Giornata piena alla Giornata di studio su Giorgio Vasari Architetto organizzata dall’Ordine degli Architetti di Arezzo. Non è il momento di un resoconto completo, in attesa di scaricare qualche video, ma vorrei commentare uno dei tanti spunti che sono stati lanciati da Luigi Prestinenza Puglisi, coordinatore dell’incontro del pomeriggio .
Nel corso della mattinata Giorgio Vasari Architetto è stato degnamente celebrato dalle approfondite relazioni del Prof. Francesco Gurrieri, del Prof. Gabriele Morolli e dell'arch. Anna Pincelli. Nel pomeriggio invece Vasari è stato toccato solo tangenzialmente avendo presentato alcuni loro progetti Massimo Carmassi e i due giovani Stefano Pujatti e Giovanni Vaccarini. Su questi ultimi due mi riservo di approfondire con i video, anche se anticipo di avere assistito ad una fiera della vanità a mio avviso alquanto priva di contenuti; Massimo Carmassi, che avevo incrociato in altre occasioni, è stato invece una sorpresa.
Non per i progetti, che sono noti a tutti e non c’è stata alcuna novità, ma per le cose che ha detto durante il dibattito, dando segni di evidente insofferenza rispetto ad atteggiamenti professionali e a progetti che lui ha giudicato molto negativamente sotto ogni profilo. Se posso dirlo (tanto lui non usa internet), l’età l’ha cambiato molto e direi in meglio: disponibile al dialogo, disincantato, perfino autoironico, ha abbandonato del tutto quella certa aria da architetto di successo nei quartieri alti della cultura architettonica che deve tenere il punto sul proprio lavoro senza nulla concedere ad un momento di spontaneità. Ha distinto nel bagaglio dell’architetto la sovrastruttura fatta di parole, utilizzate per valorizzare la propria figura professionale, dalla struttura reale, cioè il proprio lavoro che è quello che resta; ha invitato gli architetti a tornare alla realtà, ha sottolineato l’aspetto artigianale del nostro lavoro, ha chiesto maggiore umiltà e ha auspicato il ritorno ad un minimo comun denominatore di grammatica architettonica. Ma di questo ne riparlerò insieme agli altri due giovani.
Prestinenza Puglisi, da cui mi divide praticamente tutto, è però un ottimo comunicatore e intrattenitore, sapiente nel cogliere i vari temi che emergono dalla discussione che lui risolve dando spazio a tutte le opinioni anche a quelle che certamente non condivide. Uno di questi spunti, che non c’è stato tempo di approfondire e che è anche in qualche modo suggerito dall’opera di Giorgio Vasari, è il solito, eterno tema della opportunità o meno di progettare nei centri storici.
Io sono convinto che, detta in questo modo, limitandosi cioè a considerare la parte antica di ogni città come a se stante, come una sorta di parco architettonico-urbanistico e scrigno di bellezza in mezzo al brutto della città moderna, effettuando cioè la divisione netta tra centro storico e periferia, la risposta più corretta, saggia e prudente sia quella di dire, come è stato detto in effetti nella gran parte del paese, semplicemente: no, non si devono fare nuovi progetti. Se buona parte dei nostri centri storici sono conservati questo è dovuto al niet delle Soprintendenze, talvolta odioso nei dettagli e nella forma, ma senza il quale credo ci sarebbe rimasto però ben poco di quella bellezza. Quali sono le ragioni di questa convinzione? Sono legate al modello culturale dell’architettura ed anche dell’urbanistica dominante:
L’architettura:
- Attualmente è orientata ad una creatività tutta tesa ad esaltare l’oggetto architettonico come evento a se stante, autonomo dal contesto di riferimento e ad una ricerca della “sorpresa” e della valorizzazione del suo autore piuttosto che nello sforzo di soddisfare tutti i soggetti interessati all’opera di architettura, cioè il committente e tutti i cittadini cui la città, nel suo complesso e nelle sue parti, appartiene. Quest’ultimo input pare essere ormai completamente estraneo alla cultura dell'architetto contemporaneo. L'architetto ha un approccio al progetto che è di tipo mistico, cioè di colui che entra in relazione con la verità per istinto e non per razionalità e che quindi non può essere, per definizione, comunicata; il che lo autorizza a sentirsi libero da ogni vincolo, dal giustificare il progetto agli altri ma anche a se stesso, salvo il fatto di fare uso massiccio di espressioni ed impressioni di tipo immaginifico ed emozionale assolutamente non verificabili e il più delle volte prive di riscontro con la realtà e del tutto incomprensibili ad una elementare analisi sintattica e lessicale. Basta leggersi qualsiasi relazione ai concorsi o ai progetti. Basta guardare qualche intervista. D’altronde è chiaro che mentre è possibile fare un’analisi grammaticale, come è stata fatta dal Prof. Morolli, dell’opera del Vasari, è viceversa impossibile farla per i progetti contemporanei che direi per scelta rifiutano qualsiasi grammatica, anzi si dichiara che ognuno ha la sua grammatica: la mistica appunto.
Questo per l’oggi.
Ieri invece per la nota prevalenza del movimento moderno che avendo azzerato tutto il patrimonio di conoscenze accumulato nei secoli ritenuto non idoneo all’espressione della modernità e, direi meglio, all’uomo moderno - considerato assurdamente diverso da quello antico - non può avere certo le carte in regola per intervenire al’interno di parti della città che invece sono cresciute e si sono trasformate, mattone dopo mattone, con un processo evolutivo di crescita con forti attinenze a quello della natura e senza sostanziali e violente cesure e traumi.
L’urbanistica:
- Qui prevale ancora la zonizzazione selvaggia, figlia sempre del movimento moderno, che ha dissolto l’unità della città, ha eliminato la strada dal suo orizzonte relegandola a mero supporto funzionale al traffico veicolare, creando, con la certificazione legislativa della zona A, il “centro storico”, oggetto di salvaguardia, e lasciando piena libertà di azione nella rimanente parte di territorio, con unico limite e criterio progettuale quello quantitativo del metro cubo e dei vari parametri edilizi. In questo modo è andata persa del tutto anche la memoria di come avviene la crescita della città, i suoi meccanismi di stratificazione successiva, una armonica e naturale modificazione urbana. Attualmente poi si tende a considerare la periferia sotto il profilo emozionale, soggettivo e psicologico, cercando di valorizzare presunte spinte ideali individuali di appartenenza a quel non-luogo riconoscendo una inesistente vitalità, ma di fatto condannandola invece allo status quo ed anzi aggravandone la situazione con l’aggiunta di oggetti singoli che amplificano ancora di più il disordine, il rumore e la parcellizzazione urbana e sociale.
Permanendo questo stato di cose il centro storico non può che continuare ad essere considerato off-limits, area da escludere da ogni possibile invenzione che lo renderebbe del tutto simile alla periferia.
C’è una rinuncia totale nella cultura dell’architetto contemporaneo ad un’azione che tenda invece a modificare il corso delle cose, un’acquiescenza passiva allo spazio-spazzatura che non viene considerato come uno stato di fatto negativo ma si tende ad elevarlo a valore, esaltando paesaggi urbani caratterizzati dal precario e dallo squallore e inventando una sorta di poetica del provvisorio, del brutto, dell’instabile al solo scopo di giustificare il proprio progetto, espressione della propria grammatica individuale. E’ la vittoria del relativismo assoluto in cui sembra non si debba giudicare niente (evidentissima contraddizione anti-relativa) ma che è utilissima ad evitare ogni giudizio sul proprio prodotto salvo quello che se riesco a produrlo vuol dire che va bene. Una trasposizione banale, strumentale e involontaria dell’essenza delle cose in base alla quale l’essere è, il non essere non è e l’essere non può non essere.
Dimentica l’architetto, e quando qualcuno glielo ricorda non capisce o non vuol capire, che la città è il luogo in cui si esprime la comunità come insieme di individui ognuno con la propria libertà ma nel rispetto di quella altrui. Non capisce che la città coincide con la società dalla quale, invece, tende a subire passivamente e talvolta con gioia una quantità di regole e leggi tanto elefantiaca quanto inutile e dannosa. Ma rinnega la possibilità di regole urbane considerate un ostacolo alla sua libera e licenziosa espressione di creatività. Riduce le nostre città e la nostra società, a Dubai, visto come il luogo della libertà assoluta, non sapendo leggere e distinguere le diversità e la peculiarità di ciascun luogo, ammesso e non concesso che Dubai sia un luogo e non piuttosto una cassaforte per capitali, sempre più scarsi, in cerca di reddito.
Invece è proprio l’idea di periferia che deve essere rifiutata tendendo a farla diventare essa stessa emanazione e riproduzione del centro storico, che dovrebbe essere chiamato centro antico, non banalmente come si tende a dire per colpevolizzare l’avversario dando per scontato che a questa visione corrisponda necessariamente una visione antichista in senso stilistico, ma come parte di un organismo unitario che deve proseguire nelle regole insediative che hanno prodotto la città antica, interpretandole e adattandole alle varie situazioni geografiche, morfologiche e funzionali.
Nel centro antico sarà lecito e opportuno intervenire solo previo avveramento di questa condizione di carattere urbanistico e solo dopo che, se mai potrà avvenire, l’architetto abbia rinunciato per scelta razionale e non per intenzione moralistica o di basso profilo all’egocentrismo creativo.
Insomma solo dopo che l’architetto potrà tornare ad essere portatore di una cultura urbana e quindi civile.
19 novembre 2011
SI PUO' COSTRUIRE NEI CENTRI STORICI?
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6 commenti:
Caro Pietro, mi hai quasi convinto. Forse è meglio che i centri storici si tocchino il meno possibile. Dopo il convegno su Giorgio Vasari e dopo quello che abbiamo sentito nel pomeriggio, devo rivedere profondamente le mie idee.
Ho sempre pensato che la bellezza e il valore dei centri storici dipendesse dal fatto che ogni epoca ha lasciato il suo segno e anche noi dobbiamo metterci del nostro. Questa convinzione profonda è maturata dopo studi storici ma anche a seguito di semplici passeggiate nelle strade selciate delle nostre città. Mi è capitato di progettare ristrutturazioni di edifici che contengono mura etrusche. Ho avuto l’emozione di rilevare tessiture murarie complicatissime che denotavano interventi sull’edificio nel corso di più di 2500 anni.
Ho provato molta emozione ma anche molta “strizza” poiché capivo di intervenire su qualcosa che apparteneva alla comunità, oserei dire, mondiale.
Io ho avuto la mano “pesante”. Ho discusso a lungo con la Sovrintendenza, ho avuto sonore bocciature dagli organi comunali e ho recuperato con l’intervento diretto personale nelle commissioni.
Poi, dopo le nottate già passate per “progettare”, c’è stato l’impegno giornaliero nei cantieri perché le sorprese non finiscono mai e durante i lavori trovi sempre qualcosa che ti dice che devi modificare il progetto.
La responsabilità che hai sulle spalle è grande e se non hai delle grandi “spalle” (con la “s”) è meglio lasciar perdere.
Nel pomeriggio, al convegno su Vasari, c’è stata la dimostrazione che, nel pensare i progetti, prevale la più completa indifferenza verso l’ambiente nel quale si interviene.
Tu, Pietro, definisci questo approccio “mistico”. Secondo me, però, usi un termine troppo legato a tante belle cose della nostra storia. I Mistici erano assorti nei misteri della fede e nella contemplazione dell'arcano soprannaturale.
Gli architetti che progettano senza riferirsi alla storia dei luoghi più che mistici sono mistificatori perché usano una scorciatoia e ingannano.
In genere si innamorano di una archistar e cercano di copiarne le forme, sfogliano le riviste di architettura senza poi analizzare il territorio nel quale intervengono.
Clickano sui periodici del ciberspazio (spazio virtuale) e tralasciano di camminare a piedi nel territorio vero e antropizzato.
Più che di approccio mistico (dell’arcano e del soprannaturale) bisognerebbe parlare di mistica delle reti interconnesse (internet), di sensibilità che corre nelle fibre ottiche, nei protocolli "TCP/IP", nelle LAN, nel WWW,negli http e nei microprocessori. Bisognerebbe quindi parlare di approccio con micro-sensibilità territoriale e produzione di macro-cavolate architettoniche.
Un’altra cosa che mi ha colpito, al convegno, è l’idea, espressa da un collega, che gli architetti devono “educare” i committenti alla comprensione della bellezza dei nostri progetti. Roba da matti! “Mala tempora currunt”!
Saluti
Alessandro
Alessandro, tu mi turbi assai. Io ti avrei convinto? Non credo proprio che sia così. Credo invece che l'architetto che qualche anno fa portava il farfallino e fumava la pipa, tipo Zevi per capirsi, sia cambiato in quello che viaggia a cavallo per le nostre valli e i nostri borghi, che ristruttura la sua casa in campagna, che vede che nonostante i tanti lavori fatti da te come dai tutti noi la città non è migliorata affatto, anzi è peggiorata, nonostante gli sforzi e le buone intenzioni, ma si sa che di buone intenzioni è lastricata la strada per l'inferno, e quindi ne ha tratto le conseguenze da solo. Al più ti avrò offerto l'occasione e qualche motivazione spero logica. Non mi dare questa responsabilità altrimenti ti dovrò essere riconoscente e poi non mi potrò più arrabbiare con te.
Ciao
Piero
Parte 1^ - Caro Pietro, più che di "misticismo" che, come dice Alessandro è un qualcosa di più profondo e sentito, qui ci troviamo davanti ad un semplice atteggiamento presuntuoso ed arrogante degli architetti che, con il minimo (o l'assenza) dello sforzo intellettuale, prima fanno uno scarabocchio e poi trovano (insieme a dei parolai di mestiere) una giustificazione teorica che porta dentro il progetto un presunto misticismo. Chi condanna il "falso storico" professa, come cosa buona e giusta, il "falso futuro" e i "falsi contenuti", fino ad arrivare a pretendere di dover insegnare alla "gente ignorante" le ragioni della bellezza dello scarabocchio!!!. Vivendo in un Paese in cui, sin dal XVII secolo si vive con il complesso di inferiorità culturale nei confronti dei Paesi che per primi si industrializzarono, e che teorizzarono cose assurde circa l'arte e l'architettura, oggi viviamo in una società intellettualoide in cui tante persone, pur disgustandosi davanti ad opere insulse, fingono snobisticamente di apprezzarne e comprenderne il significato. In questa realtà gli architetti ignoranti trovano terreno fertile per autoproclamarsi "poeti dell'architettura" e violentare a proprio piacimento ciò che vogliono.
Personaggi come Luigi Prestinenza Puglisi e Luca Molinari, quest’ultimo è il “geniale” curatore del vergognoso Padiglione Italia alla scorsa Biennale di Venezia, sono i motori di questo disgustoso sistema pseudo culturale che confonde, volutamente, l’architettura con le arti visive e, ambedue le cose, con degli oggetti di consumo. Si tratta di personaggi che si appellano storici e critici ma che, nella realtà dei fatti sono dei semplici imbonitori, o battitori d’asta o, più semplicemente, dei venditori di fumo al mercato dell’usato. Parlano e straparlano cercando di lavare il cervello delle persone, scrivono su “riviste autorevoli” influenzando pericolosamente il pensiero degli architetti affamati di gloria e della gente comune che, per paura di essere tagliati fuori dal giro, accettano passivamente di entrare in gioco fino a diventare fondamentalisti di un sistema in cui, con il minimo dello sforzo e il massimo dell’ignoranza, tutti possono autoproclamarsi “poeti” ed ambire ai propri 15 minuti di gloria.
Parte 2^ - Questi individui sono quelli che hanno portato l’architettura in un vicolo cieco. Non è un caso se, intellettualoidi a parte, l’architettura e gli architetti contemporanei sono sempre più messi alla berlina da parte della gente onesta. Non è un caso se questa professione è derisa in maniera imbarazzante dal mondo del cinema. Non è un caso se la gente non comprende questa “architettura” e la guarda con diffidenza e paura. E così questi personaggi tirano fuori dal cilindro l’idea di dover educare la gente all’architettura contemporanea … al MAXXI addirittura hanno creato (a spese pubbliche ovviamente) un “Dipartimento di educazione all’architettura contemporanea” … mi verrebbe da parafrasare la battuta finale del Conte Tacchia, sostituendo i nobili con gli architetti e i critici!
Ebbene, io ritengo che nei centri storici si possa e si debba intervenire, ma solo ove necessario. Ne ho parlato ampiamente circa il caso di vicolo della Moretta a Roma, ma esistono tante altre aree centrali che sono state “offese” da interventi errati del passato recente: a ridosso dei lungotevere di Roma ci sono zone degradatissime, per esempio in questi giorni stiamo affrontando con i nostri studenti dei progetti per via della Renella, da viale Trastevere a Piazza Trilussa. In passato abbiamo affrontato progetti per Piazza San Salvatore in Lauro, via dei Vecchiarelli e Piazza dei Coronari, oppure per l’area accanto a Montecitorio. Sono tante le ferite da riparare, ma per intervenire bisogna riscoprire il “senso del decoro” e del “bene comune”, e questo prevede la necessità di studiare accuratamente, caso per caso, i problemi. Intervenendo in maniera “filologica” nessuno potrà dir nulla, infatti mi è capitato di invitare alle presentazioni dei progetti dei miei studenti personaggi di importanti istituzioni a tutela dei beni culturali italiani che, mai, hanno obiettato alle scelte rispettose fatte. Non si tratta, come qualcuno ha detto in un altro blog, di un tentativo di rifugiarsi per comodità in modelli accettati, ma di mettere gli architetti e il loro ego in secondo piano, e la città e il bene comune prima di tutto.
Vorei chiarire che io ho usato il termine misticismo in maniera beffarda. Il significato di misticismo è questo "a mistica (dal greco mystikòs = misterioso, e questo da myein = chiudere, tacere)[1] è la contemplazione della dimensione del sacro e ne comporta una esperienza diretta, "al di là" del pensiero logico-discorsivo e quindi difficilmente comunicabile".
Il misticismo non è sempre utilizzato per scopi alti, presunti maghi e guaritori si basano proprio su questo "misticismo" per non dover spiegare le loro "misteriose virtù". Non è che gli architetti modaioli vi ricorrano intenzionalmente né che affermino di essere mistici, ma di fatto il metodo è quello.
Ciao
Pietro
caro Pietro, nè io, nè suppongo Alessandro, abbiamo dubitato della tua ironia nell'uso del termine. Ho preso spunto dal tuo discorso per mettere un po' di puntini sulle "i" a beneficio di chi finge di non capire, e suppongo che altrettanto abbia voluto fare Alessandro.
Ciao
Ettore
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