di Francesco Gazzabin
Henry Deplanques, viaggiatore del '700, dopo una visita nel Chianti scriveva: “La campagna toscana è stata costruita come un’opera d’arte da un popolo raffinato, quello stesso che ordinava nel ‘400 ai suoi pittori dipinti ed affreschi: è questa la caratteristica, il tratto principale calato nel corso dei secoli nel disegno dei campi, nell’architettura delle case toscane. E’ incredibile come questa gente si sia costruita i suoi paesaggi rurali come se non avesse altra preoccupazione che la bellezza”.
Attualmente il territorio toscano offre al suo visitatore viste e scorci molto vicini a quelli assaporati dai viaggiatori che affrontavano il Gran Tour alla ricerca dei luoghi che conservano gran parte del patrimonio artistico mondiale, patrimonio non solo architettonico ma anche e soprattutto paesaggistico.
Non sempre però tutti quei segni, apparentemente lontani nel tempo, opera di chissà quale contadino e giardiniere al servizio delle ricche famiglie aristocratiche rinascimentali, sono in realtà tanto antichi.
Alle pendici del Monte Amiata, nella parte più meridionale della provincia senese, forme e visuali che oggi si confondono con quelle del resto della campagna toscana, in realtà sono segni recenti, ovvero appartenenti ad un passato assai prossimo.
Thomas Gray che nel 1740, dopo aver soggiornato a Siena, si dirige verso Roma, così descrive il paesaggio tra queste due città: “Per alcune miglia mi si svolge innanzi la scena ininterrotta di montagnole coltivate da capo a piedi a filari di ulivi, o di olmi, ognuno dei quali reca, assorta su di sé la vite che si confonde con i suoi rami, con il grano che cresce tra un filare e l’altro. Se a ciò aggiungi diverse case e piccoli conventi, avrai la più bella vista di questo mondo. Poi tutto a un tratto, il paesaggio si cangia in colline desolate e scure che si spingono sindone giunge l’occhio. Non sembrano essere mai state idonee a una qualche coltura e anzi sono orrende ed inutili. Tale appare per un certo tempora campagna prima di giungere al monte di Radicofani, una terribile nera collina…”
Più indietro nel tempo, Ambrogio Lorenzetti, in un affresco raffigurante “Il Buongoverno”, mostra una visione globale del paesaggio senese del ‘400, si passa gradualmente dalla campagna a maglia fitta nelle immediate vicinanze della città, alla campagna più rarefatta dove i colori perdono di intensità fino ad arrivare all’estremo sud della provincia senese, nel territorio delle Crete ai piedi del Monte Amiata con sullo sfondo la rocca di Radicofani.
Nell’opera del Lorenzetti si mette in evidenza l’esistenza di due toscane, di due paesaggi in netta contrapposizione: quello colorato e riccamente coltivato del Chianti e quello rado e spoglio del sud, le cosiddette Crete Senesi, le terre popolate da calanchi e biancane.
Terra argillosa, arida d'estate e fangosa d'inverno, terra spoglia di alberi, restia ad ospitare qualsivoglia tipologia di coltivazione, questo era l'aspetto della Val d'Orcia osservata e descritta soltanto agli inizi del secolo scorso dalla famosa scrittrice angloamerica Iris Origo nel suo “Immagini e Ombre”, libro autobiografico che racconta gli anni vissuti in Toscana, dagli inizi del secolo agli ultimi anni sessanta.
La prima sensazione che Iris e il marito, il marchese Antonio Origo provarono trovandosi di fronte alla Val d’Orcia fu di grande stupore, molto vicina a quelle del viaggiatore del ‘700: “…lunghe catene di basse e spoglie colline d’argilla – le crete senesi – scendevano verso valle, dividendo il paesaggio in una serie di piccoli spartiacque ripidi e asciutti. Quelle catene corrugate, prive di alberi e di cespugli, salvo qualche ciuffo di ginestra, costituivano un paesaggio lunare, sbiancato e disumano…”.
A questi due eclettici personaggi è legata un'esperienza singolare che ha cambiato le sorti di una comunità e soprattutto l'aspetto di una porzione di paesaggio italiano; in pochi anni furono recuperati migliaia di ettari di terreno abbandonati per secoli o scarsamente sfruttati da un popolo di mezzadri rassegnati ad una condizione che li vedeva fino a quel momento tra i più poveri contadini del Paese.
Si tratta di quella che potrebbe essere considerata una delle prime operazioni di progettazione paesaggistica, ma che in principio nasce con ben diversi propositi e finalità, come scriveva la stessa scrittrice: “Acquistammo La Foce con la speranza di crearvi non solo la nostra casa, ma il tipo di lavoro che entrambi volevamo. Antonio sentiva nel profondo di sé l’istintivo amore per la terra che è di molti italiani e voleva coltivarlo in una regione ancora non sviluppata dal punto di vista dell’agricoltura, dove ci fosse ancora molto lavoro da compiere. Io provavo un forte interesse, seppure non avessi una preparazione specifica, per l’indagine sociale. Entrambi volevamo sfuggire alla vita di città e condurre quella che a noi sembrava un’esistenza pastorale, virgiliana”.
I PERSONAGGI - Iris Bayard, scrittrice di origine anglo-americana, si forma culturalmente nella Toscana dell’inizio dello scorso secolo dove la madre acquista una delle più belle ville fiorentine, Villa Medici a Fiesole, e prende parte della vita di quella ricca comunità detta degli anglofiorentini che poteva vantare personaggi di gran cultura, uno per tutti Bernard Berenson.
Anche Antonio Origo trascorre la sua gioventù in un ambiente di grande cultura, il padre infatti esperto di arte, dedicò gran parte della sua vita a viaggi nei luoghi d’arte europei. Abitò tra Firenze e la Versilia, nella casa di Montrone, salotto frequentato da illustri musicisti, pittori e scrittori; lì D’Annunzio scrisse le migliori composizioni dell’Alcyone. In età scolare, il padre lo manda in Svizzera per trasformarlo in un uomo d’affari di successo. In seguito lavora per un anno in una banca di Bruxelles e poi presso l’azienda Mumm di Rheims, produttrice dello champagne omonimo.
Dal 1924 e fino agli anni '60 i Marchesi Origo portarono avanti un intenso lavoro di trasformazione delle loro terre, riuscendo ad annullare quel divario che si era creato con le zone più riccamente coltivate della Toscana,dando vita a scorci e frammenti di paesaggio che sono diventati un po' il simbolo della bellezza delle campagne toscane e italiane in genere e soprattutto, ancora oggi, dai più confusi come segni assai più antichi.
La loro fu un'operazione che intrapresa con il primario interesse di far progredire economicamente un territorio e i suoi abitanti, ci permette oggi di capire come sia possibile coniugare lo sviluppo economico di un luogo con la tutela e conservazione del suo paesaggio.
Nel 1940, all’alba della Seconda Guerra Mondiale, alla Fattoria della Foce era stato portato a quaranta ettari il terreno effettivamente coltivato in ogni podere, mettendo ogni contadino in grado di portare i propri prodotti al mercato e ogni bambino di andare a scuola; tutte le vecchie case contadine venivano restaurate o ricostruite in perfetto stile toscano e collegate tra loro da strade ciascuna ombreggiata da pioppi, pini e cipressi.
Si può sicuramente dire come La Foce rappresenti un caso particolare. Nonostante ci si trovi in un periodo nel quale le campagne cambiano drasticamente, perdendo le caratteristiche tipiche della cultura mezzadrile qui, nonostante la meccanizzazione e l’uso di nuove tecniche, il paesaggio storico riesce ancora a riprodurre se stesso, anzi a produrre le forme classiche della mezzadria, campi chiusi, colture specializzate, colture miste. Qui, per la prima volta, si arriva a distinguere un’operazione puramente agricola da una di progettazione del paesaggio. Si dà un disegno a quelle che fino a qualche anno prima erano solo lande desolate, si recuperano le culture specializzate, la vite maritata al sostegno vivo, la cultura promiscua oliveto-vigneto. Nella ricostruzione delle abitazioni si riprendono tutti i caratteri dell’architettura rurale e soprattutto si ricreano attorno ad esse gli spazi classici della cultura mezzadrile: la concimaia, l’aia, il fienile in un’operazione dal forte carattere vernacolare, le nuove strade interpoderali sono sempre bordate da filari di alberi. E poi tutti quei luoghi sparsi per le terre della fattoria, il cimitero di famiglia, l’ambulatorio, il magnifico giardino all’italiana custodito all’interno della villa e la serpentina di cipressi che ne fa da quinta prospettica, opera di un grande architetto del paesaggio Cecil Pinsent, personaggio che contribuì al successo del Revival del design rinascimentale nei giardini del XX secolo.
11 novembre 2008
FORME “ANTICHE” DI UN PAESAGGIO RECENTE
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2 commenti:
La bellezza della Toscana, mi pare di evincere dall’articolo, non è solo opera del buon Dio, ma anche di una serie di interventi operati dall’uomo sul territorio, che hanno finito per creare splendidi paesaggi antropici prodotto del lavoro e della cultura umane.
In particolare il paesaggio agrario toscano è il risultato delle forme di sfruttamento del suolo (le coltivazioni, la pastorizia ecc.) e di edificazione del costruito di pertinenza (le case coloniche, i magazzini, le stalle ecc.), risultando così condizionato e determinato non solo da fattori geografico-climatici, ma anche dal controllo che l’uomo ha esercitato sulle risorse naturali.
La Foce, mi par di capire, ha qualcosa di speciale non perchè rappresenti un comportamento di rispetto delle preesistenze naturali, ma al contrario un esemplare intervento di cambiamento delle stesse.
Anche se personalmente trovo affascinanti e del tutto peculiari le crete senesi, quei colli appiattiti, bruciati, aridi e bianchi in pieno agosto, con rari alberi coriacei e tenaci che hanno fieramente combattuto per la propria sopravvivenza, quei brulli agglomerati di tufo che scoraggiano ogni tentativo di coltivazione, sono comunque grata a chi è intervenuto sull’ambiente “con il primario interesse di far progredire economicamente un territorio e i suoi abitanti”, dandoci viali sinuosi fiancheggiati da cipressi, verdi poggi coltivati, cambiando in modo definitivo “ le sorti di una comunità e soprattutto l'aspetto di una porzione di paesaggio italiano.”
Mi chiedo se tutto ciò sarebbe possibile oggi, quando la nevrotica salvaguardia dell’ambiente si schiera per il non-intervento a prescindere, e mi dico che sono stati ben fortunati sia gli inglesi, i vari Geoffrey Scott , Bernard Berenson, Cecil Pinsent che hanno potuto dare sfogo, sotto forma di ville e giardini, al culto romantico che permea la loro idea di Italia, sia gli italiani, a cominciare da Iris (per la verità inglese) e Antonio Origo, che con le loro idee hanno improntato la complessa storia della mezzadria in Toscana, nel contempo incidendo pesantemente e definitivamente sul paesaggio di quella regione.
MI chiedo se tutto ciò sarebbe possibile …. e mi chiedo anche se sarebbe giusto.
Vilma
L'analisi di Vilma mi sembra lineare e assolutamente giusta. Penso che la natura ostile delle Crete Senesi sia stata, in fin dei conti, la loro fortuna più grande. Pochi altri paesaggi sono riusciti, nel corso degli anni, a preservarsi tanto bene, tenendo conto che non stiamo parlando di luoghi sperduti in chissà quale parte del mondo, ma di una porzione di territorio a pochi passi da Roma e Firenze. L'esperienza dei Marchesi Origo è sicuramente irripetibile, i tempi sono troppo cambiati, le persone sono troppo cambiate. Non so chi oggi sarebbe pronto ad investire il suo per il bene degli altri o per la semplice voglia di veder rinascere un territorio. Certamente se qualcuno avesse voglia, di tanto in tanto, di creare all'interno delle proprie ville qualche bella geometria all'italiana, al posto di inappropriati e ormai demodè prati all'inglese, a La Foce trova qualcosa da cui prendere spunto.
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