di Giulio Rupi
Bruciano le periferie di Parigi, ma anche in Italia c’è chi lancia l’allarme e teme analoghe reazioni di fronte al degrado delle nostre città: ecco allora che, inevitabilmente, insieme alle considerazioni sugli aspetti sociali del problema, tra le cause del malessere urbano si tirano in ballo anche gli aspetti materiali, cioè la conformazione fisica delle nostre periferie e le colpe di chi le ha così progettate.
Chi scrive si è confrontato fin dagli anni 60 con i molteplici fattori che hanno determinato il processo di costruzione delle città: l’insegnamento della progettazione urbanistica e architettonica nell’Università, una nutrita successione di leggi in materia di Urbanistica e di Edilizia Pubblica, il dibattito nazionale e internazionale degli addetti ai lavori, dal Modern al Postmodern alle polemiche sui “Maledetti Architetti”.
Ne ha tratto la convinzione che “tutto si tiene”, cioè che le teorizzazioni del Movimento Moderno, l’insegnamento del mestiere di progettista nelle scuole secondarie come nelle facoltà universitarie, la conduzione delle riviste specializzate, le scelte dei concorsi di Architettura, la mentalità dei funzionari pubblici, l’elaborazione delle leggi di settore e la loro applicazione nella costruzione della città, fossero tutti aspetti assolutamente correlati e consequenziali di un unico sistema culturale, forte e coerente, tuttora egemonico.
Di conseguenza pare improbabile che si possa far fronte al fallimento epocale nella costruzione delle periferie urbane utilizzando gli strumenti culturali di sempre, senza ripensare a fondo le teorizzazioni e i luoghi comuni che sono alla base di questo fallimento e che tuttavia si danno tuttora per scontati.
Eccoci allora ad enumerare alcuni degli aspetti di questo pensiero unico che “da sempre” hanno presieduto alla costruzione della città.
La distruzione dello spazio urbano da spazio interno a spazio esterno: dagli “interni” delle piazze e delle strade dei centri antichi alla “Ville radieuse” degli edifici isolati in mezzo alla Natura. Le Corbusier disse testualmente (e coerentemente, dal suo punto di vista) che bisognava “distruggere i Centri Storici delle città europee” e realizzò quella “Unité d’abitation” che nella sua forza teorica è paradigma e premonizione di quello che sarebbe poi successo in tutte le periferie del Mondo.
Lo spazio urbano non è più un interno, quasi un prolungamento dell’abitazione, uno spazio amichevole di strade delimitate da edifici e di piazze come “salotti”: si sfrangia e diviene un esterno, un vuoto popolato di edifici isolati: questo è voluto e teorizzato, è coerente con quel pensiero unico.
Le architetture divengono così monumenti isolati. In uno spazio di questo tipo ogni episodio architettonico è un monumento. Non si crea più un tessuto urbano di strade e di piazze, ma una serie di episodi architettonici in uno spazio non più strutturato. E’ voluto e teorizzato: in qualsiasi concorso vincerà tuttora non chi cerca umilmente di ricreare uno spazio urbano ma chi esibisce il suo particolare monumento di architettura.
Così l’Architetto diviene “Artista”, si distrugge ogni continuità con il passato, ogni regola d’arte trasmissibile e le Università sfornano ogni anno migliaia di progettisti che si affacciano al lavoro, ognuno con l’intenzione di diventare “un grande Architetto” e mettere la propria indelebile firma sul territorio liberando la propria disinibita fantasia di Artista.
L’abitazione, o meglio “la casa”, il luogo della famiglia, il luogo in cui si costituisce l’autonomia dell’individuo, diviene “macchina per abitare”, diviene “un servizio” per il cittadino, privo di ogni valore simbolico.
Così negli anni 70 si promulgano leggi per l’edilizia popolare che fissano parametri su parametri e costringono sia ad una progettazione omologata (i “quartieri della 457” tutti uguali e riconoscibili in qualsiasi città d’Italia) sia a scelte tecniche di bassa qualità, che portano gli edifici a un degrado veloce. E su questa filosofia si è teorizzata e praticata la cosiddetta “industrializzazione edilizia”, che funziona solo su interventi di grande dimensione e con progettazioni ossessivamente omologate.
Parallelamente a questo tutto il sistema si evolve in maniera che i meccanismi, le strutture che presiedono alla costruzione della città debbano accrescersi in dimensione e complessità.
Chi ha fin dagli anni 60 partecipato alla costruzione di case in cooperativa sa che in quegli anni le cooperative erano ancora costituite dagli stessi utenti finali che si costruivano l’alloggio “in prima persona”. In seguito, per la promulgazione di una serie di leggi sulle assegnazioni e sui finanziamenti, la gestione è passata a strutture di livello superiore, più grandi e complesse, ed oggi l’utente della cooperativa non differisce di molto da un qualsiasi acquirente del mercato privato. Così si è interrotto il confronto tra i progettisti e i cittadini, che era un tempo la caratteristica della cooperazione.
Perché infatti fondamentale e comune a tutte le diverse facce di questo unico problema è il rapporto paternalistico nei confronti dell’utente che è sotteso a questo sistema culturale. Mentre per chi progetta un’automobile è fondamentale il gradimento finale dell’utente, per chi progetta la città è del tutto indifferente la verifica finale dei “consumatori”, il cosiddetto “successo di pubblico”. Vale solo il consenso interno a questo sistema, costruito sulle riviste specializzate, sulle cattedre universitarie e sui concorsi di progettazione.
Resta il fatto che l’altra faccia di questa medaglia, cioè dell’indifferenza alle reazioni dei consumatori, è proprio il degrado e l’esplosione delle periferie.
Così è più facile risanare con urbanizzazioni e servizi i quartieri abusivi costruiti in proprio dalla gente secondo un qualche criterio spontaneo, piuttosto che por mano alla riqualificazione di alcune tristemente famose macrostrutture, i cosiddetti “mostri” realizzati nei PEEP dalla mano pubblica e subito rifiutati dalla gente che li ha condannati a un veloce degrado. Per questi edifici l’unica soluzione rimane la demolizione.
Ma allora, se “tutto si tiene”, se cioè questo sistema culturale assolutamente coerente e inattaccabile (non c’è a tutt’oggi concorso in cui possa prevalere un progetto ideologicamente estraneo a questo sistema) ha governato fin qui la costruzione della città ed ha prodotto questi risultati, come si può far conto che dal suo interno sorga la soluzione del problema, se non ci sarà prima un “cambio di paradigma” che ne rimetta in discussione tutte le premesse?
Un filo di speranza viene dagli Stati Uniti, dove si va facendo strada la corrente del “New Urbanism”, un movimento che, partendo dalla constatazione del fallimento della città americana costruita sulle teorizzazioni del Modernismo, ne ha rimesso in discussione tutti i postulati e guarda ai valori urbani dei Centri Storici europei. Così noi Europei rischiamo di attardarci nell’ultimo degli ismi sopravvissuti, il Modernismo in Architettura, mentre altri si ispirano per il loro futuro proprio a quei meravigliosi spazi urbani che la nostra cultura ha saputo costruire in passato.
17 marzo 2008
LE PERIFERIE URBANE, UN FALLIMENTO EPOCALE
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