Pietro Pagliardini
Se ponessimo la domanda: “Cos’è una smart city?” a soggetti diversi, esigendo una risposta sintetica, probabilmente avremmo risposte generiche e sicuramente diverse tra loro in base alla specifica preparazione di ognuno: l’informatico risponderebbe che è l’applicazione della Information technology alla vita di tutti i giorni, l’architetto direbbe che serve a migliorare la fruizione della città, il politico direbbe bla, bla, bla, l’industriale che aumenta la competitività, l’ambientalista che controlla e ottimizza le risorse energetiche e ambientali, e così via.
Pur essendoci dietro questa definizione molta concretezza economica e tecnologica, non si tratta cioè di una dei tanti vuoti ed effimeri slogan della società dell’informazione, tuttavia l’uso indiscriminato e pervasivo che se ne fa rischia di ridurlo a slogan, parola d’ordine e fuorviante, in specie per gli architetti e per le aspettative che in essa potrebbero riporre.
E’ quella parola city a confondere le acque, con il desiderio di riempire di cose diverse lo stesso contenitore. Se la dovessi tradurre in italiano, non direi “città intelligente” ma “società intelligente”, perché di questo effettivamente si tratta, e nell’ambito della società ci sta anche la città. Rientrano nella categoria smart city progetti per la tracciabilità dei cibi, il packaging che faccia risparmiare involucri, la logistica, la domotica, e poi l’informatizzazione scolastica, i controlli in agricoltura e negli incendi boschivi, il monitoraggio e l’ottimizzazione dei consumi energetici, la mobilità urbana, la realtà aumentata, i rapporti tra cittadini e la pubblica amministrazione, il clouding, la sanità, il sostegno agli anziani, e molti altri ancora.
Quanti di questi temi riguardano propriamente la città e di conseguenza architetti e urbanisti? In un certo senso tutti, ma solo per il fatto che ogni attività umana si svolge nello spazio fisico, città o territorio che sia. E forse proprio per questo è stato scelto city, per offrire la concretezza di un luogo fisico a tanta diversità di contenuti. Società è forse termine troppo vasto che si presta ad equivoci di tipo politico-sociologico.
Restando alle tematiche propriamente urbane, il rischio è che si tenda ad attribuire alla smart city proprietà salvifiche che essa non può avere e che gli urbanisti vengano attirati nella sfera più strettamente ingegneristica della ICT (Information & Communication Techcnology) come risolutrice dei mali delle nostre città.
Favorire e semplificare l’accesso al flusso di informazioni da parte dei cittadini è una esigenza importante e non più eludibile. Sono i cittadini stessi a pretenderlo. Prendiamo il caso più noto, quello di Santander, in Spagna, dal Corriere della Sera:
Come si capisce dall’articolo, l’approccio è quello di creare un cervello urbano globale, che tenga sotto controllo in tempo reale qualsiasi evento avvenga, i cui recettori e utilizzatori siano in buona parte i cittadini stessi. Tralasciando le possibili conseguenze negative che potrebbero verificarsi con migliaia di persone che mandano informazioni, molte delle quali è ipotizzabili sbagliate o ridondanti o volutamente false, è chiaro che vi sono due obiettivi: rendere più sicura la vita e più partecipi i cittadini stessi alla vita della loro città.
Ma, e questa è la trappola per gli urbanisti, siamo nel campo del software, del più impalbabile e generico, l’informazione, per cui è necessario sapere se un evento avviene, ne siamo subito informati, ma poco o nulla si può fare per evitare quell’evento, mentre si può fare in modo di attenuarne alcune sue conseguenze negative.
L’informazione insomma, sembra essere un valore in sé, a prescindere. Un po’ come quando si sente in TV: il livello del fiume è salito di 6 metri, ma è sotto controllo. Controllo di che? Se deve esondare esonda. Ma uno sta tranquillo. Informazione anestetica.
Un esempio sulla città: c’è un ingorgo di traffico, chiunque si organizza per non peggiorare la situazione. Ma il problema è: perché si è creato quell’ingorgo di traffico? Il caso che ci interessa non è l’evento eccezionale, ma quello ordinario, vale a dire una città impostata sugli spostamenti in auto, con poche strade di grande scorrimento che lambiscono zone monofunzionali le quali si riempiono e si svuotano tutte insieme a determinate ore del giorno. E’ un po’ come le piogge di questi giorni che creano inondazioni ed effetti violenti: una urbanizzazione esagerata che ha interrotto i flussi naturali di scorrimento delle acque, incrementati dall’abbandono e dall’incuria dei mille fossi e canali di scolo che distribuiscono le acque in una rete idraulica continua e capillare nel territorio e che, in occasione di precipitazione violente (corrispondenti a quelle ore di punta del traffico urbano), riversa tutta l’acqua in pochi canali che, per quanto capienti, non possono assorbirla tutta. Le auto in un ingorgo si fermano, l’acqua esonda.
Dunque la prima regola, prima del controllo, del monitoraggio e della comunicazione dei dati, consiste nell’essere smart la città stessa nella sua parte hardware, cioè nella sua configurazione fisica e spaziale. Come la rete idraulica deve essere diffusa e gerarchizzata, così la città deve essere strutturata con una rete di strade gerarchizzate e che offrano il massimo delle alternative possibili, talchè il blocco di una di esse, per qualsiasi evento, sia assorbito senza traumi dalle altre. E qui l’ICT entra in gioco con la sua carica informativa che attenua ulteriormente i danni e gli inconvenienti.
Il rischio insomma è che l’idea di smart city si traduca in un surrogato dell’urbanistica, in una pezza a pessime città, e faccia, ancora una volta, allontanare l’obiettivo primario, cioè la sua forma. Architetti e urbanisti dovrebbero forse concentrarsi sulla città e lasciare il software ad altri, utilizzandolo semmai al pari della tecnologia che si utilizza negli edifici, senza per questo impostare gli edifici in funzione della tecnologia stessa o, peggio, progettare edifici il cui unico valore sia quello tecnologico: la domatica può aiutare in casa, ma è destinata a rapida obsolescenza, mentre la casa resta e deve essere progettata per durare più a lungo possibile. E se qualcuno pensa il contrario, non si azzardi più a pronunciare la parola sostenibilità
5 commenti:
Ottimo Pietro.
Come tutti gli slogan, penco che anche quello di "smart city" farà la sua parabola, e giustificherà (come sta già facendo) l'abuso terminologico a favore dell'industria teconogica piuttosto che servire realmente alla costituzione di una società più intelligente. La tua osservazione in materia è molto opportuna!
Anch'io, come ho più volte detto nei libri, articoli e post, ritengo che una "smart city" all'interno di una "idiot society" non abbia alcun valore ... basti pensare alla presunta "architettura sostenibile" per "città insostenibili", o a quella "verde" per territori "grigi".
Insomma, il rischio è il solito, e sembra voler sempre riportare alla "società dello spettacolo". Una frase ad effetto, uno slogan può tornare utile a fare affari, indipendentemente dalle contraddizioni insite nei programmi.
Pensiamo all'importanza data al contempo alla domotica ed al risparmio energetico. L'80% delle funzioni proposte dalla domotica non ha alcun senso, se non quello di illuderci di vivere in un mondo futuristico i cui effetti sono quelli ben ritratti nel film Disney Wall-e, e comportano un consumo energetico (oltre dei costi di installazione e manutenzione vergognosi) pazzesco ... ma "smart"!!
Insomma, sono cose per le quali bisognerebbe muoversi con i piedi di piombo, prima di dar credito incondizionato ai messaggi ad effetto che ci vengono propinati, occorrerebbe fare molta attenzione ... dietro l'esca potrebbe nascondersi un amo!
Gran parte della domotica è gadget, utile a muovere il mercato e a complicare la vita. Come diceva Henry Ford per l'automobile "quello che non c'è non si rompe". E nella domotica di cose che si possono rompere ce ne sono davvero tante. Dietro la smart city c'è un monte di denaro e anche di ricerca applicata, cioè di tecnologia, e io non contesto il fatto che si cerchino di sviluppare applicazioni che possono sviluppare un mercato e quindi incrementare un tipo di occupazione di alta specializzazione. Contesto da architetto, che è quello che a noi interessa, che si tenda a far credere che queste tecnologie risolvano problemi urbani. Non li risolve più di quanto possa fare un semaforo, che è un'applicazione smart ma di tipo analogico e non digitale.
Però questo equivoco c'è, al pari del potere salvifico della parola sostenibile, proprio come dici te.
Io prendo la smart city come la conquista della Luna e dello spazio in genere: a che serve? A niente, a parte l'aspetto simbolico, però intorno a quell'obiettivo apparentemente inutile c'è stato un grande sviluppo della scienza con ricadute sul mercato e sulle applicazioni quotidiane.
Ma architettura ed urbanistica sono altra cosa e i problemi sono gli stessi e le soluzioni non fanno un passo avanti
Ciao
Pietro
assolutamente d'accordo!
PP,
condivido sull'inghippo 'smart city'=urbanistica ovvio prendo le distanze sul tuo concetto di 'forma' delle città.
Saluti,
Salvatore D'Agostino
E' già qualcosa, Salvatore, visto l'equivoco e la trappola spaventosa in cui cadono moltissimi architetti. Equivoco non senza conseguenze purtroppo, perchè distrae comunque dai problemi della città, offrendo una specie di scorciatoia tecnologica a problemi che sono di tutt'altro genere.
In fondo questo equivoco è lo stesso della politica: l'illusione, creata ad arte, che la soluzione sia tecnico-economica per cui si affida il comando al tecnico-economista. Non che la politica possa essere svincolata dai fatti e quindi dalla tecnica, certamente, ma non sarà la tecnica a risolvere.
E credo che anche su questo saremo d'accordo. Sulle soluzioni conserviamo pure pareri diversi.
Ciao
Pietro
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