Pietro Pagliardini
In un commento su Archiwatch, il blog di Giorgio Muratore, un architetto di nome Vincenzo scrive:
"Pietro…Non credo bisogna agire senza regole…non credo nell’espressione artistica come soluzione dei problemi urbani…(per fortuna) credo di venire da una scuola di architettura (bari) intelligente, che interpreta l’intervento urbano, a qualsiasi scala, non come un evento, bensì come una trasformazione che si storicizza e che con la storia fa comunque i conti…con la storia più remota e con la storia più recente. Il problema del limite, a mio modo di vedere, è solo una gabbia…è solo tracciare il confine tra luoghi in cui niente si deve fare e (non)luoghi in cui tutto è ammissibile..io penso che ci sia senza dubbio una parte di città da tutelare (sul come ne si può discutere!) con attenzione particolare, ma questo non implica che tutto il resto si possa trasformare senza senso…
da (quasi)specializzato in restauro potrebbe sembrare un’eresia, ma se definire il centro storico/nucleo antico/città consolidata deve voler dire che il resto non lo è, allora non ci sto…come si legge spesso nel suo blog, la regola è fondamentale per l’ordine delle cose ben fatte ma se questa implica deregolamentare tutto il resto, penso che sia del tutto sbagliato
buon lavoro
vincenzo"
Se ho capito bene, Vincenzo mi attribuisce la volontà di voler deregolamentare nelle aree esterne al perimetro della città storica, dopo avere evidentemente letto qualcosa del genere in questo blog.
Immagino che potrebbe riferirsi al fatto che io ho dichiarato da subito il mio entusiasmo per il Piano casa, perché l’ho letto come occasione di libertà, e quindi indirettamente di deregolamentazione, per quei cittadini che hanno il bisogno, o il desiderio, di ampliare la propria abitazione. Se è così, nel riconfermare il mio entusiasmo per quel piano, comprendo però come si possa percepire un’apparente contraddizione tra il desiderio di regole, che in questo blog si propugnano, e la liberalizzazione del 20%. Perché è apparente la contraddizione?
Per dare una spiegazione inizio da un brano tratto dalla quarta di copertina del libro “Adesso l’architettura” di Jacques Derrida:
"Una volta che lo spazio è riempito con case, edifici, strade, templi, chiese e così via, una qualche autorità, qualche potere ha già strutturato lo spazio della città e, per la stessa ragione, ha già determinato un certo numero di norme politiche, comportamenti, costrizioni, ecc. Ecco perché non si può semplicemente decostruire l’autorità politica o il suo discorso senza seguire l’indice dell’architettura"
Prima domanda: che ci fa un libro di Derrida in casa mia? Niente, in effetti, perché dopo avere letto sette pagine l’ho abbandonato in quanto per me incomprensibile. Credo anzi che l’unica frase comprensibile l’abbiano scelta per la copertina. Il libro me lo ha regalato un amico filosofo, molto bravo, con questa dedica: “Caro Pietro, questo è un libro sicuramente più utile a te che a me e altrettanto sicuramente più comprensibile a te che a me. Ammesso che Derrida sia utile e comprensibile! Buon Natale e Buon Anno”. Fiducia mal riposta.
Dunque Derrida individua nella città lo strumento primo del potere e dichiara addirittura che non si può decostruire il potere senza decostruire la città. Questo discorso è chiarissimo anche se non ne condivido l’obbiettivo.
La città è certamente l’opera più importante che l’uomo abbia mai realizzato senza la quale nessun’altra opera, e il progresso stesso, sarebbe stato possibile. Ma Derrida vuole decostruire il potere mentre io, più modestamente, mi limito ad auspicare una minore invadenza dello Stato nella vita dei cittadini. Derrida pensa che decostruendo la città si decostruisca, quindi si annulli, il potere e io invece penso esattamente l’opposto: una città decostruita, come in effetti in gran parte è quella di oggi (ovvio che non mi riferisco alla banalizzazione modaiola della forma stilistica de-costruttiva fatta dagli architetti ma alla rottura completa delle regole urbane) decostruisce la società e lascia il campo libero ai poteri forti che poi altro non sono che i poteri globali economici e finanziari. Direi anzi che la decostruzione della città è cominciata ben prima dell’auspicio di Derrida proprio con l’emergere del potere economico come l’unico in grado di dettare legge, cui si è affiancato, per un certo periodo del secolo scorso, il potere politico delle grandi ideologie totalitarie, con una concezione urbanistica sostanzialmente de-costruttiva che ha trovato diffusione anche nelle società democratiche, dove i rapporti di forza sono determinati da molti fattori, tra cui l’egemonia culturale è uno dei fondamentali.
Dunque esiste una stretta relazione tra città, urbanistica e politica: è noto e superfluo ripetere che politica vuol dire amministrazione della città cioè urbanistica. Derrida ha drammaticamente visto giusto: distruggere la città vuol dire fare esplodere ogni relazione sociale e di civile convivenza, vuol dire minare alla radice l’ambiente entro cui si svolgono i rapporti tra gli uomini e dunque fare saltare la società e la politica.
Se questo è vero, il problema della forma della città non è una variabile indipendente dalla forma politica della società e soprattutto dal tipo di relazioni umane e sociali che si possono instaurare in un modello di città piuttosto che in un altro. Ovviamente non mi illudo che una città con regole costruttive fortemente strutturate e condivise sia necessariamente democratica, però pone certamente le condizioni ambientali perché lo sia, non fosse’altro per il fatto di dare vita a spazi urbani che permettono di intessere relazioni sociali tra gli individui e tra i gruppi invece di creare un deserto affollato di oggetti chiamati edifici.
Il modello urbano che ha decostruito la città è quello che ha cancellato la strada dal suo orizzonte, abbassandola al livello funzionale di supporto alla mobilità, ha parcellizzato la città in aree a funzioni specializzate, creando quartieri esclusivamente residenziali e quartieri esclusivamente produttivi o commerciali, ha tolto le persone dalle strade (che non esistono più) rinchiudendole nei luoghi di lavoro o a casa o in edifici specializzati per il tempo libero, che poi altro non sono che luoghi del consumo, mandandole a correre in tuta nelle specializzate aree verdi o nelle palestre; ha fatto degli edifici oggetti di brutto design sparsi in mezzo ai lotti, staccati gli uni dagli altri, eliminando così, di fatto, ogni luogo e possibilità di relazione sociale. Questa è la città delle “regole” urbanistiche attuali in cui si decanta la libertà individuale ma che in realtà non lascia nessun grado di scelta tra alternative diverse. La vita della città funziona come in un’autostrada: la corsia per viaggiare, la stazione di servizio per il rifornimento, l’autogrill per mangiare e comprare, il casello per pagare.
Questa urbanistica è l’espressione di uno Stato-padrone che tutto vuole regolare mediante un’imponente macchina burocratica cui non deve sfuggire niente, dallo spostamento di un tramezzo di casa all’apertura di una porta interna, che considera i cittadini come nemici pronti all’abuso e all’aggiramento della legge. Si assiste cioè all’apparente paradosso che da una parte si de-costruisce la città e la società e dall’altra si impone un controllo sociale attraverso il controllo edilizio. In una situazione come questa la possibilità di sfuggire a questa camicia di forza con un diritto una tantum di ampliare la propria casa di una misera ma spesso indispensabile stanza, a me sembra una ventata, per quanto effimera, di libertà.
Viceversa una città con regole tipologiche e morfologiche forti simili a quella della città storica non teme affatto una crescita naturale e continua, in base ai bisogni, degli edifici, come Vincenzo credo sappia. Non c’è scempio urbanistico nel fenomeno dell’intasamento dei lotti, anzi c’è proprio la naturale forma evolutiva della città.
Per questo non vedo nessuna contraddizione tra le regole evolutive della città e l’ampliamento in base ai bisogni della propria casa.
Io sono convinto che l’urbanistica e l’architettura tradizionale, che si realizza con regole che non sono di tipo sociale ma di riproposizione critica di quelle spontanee mutuate dalla città storica, consenta gradi di libertà maggiore ai cittadini perché il tessuto urbano che ne risulta è di tipo organico e non funzionale e/o burocratico e astratto, e può crescere in base ai bisogni.
Ciò che è superfetazione nel modello di città (cioè periferia) contemporanea e nell’architettura della geometria astratta diventa crescita naturale nel modello di città e di edilizia tradizionale.
NB: Foto tratte da Google Earth
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11 luglio 2009
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