Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


31 maggio 2011

STANDARD, CITTA' E MOBILITA'

Prendo spunto da un commento di Giulio Paolo Calcaprina ad un post sul blog amate l'architettura in cui, molto opportunamente, afferma: “ … a lungo termine dovremmo rifondare anche il modo di pensare l’urbanistica trovando un criterio qualitativo alternativo agli standard urbanistici, che personalmente ritengo siano una delle maggiori cause della “disumanità” delle nostre periferie”. Tutto giusto, a parte quel “a lungo termine”. Io credo che sia necessario e possibile farlo “a breve termine” e cominciare subito.
Sul fatto che la cultura urbanistica basata sulla quantità abbia prodotto danni sono assolutamente d'accordo. Va detto, però, che stabilire minimi di verde, parcheggi, ecc. in un periodo di pieno boom economico ed edilizio e, in moltissimi casi, in assenza totale di piani, in specie al sud, visto storicamente è del tutto comprensibile. L'elemento dannoso non sta nell’avere imposto un minimo quantitativo per certe dotazioni ritenute indispensabili, dato che nel momento in cui l’urbanistica diventa disciplina è anche normale che abbia una sua “tecnica” e quindi un suo corpus di leggi con alcuni requisiti minimi omogenei.
Piuttosto il danno risiede nella logica puramente quantitativa assorbita dalla cultura urbanistica e dalla politica, che ha portato alla progettazione di quartieri dotati di ampi standard ma con pessime condizioni di vita e del tutto privi delle qualità urbane minime necessarie.


La lotta per il diritto alla casa degli anni ’70 è stata giocata infatti in chiave quantitativa e politica, come strumento per creare consenso presso certe fasce sociali, dandole in cambio case di qualità scadente in periferie di qualità ancora peggiore. Inutile ripetere il numero e il tipo di leggi prodotte in quella fase storico-politica. E’ stato allora che si è consolidato il blocco tra intellighenzia urbanistica e mondo accademico da una parte e politica dall’altro, intorno al sistema di pensiero del movimento moderno. Quell’idea e quel blocco sono stati vincenti e solo adesso, forse, si comincia a sfaldare a vantaggio, mi auguro, di una visione urbana più consapevole della storia e della grande tradizione urbana europea ed italiana.
Resta però l’onda lunga di quel periodo e lo si può verificare quotidianamente nei piani regolatori ancora basati sulla zonizzazione, sulla rigida distribuzione delle funzioni, sulla burocratizzazione selvaggia in quel voler decidere tutto per tutti, sulla mancanza di conoscenza di ogni corretta geometria urbana che sia capace di innescare il processo che rende vitale un insediamento umano, sulla assenza di un disegno urbano che non sia di pura geometria astratta, sulla prevalenza dell’urbanistica ad oggetti seminati senza relazione alcuna con lo spazio pubblico se non con strada per le auto, piuttosto che sulla continuità delle sequenze urbane e della forte relazione tra edifici e spazio urbano pubblico.

E' la logica che sta alla base della legge urbanistica 1150, e soprattutto dei successivi decreti con la divisione in zone omogenee, che deve essere eliminata, con il ritorno alla strada come elemento generatore della città, con la commistione delle funzioni, quindi con zone disomogenee, con la zonizzazione verticale, cioè attività al piano terra, e sopra residenze o uffici indistintamente. Insomma è il ritorno alla città tradizionale, l'unica in grado di garantire una vita urbana soddisfacente, l'integrazione sociale, la molteplicità, la prossimità, la permeabilità e l’accessibilità della città, la libera scelta del cittadino.

Unica variante rispetto alla città tradizionale europea, su cui esistono punti di vista diversi e su cui vanno ricercate soluzioni che forse avrebbero potuto essere già state trovate e testate se non ci fosse stata la cesura dovuta alla caparbia tirannia culturale di 60 anni di movimento moderno, è quello della presenza dell’auto, che esiste, fa parte della nostra vita e non può essere rimossa confinandola ideologicamente in un ghetto, pena un nuovo, ulteriore fallimento. E credo non sia utile ventilare lo spettro della fine delle risorse energetiche naturali (ricordo il Club di Roma che decretò l’esaurimento del petrolio alla fine dello scorso millennio, e non pare che la profezia si sia avverata, dato che gli alti costi sono determinati da condizioni geopolitiche) quanto la necessità di ridurre fortemente i consumi per motivi di inquinamento, di alti costi dovuti all’espansione del mercato globale, di sostenibilità ambientale nel lungo periodo e non semplicisticamente a breve, piuttosto che alimentare toni apocalittici da day after.

Preferisco di gran lunga affidarmi al principio di precauzione che alle profezie di sventure prossime future, sempre regolarmente smentite e che alla fine del percorso, manifestano sempre l’imposizione forzosa di uno stile di vita e la nascita dell'“uomo nuovo”.
Io credo che la mobilità individuale, come la comunicazione individuale (internet, cellulari, ecc) sia una conquista di libertà cui nessuno è realmente disposto a rinunciare e che non può e non deve essere eliminata per decreto. Certo vanno trovate limitazioni, va incrementata ove possibile la mobilità pubblica o collettiva (e questo è possibile solo in città compatte, non in conurbazioni disperse), ma niente può sostituire "l’appeal" e la libertà di montare nel proprio mezzo e andare dove si vuole.

Quindi il disegno della città tradizionale dovrà tenere conto di questo fatto e non trascurarlo, perché se fosse anche possibile risolverlo nell'ambito di un singolo insediamento in qualsiasi modo, anche con il divieto assoluto, il problema si sposterebbe in ambito urbano, dato che la città è un organismo unitario le cui parti interagiscono tra loro, per cui quello che accade in una zona ha ripercussioni sull’altra. La città deve essere policentrica ma non potrà essere una semplice somma di villaggi perché avrà comunque una gerarchia di livello superiore, e una somma di quartieri senza traffico d'auto al proprio interno produce, sotto il profilo della mobilità, lo stesso effetto della zonizzazione, vale a dire la necessità di autostrade urbane che collegano i vari centri e su queste si concentrerà in maniera abnorme tutto il traffico della città, così che quello che è uscito dalla porta rientrerebbe dalla finestra.

Le Corbusier ha impostato il suo ideale di città sull’auto, basandosi su una “profezia” e una scommessa. La profezia della meccanizzazione individuale si è avverata forse oltre ogni previsione, ma quel modello di città ha dichiarato fallimento perché ha distrutto la città senza risolvere i problemi della mobilità. Se LC ha la sua quota di responsabilità, il mondo della cultura urbanistica è doppiamente colpevole perché ha avuto tutti gli elementi per capire l’errore e cambiare, e non l’ha fatto.
Oggi è necessario non commettere specularmente lo stesso errore di LC, non essere cioè radicali nella negazione del mezzo auto. Oggi abbiamo il dovere di cercare soluzioni realistiche e non utopiche che mettano al primo posto la qualità della vita urbana, progetti che favoriscano, attraverso il disegno del sistema insediativo, la massima pedonalità possibile e disincentivino naturalmente l’uso dell’auto per ogni minima esigenza personale, familiare o lavorativa. La prima risposta sta nella città densa e compatta, con limiti definiti tra questa e la campagna, affinché gli spostamenti siano quanto più possibile contenuti in un’area circoscritta in cui sia possibile la scelta tra mezzi diversi.
La mia personale convinzione, che so essere contro corrente, è che si possa convivere con l’auto a condizione che la rete delle connessioni stradali sia ricca, continua, con pochi divieti, perché la circolazione delle auto è come quella dei fluidi: se si chiude un canale il liquido esonda da un’altra parte.
Dunque la sfida che si pone a tutti coloro che come me auspicano un ritorno alla città tradizionale, è proprio quella della soluzione della mobilità. Risolta questa in maniera realistica e condivisa, non ci potranno essere più scuse.

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29 maggio 2011

GENIALIDAD KRIER EN GUATEMALA


L'architetto è l’unico responsabile di ciò che esce dal suo tavolo da disegno e porta la sua firma.
Nessun politico o imprenditore si farà carico della colpa culturale dell'architetto per un ambiente sbagliato.

Le nostre università sono responsabili per la preparazione della prossima generazione di architetti a questo dovere etico e morale insuperabile.

Robert Krier

Tratto da Facebook, Genialidad Krier en Guatemala

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27 maggio 2011

TOR BELLA MONACA DI L. KRIER...ESISTE GIA'

Progetto fortemente Krieriano con accenti razionalisti e un sapore da Roma imperiale.
Sicuramente un grande virtuosismo nella realtà virtuale:


P.S. Un collega architetto mi ha fatto acutamente notare che una passeggiata virtuale come questa è possibile solo in un progetto di città tradizionale. Come potrebbe essere infatti una passeggiata a CityLife intorno a tre birilli?
Il bello è, in effetti, che anche una passeggiata vera è possibile solo in una città tradizionale.
Dunque passeggiata virtuale ma non troppo.

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21 maggio 2011

DOPO L'ORGIA BUROCRATICA, TORNARE AL PROGETTO

Ormai è fatta. Il Regolamento Urbanistico della mia città (cioè il PRG) è approvato e le elezioni comunali si sono svolte. Quindi ogni cosa che dirò non avrà alcuna influenza nell’immediato(spero anche verso di me) e non si potrà fare troppa dietrologia su secondi o terzi fini.
A onor del vero ho già parlato abbastanza in itinere, ma l’ho fatto solo in ambito cittadino, mentre da questo blog mi sono limitato solo a qualche rarissima e leggera (o pesante?) ironia, tipo questa sulle strade o questa, a giochi fatti, sulle cucce dei cani.
Sono solo due dei numerosi esempi dello stupidario che diventa inevitabile quando le Norme Tecniche di Attuazione si compongono di 155 articoli, di 346.735 caratteri (senza spazi) e di 58.816 parole (sia chiaro, non le ho contate io, ci ha pensato Word da solo). Immaginate di contare - non di leggere- fino a 58.816, immaginate il tempo che ci vuole e pensate cosa significhi comprendere e assimilare un testo con lo stesso numero di parole. E dire che la legge regionale prevede, con grande enfasi ed evidenza, la figura del Garante dell’Informazione: ma è davvero possibile informare su un testo siffatto?

Piano 1935 - Tutto disegnato e poi realizzato quasi esattamente così

Sembrano solo numeri, ma in realtà sono la dimostrazione della rinuncia ad ogni credibile piano - tanto meno al disegno della città- della impossibilità di una sua decente e corretta gestione, della mancanza assoluta di trasparenza e di semplificazione, in fondo di un deficit di pensiero democratico, perché i cittadini, cioè coloro a cui il piano è destinato, non avranno alcuna possibilità di comprendere alcunché; dovranno affidarsi totalmente a noi professionisti, e noi professionisti dovremo affidarci agli uffici per decrittare il testo. Saremo perciò tutti molto più sudditi e molto meno cittadini. Saremo tutti un po’ meno liberi.

Sembrano solo numeri, ma invece sono la rappresentazione di una decadenza culturale e politica perché sono lo specchio di una visione della società che, non solo a livello locale, ma anche regionale, nazionale ed europeo, affida la propria vita ad una quantità bulimica quanto inutile di regole e norme, avendo perso ogni rapporto con il mondo reale, in campo urbanistico specificamente, con la propria città e il proprio territorio.

Ma queste sono solo le Norme, la parte scritta del piano! Poi ci sono gli elaborati grafici, le tavole. Anche qui la quantità è l’elemento caratterizzante, la qualità essendo del tutto assente. Ma parlare di qualità è davvero fare una fuga in avanti, perché questa presuppone un disegno capace di rappresentare un’idea, magari sbagliata oppure non condivisa, ma che pure dovrebbe esistere: ebbene, se c’è non appare, perché paradossalmente a fronte di così tante tavole grafiche non esistono… disegni, ma solo un collage di campiture colorate, con sovrapposte sigle alfanumeriche che rimandano alle norme. Non esiste un progetto in scala 2000 di qualcosa, le strade nuove si troncano improvvisamente fuori del ridotto limite delle piccole aree oggetto di trasformazione; la stragrande maggioranza del territorio comunale, anche quello con grosse previsioni edificatorie, è rappresentato con un indistinto retino a righe diagonali e al loro interno niente, solo la cartografia di base: non una strada, non il minimo accenno a qualche forma possibile di insediamento, solo decine di tavole prive di qualsiasi informazione che non siano sigle alfanumeriche.
Un piano che è una legenda di un testo astruso. Possono numeri e lettere rappresentare da sole un’idea di città? Può un data base farsi piano urbanistico?

Nei tre anni in cui mi sono occupato di questo blog, ho visitato decine di altri blog e siti che si occupano di architettura ed urbanistica, ho discusso e polemizzato con molti di loro, e viceversa, cercando di affermare l’idea di un tipo di disegno urbano capace di riscattare le nostre città e le nostre periferie disperse e frantumate dalla zonizzazione selvaggia, dalla fine della strada come elemento generatore e vitale della città, dal ritmo sincopato della giustapposizione di una serie di oggetti piuttosto che dalla sequenza continua dei fronti edilizi lungo le strade che sfociano in piazze in cui si concentra la vita sociale e di relazione, con l’idea di un ritorno al disegno dello spazio, almeno in misura compatibile con le numerose, superflue e illiberali procedure imposte dalla legge; mi sono scontrato con idee dal tutto diverse che io considero sbagliate, ma mai, dico mai, ho incontrato un nulla come quello messo in campo nel piano di Arezzo. E se fossi solo io a dirlo, poco varrebbe, ma l’hanno scritto e gridato per anni tutte le categorie professionali ed economiche, attraverso i proprio rappresentanti istituzionali e associativi, fino al punto di una Camera di Commercio, ente pubblico, che cerca di riempire il vuoto di progetto proponendo essa uno studio alternativo per la città.
A nulla è valso, se non ad ottenere l’accoglimento di una parte delle 2600 osservazioni presentate, che al massimo avranno potuto attenuare o, speriamo, eliminare le storture più macroscopiche, gli errori più grossolani non dico del progetto, che è l’oggetto misterioso, ma della stessa lettura dello stato attuale, del quadro conoscitivo come si dice con molta retorica, che ha però ricadute fondamentali nelle trasformazioni future.

Eppure il piano era partito bene 11 anni fa con la chiamata come consulente scientifico, probabilmente casuale e figlia di una serie di coincidenze, di Peter Calthorpe, architetto-urbanista americano esponente di spicco del New Urbanism,. La lettura che aveva dato della struttura urbana di Arezzo era giusta, aveva individuato con chiarezza i problemi della città legati alla sua forma davvero unica e al suo punto critico cioè il suo assetto territoriale caratterizzato da numerose frazioni prive di identità e dei requisiti minimi di autosufficienza e di forma per poter essere qualcosa di più che semplici dormitori. Aveva agito, secondo il suo metodo, dando una grande importanza alle infrastrutture per la mobilità, volendo garantire quella prossimità e pedonalità del massimo tempo di dieci minuti da percorre a piedi per godere delle opportunità offerte dalla città.

Aveva impostato lo sviluppo lungo la rete ferroviaria trattandola come una metropolitana di superficie e lungo quell’asse aveva previsto il potenziamento degli abitati esistenti ed anche nuovi insediamenti. Questa scelta non era del tutto condivisibile se applicata in maniera massiva, perché ancora trascurava il recupero delle importanti frazioni, in specie quelle della direttrice sud, ma forse, se ci fosse stata l’opportunità, con la discussione e il confronto che lui accettava senza problemi, avrebbe potuto esserci la possibilità di apportare correttivi e integrazioni. Ma non è stato possibile perché il suo lavoro è stato bruscamente interrotto, forse per ragioni non proprio culturali legate all’amministrazione del tempo, non a lui.

Le sue idee, e direi meglio lo spirito che le guidava, sono state messe da parte ed è rimasta solo l’applicazione pedissequa della parte peggiore della cultura espressa dalla legge regionale: l’abbandono del disegno, il territorio parcellizzato in aree sottoposte a vincoli e tutele - differenza di cui mi sfugge tutt’ora il significato reale - il tutto inserito in un enorme database geografico, tra l’altro intriso di una quantità di errori di lettura imperdonabili, il cui risultato è illeggibile ai più ma che soprattutto non delinea nessuna idea plausibile di città.
Impossibile dialogare, scambiare opinioni, inutile avvertire del precipizio verso cui si andava, solo ascoltare modeste lezioncine, in ossequio alla garanzia dell’informazione.
Mi rendo conto di aver delineato uno scenario quasi apocalittico, ma la realtà è forse peggiore, e per rendersene conto basta andare a consultare il SIT del comune, l’unica cosa fatta veramente bene e di qualità infinitamente superiore a quella di altri comuni.

A questo punto, dopo 11 anni di travaglio del nuovo piano, è il momento di ricavarne qualche riflessione meno amara e più positiva per il futuro, che non sia solo di interesse locale, ma più generale, e di guardare avanti.
Intanto per dire: mai più così. E’ poco, mi rendo conto, anzi niente, ma davvero il pericolo da scongiurare è che non accada più un fatto come questo, perché il rischio dell’ulteriore avanzamento di questa incultura urbana è concreto, supportato da burocrazie regionali che oramai sono più potenti e inattaccabili degli stessi amministratori.

In campagna elettorale è venuta l’assessore regionale all’urbanistica Prof.ssa Anna Marson, urbanista espressa dall’Italia dei Valori, persona di notevoli qualità, a illustrare alcune idee sulla necessaria modifica della legge regionale. I principi che ha affermato, e che sono stati espressi in un documento ufficiale della Regione, dimostrano la sua volontà di cambiare in meglio e non sono apparsi solo promesse elettorali. Ha parlato molto chiaro, ha detto di voler sfoltire la sovrabbondante retorica verbale - fatto assolutamente non secondario né formale – ha auspicato un necessario, anche se non sufficiente, ritorno al disegno urbano, una ridefinizione del significato originario del concetto di nuovo consumo di suolo, utilizzato oggi come un mantra al solo scopo di non far niente, soprattutto nella riqualificazione dell’abitato esistente. Ha detto molto altro e il suo intervento è visibile qui.

La speranza è che, senza aspettare la nuova legge regionale, che richiederà tempi lunghi e ostacoli a non finire, e il cui risultato non è affatto scontato, ad Arezzo si possa tornare alla realtà, ad affrontare i problemi urbanistici della città avendo come faro un disegno compiuto di essa, mettendo in secondo piano il tema fuorviante, eredità culturale del movimento moderno, della ossessiva divisione delle funzioni e risolvere, matita in mano guidata dal cervello, le periferie e le frazioni in modo corretto, creando luoghi urbani, ancorché piccoli, che diventino centro di vita sociale con pluralità di funzioni, lasciando alla libera iniziativa dei cittadini la scelta delle attività da insediare, sapendo che loro conoscono meglio di chiunque cosa realmente serva dato che ci investono i propri denari, avendo il pubblico il dovere di garantire certi servizi essenziali.
Insomma, dare dignità e fiducia ai cittadini e abbandonare l’idea dirigistica e autoritaria che il pubblico possa e debba decidere tutto, sapendo bene che poi la forza del mercato tutto travolge e il risultato è addirittura opposto a quello sperato.
Liberare le energie degli individui e controllare gli appetiti della speculazione, guidandoli verso un disegno di città più umana, l’unico vero potere che il pubblico detiene e che non esercita quasi mai in maniera corretta.

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19 maggio 2011

DA PIERO A RAINALDI: DECADENZA DELL'ARTE


La rappresentazione dello stesso gesto di accoglienza, protezione e misericordia dal passato al presente, dalla limpida composizione architettonica delle figure all'informe cavità, dal pieno al vuoto, dalla sapienza artistica del simbolo alla banale espressione individuale del niente, dalla eleganza alla volgarità, dal sacro al profano.

Link:
Associated Press
Repubblica- Roma
Affari Italiani
Fides et Forma
Fides et Forma

Pietro Pagliardini

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UN PIANO IMPOSTATO SU ATTENTO STUDIO TIPOLOGICO E MORFOLOGICO

Estratto NTA del Regolamento Urbanistico di Arezzo:

…Sono da escludere dal computo della Sul (Superficie Utile Lorda):
…I manufatti di servizio alle unità immobiliari residenziali, quali legnaie, ricoveri per animali di affezione, ricovero da giardino, gazebo, pergolati privi di copertura impermeabile, voliere ed altri locali di servizio simili. Tali locali devono avere le seguenti caratteristiche:

  • avere complessivamente una Superficie Utile Lorda massima di mq. 15 per gli edifici monofamiliari, ovvero mq 20 per gli altri casi; per gli edifici posti sul territorio rurale la SUL è elevata a mq 30;
  • essere realizzati in legno o altro materiale leggero non di recupero;
  • essere privi di fondazione, escluso il solo ancoraggio;
  • ad un solo livello con altezza massima in gronda non superiore a 2,40 ml…..
Un dubbio: sarà muratoriano o caniggiano?

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17 maggio 2011

INTERVISTE A EISENMAN E GREGOTTI

Quasi contemporaneamente sono apparse due interviste a due diversi architetti: una sul Washington Post a Peter Eisenmann, l’altra a Vittorio Gregotti su Le Storie, RAI3, con un elemento comune: totale distacco tra vita pubblica e vita privata.
Peter Eisenman dichiara con onestà intellettuale, come direbbe qualcuno, con sfrontatezza, come direbbero altri, di aver progettato per i propri committenti case in un certo modo mentre la sua personale scelta è stata quella di dividere la sua esistenza tra due abitazioni: la prima è “un piccolo appartamento muto a New York con una cucina dove non c’è posto tra due persone”, la seconda una “meravigliosa vecchia casa del New England, in pietra, mattoni e piastrelle", che era un mulino del 18° secolo ed è costruita sopra una cascata. "Nessun architetto ha mai lavorato su di essa. Non si potrebbe progettarne una come questa. Accade nel tempo, come hanno fatto i successivi proprietari che l’hanno modificata per soddisfare i propri bisogni”.

Alla domanda del perché di questa scelta Eisenman risponde: “Sono immerso nell’architettura tutto il giorno, lavorando nel mio studio o insegnando”. E dopo “voglio tornare nella mia casa accogliente”.
Molto sincera ed anti-retorica, molto poco epica ed anche dissacratoria questa visione del mestiere di architetto.
Di particolare interesse la notazione che una casa diventa accogliente non a causa di un progetto ma grazie ad un processo nel tempo di cui l’architetto non fa parte ma in forza di successivi adattamenti e modificazioni da parte dei proprietari. Non è una scoperta, certamente, perché è sempre stato storicamente così, almeno fino a quando il forte inurbamento ha costretto a regolare in maniera minuziosa e perfino invasiva le modificazioni e la crescita della città ma, detto da Eisenman, che ha progettato case immodificabili e certamente non intime e accoglienti, quali la serie 1-10 - e già il nome utilizzato per identificarle, anonimo e non riferito né ai luoghi né ai committenti la dice lunga - è addirittura stupefacente. E l’intervista prosegue con la sua storia personale che l’avrebbe portato a “non volere entrare nella tua vita”, cioè a non voler più progettare case private ma solo “icone pubbliche che la gente vada a vedere per poter dire: E’ grande”.

Ammetto di apprezzare lo spirito di quel “non voler entrare” nella vite degli altri, quasi una citazione del famoso film, perché progettare la casa di un altro è, in qualche misura, anche un atto di violenza, un dover spiare per decidere come quella persona dovrà vivere, una intrusione nel lato più intimo della sua vita privata e familiare.
Se è inevitabile ed anche gratificante progettare residenze, tuttavia avere almeno consapevolezza dell’importanza e della responsabilità di questo atto, può contribuire a cambiare il modo di porsi nei confronti dell’architettura e della professione.

Tuttavia rimane in Eisenman una contraddizione straordinaria e lampante, che mi è perfino difficile immaginare non sia arrivato a cogliere, quella cioè di continuare a considerare l’architettura pubblica come spettacolo per i cittadini, quasi non fosse parte integrante della città al pari dell’edilizia privata, e non fosse portatrice ancor più che le residenze di valori simbolici e rappresentativi della collettività e della comunità cittadina. Se il problema nei confronti della residenza privata si pone, in prima istanza, nei confronti del singolo, quello dell’architettura pubblica si pone nei confronti di tutti e quindi l’approccio al progetto dovrà essere ancora più attento a non colpire la sensibilità della collettività e a fare in modo che il progetto sia il più condiviso possibile. Quella frase, che può prestarsi, interpretandola in modo molto benevolo, anche ad una interpretazione diversa e positiva, vale a dire l’attenzione dovuta ai progetti di quelli che Marco Romano chiama i temi collettivi, se collegata ai progetti e alle idee di Eisenman non può che essere letta come la consueta esaltazione dell’architetto che vuole stupire e meravigliare per far esclamare “E’ grande”, riferito evidentemente all’autore più che all’opera.

Come è possibile che un progettista dichiari di preferire vivere in case tradizionali e quasi da edilizia spontanea, arrivando a rigettare l’idea stessa dell’intervento dell’architetto per queste, ma contemporaneamente si dedichi alla realizzazione di opere pubbliche con un genere di progetti opposto, tutti improntati a forme estranee non solo alla tradizione ma a qualsiasi idea di riconoscibilità di un edificio collettivo, se non per le maggiori dimensioni?

Per Gregotti il caso è diverso. Teniamo presente la nota intervista delle Jene in cui alla domanda se vorrebbe vivere allo Zen risponde, quasi cadendo dalle nuvole, che lui non è un proletario e quindi la domanda è priva di senso.
Gregotti è intervistato da Corrado Augias sul tema del suo ultimo libro, Architettura e Postmetropoli, Einaudi, che ho cominciato a leggere, con grande fatica, in questi giorni. L’intervista è invece godibile. Gregotti fa osservazioni condivisibili, quali la mancanza di progetto nello sviluppo delle postmetropoli ma anche delle città minori, scopre con un po’ di ritardo, nel caso della conurbazione continua del nord-est, che le persone dimostrano il desiderio di una vita urbana, di vivere vicini l’uno all’altro ma allo stesso tempo di desiderare individualità e privacy, scopre perfino che in molte casi la città si sviluppa per zone a diversa composizione sociale. Tutto il discorso di Gregotti è impostato sulla necessità di una vita urbana e conclude con un appello all’umiltà da parte degli architetti, ironizzando sul loro desiderio di creatività. Come non essere d’accordo! Salvo dettagli, personalmente potrei sottoscrivere tutto.

Però, e qui c’è l’analogia e la differenza con Eisenman, Gregotti non ne trae alcuna conclusione di tipo personale, come, almeno per il tema residenza, fa Eisenman.
Non è il giudizio morale che interessa, almeno a me, ma le differenze tra due modi di intendere il proprio lavoro, la propria disciplina e la differenza abissale con cui i due “Maestri” pongono se stessi rispetto a questa:
- Eisenman è consapevole di essere quello che è, cioè un’archistar famosa e venerata, una vedette dello spettacolo mediatico dell’architettura, dello show-business. Lo dice, lo dichiara, non ha retro pensieri e non nasconde questo suo essere icona de-costruttivista che ha fatto scuola. Dice, basta saper leggere, che la sua architettura non è fatta per gli uomini, non è fatta per abitare perché lui cerca altro. Dunque chi lo segue dispone di tutte le informazioni per poter scegliere consapevolmente e per capire che la sua architettura è altro dalla costruzione della casa e della città per l’uomo.

- Gregotti, al contrario, dice cose ragionevoli, si mostra preoccupato per lo stato dell’architettura e per le condizioni in cui versano le città, grida contro l’estrema personalizzazione dell’architettura stessa e nel libro, come nell’intervista, denuncia la perdita della forma della città e la fine dell’idea stessa del progetto e del piano, denuncia la divisione della città per classi sociali ma non ne trae alcuna conseguenza. Non indica una strada possibile e credibile, non dichiara i suoi errori passati, pontifica quasi che lui non avesse lasciato un segno non positivo negli anni passati con le sue opere e con la sua azione culturale da direttore di Casabella e da punto di riferimento di una fetta importante della cultura architettonica per circa un ventennio. Nella sua risposta in cui mostra “stupore” alla domanda se lui avrebbe voluto abitare allo Zen c’è tutta la diversità con la cultura di Eisenman in cui è invece possibile trovare sì cinismo ma è impossibile negare consapevolezza del proprio essere e onestà intellettuale.

Gregotti è all’opposto l’esempio di una cultura italiana elitaria, algida e cristallizzata nelle proprie convinzioni, chiusa al mondo esterno tanto da non avere remora alcuna a dichiarare che lui “non è un proletario” per cui il problema non si pone proprio.
Da Eisenman un giovane studente o architetto dotato di cervello e capacità critica può difendersi rifiutandone i principi di fondo oppure sposarne le convinzioni; da Gregotti è più difficile, perché il potere elitario e carismatico che attribuisce all’architetto induce a credere che progetti come quello dello Zen siani giusti per il solo fatto che lo ha stabilito l’architetto. Quel tipo di progetto sarebbe giusto per quel tipo di classe sociale e non per tutti gli uomini. Evidentemente attribuisce una diversità antropologica al proletario e al borghese, in base alla quale le due classi non hanno diritto alla stessa qualità della vita, non hanno le stesse necessità, gli stessi desideri, le stesse aspettative, le stesse umane debolezze.
Gregotti cristallizza e condanna ognuno ad appartenere alla sua classe sociale d'origine. Parla e scrive di marxismo, ma di un marxismo di tipo gregottiano e, aggiungerei, italiano. Roba da buttare alle ortiche.

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10 maggio 2011

ENRICO LAVAGNINO:PROGETTO SULLA COLLINA CORTONESE

Quando recentemente ho visto in commissione paesaggio a Cortona il progetto di Enrico Lavagnino che segue, la prima cosa che ho pensato è stata quella di poterla pubblicare. Alla prima occasione, cioè una cena che periodicamente facciamo insieme ad altri colleghi al solo scopo di stare insieme a discutere di politica, naturalmente litigando su tutto, gli ho chiesto se mi avesse potuto fornire alcune copie degli splendidi disegni che avevo visto, accompagnati da una breve relazione. Oggi mi sono arrivati per posta, devo dire con mia grande sorpresa, conoscendo la sua riservatezza e il suo carattere schivo.
Enrico Lavagnino, architetto, il cui cognome tradisce chiaramente la sua origine ligure, è ormai da anni cittadino cortonese. Lì risiede e ha il suo studio. La sua presenza a Cortona, il suo prestigio e il suo esempio hanno contribuito in maniera determinante ad innalzare il livello qualitativo dei progetti e dei disegni tra tutti i progettisti cortonesi. Esaminare pratiche edilizie in commissione a Cortona, anche le più modeste, è un'esperienza singolare: non c'è tecnico, anche tra i geometri, che non ponga attenzione e cura particolare al disegno e al progetto.
Cresciuto alla scuola di Caniggia, autore di numerose pregevoli pubblicazioni, un'esperienza all'Università, Lavagnino è autore di numerosi e importanti progetti di restauro e di nuove costruzioni, pubbliche e private, a Cortona soprattutto ma anche in provincia.
Non faccio torto a nessuno dei miei colleghi e amici dicendo che considero Enrico Lavagnino il più colto e più bravo architetto della provincia di Arezzo, sapendo però, limitandone il campo, di fare un gran torto a lui. Infatti, trovare un architetto dotato di grande e profonda cultura unita alla notevole capacità professionale e progettuale, è infatti una coincidenza di fattori davvero rara.
Lo ringrazio sinceramente per questa raccolta di foto e per la sintesi della sua ben più corposa relazione e mi scuso con lui per la qualità delle immagini, molto inferiore agli originali, per ovvi motivi di pesantezza.

(Consiglio di espandere l'immagine cliccando la croce a destra)
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Progetto per la riconversione edilizia di volumi degradati posti sulla collina cortonese
Architetto Enrico Lavagnino
Si tratta della riconversione edilizia di alcune costruzioni recenti a carattere produttivo e di pessima qualità architettonica, impropriamente collocate all’interno di un ambiente rurale conservato, posto nelle vicinanze della città storica di Cortona.

Il progetto è stato fondato sulla “lettura” interpretativa dello stato attuale, sia nel senso specifico, la valutazione delle potenzialità effettive del luogo, che nel senso generale, l’individuazione critica delle regole tipologiche reperibili nel territorio circostante, dalle quali abbiamo tratto i principali riferimenti per determinare le trasformazioni compatibili.

La collina cortonese è caratterizzata da una serie di terrazzamenti decrescenti adagiati secondo le curve di livello oggi coltivati a olivo. Il sistema è scandito di moduli produttivi regolari, -i poderi-, delimitati dai percorsi che attraversano il territorio in senso orizzontale -le mezzacoste - collegati, nella direzione opposta da percorsi territoriali in pendenza -i crinali- sui quali si attestano, in posizione emergente, gli insediamenti più importanti, il tutto in un quadro ambientale ancora conservato, anche se al di fuori di vero ruolo produttivo.


Le indagini tipologiche sono state orientate sulla struttura territoriale e le sue fasi di formazione, sugli aggregati rurali e in particolare sui processi evolutivi dell’edilizia rurale, la così detta casa colonica, nella specifica versione collinare.

I nuclei rurali sono stati schedati e analizzati sulla base della loro posizione territoriale e in particolare distinti tra quelli ubicati sul “crinale alto”, sui promontori emergenti, sulla mezzacosta e nella pianura. Per ognuno di essi sono state valutate: la relazione tra i percorsi principali di accesso e i percorsi secondari di collegamento con il territorio rurale, la giacitura rispetto all’assetto orografico, l’orientamento, il sistema aggregativo tra i vari gruppi di fabbricati, i rapporti tra la posizione e l’articolazione dell’edificio principale abitativo rispetto ai fabbricati secondari produttivi e infine la relazione tra gli edifici e gli spazi liberi cortilizi e in particolare la posizione dell’aia.

L’analisi degli edifici rurali si è invece addentrata nel rapporto tra l’edificio e il percorso di accesso, la collocazione dell’edificio principale rispetto all’assetto orografico diviso nei casi che hanno la fronte parallela alle curve di livello oppure ortogonale alle curve di livello, la preminenza dell’affaccio principale su quelli secondari, oppure sull'isorientamento, sull’evoluzione del sistema aggregativo delle cellule edilizie elementari, sia in senso orizzontale che in senso verticale, sulla posizione dei sistemi distributivi e in particolare sulla posizione della scala e della loggia esterna. Infine sono state fatte alcune osservazioni sui materiali e sull’evoluzione dei sistemi costruttivi che caratterizzano questo tipo di edifici.

Per ogni scala di “lettura” i risultati delle indagini sono stati riportati in tabelle riassuntive di classificazione tipologica e poi riordinati in sequenza temporale al fine di elaborare un’ipotesi ricostruttiva del processo evolutivo sia dei nuclei insediativi sia della casa colonica su pendio.

Come già detto la proposta progettuale, scaturita dalle informazioni derivate dall’analisi preventiva, è stata fortemente condizionata dall’evidente qualità ambientale dell’area oggetto d’intervento che doveva prevalere, per ragioni evidenti, su qualsiasi formulazione “innovativa” o “contrappositiva” del progetto rispetto al contesto di partenza.

Cioè il progetto doveva sottostare a una ferma e decisa presa di posizione derivata dalla convinzione per non dire la certezza che l’operazione di trasformazione edilizia avveniva entro un territorio, quello della collina cortonese, che è un territorio di grande qualità territoriale e ambientale, il cui valore deriva da un processo evolutivo che è arrivato al suo massimo livello di compiutezza e qualunque intervento di trasformazione, se pur legittimo, non può e non deve sottovalutare questa condizione, contrapporsi a questa realtà, superare questi limiti, salvo esser certi di lavorare per sottrazione di qualità.
Più in dettaglio l’intervento prevede la costruzione di tre episodi insediativi di tipo residenziale, disposti lungo un percorso di crinale esistente, separati da una breve distanza e collocati nei punti singolari della struttura orografica del promontorio oggetto dell’intervento. I singoli episodi sono costituiti da alcuni edifici disposti intorno a uno spazio di tipo “cortilizio” con affaccio prevalente verso sud/sud-ovest, sono stati relazionati al contesto attraverso lo studio sulla giacitura del terreno, la collocazione dell’edificio rispetto al sistema delle fasce agricole esistenti o eventualmente di nuova formazione, la valorizzazione dei percorsi rurali esistenti, la piantumazione di essenze tradizionali quali l’olivo, la vite, alberi da frutto e infine attraverso la sistemazione, con elementi di arredo di tipo rurale, delle pertinenze limitrofe ai fabbricati e in particolare dell’aia.

Ogni edificio residenziale è formato da un corpo principale, su più piani, caratterizzato da una monocellula “matrice” di altre cellule laterali e da corpi annessi disposti intorno ad uno spazio esterno. Essi si collocano, rispetto all’orografia, in modo parallelo alle curve di livello, salvo alcuni casi particolari condizionati dal troppo declivio del terreno o dalla posizione che essi occupano all’interno dell’aggregato che si posizionano secondo le linee di massima pendenza.

Il progetto degli edifici è unificato su un modulo residenziale comune che tiene conto della crescita cellulare individuata nella fase di studio e le diverse soluzioni sono legate a varianti sincroniche del tipo principale, dipendenti dalla diversa collocazione nell’aggregato, dall’isorientamento, dalle variazioni dell’assetto orografico.

I sistemi costruttivi utilizzati per la realizzazione degli edifici, anche se aggiornati secondo i modelli strutturali e di contenimento energetico attuali, sono orientati verso l’uso di materiali di tipo tradizionale e in particolare, per le murature esterne, di laterizio portante rivestito di pietra locale, legno e laterizio per i solai interni e rifiniture coerenti con le tecniche tradizionali.

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9 maggio 2011

L'ORA DELLO ZEN

Dopo il successo dell'iniziativa palermitana sullo Zen, ripropongo un articolo dell'architetto Ciro Lomonte, organizzatore della conferenza tenuta da E.M. Mazzola, pubblicato sul numero 640 de Il Covile, naturalmente con la raffinata veste grafica che gli è propria.

L'ORA DELLO ZEN
Visitando nel 1983 lo ZEN 2 di Palermo, René Furer, docente di Gestaltungstheorie dell’ETH di Zurigo, si chiedeva se Vittorio Gregotti non fosse il migliore architetto italiano del momento. Più prudentemente, Ignacio Vicens y Hualde, professore di Proyectos Arquitectónicos della Universidad Politécnica di Madrid, nel corso di un’analoga visita del 1986 faceva notare che il linguaggio e i materiali adoperati erano più adatti a gente ricca, in quanto avrebbero comportato continue e costose opere di manutenzione.
Nella trasmissione Le Iene del 20 febbraio 2007 il progettista novarese, dopo avere dichiarato di considerare lo ZEN 2 il migliore esempio di edilizia popolare del mondo, declinava l’invito ad andarci ad abitare: «Io non faccio il proletario, faccio l’architetto». In effetti, se non si trattasse di una guerra tra poveri, le continue occupazioni — che hanno richiesto anche in questi giorni l’intervento delle forze dell’ordine — farebbero pensare che tutti ambiscano vivere allo ZEN 2.

Nel 1989 Edoardo Bennato pubblicò la canzone “ZEN” nell’album “Abbi dubbi”. Il ritornello ripeteva: «Zona Espansione Nord— abbreviazione: ZEN, / non c’è ragione no — non c’è ragione. / Quartiere di Palermo — città d’Italia, / non c’è ragione no — non c’è ragione». Bennato, che aveva studiato architettura, alludeva al razionalismo di Gregotti.
Ci troviamo di fronte ad un caso emblematico. Il sonno “nella” ragione genera mostri. Non è il sonno “della” ragione che produce degrado sociale, bensì il sonno nel carcere del razionalismo (abitare lì, dormire lì). La riprova è sotto gli occhi di tutti. Il vicino ZEN 1 è stato realizzato prima, con tipologie di edifici condominiali non belle ma neppure ingenuamente sperimentali. Ebbene, i proletari a cui vennero assegnate queste case (i loro figli, i loro nipoti) sono oggi persone civili, che non a caso evitano accuratamente di farsi identificare con gli abitanti del limitrofo campo di concentramento.
Ciò che desta ulteriore stupore è l’indifferenza del gruppo di progettazione dello ZEN 2 alle esperienze positive che si erano fatte a Palermo nei decenni precedenti. Nel 1956 Giuseppe Samonà aveva realizzato Borgo Ulivia, un esteso quartiere di edilizia popolare che si è mantenuto in buone condizioni senza bisogno di interventi successivi. Volendo cercare il pelo nell’uovo, Samonà non avrebbe dovuto usare rivestimenti in laterizio, estranei alla tradizione costruttiva siciliana, data l’abbondanza in loco di ottima pietra da taglio. Per gli abitanti però il vero limite di queste case è l’assenza di balconi, che essi hanno aggiunto abusivamente con una grande libertà compositiva, degna di un Piet Mondrian.

Andando a ritroso nel tempo, è molto istruttivo verificare la durata degli alloggi popolari realizzati fra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta, confortevoli e gradevoli, anche dal punto di vista dell’integrazione urbanistica con gli edifici circostanti destinati ai ceti medi e alti. Non sono ghetti, come lo ZEN.
Di questi esempi forse il migliore è il Quartiere Matteotti, che oggi si presenta come un borgo residenziale di prim’ordine. In questo caso infatti sono stati curati dettagli costruttivi tradizionali, qualità degli interni e bellezza dei volumi, inseriti in piacevoli giardinetti.
Il nuovo assessore alla Casa della Regione Lazio si è riproposto di abbattere il Corviale, un famoso ecomostro di Roma, lungo un chilometro. Fiore all’occhiello dell’intellighenzia visionaria che ha prodotto edilizia popolare negli anni Settanta, il cosiddetto Serpentone è tristemente famoso, come gli altri esempi del genere, per l’imbarbarimento sociale e i fenomeni di violenza favoriti dagli stessi criteri progettuali utopistici. Il Gruppo italiano di Nikos A. Salìngaros ha presentato due soluzioni dettagliate per sostituire lo sterminato lager compatto con un quartiere a misura umana.

A questo punto c’è da chiedersi se anche a Palermo non sia giunta l’ora di demolire lo ZEN 2 e disegnare un borgo autosufficiente più ancorato nella storia della città e ben contestualizzato in quella zona naturalisticamente unica di Piana dei Colli. Il sindaco Cammarata aveva fatto molte promesse sulla riqualificazione di Palermo: per es. la pedonalizzazione del centro storico e notevoli miglioramenti delle periferie. Ma, aldilà di qualche parcheggio e del cantiere della metropolitana, non si è visto molto di più.
Qualcuno potrà obiettare che le casse del Comune sono vuote, eppure questo è un falso problema. Lo ZEN 2 è ancora lungi dall’essere completato ed è, come tutti i quartieri popolari del suo genere, un buco nero di fondi pubblici. La Regione ha assegnato di recente almeno 20 milioni di euro per lavori da effettuarsi su questo complesso di edilizia popolare. Sarebbe un errore utilizzare questi fondi per costruire altre insulae, seguendo il fallimentare progetto originario. Il Gruppo Salìngaros è pronto a fare delle proposte concrete anche per lo ZEN 2. Bisognerà studiare approfonditamente natura dei luoghi e storia urbanistica della Sicilia e delle sue tradizioni edilizie (conci di calcarenite, pietra di Billiemi, intonaco Livigny, coccio pesto, coppi siciliani, ecc.). Sarà un incentivo ulteriore alla rinascita dell’artigianato locale, composto da maestranze molto capaci che rischiano di sparire.
CIRO LOMONTE

La foto è di Guido Santoro

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6 maggio 2011

NOI PER LO ZEN

Il 5 maggio si è tenuta a Palermo la conferenza di Ettore Maria Mazzola sullo Zen, organizzata da Ciro Lomonte.
La conferenza ha ottenuto un successo straordinario, commentata e apprezzata da quotidiani e blog. Molti partecipanti e aderenti si sono autotassati per contribuire alle spese del progetto.
Chi volesse ulteriori notizie può cercare su facebook il Gruppo aperto "Noi per lo Zen", oppure seguire questo link:
http://www.facebook.com/home.php?sk=group_184784378235271&ap=1
Di seguito il testo dell'intervento di Ciro Lomonte:

Il colonialismo politico e finanziario è un cavallo di battaglia di Antonio Piraino.
A me preme sottolineare un’altra questione: la colonizzazione architettonica. Risulta paradossale che la Sicilia abbia prodotto un’arte con forti connotati locali, di grande originalità, mentre era governata da dominazioni straniere. Edoardo Caracciolo definiva “contaminazioni” alcune di queste peculiarità siciliane, ma in generale sono qualcosa di più: sono una serie di linguaggi nuovi e spesso unici.
Dopo essere stata “liberata” (si fa per dire) da Garibaldi e dai Savoia, all’Isola sono stati imposti modelli estranei alla sua tradizione e alla sua natura. Dal Piano Regolatore del 1877 in poi possiamo fare tanti esempi di colonialismo architettonico. Non dimentichiamo che il PRG del 1962 è stato il primo dell’Italia post bellica, sulla base della LUN del 1942. Lo zoning, i retini grafici che definivano le aree da costruire nella città, ritagliando indiscriminatamente, per es., i firriati delle ville di Piana dei Colli, sono un modello accademico che i professori della nostra Facoltà di Architettura hanno preso da fuori. Vito Ciancimino non ha fatto altro che sfruttarlo al meglio per i propri interessi.

Noi dobbiamo e possiamo reagire ad una colonizzazione di tal fatta, nell’urbanistica e nell’architettura. Anche per questo è consolante la crescita delle adesioni a questo nostro progetto: è – in embrione – la rivendicazione di una identità. Del resto il Gruppo Salingaros, di cui fa parte il prof. Mazzola (e di cui mi fregio di far parte anch’io), attribuisce un valore notevole al coinvolgimento dei non specialisti di architettura nella progettazione dei luoghi in cui andranno a vivere e sui quali pertanto hanno pieno diritto di esprimere un parere. Abbiamo persino ipotizzato che negli stessi concorsi di architettura la giuria sia composta dai cittadini che, a vario titolo, hanno un legame con quell’edificio o quel brano di città.
Palermo è una metropoli strana rispetto alle altre quattro italiane: è nata da un’immigrazione interna, proveniente dalle aree agricole della stessa Isola e indotta dalla creazione nel dopoguerra dell’apparato amministrativo della Regione Siciliana, a fronte di una consistente emigrazione delle migliori menti della città verso il nord Italia o verso l’estero. Le altre metropoli italiane non sono così: hanno potuto difendere la propria identità e trasmetterla ai nuovi arrivati perché hanno mantenuto un consistente nucleo di cittadini originari del luogo (penso in particolare a Milano e Torino, oltre che a Roma).
Palermo ha riscoperto il proprio centro storico negli anni Ottanta. Il recupero di quella parte della nostra città (di cui però non condivido la filosofia estetizzante, che ne ha favorito indirettamente la trasformazione in un mosaico di ristoranti e di pub) ha tuttavia generato un nuovo spirito di appartenenza.
Comprendere lo scempio delle periferie, visitarle (molti non le conoscono neppure), rivisitarle da un punto di vista strategico, è un ulteriore passo avanti in questo sviluppo di una coscienza dell’essere palermitani. È un segnale forte, è un fattore di speranza.
Un amico mi faceva notare che i palermitani hanno un cuore grande, si entusiasmano solo quando si lanciano in imprese audaci. Imprese che abbiano un carattere di esperienza universale. Altrimenti si immalinconiscono, come avviene tutte le volte che si chiudono nella gestione – per caste chiuse – di affari che denotano un deprecabile provincialismo. Di fatto in questa città si respira da tempo un disincanto, una sfiducia, una tristezza che è causa di intensa sofferenza. Questa è la ragione per cui rimango colpito dalla vostra partecipazione di oggi, dal contributo anche economico di molti, che mi fa dire:
"Sono orgoglioso di essere siciliano!"

Ciro Lomonte
(intervento al convegno del 5 maggio 2011)

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