AVVERTENZA: questo è un post che apparirà retorico, non tanto nella forma quanto nella sostanza. Perciò se chi ha iniziato a leggere non ama la retorica è bene che cambi subito post o blog.
Il post è frutto di una riflessione suscitata dall’ascolto della lettura e dell’analisi comparata dei due discorsi post-elettorali del Presidente eletto Barak Obama e dell’ex candidato John McCain, svolta ieri mattina dal Prof. Massimo Teodori durante la rassegna stampa di Radio 3.
Pur breve, è stata una vera e propria lezione di storia americana e di storia della libertà quella fatta da Massimo Teodori che, se non ho sbagliato, alla lettura di un passo del discorso di McCain, ha anche avuto un calo di voce e un lieve balbettio, come da parte di chi prova una forte emozione.
Questo post è “retorico” quanto lo sono i due discorsi, almeno secondo i parametri di giudizio su cui si basa la nostra cultura e la nostra politica, talora pompose nella forma ma ciniche e disincantate nella sostanza.
Cosa hanno detto entrambe i candidati alla presidenza: tutti e due hanno utilizzato le parole chiave che costituiscono l’elemento fondante della nazione americana, nata da una rivoluzione: l’unità del popolo americano frutto della somma delle individualità, cioè della diversità, nel supremo interesse della nazione stessa.
Hanno richiamato entrambi la lotta per l’affermazione dei diritti civili delle minoranze, hanno riconfermato l’importanza del sogno americano, appoggiato però su solide basi comuni e condivise capaci di unire l’intera nazione.
Hanno entrambi affondato le radici degli Stati Uniti d’America di oggi sulla comune storia, che è una storia di lotta per la libertà di tutto il popolo e l’affermazione individuale.
La storia comune, le radici comuni della nazione americana, scritte nella dichiarazione d’Indipendenza, sono dunque il richiamo costante e condiviso da parte di un popolo che nella cultura, nell’economia, nella politica si esprime invece in maniera fortemente innovativa e, piaccia o non piaccia, domina il mondo con i suoi modelli di vita, le sue mode e anche con le sue manifestazioni di grande domocrazia.
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Se è sembrata troppo "retorica" questa parte del post allora chissà cosa penserete della seconda parte!
Queste considerazioni del Prof. Teodori, da me liberamente interpretate e certamente banalizzate, mi hanno fatto riflettere su quale sia la storia condivisa della nazione italiana, quali siano i valori fondanti capaci di tenerci uniti e farci sentire una cosa sola (“e pluribus unum” è il motto della Casa Bianca) nella grande diversità che ci caratterizza da nord a sud, da qualche anno esaltata dal fenomeno dell’immigrazione.
La retorica nazionale, questa sì tanto vuota quanto magniloquente, ci indica come data fondante e comune il 25 aprile, che però ancora divide e che comunque poco dice alle giovani generazioni; oppure il 4 novembre, che divide meno ma che unisce poco, oppure il Risorgimento, che però non è stato figlio del popolo, se non in alcuni fulgidi episodi di cui siamo specialisti.
C’è dunque qualcosa d’altro che ci unisce veramente? Io credo che l’unica cosa che ci fa appartenere alla nazione italiana sia la percezione, più che la consapevolezza, della nostra immensa tradizione artistica, architettonica e storica, diffusa a piene mani su tutto il territorio nazionale, della bellezza del nostro paesaggio, sia di quello naturale, il mare, le coste, le montagne, che di quello frutto del lavoro umano, le pianure, le colline, le coltivazioni.
Quale italiano non è orgoglioso delle bellezze della propria città, del proprio borgo, della propria vallata e, se ha studiato anche un po’, non si rende conto che quella bellezza è la stessa che si ritrova, in forme diverse e adattate ai luoghi, su tutto il territorio nazionale ed è il frutto del sovrapporsi di culture differenti ma che, tutte insieme, con alti e bassi, hanno prodotto questo concentrato di patrimonio d’arte che è la nostra penisola? Questo luogo, al centro del Mediterraneo, ha visto il passaggio dei popoli più disparati e ognuno ha lasciato il meglio di sé, è stato, con la Magna Grecia, Roma e il Rinascimento, il faro della civiltà d’occidente. Firenze ha imposto la propria cultura all’Europa non con la potenza militare ma con i suoi banchieri, i suoi commercianti e i suoi artisti. Venezia è stata il punto di contatto con l’oriente e da questo ha attinto lusso e raffinatezza. Ma ogni città ha una sua peculiare caratteristica che la distingue da ogni altra e la rende unica fra tante; 9000 comuni, ancor più paesi e borghi, e non ne esiste uno da cui si possa tornare senza avervi riconosciuto qualcosa di bello da mandare a mente.
Se in questa mia convinzione c’è del vero, anche per una piccola parte, attentare a questo patrimonio in nome dell’imperativo architettonico modernista e perseverare nel costruire periferie senza anima e luoghi del degrado, oppure intervenire in maniera brutale nei nostri centri storici e nelle città d’arte, vuol dire non solo distruggere la nostra immagine nel mondo, e quindi una parte consistente della nostra economia, ma anche minare le basi della nostra appartenenza alla nazione, cioè sciogliere il legame che tiene uniti popoli e comunità molto diverse tra loro.
Senza questo legame, davvero non ci resta che la nazionale di calcio.
N.B.La bandiera degli USA è pera di Jasper Johns
12 commenti:
Io credo che la retorica sia negativa solo quando è vuota, cioè solo se le parole sono prive di significato reale e usate solo per scopi propagandistici. In questo caso, i discorsi dei due candidati alla presidenza americana sono invece frutto di vere e sincere convinzioni che sono alla base stessa dell'essere americani, del condividere le sorti di un paese che, nel bene e nel male, sta facendo la storia dell'umanità di oggi. Andando negli USA ci si rende conto veramente di cosa sia la democrazia, di quanto valga l'orgoglio nazionale, in un paese dove anche l'ultima ruota del carro può diventare il primo dei cittadini se ne ha le capacità e le motivazioni. E se questo può sembrare retorica, che sia ma è la sacrosanta verità e Obama ne è l'esempio. Lui è solo uno dei tanti che è riuscito nel famoso "sogno americano", è una semplice questione di meritocrazia, roba che sembra essere anni luce dalla nostra società italiana. E' dura effettivamente trovare qualcosa che unisca i cittadini di questo trasandato paese che, è bene ricordarlo, ha solo 150 anni visto che la storia ci insegna che prima era suddiviso in tanti staterelli, i più governati da nazioni estere, e che l'ultima volta che ha condiviso una storia unitaria fu solo con l'Impero Romano. Duro è anche ammettere che il popolo italiano è un popolo unito, più onesto parlare di tanti popoli date le profonde divisioni culturali, linguistiche, sociali ed economiche non solo tra nord e sud ma anche tra regioni limitrofe e questo è evidente a chiunque abbia viaggiato un po' per la nostra penisola (io non faccio segreto che un veneto o un sardo non li capisco proprio, sembra di sentir parlare arabo, e analogamente per molte altre regioni). Io sinceramente non credo che una tale divisione culturale e anche architettonico-artistica si possa considerare fondamento per la nostra unità, anzi passando dalla lombardia alla sicilia sembra veramente di attraversare stati diversi (dall'architettura romanica e gotica del nord a quella normanna e araba del sud ... non mi sembra un segno di unità culturale e la storia divisa di questa Italia spiega bene il perchè di queste diversità). La sua spiegazione quindi mi sembra un po' forzata e artificiosa.
Ma c'è qualcosa che unisce i popoli di questa penisola, che a mio avviso avrebbe già da parecchi decenni dovuto assumere una forma federale su modello della Germania (che in molti aspetti ha avuto una storia simile alla nostra)? Sinceramente non saprei. Sinceramente invidio la democrazia degli Stati Uniti e posso solo sperare che il destino che ha voluto che i Savoia unissero i popoli italici ci faccia un giorno amare questo paese come un americano ama l'America. Ma forse questa è solo retorica.
Pietro,
senza offesa, non solo è un post retorico ma anche banale.
A mio parere il principale problema della nostra Italia sono gli adulti - piccoli burocrati con la perversione del potere - che hanno distrutto (e continuano a farlo) il patrimonio edilizio e la nostra immagine con idee da piccoli borghesi.
Mi spieghi, senza retorica, cosa intenti per architettura modernista, magari citando i tuoi riferimenti culturali e analizzando gli eventi con un respiro critico e non dogmatico?
Saluti Salvatore D'Agostino
Errata corrige:
Mi spieghi, senza retorica, cosa intendi per architettura modernista, magari citando i tuoi riferimenti culturali (che non siano L. Krier, N. Salingaros, S. Muratori, G. Caniggia e gli altri architetti del decoro) analizzando gli episodi con un respiro critico e non dogmatico?
Salvatore, appena ho letto che ritenevi il post banale mi sono preoccupato perchè ho pensato che tu contestassi il fatto che sia la cultura ad unirci. Mi sono preoccupato perchè questa è una mia convinzione abbastanza istintiva, che difficilmente riuscirei a motivare in maniera strutturata.
Invece tu giudichi banale il catalogare sotto la voce modernista "una certa architettura" (per ora diciamo così) e allora mi sono tranquillizzato.
Cosa si intende (non l'ho inventato io)per architettura modernista: quell'architettura che dall'oggi al domani ha deciso di annullare tutte le regole che per secoli hanno sovrinteso alla costruzione degli edifici ed hanno permesso, lasciando ampio spazio alla creatività e all'invenzione, di avere città ed edifici che oggi tutti consideriamo "belli". Facendo un paragone con il linguaggio scritto e parlato è come se qualcuno avesse deciso, in ossequio alla modernità, che le lingue conosciute non vadano più bene e ne abbiano volute inventare di nuove, con nuovi segni e nuovi suoni, del tutto innaturali. Siamo oggi ad una babele di lunguaggi architettonici, che definire linguaggi è anche difficile, in cui, come già 30 anni fa aveva scritto Gianfranco Caniggia, l'unica cosa che conta è la storia dell'architetto, esattamente come nell'arte contempranea e nei prodotti dell'industria. Prendi un'auto: in base a cosa giudichi la bellezza di un'auto? All'impressione di un momento e infatti dopo una anno ti è venuta a noia; e infatti cambiano le linee, prima gli angoli, poi le curve, poi gli angoli lievemente arrotondati e così via. Ma nell'auto va bene così, perchè è un oggetto provvisorio, non destinati a durare, invece l'architettura è e deve essere permanente: lo è per sua natura, lo deve essere perchè la casa e la città sono l'ambiente dell'uomo e l'ambiente deve comunicare stabilità.
Diciamolo francamente: da quando l'architetto conta più dell'architettura, questa è diventata modernista, perchè non conta più la storia, il contesto, gli utenti, i cittadini, i fruitori ma solo l'affermazione di una griffe, di un marchio commerciale e, quindi, il disprezzo e la conseguente distruzione di ciò che esiste. E' un'architettura auto-referenziale, senza relazione con nient'altro che non sia l'ego-mania del suo progettista. E' un'architettura modernista, appunto.
Saluti
Piero
Master, ho già scritto nel commento sopra che la cultura che ci unisce è più un'intuizione che un ragionamento.
Però io ci credo anche se, probabilmente, si tratta più di una speranza che di una realtà. Voglio comunque approndire e studiare un pò l'argomento che mi sembra stimolante.
Quanto al tuo giudizio sulla retorica e sugli USA, sono totalmente d'accordo con quanto tu dici.
Saluti
Piero
"Ma nell'auto va bene così, perchè è un oggetto provvisorio, non destinati a durare, invece l'architettura è e deve essere permanente"
chi lo dice? non c'è scritto da nessuna parte che l'architettura non possa essere temporanea e infatti lo è diventata (temporanea intendo).
Chi l'ha detto che l'architettura non possa essere temporanea? L'ha detto la storia dell'uomo e la storia dell'occidente, in particolare. E' scritto nella storia della città di qualsiasi autore, di qualunque opinione sia, che la città nasce nel momento in cui si passa dal nomadismo dell'allevamento all'agricoltura, al commercio, alla produzione. Certo che esiste ancora qualche popolo non stanziale ma non mi pare se la passino troppo bene. Rinnegare la stabilità temporale (e anche quella fisica)dell'architettura vuol dire rinnegare la città stessa e le cause per cui essa è nata.
Non credo, sinceramente, vi sia nessun architetto che pensi questo, al massimo vi è chi, comprese le famose archistar, parlano di provvisorietà limitata all'edificio, adducendo motivi di ordine tecnologico. Ma nonostante tutto lo fanno sempre in una (sbagliata)logica urbana, negare la quale sarebbe vera e propria pazzia.
Purtroppo il prevalere di questo modo di (non) ragionare rischia di portare, anche inconsapevolmente, se non alla distruzione della città, almeno ad un tipo di città sempre sull'orlo della provvisorietà, condizione questa che non di adatta affatto ai bisogni dell'uomo.
Diversa è invece la condizione di una città vera che cresce e si modifica non nella logica della demolizione e ricostruzione ma della modificazione continua per aggiunte, che è proprio il segno distintivo di una città vera. Ma ciò è possibile solo con un'urbanistica e un'architettura di tipo tradizionale che consente esattamente questa condizione, per il fatto di essere intimamente organica. La città dello zoning costruita con edifici isolati al centro del lotto come monumenti non permette crescita diversa da quella dell'espansione all'esterno dell'abitato e della demolizione di ciò che esiste, e alla sua successiva sostituzione, all'interno dell'abitato.
Questo tipo di città è veramente anti-ecologica, oltre che anti-umana, perchè determina un grande consumo di energia (demolire e ricostruire) e di territorio (espandersi).
Le nostre città hanno bisogno di crescere al proprio interno, prima di andare fuori.
Saluti
Piero
Pietro, forse la ricerca di un principio di coesione che fa di un gruppo di individui più o meno numeroso una collettività e un popolo potrebbe essere finalizzata all’individuazione di ‘simboli’ sotto i quali uniformare comportamenti ed interessi aventi come fine il bene comune. Non a caso tu proponi come simbolo del concetto base del tuo post la bandiera americana, non a caso il termine ‘simbolo’ modifica il suo significato greco in epoca romana in ‘insegna’ o ‘bandiera’, non a caso Jasper Johns adotta come icona della sua idea di americanità proprio la bandiera, in prospettiva totalmente frontale, senza alcuna differenza tra una bandiera reale e il suo simulacro dipinto, affermando "Mi interessa, di una cosa, il suo non essere più quello che era, il suo divenire altro da quello che è …. “ , un simbolo, appunto.
Ora la tua ipotesi o la tua intuizione che sia la cultura ad unire da nord a sud gli Italiani e a farne un popolo mi sembra, più che retorica, utopistica e un po' intellettualistica, anche in considerazione del fatto che, in un territorio geograficamente e strutturalmente frammentato come il nostro, la cultura e ciò che ha lasciato di visibile in tutto il paese documenta le differenze piuttosto che sintetizzarle , in ciò concordo con master. Il simbolo che realizzi un potere unificatore forse deve parlare un linguaggio più immediato, più elementare e meno culturale, che non implichi sforzi di decifrazione, proprio come la bandiera di Jasper Johns, il quale dichiarava esplicitamente di voler scegliere un oggetto banale "che la mente conosce già".
Che per noi possa essere la pizza?
Ps: non arrabbiarti, è una semplice provocazione
LsD, acuta analisi, altro che arrabbiarmi! Se tu avessi ragione, ed è anche probabile che tu ce l'abbia, la provocazione della pizza comincia a prendere la sua terribile consistenza. Io comunque la preferisco alla nazionale di calcio!
Visto che siamo alla provocazione e al divertimento, una via di mezzo tra la pizza, l'arte e il paesaggio, il simbolo potrebbe essere la classica immagine da cartolina di Napoli col Vesuvio di sfondo. Quindi siamo tornati agli italiani spaghetti e mandolino.
Mi dispiace ma, nonstante le difficoltà, continuo a credere che siamo molto meglio di come ci descriviamo. Per ritrovarci l'unico simbolo, un pò intellettualistico, lo ammetto, che riesco a vedere è la bellezza che siamo stati capaci ci creare. Come dice Crespi su Il Domenicale: "La bellezza ci salverà".
Speriamo.
Saluti
Piero
pietro, a quanto leggo ti rivolgi all'anonimo con LsD, posso supporre che volessi scrivere LdS... beh, non sono io l'anonimo della provocazione.
ciao
LdS
Scusami e scuse anche all'anonimo. Non volevo giocare su LdS, che è un noto allucigeno anni 70.
Il fatto è che in questo momento sono impegnato nel lavoro e sono stato un pò troppo frettoloso per non rinunciare a questa droga che è Internet.
saluti
Piero
L'Italia è tanto divisa che ha dato il meglio di sé nel periodo in cui era frantumata in tanti piccoli stati, ognuno in lotta con i suoi vicini.
Di più, quando questi staterelli erano addirittura in mani straniere!
Tanto che verrebbe da fare questa riflessione: un quadro di Tiziano, un quadro del Veronese, è meglio saperlo dipingere oppure è meglio saper creare un esercito nazionale che sia in grado di prenderselo e di portarò al Louvre?
Sembrerebbe allora che il genio italiano si sia saputo esprimere solo nella dimensione regionale della "vallata" oppure, bypassando il livello nazionale, nel livello della dimensione globale: si pensi a Venezia e alla sua sfera di influenza ad Oriente.
Eppure, nonostante questo, è una nazione unitaria (dico Nazione, non Stato) per dei caratteri comuni che sono appunto, come indicato nel Post, la CAPACITA' DI CREARE BELLEZZA.
Nel soffitto della biblioteca di Washington c'è un grande affresco in cui sono rappresentati tutti quei popoli della terra che, in una o in un'altra epoca, per un verso e per un alòtro, hanno dominato nel mondo, nei millenni della Storia.
Tra questi c'è un solo popolo che vi compare due volte: il nostro, la prima volta con l'Impero romano, la seconda con il Rinascimento. Di più. E' l'unico popolo tra tutti quelli raffigurati che abbia raggiunto questo dominio non al seguito di un esercito u di una flotta, ma attraverso la creazione di bellezza.
Ma per quanto riguarda la nostra capacità di creare bellezza vorrei andare più nel profondo a ricercare le radici unitarie di questa creatività particolare per dire che GLI ITALIANI, TUTTI, DAL NORD AL SUD, SONO PORTATI A SUBLIMARE I MOTI DELL'ANIMA, LE GIOIE, I DOLORI, LE SOFFERENZE NELLA FORMA, A forma significa rappresentazione esteriore, cioè figura, pittura, musica, scultura, architettura, canto etc.
Se pensiamo ad esempio alla tradizione pittorica, alle centomila crocifissioni, alle centomila deposizioni, non vediamo mai rappresentati il dolore del Cristo o della Madonna nella sua forma reale, straziante (sipensi a un Crocifisso di Grounewald!)ma lo vediamo sublimato, come innalzato dalla bellezza della forma, fissato in una posa statica, non realistica, perché trasfigurato nella bellezza.
Così, se pensiamo alle tragedie che stanno dentro i libretti delle opere liriche (il tenore vorrebbe andare a letto con la soprano ma il baritono ci si mette di mezzo...) ecco queste tragedie, nel melodramma, portate allo scoperto nel BEL CANTO e come redente, nobilitate nella forma esteriore della bella musica, nell'esteriorità.
Questa capacità tutta italiana di redimere l'oscuro foro interiore purificandolo nella forma esteriore della bellezza viene per certi versi spregiata come "trombonismo" e il termine "melodrammatico" ha in se questa critica, ma trombonismo non è, bensì capacità di trasformare ogni moto dell'anima in forma, cioè in bellezza esteriore.
Si pensi per contrasto ad altri popoli. Alla psicoanalisi, nata in Austria, che discende nell'oscurità del foro interiore, senza alcuna possibilità di nonbilitarlo in manifestazione esteriore: l'unico autore italiano che subito se ne impadronì fu Italo Svevo, un uomo di cultura mitteleuropea.
Si pensi a certi film francesi in cui il protagonista "COVA2 un sentimento nascosto, odio o che altro, un sentire chiuso in sé, nascosto all'apparenaza, e tutto il film si basa su questa fissità interiore. Non sarebbe possibile applicare questo meccanismo a un film italiano. Per non parlare dei film di Bergman!
Dunque, per finire, questa nobile, grande qualità melodrammatica di tutte le nostre arti noi la troviamo dal Nord di Giuseppe Verdi al Sud della canzone e del gesticolare napoletano, fino alle prefiche siciliane, che ai funerali non fanno altro che sublimare in forme esteriori il dolore interiore.
E dunque, come dice il Post, l'unità del nostro popolo non va trovata nei miti fondatori di sangue quali guerre e compgnia bella, ma proprio in questa incredibile capacità creativa.
Giulio Rupi
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