Il testo che segue è stato scritto dall’Arch. Roberto Verdelli di Arezzo in occasione di un convegno su Qualità, Città e Territorio organizzato dall’Ordine degli Architetti di Arezzo nel giugno 2006. Il testo, che è stato depurato di poche parti strettamente tecnico-legislative, ha il pregio di saper coniugare, in un linguaggio accessibile a tutti, una compiuta visione teorica con la specificazione di fondamentali e semplici regole di progetto da osservare nei luoghi di cui tratta, e non solo.
In questo senso vi si legge l’impronta del suo autore che riunisce in sé una notevole preparazione teorica, una conoscenza approfondita del territorio e un’alta qualità progettuale, frutto di pratica professionale multidisciplinare, dai piani urbanistici alla progettazione architettonica. Il tutto pervaso dall'amore per la sua terra.
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Roberto Verdelli

La Toscana è bella, è unica ed irripetibile. E’ stata la culla del Rinascimento e, nel tempo, culturalmente resistente alle mode e ai cambiamenti che venivano da fuori. Non credo del tutto casuale che la Toscana sia l’unica regione ad avere un ordine architettonico proprio “Il Toscanico” appunto. Un ordine più semplice ed austero degli altri, meno ricco e privo di fronzoli, una sorta di ‘minimalismo” ante litteram.
E’ complesso individuare le specificità del paesaggio e delle città Toscane. Molte delle considerazioni che andrò a fare sono comuni anche ad altri territori e realtà urbane ed appartengono anche ad altri ambiti culturali. L’insieme di tutte le considerazioni appartiene, forse, solo alla Toscana e credo che proprio questo insieme costituisca la sua specificità.
La città è cosa diversa dalla campagna. Tra la città e a campagna è sempre esistito un confine preciso, le mura o il fossato. Le tecniche costruttive e le modalità di trasformazione sono diverse.
La città diffusa è un concetto che non appartiene alla cultura Toscana fatta: di centri, di borghi, di paesi, di campanili e di piccole autonomie. Il toscano è geloso custode delle proprie tradizioni, le difende sempre e comunque e tanto più la città, il borgo o il paese “nemici”, sono vicini tanto più aumenta la rivalità.
Le mura, le porte, i confini che sanciscono le nostre diversità sono rimaste nella nostra testa, talvolta invisibili ed incerte come negli sviluppi lineari che fondono frazioni da sempre rivali o nelle periferie ove diventa difficile marcare la separazione tra i rioni o le contrade che si sfidano in rievocazioni storiche sempre più amate nonostante Internet.
Gli sviluppi moderni tendono a “sfumare” la città lungo i vecchi o i nuovi tracciati viari in modo che il passaggio tra la città e la campagna risulta quasi impercettibile. Un proliferare di città lineari che non sono proprie della nostra cultura e che insidiano l’antico senso di appartenenza al luogo. E’ pur vero che i sobborghi e gli insediamenti “extra moenia” sono processi antichi, ma è anche vero che essi erano estremamente compatti ed aderenti il più possibile alle mura. Una sorta di speranza che al prossimo ampliamento delle stesse fossero anch’essi ricompresi dentro a cinta.
Le nuove mura, rappresentate dai cartelli stradali, le disegnano i vigili urbani su parametri talvolta astrusi e comunque non facilmente percepibili.
La mancanza di confini di queste città spalmate sul territorio giustifica l’inserimento, in qualsiasi luogo, di attrezzature e servizi che sono sempre stati di appannaggio esclusivo della città. Le uniche pregiudiziali per il collocamento diventano il facile accesso e la possibilità di parcheggio. Le grandi strutture commerciali e di servizio (ipermercati, outlet, multisale etc) non dovrebbero essere collocati fuori della città. Esse, forse, possono costituire elemento di riqualificazione del tessuto di più recente formazione ma mai polo di attrazione centrifuga che distrugge il tessuto economico dei nostri centri storici ed aumenta a dismisura la mobilità su auto.
L’ubicazione degli “asteroidi”, come qualcuno li ha efficacemente definiti, è un problema di grande rilievo e, come per tutti gli altri problemi che andrò a segnalare, c’è un impellente necessità di individuare il soggetto giuridico ed istituzionale che si deve far carico della sua risoluzione. In alcuni casi tale individuazione è semplice, nello specifico mi sembra più complesso. In Francia queste strutture sono state fortemente limitate con legge dello Stato. Siamo certi che non si debba fare altrettanto anche in Italia? Magari attraverso una disposizione regionale?
La città si percorre preferibilmente a piedi. L’auto è nemica della città: inquina, è rumorosa ed occupa spazio.
All’interno della città il traffico pedonale va privilegiato rispetto a quello carrabile.
Le nostre città, borghi e gli aggregati sono sempre stati caratterizzati dalla prossimità’ delle funzioni. La bottega dell’artigiano è prossima a quella del fruttivendolo che, a sua volta, è vicina allo studio del notaio ed alla banca. Gli uffici pubblici sono vicini alle abitazioni che, a loro volta, sono vicini alle botteghe ed ai negozi.
Occorre facilitare la complessità delle funzioni dell’organismo urbano superando il concetto di zonizzazione.
La piazza è l’elemento nodale della città, il luogo di incontro e di ritrovo, che da ordine alla struttura urbana. Le nuove trasformazioni hanno dimenticato le piazze. Quando va bene sono parcheggi fuori scala ubicati nei posti sbagliati. Occorre invece riappropriarsi della cultura della piazza.
Anche il rapporto tra strada ed edificio ha perso i suoi originari connotati. In città l’edificio ha sempre avuto un rapporto diretto con la strada senza alcuna mediazione spaziale. La facciata sta sulla strada che costituisce elemento ordinatore del tessuto edilizio, al piano terra della facciata sono normalmente collocate le botteghe o e attività, su retro stanno gli orti ed i giardini, il giardino sul fronte demonizza la strada e con questa anche la città.
Le rotonde all’interno del tessuto urbano sono la negazione della città. Non so quanti di voi abbiano provato a percorrere in bicicletta una delle tante rotatorie che ormai prolificano in ogni ambiente urbano come soluzione di tutti i mali. Pericolose per anziani e bambini sono il frutto del totale asservimento alla mobilità meccanica, ormai bisogna arrivare ad ottanta all’ora anche dentro la cinta muraria.
Più la città si espande più aumenta il problema della mobilità. Aumentando la mobilità si rende necessario realizzare sistemi infrastrutturali sempre più funzionali al mezzo meccanico e sempre meno adatti alla percorrenza pedonale (vedi le rotonde).
Uno dei mezzi possibili per contenere l’espansione della città è quello di aumentarne la densità edilizia.
Maggiore densità comporta economie di scala nella gestione dei servizi puntuali e di quelli a rete. Maggiore densità comporta, inoltre, un probabile innalzamento della qualità architettonica ed urbanistica. Non è possibile, né ci possiamo permettere che in città si realizzino tipi edilizi riconducibili all’edilizia della campagna. Edifici puntuali, collocati al centro del lotto che contraddicono la nostra storia ed i processi di formazione delle nostre strutture urbane. Le città toscane non possono essere ricondotte alle periferie delle grandi città statunitensi caratterizzate da chilometri e chilometri di villette unifamiliari con piscina, una dopo l’altra, senza un negozio, senza una bottega, senza una piazza, senza nulla. Sembra ormai sancito il diritto di possedere ed il dovere di realizzare abitazioni in città con caratteristiche tipologiche e formali dell’edilizia rurale. Ciò non è possibile. Non abbiamo lo spazio, non possediamo le risorse necessarie e non credo sia un bene per la collettività.
- le piazze;
- il rapporto con la strada;
- la prossimità delle funzioni;
- le permeabilità e la possibilità di goderla a tutte le classi sociali e non solo agli automuniti.
Non so come poter raggiungere tali scopi. Se con leggi o piani territoriali o se attraverso semplici atti di governo del territorio. Se attraverso rigidi impianti normativi o piani “progetto” disegnati nel dettaglio. Quello che mi sembra più importante è che si riescano a condividere tali valori e, rispetto a ciò, credo ci sia ancora molta strada da fare.
Il paesaggio toscano è caratterizzato da una diffusa antropizzazione. A differenza che in molte altre regioni le abitazioni dei contadini sono collocate al centro del podere, non esistono masserie e le coltivazioni sono (o erano) caratterizzate da un fitto livello di appoderamento. Ormai da alcuni decenni si stanno verificando alcuni fenomeni, prevalentemente economici e sociali, che stanno mettendo in crisi gli antichi processi di trasformazione.

Essi si possono riassumere in:
- progressivo abbandono delle coltivazioni, nelle aree meno fertili e soprattutto nella montagna, con conseguente fagocitazione del bosco, degli immobili e dei coltivi;
- fine dei contratti mezzadrili e della coltivazione diretta dei poderi nelle aree di pianura e di collina. Perdita progressiva della identità di un paesaggio legato ad una forte frammentazione territoriale e ad una economia autarchica;
- sostituzione della coltivazione diretta con coltivazioni intensive frutto di successivi accorpamenti fondiari, conseguente distruzione della maglia agraria originale;
- per gli ambiti di maggior pregio, sostituzione della originaria classe residente, nel frattempo inurbata, con nuove classi costituite in un primo tempo da stranieri e, successivamente, da ceti indigeni abbienti che utilizzano il bene come seconda casa. Conseguente difficoltà per il mantenimento delle coltivazioni nel vecchio podere e per la conservazione del ricco patrimonio antropico esistente (muri a retta, viabilità, ciglionarnenti etc);
- per i soggetti precedentemente inurbati, nostalgia della campagna, che si manifesta attraverso la realizzazione di manufatti più o meno abusivi che non sempre sono utilizzati come rimessaggio degli attrezzi e che finiscono per diventare una sorta di seconda casa ove evocare o ricordare i tempi andati. Tali manufatti tendono a concentrarsi immediatamente a ridosso della città prevalentemente per motivi logistici ma anche in funzione di un loro possibile diverso utilizzo (vedi sanatorie). La realizzazione dell’annesso indipendente dalla abitazione costituisce novità dirompente in una realtà caratterizzata dalla vicinanza e dalla stretto rapporto tra la pertinenza e l’abitazione.
Credo sia assai complesso arginare il fenomeno della mutazione del paesaggio agrario sia per l’oggettiva difficoltà di eseguire controlli che per la mancanza di risorse economiche che possano agevolare interventi tesi al mantenimento e alla conservazione della antica struttura.
Per quanto riguarda la proliferazione degli annessi le legge regionale toscana ha individuato un criterio che, pur se enunciato in maniera embrionale, istituisce un principio condivisibile. Il principio per cui nuovi annessi, dopo aver svolto la loro funzione, dovranno essere demoliti. E’ in realtà un’idea che contraddice la nostra stessa storia fatta dell’amorevole conservazione di tutto ciò che ci proviene dal passato ed è un’idea che potrà far proliferare le strutture precarie. Ma è forse una delle poche strategie possibili in un momento in cui il fenomeno della realizzazione di nuovi annessi sta assumendo proporzioni sempre più vaste.
Discutere dell’architettura e della sua qualità significa toccare un nervo scoperto. Allo stesso modo la semplice individuazione delle specificità dell’architettura Toscana potrebbe urtare convinzioni maturate in anni di studi e di professione. Idee e convinzioni, peraltro, formate sempre in perfetta buona fede e con processi di assoluta onestà intellettuale.
Individuare le specificità dell’architettura toscana non significa esprimere un giudizio negativo su tutto quello che tali peculiarità contraddice ma può essere utile a condividere, almeno, le proprie origini e radici culturali.
Per interi decenni, sull’altare di un fantomatico diritto alla libertà di espressione, si sono consumati danni irreparabili che sono, purtroppo, sotto gli occhi di tutti e che hanno contribuito alla formazione del degrado che caratterizza gli sviluppi recenti delle nostre città, dei nostri borghi e anche di parte delle nostre campagne.
Troppe differenze tipologiche, troppi materiali, troppi linguaggi che si sovrappongono in maniera incoerente senza logica e senza un disegno complessivo.
Ormai ogni operatore dell’edilizia: dagli architetti ai geometri, dagli imprenditori agli agenti immobiliari, sentono il bisogno di lasciare il proprio segno distintivo nel territorio. Un po’ come il maschio del cane che ha necessità di lasciare il proprio odore per marcare il suo ambito di influenza. Eppure mai come oggi ci sarebbe la necessità di non farsi notare. Di passare inosservati. La migliore costruzione o trasformazione edilizia ed urbanistica che si possa fare è quella che non da nell’occhio, che non si fa notare, che non fa girare la testa perché sembra che sia sempre stata lì.
Mi si obbietterà che è una rinuncia totale alla modernità, a lasciare il segno del nostro tempo. Ma se i segni del nostro tempo sono quelli che abbiamo profuso negli ultimi sessanta anni, credo che dobbiamo avere almeno l’umiltà di accettarlo.
E’ difficile capire come uscirne fuori. Forse trovare alcuni valori condivisi potrebbe aiutare a riconoscersi in linguaggi comuni. Perché almeno di questo sono convinto: in uno stesso territorio ed in uno stesso periodo occorre parlare lo stesso linguaggio.
Ed è per provocare il dibattito su questi temi che voglio enunciare cinque principi semplici sui quali discutere. Essi non possono essere che semplici perché le regole che hanno contribuito a formare le nostre città e che stanno alla base delle nostre architetture sono semplici.
E’ evidente che alla base dei processi di formazione e trasformazione territoriale ci sono anche ragioni economiche, politiche e sociali, ma io faccio l’architetto e solo di quelle più semplicemente tecniche mi voglio occupare.
Vedrete che non sarà possibile condividere alcuna di queste regole. Non perché non accettate nelle loro ragioni di fondo, che eviterò di spiegare perché note a tutti, ma in quanto non è possibile “generalizzarle” cioè renderle sempre e comunque buone.
Di queste regolette semplici se ne potrebbero scrivere cento. Io ne enuncerò solamente cinque e qualcuna volutamente provocatoria, perché la cosa che più mi interessa non è tanto verificare la condivisione delle regole quanto l’insofferenza alle stesse.
Le regole sono:
a) nella organizzazione delle facciate il pieno prevale sul vuoto;
b) l’organizzazione funzionale interna deve essere leggibile sull’esterno, le facciate debbono essere gerarchizzate in ragione delle funzioni svolte;
c) lungo le strade principali il piano terra deve essere allo stesso livello della strada e non avere funzione residenziale;
d) gli edifici in generale e quelli dell’edilizia di base in particolare debbono avere la copertura a falde inclinate e la gronda;
e) gli interventi in campagna debbono essere, in tutto coerenti con i caratteri tipologici ed architettonici del tessuto edilizio di antica formazione.
So che, nel frattempo, sono stati inventati: l’acciaio, le facciate continue, il PVC, l’alluminio e lo zinco titanio ma penso che la Toscana ne possa fare a meno.
Posso capire che rinunciare alla modernità sia un atteggiamento codardo ma, forse, negli ultimi decenni, di coraggio ne abbiamo avuto anche troppo.
Un'ultima cosa la debbo dire rispetto alla bio-architettura.
Sembra che tale tecnica sia divenuta la panacea di tutti i mali e che solo attraverso di essa sia possibile conseguire quel miglioramento della qualità edilizia, architettonica ed urbanistica da tutti tanto auspicato.
Credo che come in tutte le nuove esperienze ci siano aspetti positivi ed altri che meriterebbero ripensamenti o approfondimenti. Possiamo convenire che gli aspetti positivi superano largamente quelli negativi ma penso che si debba riflettere almeno su questi tre punti:
1. il corretto orientamento dell’edificio può costituire elemento vincolante per gli interventi in campagna ove l’edificio si rapporta con il campo e la tessitura agraria, ma non può essere altrettanto vincolante in città ove diventa preminente il rapporto con la strada e la piazza. E’ del tutto evidente che un reticolo stradale urbano risente di vincoli: storici, strutturali e orografici che prevalgono sul semplice orientamento. Allo stesso modo, tracciata la strada diventa fondamentale che l’edificio si allinei su di essa e non indipendentemente da essa per seguire il sole. Così è sempre accaduto e così è bene che continui ad accadere, in Toscana come altrove;
2. le pendenze delle coperture devono essere funzionali al tipo edilizio ricorrente e non alle esigenze di un migliore rendimento dei pannelli solari o fotovoltaici;
3. le serre solari nella facciate degli edifici tendono ad alterare il corretto rapporto tra i pieni ed i vuoti di una facciata. Il loro inserimento è spesso complesso e richiama elementi architettonici quali il bow-window che non hanno richiami o riferimenti nella nostra tradizione.
Concludo, citando un carissimo amico “In Toscana così come il gotico ha dovuto addolcire la cuspide del suo arco acuto, la bioarchitettura rinuncerà alle serre nella facciata e ad orientamenti contradditori con il tessuto edilizio”.
Roberto Verdelli