Luigi Prestinenza Puglisi, nel supplemento a Il Fatto Quotidiano del 15 aprile, nella sua recensione alla mostra Le città di Roma all’Ara Pacis, scopre che le periferie romane, fotografate senza alcuna presenza umana, come fossero cioè “natura morta” (parole sue), appaiono “devastanti”. Per la precisione scrive:
“Il risultato per chi non è appassionato di immagini potrebbe essere devastante”. (1)
C’è da immaginare quanto possano apparire gratificanti a chi ci abita! E infatti anche LPP si pone questo problema e domanda, prestando la sua voce all’abitante:
“Ma al Corviale o a Vigne Nuove potrei andarci ad abitare proprio io?”.
Il punto di vista della gente (sì proprio della gente), insieme a quello del critico, fa capolino nella critica architettonica: è uno scoop!
Ma non finisce qui. LPP continua affermando che la mostra è un boomerang per gli organizzatori (2) ma ammette che:
“Il compito era disperato: si trattava di mettere insieme i costruttori romani, un’amministrazione di destra e la cultura di sinistra”.
Altro scoop: la cultura di sinistra è responsabile di quelle insane periferie. Chi l’avrebbe detto! Anche se non capisco perché dovrebbe essere un boomerang per il Comune che, almeno teoricamente, dovrebbe avere tutto l’interesse a prendere le distanze da quei progetti posto che l’attuale giunta non può certamente essere ritenuta responsabile di opere realizzate negli anni 70/80. Ma forse bisogna essere dentro le cose romane per capirlo. Lo scoop però resta.
Da ultimo, dopo i fuochi artificiali, il botto finale: l’unico progetto che “spicca in absentia” è la Tor Bella Monaca di Léon Krier, “strapaese dineylandiano” che “invece che acquietarsi con nature morte, si confronta almeno con un bisogno della gente”.
Inverosimile, inimmaginabile: si comincia a leggere e interpretare la gente con i suoi bisogni. Ci si avvicina, con nonchalance, con una frase buttata lì come fosse normale in questo mondo del tutto a-normale dell’architettura, a dire che la gente ha dei bisogni legittimi.
La diversità antropologica tra architetti e cittadini si attenua. Si dà per scontato, finalmente, che l’architettura “disneylandiana” non va giudicata solo per quello che appare superficialmente ma in quanto proiezione di un desiderio di tradizione e/o di classicità, di valori sicuri e condivisi che si è potuto fino ad oggi esprimere solo entro le proprie mura domestiche con la cucina rustica, i mobili in stile, gli archetti di forati nei corridoi, il camino in pietra o mattoni, la trave finto legno e tutto l’analogo, ingenuo repertorio ai più ben noto, e all’esterno negli archi in c.a. parossisticamente ribassati tanto da sembrare stretchati per errore con Photoshop.
Si dà per scontato che esista anche una cultura popolare e che ha una sua dignità degna di attenzione.
Qualunque cosa pensi realmente LPP - che in questo scritto breve lascia sempre, e molto abilmente, uno spiraglio ad una doppia lettura - non è dato sapere con certezza, tuttavia non c’è dubbio che ha fatto entrare in scena ufficialmente, tra l’architetto e il progetto, il terzo incomodo, il convitato di pietra, il grande assente, cioè il negletto uomo comune, il committente anonimo, l’abitante sconosciuto, colui che è costretto a subire il progetto della città, del quartiere, della casa e, non avendo altra scelta, in quanto relegato in stato di minorità culturale dall’Architetto, dalle riviste, dai magazine, dalle collane Grandi Architetti distribuite a prezzi popolari in edicola, esprime i suoi desideri, i suoi gusti estetici, le sue fantasie nel privato o nell’outlet village toscano o romano o ticinese.
Vale la pena seguire LPP per capire meglio e trovare ulteriori conferme.
Noi(3) che abbiamo sempre considerato la gente l’attore principale della commedia, più spesso della tragedia urbana, registriamo questa piacevole novità.
Note:
1) Da notare la sottigliezza: non ha scritto l’architetto, ma l’appassionato di immagini!
2) Promotore dell’iniziativa: ACER, associazione dei costruttori romani – Padrone di casa: Comune di Roma – Curatori: Piero Ostilio Rossi, Francesca Romana Castelli – Allestitore e critico: Pippo Ciorra
3) Noi non è pluralis maiestatis ma sta per tutto quell’ampio movimento culturale che viene banalizzato e divulgato con il nome di antichisti, in opposizione a modernisti. Non è un bel nome nelle intenzioni di chi lo usa, ma a me piace.
Nessun commento:
Posta un commento