Pietro Pagliardini
Il 3 e il 4 dicembre si è tenuto a Roma il convegno URBS2008, organizzato da EUR spaed altri tra cui CESAR.
Ho assistito alla prima giornata il cui tema principale erano le trasformazioni urbane.
Zygmunt Bauman
Il via agli interventi è stato dato da un’intervista fatta in collegamento video al sociologo Zygmunt Bauman, creatore della fortunata, quanto abusata, definizione di "modernità liquida".
Tutto è iniziato con questa semplice e pertinente domanda a Bauman da parte della coordinatrice del dibattito Marta Francocci:
“Qual è, se c’è, la ricaduta delle sue analisi sociologiche sull’architettura e sull’urbanistica?”
La domanda era necessaria perché l’impressione, evidentemente non solo mia, è quella che Bauman venga tirato per la giacchetta come giustificativo di progetti completamente spaesati dal contesto, privi di alcun senso che non sia il capriccio del progettista, e la società liquida di Bauman diventa così il facile retroterra culturale, sociologico e filosofico capace di dare credibilità al progetto.
Bauman, un cortese e simpatico anziano signore, ha detto, più o meno:
• Non essendo egli architetto ma sociologo non si interessa direttamente delle ricadute nell’urbanistica e nell’architettura; avrebbe fatto volentieri un “duetto” con sua figlia Irena, architetto, ma in quel momento non era presente.
• Gli architetti non hanno il potere di cambiare la società; architetti ed urbanisti progettano per la società, ma non hanno alcuna possibilità di modificare i processi sociali né intervenire alla grande scala, tantomeno alla scala globale. Possono solo operare alle scale più piccole. Bauman ha anche detto di non aver mai parlato di “architettura liquida”.
A conclusione dell’intervista ha dato un consiglio, dietro precisa richiesta, agli architetti: l’architettura ha un impatto enorme sulle strutture visive dunque quando si progetta è bene saperlo per prevederne le conseguenze. Inoltre i progetti, specie quelli urbanistici, possono avere influenza sulla mixofilia o sulla mixofobia (mixofilia: forte interesse, propensione, desiderio di mescolarsi con le differenze; mixofobia l’esatto opposto cioè la paura di mescolarsi).
Dunque Bauman ha indicato nient’altro che prudenza, attenzione, senso di responsabilità su ciò che si va a progettare. Come a dire, aggiungo io, che occorre avere la percezione della sostanza, della consistenza fisica e perciò durevole dell’architettura, intesa non come allestimento temporaneo e variabile, ma manufatto permanente e stabile. In sostanza un discorso di grande buon senso da vecchio saggio che fornisce una norma etica.
Al successivo dibattito, rilassato e salottiero, ma non per questo banale , hanno partecipato Orazio Campo, Mauro Miccio (sociologo),Paolo Portoghesi, Franco Purini.
Semplificando al massimo direi che tutti, in modi diversi, hanno riconosciuto che la sociologia aiuta a comprendere la società (ovviamente) ma nulla dice della forma dell’architettura la quale ha una sua autonomia disciplinare che non discende dagli studi sociologici.
Purini in particolare ha affermato che la città non è affatto liquida anzi, l’architettura costruisce manufatti che creano l’ambiente di vita dell’uomo e che sono fatti per durare,e che non bisogna lasciarsi influenzare dalle varie teorie dell’incertezza, del caos, del disordine, semmai bisogna reagire a queste, che pure sono realtà presenti, con l’ordine e l’armonia.
Cito alcune parti (il corsivo è alla lettera perché ho registrato).
Franco Purini:
Oggi tra gli architetti ci sono due posizioni, potremmo dire schematizzando:
quella di chi pensa di poter trascrivere i flussi, i dinamismi ,le ibridazioni, le metamorfosi, il caos, chi per esempio estetizza il degrado che insiste nelle città e che quindi trasferisce direttamente la lettura della città che fa la sociologia, antropologia o il cinema pensando che possa diventare il territorio dell’architettura
oppure quella di chi come me e come molti altri, vorrei qui ricordare Nikos Salìngaros che su questo ha reso parole molto illuminanti, che sanno che c’è uno scarto tra lettura sociologica e struttura della città. La struttura della città è inerziale, prima di tutto, e non corrisponde in tempo reale alle trasformazioni della vita, è fatta di oggetti, di cose, di strade, di case, di spazi pubblici, di elementi che sono stabili e che vanno progettati e che sono esattamente il campo in cui l’architetto non può intervenire negli assetti sociali se non attraverso l’architettura.
Il nostro problema è ad esempio di studiare la città per quello che la città è dal punto di vista della sua consistenza fisica nel suo costruirsi nel tempo ….. essendo però un manufatto. Spazi consistenti per esempio che ostacolano i flussi piuttosto che favorirli.
Quindi la metafora della liquidità non credo che si applichi molto alle città. Per esempio vediamo che a Roma, man mano che la post-modernità la interessa coni suoi ritmi, le comunicazioni delle merci e delle persone, diventa in realtà una città sempre più ostile nei confronti dei suoi abitanti, crea separazioni, crea ostacoli altrettanto duri dei recinti murari.
La domanda che mi pongo è:
è possibile che la città la si sia voluta costruire come: aperta, dinamica, discontinua, illimitata, caotica, disordinata, frammentaria, disorganica, disarmonica, atopica, impervia? E’ questa la città che vogliamo?
O vogliamo invece una città che sia: limitata, misurata, riconoscibile, armonica, gerarchica nei suoi elementi, dotata di spazi e di luoghi collettivi, omogenea, ospitale, sostenibile?
E’ questa la domanda. In che modo noi prendiamo atto del lascito moderno sulla città e ci comporteremo in futuro secondo strade contrapposte?
C'è chi come Rem Koolhaas che per un verso parla di spazio-spazzatura e per l’altro non dice che lo spazio spazzatura vale più tanto. Noi constatiamo che lo spazio è spazzatura o, come dice Bauman, le città contemporanee sono discariche, ma dobbiamo fare in modo che ciò non avvenga più, dobbiamo lottare per una città che sia diversa, che recuperi quelle dimensioni che noi pensiamo siano state perdute o quasi cancellate.
Certo le soluzioni non possono essere trovate semplicemente in quel registro di gravità più o meno proposte dal New Urbanism, apprezzabilissimo peraltro, ha fatto delle strutture di grande interesse. Le soluzioni non vanno trovate in una dimensione anti-moderna; le soluzioni a questi problemi vanno trovate dall’interno…..di una città moderna che si confronta con tutte le problematiche che abbiamo sentito elencare da Bauman.
E’ perfino scontato precisare che si tratta di un discorso a braccio e come tale non va analizzato dal punto di vista linguistico ma nei suoi contenuti essenziali. Si può dire tuttavia che a Purini non facciano difetto aggettivi e sostantivi.
Commento
Il contenuto del ragionamento è chiaro, almeno fino ad un certo punto, più scivoloso e acrobatico sul New Urbanism (va detto che il tempo incombeva), ma resta la rivendicazione della città come un manufatto costruito non per l’immediato ma per un tempo tanto lungo da poter assorbire, grazie alla propria grande inerzia, fenomeni sociali diversi e mutanti rapidamente nel tempo.
Io ne traggo la conclusione che, al solito, l’obbiettivo è sempre uno solo, cioè l’uomo e il suo benessere, visto che le situazioni sociali cambiano ma l’uomo, al fondo, resta sempre lo stesso e deve essere messo in grado, per quelle che sono le possibilità dell’architettura, di affrontare con meno danni possibili periodi di difficoltà e di godere appieno nei periodi più favorevoli.
Purini insomma rivendica la validità del progetto come campo autonomo non direttamente discendente dalle analisi della società.
Direi anzi che proprio in una "società liquida", dominata dall'incertezza, dall'impossibilità di individuare livelli decisionali o poteri capaci di imprimere un indirizzo che non sia solo quello del mercato, della comunicazione, del massimo profitto, il ruolo specifico dell'architetto diventa importante e la scelta delle soluzioni risiede, per questo, nelle sua mani perché, nell'ambito della sostenibilità economica, egli dispone di autonomia decisionale in ordine al disegno. Dunque il progettista, soprattutto nel disegno urbano, acquista, a mio avviso, una maggiore responsabilità e una grande responsabilità.
Una considerazione da fare è quella sulle soluzioni da adottare che in verità sono state appena sfiorate e accennate ed anzi nella sessione pomeridiana lo stesso Purini è sembrato un po’ troppo sbrigativo e auto-assolutorio rispetto al passato in genere e suo in particolare, citando il tormentone senza fine dello Zen, di cui ha rivendicato il progetto con Gregotti, e dicendo che la responsabilità del progettista è alquanto ridotta rispetto a tutti gli altri attori.
Io sono convinto che la risposta a fenomeni di instabilità e di incertezza resta sempre e comunque il modello della città europea, omogenea e organica, senza parti separate, che in presenza di flussi migratori diventano ghetti, con connessioni, cioè strade, oggetti fisici e non virtuali, che si comportano come la rete virtuale perché consentono gradi di libertà altissimi. La liquidità sociale non può essere risolta dagli urbanisti, tantomeno dagli architetti, ma una città priva di identità, di permeabilità, di forma ne accentua i danni e le storture.
E comunque la “liquidità” non si contiene con muri, con steccati, con barriere, intese non come manufatti fisici ovviamente, ma come mancanza di permeabilità urbana, come aree separate a diversa funzione e ognuna monofunzionale, lambite da strade ad alto traffico veicolare, ma la si asseconda con la permeabilità che consente ad ognuno di godere di ogni parte della città, di consentire mobilità sociale tra una zona e l’altra, di ritrovare in ogni parte di città un mix sociale, una ampia gamma di funzioni senza separazioni nette tra quella residenziale e quella commerciale o produttiva in genere. Non è solo il disegno urbano a creare integrazione, che dipende dalle scelte della società nel suo complesso, ma il disegno può favorire o almeno non ostacolare questo processo.
La città tradizionale, la città a rete, la città-organismo è il regno della complessità proprio per la grande quantità di connessioni che si possono stabilire tra i diversi organi, mentre la città frammentata, la città della zonizzazione, tenuta assieme da collegamenti obbligati e prestabiliti, è un sistema rudimentale, grezzo, e soprattutto rigido e non flessibile.
Certamente il modello della città storica dovrà essere adeguato ai tempi, alla mobilità, al diverso modo di utilizzare il tempo libero, il tempo del lavoro e quello dell’abitare e dovrà essere calibrato sulle dimensioni della città (una cosa è una cittadina di 50.000 abitanti altro è una di 2.000.000) ma il principio ordinatore è lo stesso: cioè la strada come elemento generatore del villaggio e poi della città, secondo un processo di replicazione di moduli gerarchizzati in base al principio dell’autosomiglianza, così come “scoperto”, e non “inventato” da Saverio Muratori e dalla sua scuola, soprattutto Caniggia e, più recentemente e con un approccio diverso, da Salìngaros, come anche Purini riconosce, da Lèon Krier, dallo stesso Duany il fondatore del New Urbanism.
Degli altri interventi non racconterò adesso per mantenere limiti ragionevoli. Ho iniziato dal primo in ordine cronologico e gli altri seguiranno ma non esiste nessuna gerarchia di valori visto che sia Portoghesi che Campo hanno detto cose di notevole interesse. Miccio è un sociologo bravo e che si fa capire ma non parlo volentieri di ciò che conosco poco.
5 dicembre 2008
SOCIETA' LIQUIDA, CITTA' SOLIDA - (1)
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4 commenti:
" .... Bauman ha anche detto di non aver mai parlato di “architettura liquida”....", lui no, ma prima o poi Bauman farà la fine di Derrida.
Ciò che ha sancito il convegno, specie quando afferma che la sociologia "nulla dice della forma dell’architettura la quale ha una sua autonomia disciplinare che non discende dagli studi sociologici" si può rivoltare come un calzino. Dubito fortemente che la sociologia non dica nulla sull'architettura (e sull'urbanistica), perché se non lo fa in modo diretto ed esplicito, lo fa certamente e pesantemente in modo indiretto: vorrà pur dire qualcosa il fatto che la città medioevale si arrocchi attorno alla cattedrale (il potere religioso), quella rinascimentale attorno al palazzo (il potere laico e politico), quella moderna attorno ai grandi poli terziari (il potere economico), non vorrà forse dire che la struttura della città rispecchia la struttura socio-politico-economica della comunità che ne fruisce?
“La sociologia aiuta a comprendere la società (ovviamente) ma nulla dice della forma dell’architettura la quale ha una sua autonomia disciplinare che non discende dagli studi sociologici”: contesto questa tua affermazione in modo radicale per due motivi, 1) l’architettura non fa sociologia, è sociologia 2) la sociologia non dice nulla della forma dell’architettura, ma dice tutto sulla sua funzione, trai tu la conseguenza.
“Purini insomma rivendica la validità del progetto come campo autonomo non direttamente discendente dalle analisi della società.”, be’, Purini dice una grande cavolata, se avesse ragione dovremmo giustificare ogni cosa nel nome dell’autonomia progettuale di qualunque architetto, liquido o no.
Anche Gregotti , suo co-progettista, a quanto pare, del famoso (o famigerato) Zen di Palermo dichiara "l’architettura non è determinante per il sistema sociale" (L’Espresso, settembre 2003), ma se gli esiti di un simile approccio sono quelli ci deve essere qualcosa che non quadra.
Il punto focale del discorso è un altro: oggi la velocità dei mutamenti sociali è tale che l’architettura non riesce a starle dietro proprio perché “La struttura della città è inerziale, prima di tutto, e non corrisponde in tempo reale alle trasformazioni della vita”, e anche se ci riuscisse verrebbe superata e diventerebbe obsoleta prima di essere completata, sommersa dall’ondata di un nuovo cambiamento. In passato ciò non accadeva, anche se i tempi di realizzazione erano lunghissimi (pensa alle grandi cattedrali, che venivano ultimate in decenni se non secoli) perché i periodi di stabilità sociale erano anch’essi lunghissimi, per questo era possibile che la città e la sua architettura fossero soddisfacenti per lungo tempo e per più generazioni. Il tema è complesso, la soluzione di là da venire, e neanche Bauman ha la bacchetta magica. Neppure sua figlia architetto, Irena Bauman, che dichiara in un’intervista a Paola Natalicchio sull’Unità del 4 dicembre scorso, proprio in occasione del convegno Urbs ’08: “Gli architetti hanno la responsabilità di cucire le separazioni causate dalla velocità dei cambiamenti . Il nostro ruolo è pensare il futuro e una società sostenibile. Abbiamo anche un ruolo chiave nell’influenzare la classe politica. Ma possiamo svolgerlo in modo efficace solo se agiamo uniti e abbandoniamo alcune nostre pessime abitudini” e più avanti ci somministra un'altra porzione di aria fritta: “Gli architetti sono dei pensatori strategici, capaci di analizzare problemi complessi e trovare soluzioni di mediazione. Disegnamo l’ambiente che costituirà il palcoscenico per l’interazione in luoghi che saranno qui molto più a lungo di ciascuno di noi. Dobbiamo avere le capacità e le responsabilità di comprendere il contesto che ci circonda e, per quello che è possibile, prevedere i bisogni futuri”.
Un po’ come dire che dobbiamo essere tutti belli, alti e intelligenti. Poi conclude” Saremo in grado di affrontare tutte queste sfide solo quando avremo imparato prima comprendere i problemi sociali e quando saremo pronti a lavorare solo su quei progetti in grado di dare un contributo positivo alla società”.
Amen.
saluti
Vilma
Comincio dalla fine: detto tra noi, l’impressione è che Bauman, che è molto anziano e ha una figlia che dalle foto sembra molto giovane, le lanci la volata e se la porti dietro anche per questo. Atteggiamento di amore paterno che io, data la grande differenza di età tra me e la secondogenita, comprendo benissimo, il che non ci costringe a dare ragione né all’uno né all’altra.
Non sfuggo però al nòcciolo dei problemi che tu poni. E’ chiaro che il fatto che Purini abbia tenuto a separare sociologia e architettura non rende la cosa necessariamante vera. Però il suo ragionamento mi sembra non faccia una piega: la città è fatta di manufatti reali, solidi e concreti e, nelle sue parti e nel suo insieme possiede un’inerzia straordinaria che non può reggere il cambiamento continuo degli eventi sociali.
Potremmo dire che la città è hardware e la società è software. Il software, non a caso, va molto più veloce, si evolve molto più velocemente dell’hardware. Il software è diffuso, può nascere in un garage di Los Angeles o in un fondo di Caserta, l’hardware richiede investimenti , grandi tecnologie ed è molto più concentrato. Nella città in fondo è la stessa cosa e, in un certo senso, i due cicli sono, in certa misura, indipendenti. Se ad ogni nuovo software si dovesse cambiare il computer staremmo freschi. Al massimo lo si potenzia. I nuovi telefonini sono sostanzialmente software ma il sistema che lo supporta è sostanzialmente lo stesso.
Tu dici, giustamente, che le città sono sempre state l’espressione della società ed è vero, ma con molti distinguo: l’edilizia di base, cioè il 90% ed oltre della città è rimasto sempre lo stesso. Vi sono poi periodi in cui la città cambia radicalmente, basta pensare alla Parigi di Hausmann, ma quello è successo grazie all’esistenza di un potere centrale forte e autoritario. Oggi, invece, la società non è governata da un potere individuabile chiaramente, perché i livelli decisionali sono molti, contrapposti e contraddittori e il potere è sfuggente, cioè liquido.
La democrazia è confusione ma non spetta agli architetti in quanto tali decidere se sia giusto o sbagliato. Come cittadino mi piacerebbe un po’ più di ordine ma sinceramente non vorrei buttare il bambino con l’acqua sporca e preferisco tenermi un po’ di confusione insieme ad un po’ di libertà.
L’architetto deve prendere delle decisioni, deve fare un progetto per questa società. Quale allora, se non sappiamo cos’è questa società? Quella che dice Aron Betsky, cioè andare oltre l’architettura, che non vuol dire niente? ( A questo proposito Portoghesi si è mostrato indignato perché si possa fare dadaismo col denaro pubblico).
Gli uomini, le donne, i giovani si muovono nello spazio, non nel web. Si lavano su un lavandino, mangiano su una tavola, si siedono su un divano, dormono su di un letto. Gli uomini sono carne e materia, se si ammalano gravemente vanno all’ospedale, che è un luogo fisico, quando muoiono vanno al cimitero. Non è cambiato niente da questo punto di vista. Le manifestazioni sociali sono cambiate, le forme in cui ognuno si relaziona con gli altri e con il mondo sono cambiate ma, tutte queste attività si svolgono nello spazio e nel tempo, cioè nella città. Inoltre io credo che se si seguono le mode si perdono di vista i bisogni della stragrande maggioranza delle persone del mondo occidentale ricco (figuriamoci poi dei paesi del sottosviluppo) che guardano la TV commerciale ma la mattina si alzano per andare a lavorare e non vivono nel mondo dell’immagine, del virtuale, e hanno il diritto di vivere in una città che possa favorire un minimo di benessere. Le casalinghe di Voghera sono la maggioranza silenziosa, almeno fino a quando non vanno a fare il pubblico in qualche trasmissione spazzatura in cui vengono invitate a dire tutto quello che hanno dentro e allora, per un giorno entrano in quel sogno che è l’agorà pubblica mediatica. Ma quando tornano a casa hanno bisogno di un’agorà dove fare la spesa, portare i panni in lavanderia, accompagnare i figli a scuola, e queste cose si fanno in luoghi molto duri e molto poco liquidi.
Noi parliamo spesso di ciò che appare ma non di ciò che è. Non tutto il mondo è moda, non tutto il mondo è Chigaco, o Miami, o New York. Dubai è, coscientemente, la nuova Disneyland, ma non tutto il mondo può diventare Dubai.
Allora che fare? Certo, ci vuole attenzione anche ai nuovi bisogni, ma la città ha regole e ripeto “scoperte” da altri. Non voglio ripetere il post ma il principio della città storica, adeguata, si adatta benissimo alla società. Poi ci sono le grandi capitali come Berlino che sono luoghi di spettacolo e lì si divertano a fare l’architettura liquida, ma non a Roma, non a Firenze, non a Venezia. Restano problemi irrisolti, come quello dei centri commerciali, dei multisala, dei grandi centri di divertimento e di spesa che spostano flussi di traffico e depotenziano le città. Però, anche qui, vi sono situazioni che cambiano: proprio al convegno è stato detto che adesso c’è il problema di convertire alcuni grandi centri commerciali che non rendono più (perché anche quelli hanno un ciclo di vita breve) e gli investitori chiedono naturalmente di trasformarli in residenze. Allora, può la città seguire questi cambiamenti?
Con sano pragmatismo inglese il ministro Gordon Brown ha indicato in Poudbury un modello per i nuovi centri commerciali nelle aree libere agricole; cioè niente cattedrali nel deserto, si costruisce il centro commerciale con le case e anche luoghi di lavoro. In una parola un villaggio tradizionale. Poi l’architettura conta molto meno, anche se è importante. Potrà essere antichista o modernista, meglio se ci sarà un po’ di mix, ma quello che conta è lo spazio urbano, la pianta, l’urbanistica perché è quella che decide il funzionamento di una città.
Funzionerà? Sembra di sì, comunque me lo auguro.
Saluti
Piero
Pietro,
un post strano, noto un cambiamento importante del tuo punto di vista.
Credo che anche questa volta non bisogna cadere nella solita trasposizione di concetti extrarchitettonici in teorie architettoniche:
* Rem Koolhaas ----> Architettura liquida da Z. Baumann (Semplificazioni giornalistiche)
* Peter Eisenman---> Decostruttivista da J. Derrida (Paradosso creato da P. Johnson e da Eisenman negato)
* Archtetture 'sociali' contemporanee ---> Non luoghi da M. Augé (I non-luoghi sono contenitori di storie e quindi brani di città)
Soltanto il Junkspace è una riflessione sulla città contemporanea, ma non possiamo ridurla nel suo significato letterale. Koolhass osserva i fenomeni delle città contemporanea, esplosioni urbane spesso senza regole apparenti. A lungo il suo punto di osservazione è stato il ventre di New York «Il prodotto costruito della modernizzazione non è l'architettura moderna ma il Junkspace. Il Junkspace è ciò che resta dopo che la modernizzazione ha fatto il suo corso o, più precisamente, ciò che si coagula mentre la modernizzazione è in corso, le sue ricadute».
Su questa base ha teorizzato l'architettura Bigness cioè un'architettura catalizzatore da inserire nelle città Junkspace o meglio 'Città generiche'.
Esempi:
* Casa della musica a Oporto (Portogallo) di Rem Koolhaas/OMA;
* Parco Biblioteca Leon de Grieff a Medellin (Colombia) di Giancarlo Mazzant;
* Parco della musica a Roma (Italia) di Renzo Piano
Concordo con Vilma che l'architettura ha un ruolo sociale che Purini/Gregotti disconoscono per non cedere il passo alla loro idea di 'Architettura' dicendo che lo zen sia mal abitato.
Il problema di questi convegni è che tra i relatori italiani parlino Purini/Portoghesi il primo in una continua contraddizione tra ciò che scrive/dice e ciò che costruisce, il secondo è uno statuario postmodern (vedi grattacielo a Shangai), sicuramente importanti architetti ma vorrei cominciare a sentire Carlo Ratti, Carmelo Baglivo, Lorenzo Romito e molti altri architetti bravi e giovani che hanno una visione un po' più contemporanea e forse meno militante.
Saluti,
Salvatore D'Agostino
Salvatore, se tu noti un cambiamento vuol dire che c'è.
Io non so dove esso sia però non mi scandalizzerei affatto se veramente ci fosse, visto che ho cambiato molte volte idea nella mia vita ed è cosa di cui vado orgoglioso, perché non ho mai rinnegato il passato.
Immagino solo tu ti riferisca ad un tono più pacato e oggettivo, ma questo perchè ho solo cercato di riportare fedelmente quanto detto dagli intervenuti. Pero solo da Purini, tra qualche giorno riporterò il testo di Portoghesi e solo in parte di Campo. Il problema è che lo sbobinamento è faticoso.
Quanto agli interlocutori, il giorno successivo, a cui non ho potuto assistere, erano in programma Rudy Ricciotti e Nathalie de Vries del gruppo MVRDV. Quindi non ci siamo fatti mancare neppure le archistar. Se riuscirò, ma ne dubito, a trovare i testi degli interventi, li pubblicherò.
Ma nei convegni non contano molto i testi, tanto ognuno dice sempre quello che gli è più utile in quel momento, quanto respirare il clima e quello l'ho respirato.
Chissà se il secondo giorno sarà cambiato! Dovessi tirare a indovinare direi di no e allora sarebbe proprio bello vedere come fare a conciliare gli opposti. Ma in architettura, come in politica, tutto è possibile.
Saluti
Pietro
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