spesso con un linguaggio "popolare", alla Fantozzi appunto, per accentuare anche formalmente la sua diversità.

Altro elemento di differenza, questo davvero profondo, sta nell’atteggiamento rispetto all’utenza in genere, che io individuo nei cittadini, intesi come i detentori del diritto di decidere le sorti della città. Da una parte si ritiene che debbano essere gli architetti, in quanto avrebbero la conoscenza, a dover decidere, dall’altra l’architetto è solo uno strumento che aiuta, con le sue conoscenze, a prendere decisioni. Da una parte si ritiene che la gente debba essere guidata, dall’altra si crede che la gente sia capace di scegliere e decidere. Da una parte l’architettura è molto autoreferenziale, dall’altra c’è talora la pretesa di sapere quali sono i bisogni della gente. Ora si da il caso che nemmeno il medico, che pure applica una metodologia e una tecnica scientifica largamente superiore, standardizzata e condivisa che non quella degli architetti, possa imporre la sua visione al paziente, figuriamoci l’architetto.

Passiamo adesso agli elementi di contatto. Oggettivamente stento a trovarne di precisi, tanto sono distanti i due mondi, ma uno sarebbe necessario vi fosse sempre da entrambe le parti: la curiosità.

Per quanto ciascuna parte sia convinta della propria verità non è possibile che non vi sia nell’altra qualcosa da cui attingere e apprendere. Per questo, pur rimanendo il livello di scontro alto, e io non ci vedo niente di male perché è il conflitto che fa emerge chiare le posizioni e le idee, credo che sia sbagliato chiudersi del tutto, quasi sperando nella vittoria definitiva di una parte sull’altra. Poiché questo non è né possibile né auspicabile, è bene cercare di capire cosa c’è di buono nell’altro e cosa di sbagliato eventualmente c’è nel nostro, dato che lo scopo del conflitto è quello di produrre i migliori risultati possibili per la città.

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10 settembre 2009

LA CRISI FA BENE ALL’ARCHITETTURA

Leggo sul New York Times un articolo del suo famoso critico d’architettura Nicolai Ourossof, ipermodernista impenitente ma intelligente, sul nuovo progetto dello studio Herzog & de Meuron per il Parrish Art Museum a Southampton, NY.
Il titolo spiega molto: Quando la creatività diminuisce insieme ai contanti.
La storia è semplice: il progetto, partito con un budget di 80 milioni di dollari, è stato ridotto di due terzi, cioè circa 27 milioni causa crisi (purtroppo non posso pubblicare le foto perché protette da copyright ma queste sono consultabili sia nell’articolo linkato che qui.

Dalle poche immagini renderizzate disponibili del progetto si avverte il cambiamento: una di esse mostra un campo di grano con sullo sfondo un fienile o una stalla, né più né meno. Dalle altre immagini si comprende che l’edificio è composto da una serie di altri padiglioni stretti tra loro come un villaggio e gli interni sono caratterizzati da un tetto a capanna con travi di legno, il tutto rigorosamente a colori puri e privi di decorazioni: che diamine, non esageriamo.
Tuttavia il linguaggio è diverso dal solito, c’è uno sforzo di dialogo tra la campagna e l’edificio, non c’è accondiscendenza al gusto di apparire per forza creativi e di stupire. I materiali non si leggono ma nell’articolo c’è scritto che il tetto è di lamiera ondulata. In fondo per una stalla o un fienile è accettabile.
Ourossuf è combattuto tra due sentimenti: poiché non è sciocco rileva gli aspetti positivi di questo cambiamento ma teme che si vada verso un periodo di scarsa creatività, esattamente ciò che invece io auspico.

Scrive Ourossof:
"Eppure, il progetto è anche un importante passo indietro nell’ambizione architettonica. E suggerisce la possibilità di un nuovo sviluppo preoccupante nel nostro tempo di insicurezza finanziaria. Si tratta di un conservatorismo strisciante - e di avversione al rischio - che lascia poco spazio per l'invenzione creativa”.

Se per rischio intende quello degli investitori posso capire, se invece intende quello di sbagliare il progetto e quindi di ripiegare verso soluzioni più contestualizzate, evviva la paura del rischio, perché viceversa c'è certezza, non rischio, di sbagliare.

Certamente in lui prevale il rimpianto per i ricchi e grassi progetti dei tempi d’oro:
Ciò che è spaventoso è ciò che propone il progetto per il futuro. È questo tipo di riduzione di scala l'inizio di una tendenza? Herzog & de Meuron non è l'unico studio di architettura che è stato sottoposto a questo processo. Pochi giorni dopo aver visto il nuovo progetto Parrish, Rem Koolhaas mi ha detto che si trovava in una situazione simile per un condominio e per il design di una sala di proiezione a Manhattan”.

Bene, molto bene, chissà che anche da Koolhaas non si ricavi qualcosa di meglio del solito.
In fondo l’architettura si è sempre trovata a combattere con problemi economici e la penuria di denaro, se non è endemica, non può che acuire la sensibilità e costringere a pensare a ciò che è essenziale in un progetto. Herzog & de Meuron l’hanno fatto e sembra anche piuttosto bene.

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