Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


1 maggio 2008

REFERENDUM PER DEMOLIRE O REFERENDUM PER COSTRUIRE?

Pietro Pagliardini

I giornali di oggi riportano la notizia che il nuovo Sindaco di Roma, Alemanno, ha intenzione di indire un referendum per decidere se demolire o meno il progetto di Meier per l’Ara Pacis.
Questo l’estratto da Il Messaggero:
ROMA (30 aprile) - «La Teca di Meier è un intervento da rimuovere, anche se non si tratta della prima priorità», lo ha dichiarato il neo-sindaco di Roma Gianni Alemanno nel corso della conferenza stampa in Campidoglio. Il riferimento è alla teca progettata dall'architetto americano Richard Meier per custodire il monumento eretto in onore dell'imperatore Augusto, soggetta nella capitale alle critiche del centrodestra: «Ci impegnamo - ha aggiunto Alemanno - a rivedere gli interventi fatti nel centro storico, ma le prime emergenze sono altre». La polemica. La polemica sull'Ara Pacis parte da lontano: già nel maggio 2006 l'allora candidato a sindaco di Roma per la Cdl, in corsa per il Campidoglio contro Walter Veltroni, aveva sostenuto che la Capitale andava «liberata da tutti gli sfregi, per questo smonteremo la teca dell'Ara Pacis e la porteremo in periferia». Allora Alemanno visitò il monumento eretto in onore dell'imperatore Augusto, insieme al critico d'arte Vittorio Sgarbi, ribadendo la sua intenzione, se eletto, di smantellare l'opera dell'architetto americano Richard Meier.

«Se Rutelli ha abbattuto la teca di Morpugno - ha affermato Vittorio Sgarbi - si può abbattere la costruzione di Meier. Alemanno ha mantenuto le promesse e io mi sento finalmente vendicato». Da parte sua, Meier si è detto pronto a parlare in qualsiasi momento della questiona con il neo-sindaco.

Senza avventurarmi in giudizi politico-elettorali che non interessano questo blog vorrei osservare che questa è una prova assoluta di quanto vado dicendo da un po’ di tempo e cioè per i progetti importanti che interessano la città intera bisogna farla finita con le giurie di soli “ESPERTI” e fare giudicare gli amministratori e soprattutto i cittadini.

La città non appartiene agli architetti, tantomeno alle Archistar, ma appartiene a tutti ed è necessario, per evitare ripensamenti tardivi e costosi per la collettività, che venga ripristinato il percorso virtuoso e naturale per i progetti:
GLI ARCHITETTI PROGETTANO- IL COMMITTENTE DECIDE

Chiunque faccia la professione di architetto sa che questa è la pratica quotidiana, che ogni progetto è anche una battaglia che ognuno di noi deve affrontare quotidianamente. Qualche volta si vince, qualche volta si perde; certamente non è possibile, né corretto, imporre un progetto. Tanto meno ad una intera città.

Nei progetti urbani il committente è la città intera ed essa deve decidere.
Meglio prima, che dopo, naturalmente.


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27 aprile 2008

L’EQUIVOCO DEL “BELLO” IN ARCHITETTURA

Pietro Pagliardini

Chi non vorrebbe un’architettura “bella”?
Qualunque persona cui fosse posta la semplice domanda: “L’architettura deve essere bella o brutta?” non c’è dubbio che risponderebbe:”Bella!”. Il termine bello sembra comprendere tutto e mettere d’accordo tutti; di fronte a questo attributo cadono le differenze tra antichisti e modernisti, fra fautori della modernità e amanti della tradizione: bello è il Guggenheim di Bilbao “ma anche” il Palazzo Farnese a Roma.
Bello assume cioè un valore inclusivo, non solo in architettura, e il “ma anche” è la congiunzione che meglio esprime questo carattere di inclusione; doppia congiunzione appunto, la prima delle quali è avversativa, con il che si riconosce una diversità, la seconda è invece coordinativa, con cui si include, per meglio rafforzare il concetto che tutto può stare insieme.

Ma il problema è proprio questo: in architettura non si possono mettere insieme gli opposti (il Guggenheim con il Palazzo Farnese nell’esempio) perché si compie una falsificazione e un disconoscimento della realtà; si prendono due edifici e li si giudicano in sé, come se fossero due oggetti da collocare sopra una mensola di casa: in quest’ultima condizione è evidente che i due oggetti hanno un valore in sé perché sono pura forma astratta da un contesto e, addirittura, l’oggetto Guggenheim è forse più “bello” del Palazzo Farnese perché meglio si presta ad essere goduto esteticamente in quanto più plastico, splendente, dinamico che non l’altro, troppo composto, ordinato, dettagliato.
Perché ciò avviene? Perché l’architettura è fatta per la città e per essere vissuta dalla gente e la sua scala è la scala umana, quella cioè che si rapporta con le dimensioni del corpo umano; l’architettura si rapporta con la strada, con gli edifici accanto o con il paesaggio e con l’uomo che la vive, l’attraversa e vi si confronta prendendone le misure in relazione alle proprie; l’oggetto, invece, non ha alcuna relazione con il contesto ma solo con la percezione visiva di chi la guarda; per questo, più uniforme e anonimo è lo sfondo più grande è il godimento estetico perché siamo nel campo della sola percezione visiva e della pure forme astratte, al contrario della città in cui noi siamo immersi con tutti i nostri sensi. Il Guggenheim è oggetto di design bellissimo e una sua riproduzione in scala ridotta da porre sul mobile di casa è certamente preferibile a quella dei monumenti antichi che si trovano nelle bancarelle di souvenir o all’Italia in miniatura proprio perché l’architettura avulsa dal suo contesto è pura contraddizione. Per lo stesso motivo le foto dell'architettura contemporanea sono molto più "belle" di quelle fatte a monumenti di grandissimo valore, perchè la foto è una rappresentazione della realtà, non la realtà stessa, e le forme geometriche pure con cui si esprime quel tipo di architettura meglio si prestano ad essere esaltate, nella loro astrattezza, in quella rappresentazione che è esclusivamente bidimensionale, quindi altrettanto astratta.
Per questo la categoria del “bello” usata in architettura rischia di diventare ambigua e di non spiegare molto. Si prenda ad esempio una recente intervista rilasciata da Patrizio Bertelli al Corriere della Sera sul nuovo museo di arte moderna di Prada e sulle torri di CityLife:
«.....Trovo inutili certe polemiche, ad esempio sui nuovi grattacieli di Milano: quel che conta è la qualità del progetto, se un progetto è un bel progetto può davvero cambiare in meglio una città: pensi a quello che è successo a Bilbao con il Guggenheim di Gehry. Anche se, quando penso agli architetti che progettano musei, penso prima di tutto a Carlo Scarpa, alla sua Fondazione Querini Stampalia, alle sue stanze per l' Accademia a Venezia....».
Ora non c’è dubbio che di “bello” Bertelli se ne intenda perché su questo ha costruito l’immagine e la fortuna del suo marchio ma quella frase “se un progetto è un bel progetto” dimostra il fatto che c’è la valutazione dell’oggetto in sé stesso, senza alcuna relazione con il contesto. Che dire se lo stesso Guggenheim fosse stato edificato lungo i Fori Imperiali? Sarebbe sempre così bello quel progetto e avrebbe cambiato in meglio Roma?
Venendo alla torre di Libeskind e alle altre torri, non so se si possano definire addirittura belle in sé (la percezione visiva che ne ho io mi dice di no) ma viste nel contesto come dai vari rendering effettuati dagli studenti del Politecnico di Milano ci si rende conto che in architettura ben altre sono le categorie di giudizio da prendere a riferimento.



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QUESTO MERAVIGLIOSO MONDO, di Alessandro Bertirotti

Poniamo il caso di un individuo che abiti a Londra e che si rechi a fare un viaggio in Africa. Viene invitato da persone del posto a trascorrere la serata insieme a loro, ma invece di partecipare ai consueti passatempi tipici del luogo, assiste alla proiezione di un nuovo film non ancora uscito a Londra. Questa è globalizzazione. Viviamo in un mondo in trasformazione costante che condiziona qualunque cosa noi facciamo.
Nel bene e nel male siamo in un ordine globale che nessuno comprende del tutto, ma che sta estendendo i propri effetti su tutti noi. La globalizzazione è oggetto di dibattito in Francia, con il termine mondalisation, in Spagna e in America Latina con quello di globalizacìon, mentre i tedeschi la chiamano globalisierung.

Globalizzazione si dice abbia a che fare con il fatto che viviamo in un mondo unico. Ma in che modo? E poi fino a che punto tutto ciò è valido?
Vi sono allora gli scettici che mettono in discussione l’idea nel suo insieme. Tutto il discorso sulla globalizzazione si riduce a chiacchiere, perché, quali che ne siano i benefici, vicissitudini e difficoltà, l’economia globale non è diversa da quella di altri periodi. Il mondo continua ad andare avanti come fa da tanto tempo. Vi sono poi i radicali che sostengono una posizione diversa. Essi dichiarano che la globalizzazione è qualcosa di molto concreto e che i suoi effetti sono ormai tangibili ovunque. Si prenda ad esempio lo sviluppo del mercato, indifferente ai confini delle Nazioni, oramai senza la sovranità che avevano un tempo. Io credo di essere più dalla parte dei radicali, anche se gli effetti non sono solo positivi, ma, purtroppo, anche negativi.
La Globalizzazione è dunque un sistema complesso, un insieme di processi che opera in maniera contraddittoria e a volte anche conflittuale.
Vediamone qualche aspetto.
Il passaggio dalla società pre-industriale a quella industriale riguarda il mondo totale, proprio per gli effetti della globalizzazione. Con la società industriale si estende fortemente l’obbligo scolastico, unitamente alla omogeneizzazione degli stili di vita, proprio per l’avvento di individui apparentemente simili, meglio raggiungibili dai media. Non si distinguono più i ricchi dai poveri come in passato, e la famiglia diven-ta nucleare.
Nella società post-industriale scienza e tecnologia diventano fonte di ricchezza, dunque di produzione. Questa situazione ci permette di avvertire, anche quotidianamente e nelle nostre case, la dilatazione delle attività economiche, politiche e sociali oltre i confini di ciascun paese. L’intero mondo è più collegato e si incrementa l’interdipendenza delle economie. Oggi tutto avviene a scena aperta, senza passare da una situazione definita ad un'altra da definire, perché le tecnologie permettono un aumento di contemporaneità di fenomeni. I paesi in via di sviluppo non sono il nostro ieri, ma sono i paesi in via di sviluppo oggi, proprio perché sono interconnessi e contaminati dalla tecnologia. Lo scenario globale è una crescente integrazione mondiale. Non si tratta solo di scambi meramente economici, ma anche di informazioni, simboli, immagini e modelli di comportamento. I mercati sono network mondiali, dove venditori e compratori si incontrano ovunque, ed è per questo senza vincoli né orari: la contiguità del tempo è più importante di quella spaziale, ed ognuno può connettersi anche di notte perché l’altro risponde attraverso la connessio-ne in tempo reale.
Viviamo dunque in un mondo dove tutti sono uguali? Si direbbe di sì, perché si pensa che la globalizzazione riduca le differenze tra paesi, mentre queste tendono ad accentuarsi Jean-Françoise Lyotard, filosofo francese nato nel 1924 e morto nel 1998, descrive il mondo post-moderno come il luogo in cui sono finite le grandi narrazioni, come il marxismo, il cristianesimo che esprimono riferimenti identitari forti. Ulrich Beck, sociologo tedesco nato nel 1944, definisce questo mondo come la società del rischio e dell’incertezza, mentre Alain Touraine, sociologo francese nato 1925, introduce il concetto di turbolenza, secondo cui si vive in un’epoca nella quale l’unica costante è il mutamento, talmente evidente che non possiamo più immaginare di vivere un una società senza cambiamento. Fino a qualche tempo fa i grandi rinnovamenti erano ancora riconoscibili. Si prenda ad esempio l’epoca dell’acquisto dei primi elettrodomestici, la fase delle automobili, poi quella dei televisori, etc. Oggi tutto è talmente veloce che si perde la concezione del tempo. Non assistiamo più a mutamenti radicali come l’acquisto del primo cellulare, oppure del computer, ma viviamo una fase assolutamente dilatata che ingloba la turbolenza. Ne deriva che anche i fatti sociali sono oggi meno intelligibili, proprio perché non si è più in grado di ricondurre ad un unico modello i fatti e quindi interpretarli. Max Weber, sociologo tedesco nato nel 1864 e morto nel 1920, definisce l’età moderna come l’età della razionalizzazione, direttamente proporzionale alla specializzazione della tecnica, e dunque della sperimentazione.
Se tutto è riducibile a scienza, la sperimentazione sconfessa la sacralità delle scelte più importanti, quelle appunto secondo le quali il futuro è sempre una costruzione elettiva delle proprie responsabilità. Siamo di fronte al disincanto del mondo, ossia di fronte alla separazione tra sacro e profano, tra mistero e razionalità, e tutto ciò che conduce l’uomo a stabilire un patto con il proprio Dio diventa solo un fatto privato e non più un riferimento culturale. Questo nostro mondo spiega i fatti con strumenti razionali e quindi da un lato abbiamo il disincanto, la religione personale, e dall’altro la razionalizzazione.
In questa situazione, dove il sacro è in crisi, quale etica il singolo individuo può adottare? Secondo Weber, economista e sociologo tedesco, nato nel 1864 e morto nel 1920, l’unica etica che possiamo assumere come guida è quella della responsabilità: l’individuo deve agire sulla base delle conseguenze delle proprie azioni. Avere un’etica significa dunque scegliere secondo l’analisi delle conseguenze delle proprie scelte.
Secondo Ludwig Wittgenstein, filosofo austriaco nato nel 1889 e morto nel 1951, invece, oggi l’unica etica che possiamo percorrere è quella del labirinto, secondo cui si individuano tre immagini: a), la mosca nella bottiglia; b), il pesce nella rete; c), l’uomo nel labirinto.
La mosca intrappolata nella bottiglia non può che agitarsi e non può che sperare di trovare un foro di uscita, supponendo che la bottiglia sia aperta. Il comportamento della mosca è senza un disegno certo, perché si affida alla fortuna e al caso. Questa è la situazione di chi non ha una risposta e si lascia trasportare dal destino. Il pesce nella rete più si agita, più rimane impigliato e non può neanche contare, come la mosca, sulla fortuna, perché deve calmarsi per limitare il dolore. E’ l’immagine di una società che al destino reagisce con rassegnazione, non producendo un comportamento attivo. L’uomo nel labirinto ha fondate speranze di trovare una via d’uscita, non pensa al destino già segnato, ma procede passo a passo, verificando razionalmente se la strada imboccata è quella giusta. Inoltre egli è disponibile a cambiare via, quando si dovesse accorgere di aver sbagliato.
E’ l’immagine della società che procede per tentativi, controllando razionalmente se questi siano giusti ed in sintonia con l’idea del labirinto, nel quale esistono diverse strade da prendere, con una via d’uscita che comporta una continua analisi dell’esattezza delle proprie decisioni. La sensazione che se ne ricava è quella di vivere una modernità nella quale si perdono i confini conosciuti delle proprie identità e delle proprie azioni, perché siamo effettivamente passati da una condizione rigida ad una società in cui i riferimenti si dissolvono rapidamente. Se nella società tradizionale ciò che eravamo era dato a priori, oggi ciò che dobbiamo essere è diventato un compito incerto, poiché ogni individuo si assume il rischio di una scelta sbagliata.
L’immagine che meglio evidenzia questo stato di cose è quella del puzzle. Ogni individuo deve comporre tanti pezzi di se stesso per completare un disegno, e la vita è l’insieme di essi. La differenza è che il nostro puzzle all’interno della scatola non ha un’immagine chiara e definita, perché sia i fini che i mezzi sono oggetto di incertezza. Nella società tradizionale i pezzi e gli incastri sono garantiti a priori, mentre in questa post-industriale globalizzata devono tutti essere ricostruiti. Karl Raimund Popper, nato nel 1902 e morto nel 1994, definisce questo atteggiamento epistemologia evoluzionistica, grazie alla quale si è costretti a risolvere vari problemi per formulare, attraverso l’eliminazione di errori, sempre nuove teorie da sottoporre a controllo costante.
Beck definisce la globalizzazione come la società del rischio. Di fronte ai pericoli naturali della società tradizionale (uragani, siccità, carestie, terremoti), oggi si verificano quasi interamente quelli prodotti dall’uomo, come il terrorismo, l’inquinamento, la fame nel mondo, la povertà.
Ed oggi, inoltre, nessuno di noi è fuori pericolo.
La globalizzazione cambia la società e continuamente. Essa porta sicuri effetti positivi, segnati dal progresso tecnologico, informatico, telematico, etc., anche se questi ultimi implicano uno spostamento della natura dei rischi, che da non più naturali passano ad essere quasi totalmente culturali, conducendoci nel regno dell’ incertezza. In questa turbolenza l’individuo si sente da un lato più libero (perché sono diminuiti i vincoli culturali con la tradizione), più responsabile e autonomo nelle proprie scelte, anche se dall’altro lato la mancanza di riferimenti identitari certi e di legami sociali lo porta in una condizione di smarrimento e solitudine.
Per questo si avverte l’esigenza di solidarietà e di sviluppare il maggior numero di relazioni sociali. Tutto ciò è riscontrabile nella vita quotidiana e nei nostri comportamenti. I ristoranti, i cinema ed i centri commerciali sono luoghi, spazi dove creare relazioni sociali. Si sente il desiderio di comunità e di interagire con l’altro anche attraverso la connessione telematica. Si pensi al rapido sviluppo delle comunità virtuali delle globosfere oppure delle chat.
La globalizzazione è molto complessa, ma ciò che rimane semplice è il cuore umano, sempre assetato di un affetto fisiologico e vitale, che stiamo sempre più negando, a noi e quindi anche agli altri.

Alessandro Bertirotti

Bibliografia

Bertirotti A., Larosa A., 2005, Umanità abissale. Elementi di antropologia secondo una prospettiva bioevolutiva e globocentrica, Bonanno Editore, Acireale-Roma.
Bhagwati J., 2004, In Defense of Globalisation, Oxford University Press, Oxford, trad. it., 2005, Elogio della globalizzazione, Laterza Editore, Roma-Bari.
Annunziato P., Calabrò A., Caracciolo L., 2001, Lo sguardo dell’altro. Per una governance della globalizzazione, Il Mulino Editore, Bologna.
Giddens A., 1999, Runaway World. How Globalization is Reshaping our Lives, Profile Books, London, trad. it. 2000, Il mondo che cambia. Come la globalizzazione ridisegna la nostra vita, Il Mulino Editore, Bologna.
Williams B., 2006, Comprendere l’umanità, Il Mulino Editore, Bologna.
Foot P., 2001, Natural Goodness, Clarendon Press, Oxford, trad. it. 2007, La natura del bene, Il Mulino Editore, Bologna.
Pandolfi A., 2006, Natura umana, Il Mulino Editore, Bologna.
Beck U., 2001, La società globale del rischio, Asterios Editore, Trieste.
Bauman Z., 2002, La società individualizzata. Come cambia la nostra esperienza, Il Mulino Editore, Bologna.


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24 aprile 2008

ILLUMINAZIONE!

di Giulio Rupi

Riflettendo sulla famosa frase di Le Corbusier: "DAL CUCCHIAIO ALLA CITTA'" ho finalmente capito, alla luce degli odierni risultati, che il Nostro non voleva dire che l'Architetto deve saper progettare bene a tutte le scale dal cucchiaio all'edificio alla città.
No. Il Nostro voleva dire che, disegnato un bel cucchiaio (o una bella teiera o che altro) si devono fare edifici a forma di quel cucchiaio, ma cento volte più grandi, e piani urbanistici a forma di quel cucchiaio, ma diecimila volte più grandi!

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22 aprile 2008

UN BEL PENSIERO SUL RUOLO DELL'ARCHITETTO

TRATTO DA "IL GIORNALE" del 14-12-2007

DOMANDA DEL GIORNALISTA:
Qual è dunque il ruolo dell’architetto e quale quello dello spazio pubblico?

RISPOSTA:
Attilio Petruccioli, preside della Facoltà di Architettura del Politecnico di Bari, tenta una risposta: «Recuperare continuamente la memoria. È il contesto che genera il progetto, l’architetto non deve sentirsi un padre o un inventore, impegnato in gare di originalità e virtuosismo narcisistico, ma soltanto una levatrice».

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20 aprile 2008

L'ARCHITETTURA E LA GENTE

di Giulio Rupi
Da più di un secolo abbiamo domandato alle Archistar perché si dovevano costruire per la gente edifici e tessuti urbani che non piacevano alla gente, che se fossero stati sottoposti a referendum preventivo mai avrebbero ottenuto l’approvazione delle moltitudini, edifici e periferie che, una volta abitati, hanno ottenuto la repulsa dei loro fruitori, testimoniata da abbandono, degrado e addirittura da rivolte violente.
Da più di un secolo ci hanno dato la solita risposta: “Anche la musica dodecafonica, anche l’arte astratta di Pollock, anche il cubismo di Picasso al loro apparire hanno raccolto il disorientamento del pubblico. L’Ar(chitetto)tista non deve curarsi della reazione del pubblico perché non è dal pubblico che deve essere giudicato”.
Da più di un secolo abbiamo inutilmente risposto così.

Prima parte della risposta:
“Chi vuole può acquistare un quadro di Picasso o di Pollock e attaccarselo alla parete del soggiorno. Chi vuole può comprarsi un disco di Luigi Nono e ascoltarselo in casa sua, ma se costruisco un pezzo di città, se costruisco degli edifici, i cittadini ne devono usufruire per forza, non per libera scelta.”

Seconda parte della risposta:
“Picasso dipingeva donne asimmetriche, ma poi andava a letto con donne simmetriche (e esteticamente apprezzabili dalla stragrande parte dei cittadini anche incolti).” “Ovvio, si controafferma, una cosa è la fruizione dell’opera d’arte, guidata dall’intelletto, una cosa è il rapporto carnale tra maschio e femmina, guidato dall’istinto!” E noi: “Il rapporto tra l’uomo e il suo ambiente, tra l’uomo e la sua città, è diverso da quello intellettuale della fruizione di un’opera d’Arte! Quel rapporto ha una forte componente istintiva, carnale, antropologica! Per questo le masse dei turisti, sia quelli colti sia quelli incolti, sono ugualmente attratte e affascinate dai medesimi monumenti, nelle città storiche di tutto il mondo!”

Conclusione del ragionamento:
E dunque l’Architettura e l’Urbanistica sono attività umane che, per il loro impatto “carnale”, “istintivo” su tutti noi, hanno una valenza sociale talmente forte, da dover essere forzatamente sottoposte al giudizio di “gradevolezza” della gente comune!”

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18 aprile 2008

13 Principi per il Buon Progetto Urbano
Della Princep’s Foundation

Luogo:
Il progetto che rispetta il carattere complesso del luogo e tiene in considerazione la sua storia, la sua geologia, le relazioni dei trasporti e il suo paesaggio naturale
Spazio pubblico:
Un riconoscimento che il progetto delle aree pubbliche, compresi l’arredo urbano, la segnaletica e l’illuminazione, è importante tanto quanto il progetto degli spazi privati, e dovrà essere progettato come parte di un insieme armonioso
Permeabilità:
Il disegno urbano in cui gli isolati di edifici sono pienamente permeati da una maglia di strade interconnessa
Gerarchia:
Una chiaro e leggibile sistema di classificazione che riconosce una gerarchia tra i tipi di edifici o di strade e le loro singole parti in relazione con l’insieme
Longevità:
Il progetto che crea strade ed edifici che faranno fronte ad una varietà di utilizzazioni durante l’arco della loro vita
Valore:
Il disegno che crea un utile valutabile in termini economici, sociali e ambientali
Scala:
Città ed edifici che, a qualsiasi scala, sono in relazione con le proporzioni dell’uomo
Armonia:
Il progetto che suona la sua personale “nota” e malgrado ciò si armonizza con l’ambiente locale e naturale
Recinto:
Il progetto che stabilisce una chiara distinzione tra la città e la campagna, tra lo spazio pubblico e privato, incoraggiando in tal modo attività appropriate all’interno di ciascuna
Materiali:
Il progetto che usa materiali che siano, dovunque possibile, autoctoni, che siano in naturale armonia con il paesaggio, e che siano selezionati con attenzione per garantire che essi migliorino il loro aspetto con il tempo e con il degrado dovuto alle condizioni atmosferiche
Decorazione:
Il progetto la cui decorazione non solo innalzi la qualità e la bellezza di un edificio ma aiuti a generare valori emozionali e personali, e relazioni culturali
Fattura artigianale:
La cura e l’attenzione con cui è costruito un edificio premia sia l’autore che l’utilizzatore e ne rende probabile la conservazione e il valore per le future generazioni
Comunità:
Il coinvolgimento delle comunità locali, fin dall’inizio accuratamente favorito, allo scopo di creare luoghi che ne ricavino un’influenza positiva, che venga incontro alle necessità, ai desideri e alle aspirazioni della gente, e produca orgoglio civico.
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Brevi considerazioni
Non si può non apprezzare di questi principi la filosofia che li sottende:
• uno spirito di grande attenzione e aderenza alla realtà dei luoghi e dei cittadini; il progetto nasce come servizio alla comunità e in quanto tale deve rispondere a tutta una serie di requisiti che questa ritiene prioritari; luoghi e comunità civile sono i due capisaldi del progetto;
• il porsi nei confronti del progetto con un atteggiamento di umiltà e modestia, consapevoli che ogni edificio è un segno che rimane nell’ambiente e che influenza i comportamenti e la vita degli individui e della comunità;
• il progettista diventa perciò colui che propone, razionalizza, analizza la realtà, naturale e artificiale, e i bisogni e i desideri degli individui singoli e della comunità nel suo complesso, esprimendosi poi con le sue conoscenze nella redazione del progetto;
• queste regole danno sostanza all’affermazione del valore civico dell’architettura perché gli edifici appartengono alla comunità perché tutti i cittadini ne usufruiscono, volenti o nolenti, e dunque tutti hanno il diritto di esprimersi su di essi.
Questi principi sono l’esatto opposto della fantomatica “cultura del progetto” di cui si parla nelle riviste dell’editoria di regime (mediatico) che non ha sostanza culturale ma serve solo a giustificare forme astratte avulse dall’ambiente naturale e urbano, oggetti di puro design, in cui ciò che conta è lo smisurato e paradossale egocentrismo dell’architetto che pretende di essere il portatore di verità, figura messianica estranea perciò ad ogni giudizio che non sia quello adulatorio e osannante della critica ufficiale.
Giova inoltre osservare che da questi principi non discende automaticamente uno stile, un canone architettonico univoco; sono appunto principi generali, criteri minimi, ma essenziali, di impostazione dell’approccio al progetto che può sostanziarsi in forme diverse.
Tuttavia è assolutamente evidente che il decostruttivismo architettonico per certo non risponde a nessuno dei 13 principi, anzi è ad essi antitetico per scelta e per definizione.
Pietro Pagliardini

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13 aprile 2008

I CITTADINI E LA POLITICA SCELGANO, NON GLI ARCHITETTI

Vittorio Sgarbi ha proposto che siano i cittadini di Milano a decidere se realizzare o meno le tre torri di CityLife, di cui una “storta”, attraverso un referendum. Aldilà delle pur legittime scaramucce fra forze politiche diverse, l’argomento è di grande interesse perché investe un principio fondamentale della democrazia: chi ha il potere di decidere le scelte importanti che riguardano la forma, il disegno, la vivibilità di una città.
L’architetto Libeskind, progettista della torre storta, non ha dubbi in proposito: è l’architetto che deve decidere e scegliere ciò che è bene e ciò che è male, perché è l’architetto che ha il potere, la conoscenza, la verità e si scaglia, in maniera non troppo urbana contro i suoi critici, in particolare contro Berlusconi, accusandolo di essere, oltre che fascista, talmente ignorante da non capire che il suo progetto è imparentato nientepopòdimenoche con Leonardo da Vinci.

Ora, ammesso e non concesso che questo sia vero (e ragionando per assurdo lo voglio ammettere per un istante) nulla dice l’architetto in cosa consista tale parentela, nulla spiega, neanche per accenno, se sia, che so, la forma flessa e sinuosa a richiamare le morbide linee pittoriche del maestro oppure l’analogia tra la asimmetria dell’edificio e il lieve strabismo della Monnalisa oppure una qualche affinità tra la concezione della modernità del suo grattacielo con i disegni di Leonardo per Milano in cui vi si può leggere la modernità della separazione dei percorsi. Fine del ragionamento per assurdo, si torna alla realtà.
In realtà quello che è più significativo non è il contenuto dell’analogia in se, ma la sproporzione tra l’affermazione fatta e l’intenzionalità della mancanza di spiegazione, per il semplice fatto che l’esperto non deve spiegare nulla, non ne ha bisogno in quanto l’essere esperto comprende in sé stesso il fatto di avere risposte ad ogni dubbio e i non esperti, cioè tutti gli altri, devono, oltre che possono, fidarsi ciecamente; d’altronde, se così non fosse, che razza di esperto sarebbe? Se non ci fosse l’esperto, allora sì sarebbe ragionevole, secondo questa logica, avere una discussione in cui si esprimono opinioni diverse e contrastanti ma se l’esperto c’è non c’è neanche il motivo logico per discutere. L’esperto racchiude in sé ogni risposta, è la sintesi assoluta, non serve né tesi né antitesi. Affermazioni come queste hanno lo scopo di lasciare l’interlocutore privo di argomentazioni e di confutazioni, perché non c’è proprio alcuna risposta coerente, l’importante è sconcertare, spiazzare, mettere l’altro in condizione di inferiorità: tutto, fuorché spiegare.
Di un processo decisionale come questo, l’episodio di Milano è solo un esempio come tanti altri, che mi interessa come architetto e che ha avuto in questi giorni vasta risonanza nella stampa, ma è solo uno dei sintomi della tirannia degli esperti che, come dice Ernesto Galli della Loggia sul Foglio, “è un sostituto delle ideologie ….che prende piede perché offre qualcosa che in fondo piace a tutti gli esseri umani: li deresponsabilizza”. E’ vero che questo ragionamento era riferito agli esperti che si occupano di scienza medica, alla tecno-scienza che vuole decidere della nostra vita, che ci vuole per forza belli e forti e sani ed eterni ma, a parte la differente scala di valori tra una possibile eugenetica e l’architettura, il ragionamento che sottintende alla logica dell’esperto è lo stesso.
Chi deve decidere le scelte fondamentali della città, chi ne ha titolo? Ma la domanda vera è la seguente: a chi appartiene la città, con le sue strade, le sue piazze, le sue case, le sue fabbriche, i suoi edifici pubblici, se non a tutti coloro che la vivono, la abitano, vi svolgono la loro attività e la loro esistenza? La città è l’ambiente dell’uomo, creato, inventato, sviluppato dall’uomo stesso, in un rapporto continuo con la natura e la geografia dei luoghi, talvolta dominandola, talvolta assecondandola. Non sono stati gli esperti a decidere, essi hanno solo aiutato, hanno fornito il loro talento e gli strumenti tecnici, ma è stata la società nel suo complesso a scegliere, in un equilibrio certamente difficile in cui ora il potere dominante ha sopraffatto le scelte individuali, ora la spontaneità proveniente dal basso ha vinto. Certamente mai un architetto ha deciso da solo, neanche nelle città ideali del Rinascimento dove niente egli avrebbe potuto senza la volontà del committente-ispiratore, papa o principe che fosse; e anche in questo caso l’architetto non ha progettato fuori della storia e della tradizione, semmai ne ha idealizzate forme e principi facendone un modello ideale appunto ma sempre sulla scorta dell’esperienza del passato e del presente.
Una società in cui le scelte siano totalmente delegate agli esperti è deresponsabilizzata e intrinsecamente totalitaria e anti-democratica, è la repubblica di Platone governata dai filosofi, l’esatto opposto della democrazia.
Se è vero che nel nostro paese esiste un problema di troppi livelli decisionali che nella stragrande maggioranza dei casi rallentano o addirittura impediscono la realizzazione di opere di qualsiasi tipo, è anche vero che non si può scavalcare il sistema affidandosi ciecamente ad un architetto creativo, rendere tutto possibile in nome di un brand, di una griffe.
La soluzione è dunque quella di affidare al giudizio popolare le scelte più importanti per la città, vuoi attraverso il referendum, nel caso di progetti contestati, vuoi attraverso un voto, eventualmente non vincolante, per i concorsi d’architettura, dove ormai la scelta sfugge di mano non solo ai cittadini ma anche agli amministratori che hanno ottenuto il voto proprio per decidere.
Se gli architetti sono sicuri del fatto loro non avranno difficoltà a farsi giudicare da coloro che saranno i veri padroni delle loro opere; e se si vuole alleggerire la lunga teoria di pareri, permessi, nulla-osta rilasciati dagli innumerevoli organismi che la illimitata creatività burocratica degli italiani ha inventato per decidere la realizzazione di un’opera, non manca certo il materiale dove intervenire per sottrazione, essendovene molti di inutili, e introducendone uno che invece è essenziale e decisivo: il parere dei cittadini.
Ricordo a quanti non lo sapessero che a Groningen, in Olanda, un nostro connazionale, l'architetto Adolfo Natalini ha potuto realizzare un’opera molto bella, molto moderna e rispettosa della tradizione a seguito di una votazione popolare. (Groningen ha continuato con questo metodo)Vogliamo forse accusare l’Olanda che ha creato la propria terra sottraendola al mare di essere un paese incapace di decidere?

P.S. Leggo ora sul Corriere che un politico milanese, Bobo Craxi, sui grattacieli ha detto: "decidano gli esperti" (che poi vuol dire si facciano i grattacieli ma nascondendosi dietro ad altri). Ironicamente direi che non ha letto questo post, realmente penso che buona parte della classe politica ha paura della responsabilità di scegliere. Perfetto tempismo per dimostrare le ragioni di Galli della Loggia.

Pietro Pagliardini


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7 aprile 2008

REINVENTARE OGNI VOLTA LA RUOTA?

"Ogni giovane architetto dovrebbe essere RADICALE PER NATURA, proprio perchè non è assolutamente sufficiente per lui cominciare da dove gli altri hanno finito."(F.L.Wright)
Questa frase di un grande architetto la possiamo prendere a simbolo della situazione dell'architettura contemporanea, senza per questo volere attribuirne a Wright la responsabilità.
Facciamo una prova e applichiamo questa frase alla medicina:
"Ogni giovane medico dovrebbe essere RADICALE PER NATURA, proprio perchè non è assolutamente sufficiente per lui cominciare dove gli altri hanno finito."
Scegliereste come vostro medico un allievo di un simile professore?
In questa frase, che esercita indubbiamente un certo fascino, perchè è intrigante, immaginifica, sognante e dà un'illusione di potenza al giovane studente di architettura, c'è la spiegazione del disastro attuale delle scuole di architettura, come dice Nikos Salingaros nel suo scritto sul Domenicale del 7 Aprile 2008:
“Le discipline scientifiche sviluppano…. linguaggi adatti a questo scopo di lungo termine, permettendo di trascrivere e di salvare le conoscenze scoperte, per le generazioni successive. Il sapere stesso si basa sulla disponibilità di un efficiente meccanismo d’immagazzinamento delle informazioni.” E continua: “Questo processo di documentazione è allora quello che consente agli scienziati di costruire sulle scoperte precedenti. È un sistema che mette al riparo dalla necessità di “riscoprire la ruota” ogni qualvolta si debba eseguire un’applicazione di base………Per contro, invece, l’architettura deve ancora sviluppare un efficace sistema di riordino delle informazioni ereditate. In realtà, ciò che è successo in architettura è impensabile per le scienze: a un certo momento degli anni Venti del secolo scorso, un gruppo d’ideologi alla ricerca d’innovazione progettuale ha arbitrariamente scartato la base informativa dell’architettura”.
E’ dunque il metodo che è profondamente sbagliato, perché anti-scientifico e anti-moderno, rinuncia alla conoscenza accumulata da altri, rinnega la tradizione millenaria dell’architettura e pretende di dare, ad ogni architetto, la possibilità, direi quasi l’obbligo per non sentirsi inferiore, di diventare esso stesso il fondatore di uno stile personale, il creatore assoluto di nuove forme, dopo aver fatto tabula rasa di tutto il passato. E' la concezione dell'architetto come artista, peraltro deformata perchè anche lo scultore o il pittore fa tesoro del talento di chi lo ha preceduto.
Qui non si tratta di praticare la virtù della modestia, pure necessaria quando si costruiscono edifici destinati a durare nel tempo e non allestimenti provvisori da show-room, ma di ritrovare un metodo che riparta dal bagaglio di conoscenze di chi ci ha preceduto e che ci ha lasciato in eredità città certamente migliori di quelle che lascia il secolo scorso e di quello che promettono di lasciare questi primi anni del 3° millennio. Se ancora in ogni convegno siamo a parlare di risolvere i problemi delle periferie, create da noi, se ancora si va cercando la qualità e il bello nell’architettura contro il brutto attuale, vuol dire che il decantato metodo “ogni architetto la sua architettura” è un vero fallimento. La falsa sicurezza non la da, come si legge di continuo in giornali e riviste specializzate, il ritorno al passato, ma l’insistere su un presente che non ha futuro perché ha scelto di negare completamente il passato.

Pietro Pagliardini

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6 aprile 2008

POLPETTONE AL CUMINO

Pietro Pagliardini
Questo articolo scritto per il periodico dell'Ordine è del 2002 e vi sono alcune previsioni sulla Cina ormai largamente superate dai fatti. Almeno su questo avevo visto giusto.


Vado al ristorante tipico aretino e ordino il polpettone. Mi propongono un piatto con due fettine sottili coperte da una salsa color senape. Mi predispongo, con curiosità, ad una versione più tradizionale del polpettone di mia mamma. Assaggio e un intenso sapore di spezie mi aggredisce il palato. Domando al cameriere: è cumino, una pianta particolarmente aromatica, molto più adatta a cibi nord africani che aretini. La chiamano fusion cioè mescolanza di sapori di diverse cucine.
E’ un esempio di globalizzazione culinaria? Baricco avrebbe risposto: forse sì, forse no. Io, più grossolanamente rispondo sì, lo è.
Si tendono a confondere sapori, gusti, abitudini consolidate con alimenti uguali in ogni parte del mondo. Oggi, ad esempio, è molto trendy il sushi: senza sushi sei out (globalizzazione della lingua).
D’altronde la Coca Cola è apprezzata da un secolo e non è certo di origine toscana, dunque vada per il sushi.
Ma cosa c’entra la cucina con l’architettura?
Poco, in verità, se non fosse che entrambe sono forme, diverse, di manifestazione della cultura di un popolo. E allora potremmo azzardare a dire che il corrispondente del sushi in architettura è il palazzo di acciaio e vetro: c’è a Tokyo? lo voglio anch’io. Con una non piccola differenza: il sushi viene “digerito” in poche ore, lo smaltimento del palazzo, per quanto mal costruito, è comunque più tardivo.
E’ difficile per un architetto non esperto di economia parlare di globalizzazione, perché è chiaro che di fenomeno economico, prima di tutto, si tratta. E’ l’economia che cambia realmente la vita degli uomini, che rende il pianeta un enorme mercato senza frontiere, che ci permette di comprare capi griffati o prodotti di uso comune con marchio italiano ma tutti rigorosamente Made in China. In una qualsiasi città europea si progetta un oggetto, da una qualche banca americana arrivano i soldi, in Cina si produce, nel mondo intero si vende.
Vi è chi in questo metodo vede, con qualche ragione, un pericolo, una minaccia alla democrazia, una perdita del controllo politico dei processi decisionali; vi è chi, viceversa, crede che dopo lo sfruttamento della mano d’opera a basso costo, i cinesi impareranno a fare da soli, troveranno i capitali, produrranno e venderanno nel mondo, miglioreranno il loro tenore di vita, diventeranno produttori e consumatori. Personalmente propendo per la seconda visione ma conta niente ciò che io penso, perché la globalizzazione è un fenomeno che difficilmente può essere fermato, non dico da me, ma da uno stato intero o da più stati. E’ un processo inarrestabile per ora: speriamo che abbiano ragione quelli che la pensano come me e che sia una buona cosa per l’umanità.
Ciò che invece non è certamente una buona cosa, ma che può, questa sì, essere parzialmente dominata, è la sua ricaduta culturale.
La circolazione delle idee, anche di quelle no-global, è il grandissimo merito della globalizzazione ma più le idee circolano e più c’è il rischio che si confondano (la fusion, appunto). Quello che dovrebbe essere scambio tra culture diverse, a causa dell’enorme velocità del processo tende a semplificarsi e a diventare cultura unica.
E in architettura? Alcuni esempi di globalizzazione:
1) le opere dei vari architetti dello star-system che, ovunque, ripropongono il loro cliché, il loro marchio, con l’unico scopo di promuovere sé stessi infischiandosene della unicità dei luoghi a loro affidati (Botta, ad es., riempie mezza Europa di cilindri);
2) le opere di tutti noi quando ci “ispiriamo” alle stars;
3) il movimento moderno che ha imposto uno stile uguale in ogni dove (international style, non a caso), senza rispetto per la diversità dei luoghi, dei popoli che li abitano, delle comunità locali
4) i grandi interventi immobiliari uguali a Londra come a NY o a Hong Kong.

Pochi “stili” sono stati così globalizzanti come quelli del XX secolo. Si prenda ad esempio il Duomo di Arezzo: gotico, sì, ma asciutto, scarno, rigoroso, puro creatore di spazio quasi privo di ornamento, maschio, povero forse, essenziale come il carattere degli aretini. Lo si confronti con il Duomo di Milano: anch’esso è gotico, splendido, ma quale somiglianza se non negli archi, nei pilastri a fascio, nella verticalità, nella concezione dello spazio? Sarebbe concepibile un Duomo di Milano, in piccolo, ad Arezzo? Impossibile, non c’era l’architetto star che lasciava il marchio; ogni comunità adattava lo stile al proprio carattere.
L’unica difesa possibile dalla globalizzazione, dalla omologazione, dalla fusion sta nel valorizzare la cultura dei luoghi e nella tradizione.
In questo ognuno di noi ha la sua responsabilità e può contribuire a cambiare un po’ le cose, anche perché ai nostri clienti piace molto di più la casa legata alla tradizione piuttosto che la villa americana acciaio e vetro e, dato che lavoriamo per loro, non vedo perché non accontentarli.
Non vi alcunché di provinciale in questa scelta anzi è vero il contrario: quanto è irritante l’atteggiamento di qualche collega che, di ritorno da un viaggio all’estero, vorrebbe trasferire, sic et simpliciter, ciò che ha visto nel nostro territorio!
Nessun rifiuto della modernità in sé stessa ma delle forme attraverso cui la modernità si manifesta in altri paesi sì, eccome!
Nessun rifiuto dell’innesto di architetti “di fuori” nella nostra realtà ma a condizione che non ci venga propinato un prodotto preconfezionato altrove.
Riassumendo tutto in uno slogan direi:
sì alla globalizzazione dell’economia, no alla omologazione delle idee.

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1 aprile 2008

MILANO EXPO 2015



E così a Milano si terrà l’Esposizione Universale del 2015. E’ certamente una bella notizia per l’immagine del nostro paese ma quale sarà l'immagine che verrà proposta? I grandi gruppi saranno giustamente in pool position per sviluppare il loro business e, naturalmente, gli architetti di grido, cioè quelli creativi, fantasiosi, poetici, tecnologici, informatici ma comunque sempre ecologici, saranno senz’altro i prescelti per rinnovare i fasti del made in Italy nel mondo.
Ma, polemica a parte, credo si impongano alcune riflessioni.
Il tema dell’Expo ho sentito essere “l’alimentazione”. Non è che ne sappia molto di più di quanto detto dai telegiornali, cioè poco, ma immagino che si tratti anche di veicolare nel mondo la qualità dei nostri prodotti e della nostra cucina. E’ fuori discussione che questo sia un settore economico importante che ha anche il pregio, contrariamente ad altri, di riuscire a valorizzare realtà produttive piccole e medie. Ma il successo dell’alimentazione italiana è intimamente legato al territorio di provenienza, ai luoghi dai cui essa ha origine. I nomi stessi dei prodotti portano in sé la toponomastica dei luoghi: lardo di Colonnata, prosciutto di Parma, pecorino romano, grana padano, ecc. ecc. spesso basta il nome del luogo o un aggettivo per individuare il prodotto: il parmigiano o il reggiano, il San Daniele, la fiorentina, il Chianti, ecc.
Tutti questi prodotti affondano le loro radici nei più disparati territori italiani, costituiscono parte integrante della cultura di quei luoghi, sono i frutti di lavoro umano maturato nel tempo, anche se reinterpretati alla luce delle moderne tecniche di lavorazione. Vengono presentati, quasi sempre, in confezioni che hanno un sapore antico e di fatto mano, per distinguerli nettamente dai normali prodotti industriali delle multinazionali dell’alimentazione.
Il mondo della cultura ufficiale esalta le differenze alimentari tra una località e l’altra, talvolta in maniera bucolica, quasi con un senso di rimpianto per il bel mondo che non c’è più; la cultura del cibo viene talora sventolata come bandiera della resistenza alla globalizzazione. Ad essa si associa anche una sorta di filosofia di vita, lo slow food, vicina al mondo ambientale che, giustamente, rivendica la ricchezza della diversità.
Del tutto opposto l’atteggiamento nei confronti dell’architettura la cui bandiera è invece l’omogeneizzazione completa, l’assenza di diversità, la mancanza assoluta di declinazione in chiave locale di elementi architettonici generali. Tanto si apprezzano i piaceri del palato con gusti diversi, nel campo del cibo, quanto si apprezza un tipo di architettura tutta uguale a sé stessa in ogni parte del mondo, a Dubai come a Londra e a Milano.
Eccoci tornati a Milano, appunto: già stamani alla radio l’onnipresente Fuksas ha pontificato sulle mirabolanti architetture che si andranno a costruire in occasione dell’Expo. Ha decantato il quartiere Santa Giulia, il grattacielo di almeno 200 metri, la fiera di Rho, un tocco di ambientalismo con parchi e laghetti (ma l’ambientalismo non dovrebbe apprezzare la diversità?) e la linea è dunque tracciata.
Quindi è chiaro che il made in Italy si presenterà, una volta di più, avvolto in una “confezione” di stile “internazionale”. In questa logica perversa mi domando: un grattacielo di 200 metri di altezza non entra neanche nelle graduatorie delle riviste tra quelli più alti del mondo; a Pechino ne sorgono così come i funghi: possiamo competere con i paesi emergenti in questo campo? Che ci sarà di straordinario, di italiano nel quartiere Santa Giulia e nel grattacielo? Pensano lor signori che milioni di turisti vengano in Italia per vedere le nostre “architetture moderne”? Pensano che i cento milioni di cinesi ricchi che desiderano fortemente visitare il Bel Paese lo facciano per Fuksas, Piano, eccetera? Pensano che a Roma andrebbero a visitare l’Ara Pacis per il contenitore e non per il contenuto?
Ma ormai il destino è segnato, è tutto scritto: l’Italia rinuncia al suo petrolio che è la ricchezza dei luoghi, naturali e artificiali, in nome di una modernità ideologicamente intesa.
A proposito di contraddizioni: perché tutti questi signori che guardano avanti diventano benpensanti quando si parla di ponte sullo stretto di Messina che almeno assolve ad una funzione importante? Mah, vallo a capire!
Pietro Pagliardini

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30 marzo 2008

BLOG FAZIOSO? SI', GRAZIE

La lettura dell’articolo di Roger Scruton (Il Foglio, 22 marzo 2008), L’architettura tra arte e scienza, costringe ad una riflessione sul senso di questo faziosissimo blog, dedicato all’architettura tradizionale, che è poi una semplice riflessione sullo stato dell’architettura contemporanea.
Scruton, riferendosi ad alcuni autori - Salingaros, Sindler e Glazer - che scrivono contro l’architettura dell’archisystem, costringe a porsi la seguente domanda: l’alternativa alle assurdità architettoniche contemporanee è il ritorno al classicismo e al vernacolo di Krier, agli archi, alle colonne, ai timpani, o è forse possibile un’architettura “autenticamente moderna” che rappresenti la nostra società ma che riesca a conservare il senso della tradizione e della storia di millenni di civiltà urbana?
Posta così la domanda, non sembra che possano esservi dubbi: è certamente vera, e perciò preferibile, la seconda strada.
Però…. la realtà è un po’ più complessa di come appaia per diversi motivi:

1) Esistono certamente ottime architetture moderne e contemporanee che rispondono a requisiti di ordine geometrico, o matematico, come dice Salingaros, rispettose dell’equilibrio psicologico di chi le abita e di chi le frequenta nel proprio ambiente di vita, e ve ne sono anche di molti architetti italiani; qualche esempio: Adolfo Natalini, Gino Valle, il miglior Aldo Rossi, e molti altri. Il problema è che questi sono grandi architetti ma non grandi maestri, nel senso che la loro architettura è difficilmente trasmissibile sotto forma di insegnamento se non come pura replica di forme. A me sembra che loro stessi difficilmente potrebbero insegnare e trasmettere ad altri le regole costruttive che governano le loro costruzioni, a parte suggestive descrizioni letterarie stile l’architettese incomprensibile a tutti, figuriamoci a studenti di architettura (che infatti lo capiscono male e parlano sempre più architettese dei loro professori).Quando va bene la loro scuola riesce a riprodurre gli stessi elementi compostivi del maestro, a fare uso di alcuni caratteri formali che però, alla lunga, invecchiano inesorabilmente, privi come sono dello spirito creativo di quelli e senza alcuna teoria a sostenerli. Insomma, credo che quei bravissimi architetti abbiano prodotto le loro opere migliori più in forza dell’intuizione che non di una consapevolezza delle regole che stavano seguendo e questo per il fatto che anche loro erano o sono figli del disordine culturale dell’avanguardia del primo mezzo secolo scorso. Se anche avessero saputo, difficilmente avrebbero potuto dire, per non restare emarginati dal mondo accademico e professionale.
Dunque, primo problema: la non trasmissibilità delle regole attraverso l’insegnamento.
2) Attualmente l’architettura è il luogo dello scontro, del tutto impari in verità, tra un imponente sistema editoriale, pubblicitario e accademico che conosce, o meglio, riconosce solo l’architettura “creativa e geniale”e promuove le archistars dell’architettura al pari dei cantanti pop, delle dive del cinema, delle griffe della moda quali le uniche in grado di garantire risultati mirabolanti in termini di ritorno d’immagine, pubblicità, marketing, investimenti (in realtà i fallimenti non sono pochi, si legga questo link al New York Times). L’architettura tradizionale, quella che invece è la più apprezzata dai consumatori, dalla gente, quindi da coloro che pagano per averla e utilizzarla, è relegata dalla critica ufficiale, cioè quella imperante, a pura nostalgia del passato, quando va bene, a spazzatura, quando va male. Non c’è concorso di architettura che possa vedere un architetto tradizionale vincente, non c’è cattedra universitaria significativa che gli possa essere assegnata, non c’è rivista di architettura che gli dedichi, se non con giudizi sprezzanti, un articolo importante. Se è vero che proprio in questi giorni sono apparsi articoli interessanti su Libero, il Domenicale, il Corriere della Sera, il Foglio che affrontano i guasti del decostruttivismo, resta tuttavia la grande sproporzione delle forze in campo.

In una situazione come questa sperare di discutere di una terza via per l’architettura è assolutamente impossibile, velleitario e, soprattutto, perdente. Intanto perché chi cerca strade autonome è molto probabile che lo faccia partendo dal modernismo imperante per cercare di mitigarlo, migliorarlo o forse mascherarlo; soprattutto è probabile che conservi il mito della centralità dell’architetto, di colui che si guarda il proprio ombellico e pensa che sia il centro del mondo; invece è la strada inversa quella da seguire: partire dai valori, dalle regole universali dell’architettura tramandataci dalla storia, accettare queste regole, digerirne la sostanza e dopo, solo dopo, cercare declinazioni diverse ad una regola generale sempre valida.
Insomma è una questione di tattica, esattamente come in politica: se c’è un sistema politico che uccide la libertà di espressione è inutile tentare strade intermedie che ne addolciscano le ricadute negative: prima va combattuto quel sistema per mettere il re a nudo. Solo dopo sarà possibile ricostruire e proporre e discutere serenamente.
Se è consentito un paragone politico di attualità bisogna seguire la strada di Berlusconi nella politica italiana: per 13 anni ha combattuto aspramente (ampiamente ricambiato) quelli che lui chiamava, non senza ragione, i comunisti poi, una volta nato il partito democratico che sembra avere espulso ali radicali e “comuniste” appunto, è diventato dialogante, serio, talvolta ecumenico, alla ricerca di soluzioni condivise. Prima c’è la stata la pars destruens, adesso dovrebbe seguire la pars construens.
Per questi motivi questo blog è faziosamente di parte; di blog che discutono “democraticamente” di architettura ce ne sono a migliaia ma, guarda caso, i nomi e le opere che vi circolano sono sempre gli stessi, quelli dello star system.
Pietro Pagliardini

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27 marzo 2008

UNA LETTERA DI ROBERTO VERDELLI

Questa lettera dell'amico Arch. Roberto Verdelli nasce come commento ad un mio post ma mi sembra che la sua giusta collocazione sia questa. Il suo pessimismo è largamente giustificato ma una speranza c'è: in questo strano paese basta uno scossone, un fatto traumatico per cambiare il modo di pensare dell'opinione pubblica (cioè dei mass media): si guardi ad esempio come lo scempio spazzatura a Napoli abbia dato voce ad un ambientalismo più razionale e fattivo. Vedrai, Roberto, che prima o poi San Gennaro punirà anche gli architetti. Qualche segnale sulla stampa di questi giorni si è vista (Il Domenicale, Il Foglio, Libero).

Caro Pietro,
io c'ero già arrivato. Al blog, intendo. E se ci sono riuscito vuol dire che non deve essere così difficile. Penso che stai facendo una cosa buona e per me consolatoria, anche perchè sto maturando l'idea di essere dalla parte perdente. Irrimediabilmente perdente. Sconfitto da quella cultura che, rivendicando il diritto di poter esprimere il presente crede di poter fare tutto ed il contrario di tutto, senza dover rendere conto di nulla. Una lobby potente, fatta di pochi adepti, ma che ha una grande capacità di attrazione. Una lobby che predica: il diritto alla creatività, alla libertà di espressione e, sopratutto, il dovere di trasgredire le regole. In breve, o forse meglio, il diritto all'ignoranza. E quale sirena può sedurre di più, in un mondo sciatto, superficiale ed incolto, di quella che libera dalla conoscenza delle regole?
Alcuni studenti vengono bocciati all'esame perché, nel centro storico di Firenze, si azzardano a presentarsi col progetto di un edificio con il tetto a falde inclinate, in concorsi di progettazione su piazze storiche si premiano progetti che assomigliano a negozi di mutande con pedane in legno wengé e passerelle fisse per sfilate di mode.Infine, anche la chiesa secolare, reclama progettazioni moderne di edifici religiosi, di modo che, fra qualche anno ritornando a Scicli mi invierai la foto di un bel palazzo barocco con accanto una brutta chiesa moderna.Tu che hai la volontà e ne sei capace insisti con il tuo "blog". Bravo!
Roberto

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ALLE RADICI DELL'ARCHITETTURA, un libro di Giulio Rupi

Un libro pubblicato da Giulio Rupi qualche anno fa, “Alle radici dell’Architettura”, Alinea editore, è una interpretazione originale dell’architettura quale figurazione e rappresentazione della complessità dell’ordine della natura, come dice Salingaros. Ho chiesto a Rupi di fare uno sforzo impossibile per sintetizzare il contenuto del libro in una delle sue divertenti vignette e lui, re-interpretando l’uomo di Leonardo e uno dei noti schizzi di Leon Krier, mi ha fornito questo disegno.
Paragoniamo questo disegno con questo progetto realizzato di Libeskind ed ecco schematizzata una teoria dell'architettura.

Ne consiglio la lettura (ma ormai è reperibile solo in Internet) perché, oltre alla profondità dei contenuti, ha anche il grande pregio di non essere un libro della domenica, scritto per soddisfare se stessi, non è stato scopiazzato qua e là ma è frutto di riflessioni e analisi autonome. Il titolo è impegnativo ma il risultato non tradisce le aspettative.
Per chi fosse interessato ecco un link dove è ancora possibile trovarlo:

http://www.internetbookshop.it/code/9788881250509/rupi-giulio/alle-radici-dell.html


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19 marzo 2008

IDENTITA' E MODERNITA'

di Pietro Pagliardini

L’architettura moderna prodotta dallo star system dell’architettura, e dagli emuli di provincia, distrugge l’identità delle città, le omogeneizza, le rende tutte eguali l’una all’altra.
Le città perdono, con pochi interventi mirati, quel patrimonio di cultura accumulato nel corso dei secoli. Il tutto in nome della modernità: ma la modernità non ci dice niente sulla forma che essa dovrà assumere.

Modernità significa rispondere ai bisogni della società contemporanea, significa ad esempio, che se una città ha bisogno di collegamenti veloci si devono fare collegamenti veloci, se ha bisogno di un centro per la cultura giovanile, si deve fare un centro per la cultura giovanile, ma non ci dice nulla sulla forma che queste opere dovranno assumere. Chi l’ha detto che il collegamento deve essere una monorotaia che passa sopra una città e chi l’ha detto che il centro per la cultura deve essere una forma ameboide di metallo e vetro? L’architettura non è un abito che cambia con le stagioni e le sfilate di moda, non risponde al bisogno di cambiamento che nasce dalla necessità di vendere sempre nuovi prodotti e alimentare il mercato; e la città non è un negozio che deve cambiare sempre per reggere il confronto del mercato.
In una società matura inserita nel mercato globale l’identità culturale di ogni popolo, di ogni nazione, di ogni città deve essere salvaguardata, non fosse altro perché è un valore economico, tanto maggiore quanto più grande e nobile è la sua identità.

Su Wikipedia, per restare nel mondo di Internet, alla voce identità c’è scritto:
In sociologia, nelle scienze etno-antropologiche e nelle altre scienze sociali il concetto di identità riguarda, per un verso, il modo in cui l’individuo considera e costruisce sé stesso come membro di determinati gruppi sociali: nazione, classe sociale, livello culturale, etnia, genere, professione e così via; e, per l’altro, il modo in cui le norme di questi gruppi consentono a ciascun individuo di pensarsi, muoversi, collocarsi e relazionarsi rispetto a sé stesso, agli altri, al gruppo a cui afferisce ed ai gruppi esterni intesi, percepiti e classificati come alterità.

Se questo è vero, è vero sempre, è vero anche oggi a meno che non si pensi davvero che l’uomo “contemporaneo” sia antropologicamente diverso da quello di cent’anni fa. Quando appare diverso è solo perché condizionato dai modelli culturali inoculati dai media.
Dunque l’identità ha un valore fortemente positivo perché favorisce l’integrazione dell’individuo nel gruppo anche se, portata agli eccessi, se le identità etniche diventano troppo forti, può portare allo scontro tra diverse identità. Ma questo ci dice molto anche su come l’architettura e l’urbanistica possono favorire, chiamiamola così, l’identità buona, quella che integra e accoglie, quella che aiuta l’individuo a sentirsi sicuro all’interno del proprio ambiente senza per questo temere altre identità. Ad esempio una città separata in quartieri caratterizzati ciascuno da una nazionalità diversa è una città che non comunica, in cui ognuno vive chiuso nella propria zona. E’ la fine della città europea e certamente la fine di quella italiana. Ma la fine della città europea è segnata anche da organismi edilizi ad essa estranei che nulla hanno a che fare con la tradizione architettonica, che creano una “rupture” nell’ambiente dell’uomo.
Le rivolte delle banlieue dovrebbero fare riflettere perché sono un esempio di scuola: luogo della divisione e dell’emarginazione sociale e di un ambiente urbano disumanizzante perché privo di qualsiasi identità cosicchè i suoi residenti non appartengono a nessun gruppo sociale, né a quello di origine né a quello di adozione.
L'identità di una città significa dunque che quella città deve informare, comunicare i propri segni distintivi a chi vi abita; deve dire loro: "Io sono la tua città e non un'altra, tu sei nel luogo giusto perchè mi riconosci, perchè mi sono identificata, perchè tra quello che hai visto nel centro storico e quello che vedi qui, in periferia, non c'è molta differenza, hai visto segni omogenei anche se con alcune variazioni; stai tranquillo, non ti sei perso". E quando gli abitanti di una città vanno a visitarne un'altra, questa dirà loro: "Hai visto come sono bella? diversa dalla tua città ma ugualmente bella. E' bello conoscere città diverse, come è bello conoscere persone diverse. Pensa che noia se tu incontrassi persone tutte uguali!"

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17 marzo 2008

PREGHIERA, di CAMILLO LANGONE

Camillo Langone, scrittore e giornalista de Il Foglio, si occupa di vini e cibo, Messe (plurale di Messa), tradizioni, donne, architettura - l’ordine non è necessariamente gerarchico- insomma del bello della vita. Non lo conosco personalmente, ma mi ha consentito, nel giro di venti minuti, tramite mail, di poter pubblicare come post questa sua Preghiera, rubrica quotidiana, dedicata all’identità delle nostre città.
Grazie
Pietro Pagliardini

Web site di Camillo Langone: http://www.camillolangone.it/

Preghiera
di Camillo Langone - da Il Foglio di mercoledì 5 marzo 2008

Dio che accechi chi vuoi perdere, perché proprio i sindaci italiani? Non potresti abbagliare i sindaci del Burkina Faso, dove tanto non andrò mai? Il City Brands Index 2008 ha decretato che la città più riconoscibile del mondo è Sydney. Anno dopo anno le città italiane declinano verso l’irriconoscibilità, tiene soltanto Roma (grazie a San Pietro e al Colosseo, nonostante Richard Meier). Ovvio, non c’è un nostro sindaco che abbia aperto gli occhi sul concetto di “site specific”. A Milano chiamano Libeskind per costruire un grattacielo che la renda simile a Busan, Corea del Sud. A Reggio Emilia vanno fieri di Calatrava col suo ponte seriale che fa tanto Argentina e Wisconsin. A Salerno il nuovo tribunale di Chipperfield mette i brividi, siccome formato dagli stessi parallelepipedi che l’architetto inglese ha piazzato ad Anchorage, Alaska. Con grande spesa le città italiane si camuffano, cercano di sfuggire all’identificazione, come fa chi ha commesso un crimine, chi vuole farsi dimenticare
.

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EQUIVOCI, scritto per il foglio dell'Ordine Architetti Arezzo

di Pietro Pagliardini, Arezzo 2004

Vecchio e Nuovo.
I due aggettivi richiamano alla memoria altri opposti di uso comune:
Riformista - Conservatore
Bello - Brutto
Buono - Cattivo
Giusto - Sbagliato
ecc., ecc.
Questi termini così categorici non servono solo a collocare noi stessi rispetto al mondo e a far capire agli altri cosa e come pensiamo ma servono soprattutto alla nostra mente per semplificare, discernere e catalogare comportamenti, situazioni, oggetti, individui.
La cultura della modernità tende a farci attribuire a Vecchio una valenza prevalentemente negativa e a Nuovo una prevalentemente positiva; per Riformista-Conservatore vige la stessa regola.
Gli altri opposti, invece, non si discutono, rappresentano un valore assoluto, non relativo alle circostanze e il giudizio di valore non è dipendente dal periodo storico, culturale o sociale.
Dunque:
Bello, Buono e Giusto ......... sono termini ....... sempre positivi.
Vecchio e Conservatore ...... sono termini ....... quasi sempre negativi.

Qualche esempio:
-Conservatore, usato come sostantivo, è anche l’iscritto al nostro Ordine che si occupa della Conservazione dei monumenti e dei beni artistici e perciò si suppone abbia valore positivo;
-Vecchio attribuito a certe qualità di vino ha un valore (anche economico) fortemente positivo.
-Muore un anziano politico di “destra” molto stimato in quanto onesto, retto e coerente nelle sue scelte di vita e amici e avversari - in vita - gli rendono omaggio - in morte - definendolo “un esempio di Vecchio conservatore”: usati insieme i due negativi diventano “molto” positivi (tanto è morto e non da noia a nessuno)
-Però “Vecchio conservatore!!!” gridato alla stessa persona in vita durante una discussione politica sarebbe suonata come “molto” negativa anzi dispregiativa.
-Il Riformista è anche il titolo di un giornale: mica avranno dato un titolo negativo ad un giornale!
-Però “Riformista!!!” detto fino agli anni ’70 (e oltre) da un comunista ad un socialista era molto più di un’offesa (a parere del comunista, non del socialista che però s’incazzava lo stesso).

Dopo questo delirio verbale che neanche il Prof. Alberoni (che peraltro non leggo perché il lunedì non compro mai giornali e comunque non compro quasi mai il Corriere della sera) veniamo al dunque: come la mettiamo con l’architettura?

Per capirsi: semplificherò attribuendo a Vecchio il significato di Antico e a Nuovo quello di Moderno e che mi riferirò all’architettura moderna, con significato esclusivamente temporale e non stilistico. In campo architettonico l’ambivalenza nel significato di Vecchio e Nuovo è ancora più in relazione alla fonte di provenienza. Vi sono sostanzialmente due gruppi sociali diversi che utilizzano i due termini con valore diverso:

Gruppo A
E’ quello che ha la voce più forte, è l’establishment dell’architettura, cioè il mondo accademico, che trova sponda nel mondo dell’editoria (per pochi intimi), che dirige senza alcun controllo i concorsi, facendo ben attenzione a non premiare i migliori ma ad alimentare le proprie opinioni e a fare favori che saranno restituiti quando si invertiranno le parti. Se la suonano e se la cantano. Per questa “casta”, Vecchio ha connotazione fortemente negativa; anzi, per una consolidata tecnica egemonica, Vecchio non esiste proprio: ignorare per discriminare; chi lo predica non ha neanche diritto d’asilo culturale, non ha voce, non si discute con questi ignoranti. Solo il Nuovo esiste. E l’altra “casta” che con essa dialoga, quella dei politici, l’ha accontentata, inserendo nella legge Merloni un bel punteggio per premiare la “sperimentazione” nei concorsi. Sperimentazione è sinonimo di Nuovo e poiché, notoriamente, siamo agli albori di una civiltà urbana, dato che viviamo in villaggi decrepiti di capanne e visto che il territorio della selvaggia Italia ed Europa è una tabula rasa in cui architetti d’estro devono inventare città e case, la legge è Riformista e premia le invenzioni.

Gruppo B

E’ il gruppo della massa (che paga) di utenti, cittadini, fruitori dei singoli beni e della città nel complesso, i quali non sono addetti ai lavori, non conoscono tutte le sfumature del linguaggio architettonico, non hanno necessariamente cultura storica o artistica, esprimono più un bisogno di pancia che una riflessione critica consapevole ma chiedono “segni” evocativi di quella civiltà urbana o rurale che viene, dalla contro-parte (che riscuote), ritenuta tanto indegna da essere ignorata con la sperimentazione. E allora per soddisfare chi apprezza (e paga) quei “segni” di Vecchio, ecco che il mercato si attrezza con un repertorio di archetti e capitelli in c.a., tetti di svariata tipologia, timpani, colonne, ecc. insomma quanto di meglio noi tecnici riusciamo a fare per soddisfare quel bisogno, con i pochi mezzi culturali di cui disponiamo, visto che all’università ci hanno insegnato solo forme astratte nello spazio vuoto con cui si vincono i concorsi ma non si mura un metro cubo che uno. E le nostre città diventano le sommatorie di Nuove lottizzazioni, con case che sono un simulacro e una parodia del Vecchio e che finiscono per fare il gioco di coloro che aspirano al Nuovo.

In realtà questo è il solito gioco di potere di una minoranza che riesce a imporre alla maggioranza il proprio punto di vista mediante legami forti di casta e fra caste. Io penso (se non si fosse ancora capito) che il Gruppo A, che predica il Nuovo, sia Vecchio e Conservatore (in senso negativo) e il Gruppo B che aspira al Vecchio sia Nuovo e Riformista (in senso positivo), perché penso che l’architettura Vecchia sia prevalentemente Positiva, mentre quella Nuova prevalentemente Negativa.

L’equivoco sta nel fatto che l’architettura che si professa Nuova è Vecchia, quella Vecchia è Nuova.

Come tema per il prossimo numero di questo foglio consiglierei di prendere in esame una delle seguenti coppie di opposti:
mondo accademico - mondo professionale
disegni - realizzazioni
architettura delle riviste - architetture della gente

che è poi come dire, in altro campo:
stato - mercato
istituzioni - società civile

Sarebbe un modo utile per capire, non rassegnarsi e cominciare, per esempio, a discriminare i falsi cultori del Nuovo.

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UNA CITAZIONE DI LUCIEN STEIL

La contemporaneità non può essere ridotta a una permanente umiliazione del nostro giudizio morale e del nostro buonsenso estetico!
La contemporaneità non é una qualità, non é uno stile, non é una religione, non é una saggezza, non é un'abilità, non é una estetica, non é una promessa, non é un ideale e neanche una delusione!
Quello che é semplicemente la contemporaneità, é il fatto di essere qui, adesso!

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RISPOSTA ALL'ARCH. MARIO MASCHI

di Pietro Pagliardini – Luglio 2007

Dopo le considerazioni dell’arch. xxxxxxx sul recente convegno dell’Ordine, avevo preparato un mio contributo “ad adiuvandum” le relazioni dei colleghi Grifoni e Verdelli. Devo dire che il testo dell’amico Mario è stato provvidenziale e mi ha fermato in tempo, togliendomi dall’imbarazzo di dare inizio ad uno scambio polemico, sul piano culturale, con xxxxxxx.

Non posso fare a meno di cogliere nella lettera di Mario un tono molto diverso dal solito, più riflessivo, a volte quasi malinconicamente pensoso e meno carico di quelle certezze sull’architettura e sulla professione che lo hanno caratterizzato nel recente passato. Non solo: l’analisi che compie sulla qualità dell’architettura legata alla qualità della società e non ingenuamente figlia di una generica “cultura del progetto”, quasi che il progetto fosse la religione dell’umanità e gli architetti i suoi sacerdoti (questo non lo dice lui ma è una mia interpretazione) è condivisibile e mostra una notevole maturità nel valutare il fenomeno nella sua complessità, non riducendolo a sterile discussione interna ad una categoria professionale.
Se questo è vero mi viene da domandarmi: non sarà mica possibile, d’ora in poi, esporre le proprie idee con serenità, apertura e attenzione alle ragioni altrui? Sarà veramente possibile stare dalla parte della tradizione senza essere vilipesi e offesi (sempre culturalmente, intendo) e non essere spregiativamente e banalmente definiti “conservatori-storicisti”?
Sarà anche possibile che si riconosca che il pensiero unico, in qualunque campo, è sempre e comunque un male perché ogni manifestazione dell’uomo, compresa la fede religiosa (basti pensare alle diverse interpretazioni teologiche), è complessa e, senza cadere nel relativismo, si danno spesso verità molteplici?
A leggere Mario sembrerebbe proprio di sì.
Stia tranquillo, Mario, non voglio rovinare la sua reputazione arruolandolo abusivamente nella pattuglia degli antichisti. Anzi, ad interrompere l’idillio, dico subito che l’atteggiamento dialogante è la cornice, ma è il quadro che conta e su questo ho alcune osservazioni da fare.

Al convegno io ho seguito le sole relazioni di Grifoni e Verdelli. Da Grifoni ho ascoltato una lezione di alto livello sulla storia del territorio, condensata in quattro pagine; è partito dai primi insediamenti umani ed è arrivato ad individuare alcuni criteri per il presente e il futuro, con raro rigore logico e senza nulla concedere alla politica e alla platea, dissenziente ma silenziosa perché priva di risposte adeguate a quel livello.

Citerò sinteticamente alcune proposte di Grifoni:

1) La strada è l’elemento ordinatore e fondativo dello sviluppo
2) Continuità del tessuto costruito (quindi niente coul-de-sac, o strade interrotte)
3) Coincidenza tra facciate e limite dello spazio stradale

Siamo d’accordo su questi tre punti essenziali?
Se sì, è necessario trarne le conseguenze e ammettere che l’urbanistica moderna con il suo puntare tutto sull’architettura (magari ottima architettura) come oggetto isolato dal contesto, senza relazione con la strada e il tessuto, che trova solo in sé la propria ragione di essere, trascura completamente i tre principi sopra esposti e il risultato è un non luogo che nasce dall’astrattezza del disegno e completamente ignorante delle regole di crescita della città.
Si prenda, ad esempio, il recente villaggio olimpico di Torino che, esaurita la funzione sportiva, dovrebbe diventare un normale quartiere residenziale. Indubbiamente vi sono architetture di qualità ma cos’ha a che vedere con la città? Lo si guardi in pianta e sembrerà un bel quadro ma una città non segue le regole della pittura.
Anche i deprecati archetti e le colonnine sono un problema di secondo ordine, il primo essendo il metodo di crescita dell’insediamento. Una corretta urbanistica può avere la forza di riscattare una pessima edilizia ma è molto difficile il contrario.

Se invece non si è d’accordo, pazienza, però, una volta tanto, se ne spieghi il perché e si proponga l’alternativa. Condivido anch’io l’auspicio di xxxxxxx che nei nostri incontri e convegni si possano sentire voci e proposte diverse ma mi domando come mai, visto che “la contemporaneità” è egemone nel mondo dell’editoria, specialistica e non, in quello dell’università e, soprattutto, in quello dei tanto mitizzati concorsi, come mai, dicevo, non si riescono ad ascoltare tesi argomentate e credibili a difesa dell’architettura e dell’urbanistica contemporanea nel nostro territorio?
Mi domando: sarà mai possibile che si alzi un collega e contesti punto per punto quanto esposto da Grifoni e proponga una lettura diversa e, perciò, una proposta diversa, non basata sulle parole d’ordine modernità, sperimentazione, cultura del progetto ma su fatti, analisi e proposte?
Infine mi domando: qualcuno mi vuole spiegare per bene che cazzo è ‘sta “cultura del progetto” di cui parla xxxxxx? di quale progetto, per fare quale progetto? Me lo dite, per piacere, con parole vostre, tali da risultare comprensibili a persone di media intelligenza?
In effetti i sostenitori della modernità in urbanistica raramente, per non dire mai, riescono a dimostrare, in maniera altrettanto logica, colta e profonda di quanto abbia fatto Grifoni, i loro teoremi, i quali, in effetti, risultano puri atti di fede nel progresso con lo strano sillogismo che, se tutte le arti e le scienze progrediscono, altrettanto devono fare l’urbanistica e l’architettura, le quali dovrebbero diventare “testimoni del loro tempo”. Vorrei osservare che, nel campo scientifico, ad esempio nella medicina, il progresso ha un fine preciso: curare le malattie degli uomini e, perciò, migliorarne la qualità della vita. Qual è il fine dell’urbanistica? Se ne potrebbero trovare una molteplicità ma, stringi, stringi lo scopo ultimo è sempre lo stesso: migliorare la qualità della vita dell’uomo attraverso la creazione di un ambiente urbano, che è quello naturale per l’uomo, in cui sentirsi a proprio agio, che abbia e che crei identità, che non sia straniante, che consenta di abitare, lavorare, muoversi, amare, morire, discutere, soffrire, cioè vivere, nel miglior modo possibile. Ora mi sembra che, semplificando per modelli, quello dei nostri centri storici, abbia dalla sua i punti maggiori per soddisfare quei requisiti. Non vi è dubbio che non può essere riproposto tal quale, non foss’altro perché c’è la novità dell’automobile ma, per il resto, si crede davvero che l’uomo, dal Movimento moderno in poi, sia così antropologicamente cambiato da avere bisogno di luoghi così diversi da quelli di sempre? Internet funziona benissimo anche in via Cavour, la televisione lo stesso, passeggiare sotto i portici per mostrare gli ultimi capi griffati è molto più appagante che farlo al multisala, il Martini Point funziona ai Bastioni ancor meglio di come funzionasse in fondo a via Romana.
Piuttosto io credo che il vero nemico delle nostre città e delle nostre campagne sia, nel presente e ancor più nel futuro, il modello di casa dei sogni cui ognuno aspira e che tutti hanno in testa e cioè la casa singola, cioè l’elemento base di una città atomizzata all’ennesima potenza. E’ facile comprendere questa tendenza, che è di carattere sociale e che esprime la rivincita dell’individuo sul gruppo; difficile è contrastarla, escludendo la via autoritaria del “decido io” dell’architetto.
Il ripensamento di questo modello insediativo che anche negli USA, patria dell’individualismo, sta maturando ci può far ben sperare ma nel frattempo resterà ben poco del nostro territorio. L’unica proposta (non è un granché, mi rendo conto) è quella di un’azione costante di convincimento e di ripetizione degli stessi concetti detti da Grifoni e da Verdelli (Giulio Rupi dice che bisogna battere sempre sullo stesso chiodo) ma il punto è, e qui concludo, caro Mario: se l’alternativa che viene offerta al cittadino è quello di un’urbanistica astratta, senza altra regola che non sia la genialità dell’architetto, senza legame con il territorio e la propria storia, senza radici; se si deve scegliere tra la creatività dell’architetto e la casetta singola immersa nel verde, cosa pensi che andrà a preferire la gente?
Se si confondono le grandi opere simboliche, in genere legate ad eventi mediatici particolari (Olimpiadi, Esposizioni, Centenari ecc) con l’edilizia di base di tutti i giorni, come si può competere con il desiderio di vivere (apparentemente) in pace nella casetta immersa nel verde (privato) dei propri sogni? Ci possiamo limitare a demonizzare queste aspirazioni liquidandole come frutto dell’ignoranza?
Queste domande non sono formulate per avere una risposta ma per seguire la saggezza di un amico e sono, perciò, colpi di martello sullo stesso chiodo: chissà che alla fine non si riesca a conficcarlo!

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LE PERIFERIE URBANE, UN FALLIMENTO EPOCALE

di Giulio Rupi

Bruciano le periferie di Parigi, ma anche in Italia c’è chi lancia l’allarme e teme analoghe reazioni di fronte al degrado delle nostre città: ecco allora che, inevitabilmente, insieme alle considerazioni sugli aspetti sociali del problema, tra le cause del malessere urbano si tirano in ballo anche gli aspetti materiali, cioè la conformazione fisica delle nostre periferie e le colpe di chi le ha così progettate.

Chi scrive si è confrontato fin dagli anni 60 con i molteplici fattori che hanno determinato il processo di costruzione delle città: l’insegnamento della progettazione urbanistica e architettonica nell’Università, una nutrita successione di leggi in materia di Urbanistica e di Edilizia Pubblica, il dibattito nazionale e internazionale degli addetti ai lavori, dal Modern al Postmodern alle polemiche sui “Maledetti Architetti”.
Ne ha tratto la convinzione che “tutto si tiene”, cioè che le teorizzazioni del Movimento Moderno, l’insegnamento del mestiere di progettista nelle scuole secondarie come nelle facoltà universitarie, la conduzione delle riviste specializzate, le scelte dei concorsi di Architettura, la mentalità dei funzionari pubblici, l’elaborazione delle leggi di settore e la loro applicazione nella costruzione della città, fossero tutti aspetti assolutamente correlati e consequenziali di un unico sistema culturale, forte e coerente, tuttora egemonico.
Di conseguenza pare improbabile che si possa far fronte al fallimento epocale nella costruzione delle periferie urbane utilizzando gli strumenti culturali di sempre, senza ripensare a fondo le teorizzazioni e i luoghi comuni che sono alla base di questo fallimento e che tuttavia si danno tuttora per scontati.
Eccoci allora ad enumerare alcuni degli aspetti di questo pensiero unico che “da sempre” hanno presieduto alla costruzione della città.
La distruzione dello spazio urbano da spazio interno a spazio esterno: dagli “interni” delle piazze e delle strade dei centri antichi alla “Ville radieuse” degli edifici isolati in mezzo alla Natura. Le Corbusier disse testualmente (e coerentemente, dal suo punto di vista) che bisognava “distruggere i Centri Storici delle città europee” e realizzò quella “Unité d’abitation” che nella sua forza teorica è paradigma e premonizione di quello che sarebbe poi successo in tutte le periferie del Mondo.
Lo spazio urbano non è più un interno, quasi un prolungamento dell’abitazione, uno spazio amichevole di strade delimitate da edifici e di piazze come “salotti”: si sfrangia e diviene un esterno, un vuoto popolato di edifici isolati: questo è voluto e teorizzato, è coerente con quel pensiero unico.
Le architetture divengono così monumenti isolati. In uno spazio di questo tipo ogni episodio architettonico è un monumento. Non si crea più un tessuto urbano di strade e di piazze, ma una serie di episodi architettonici in uno spazio non più strutturato. E’ voluto e teorizzato: in qualsiasi concorso vincerà tuttora non chi cerca umilmente di ricreare uno spazio urbano ma chi esibisce il suo particolare monumento di architettura.
Così l’Architetto diviene “Artista”, si distrugge ogni continuità con il passato, ogni regola d’arte trasmissibile e le Università sfornano ogni anno migliaia di progettisti che si affacciano al lavoro, ognuno con l’intenzione di diventare “un grande Architetto” e mettere la propria indelebile firma sul territorio liberando la propria disinibita fantasia di Artista.
L’abitazione, o meglio “la casa”, il luogo della famiglia, il luogo in cui si costituisce l’autonomia dell’individuo, diviene “macchina per abitare”, diviene “un servizio” per il cittadino, privo di ogni valore simbolico.
Così negli anni 70 si promulgano leggi per l’edilizia popolare che fissano parametri su parametri e costringono sia ad una progettazione omologata (i “quartieri della 457” tutti uguali e riconoscibili in qualsiasi città d’Italia) sia a scelte tecniche di bassa qualità, che portano gli edifici a un degrado veloce. E su questa filosofia si è teorizzata e praticata la cosiddetta “industrializzazione edilizia”, che funziona solo su interventi di grande dimensione e con progettazioni ossessivamente omologate.
Parallelamente a questo tutto il sistema si evolve in maniera che i meccanismi, le strutture che presiedono alla costruzione della città debbano accrescersi in dimensione e complessità.
Chi ha fin dagli anni 60 partecipato alla costruzione di case in cooperativa sa che in quegli anni le cooperative erano ancora costituite dagli stessi utenti finali che si costruivano l’alloggio “in prima persona”. In seguito, per la promulgazione di una serie di leggi sulle assegnazioni e sui finanziamenti, la gestione è passata a strutture di livello superiore, più grandi e complesse, ed oggi l’utente della cooperativa non differisce di molto da un qualsiasi acquirente del mercato privato. Così si è interrotto il confronto tra i progettisti e i cittadini, che era un tempo la caratteristica della cooperazione.
Perché infatti fondamentale e comune a tutte le diverse facce di questo unico problema è il rapporto paternalistico nei confronti dell’utente che è sotteso a questo sistema culturale. Mentre per chi progetta un’automobile è fondamentale il gradimento finale dell’utente, per chi progetta la città è del tutto indifferente la verifica finale dei “consumatori”, il cosiddetto “successo di pubblico”. Vale solo il consenso interno a questo sistema, costruito sulle riviste specializzate, sulle cattedre universitarie e sui concorsi di progettazione.
Resta il fatto che l’altra faccia di questa medaglia, cioè dell’indifferenza alle reazioni dei consumatori, è proprio il degrado e l’esplosione delle periferie.
Così è più facile risanare con urbanizzazioni e servizi i quartieri abusivi costruiti in proprio dalla gente secondo un qualche criterio spontaneo, piuttosto che por mano alla riqualificazione di alcune tristemente famose macrostrutture, i cosiddetti “mostri” realizzati nei PEEP dalla mano pubblica e subito rifiutati dalla gente che li ha condannati a un veloce degrado. Per questi edifici l’unica soluzione rimane la demolizione.
Ma allora, se “tutto si tiene”, se cioè questo sistema culturale assolutamente coerente e inattaccabile (non c’è a tutt’oggi concorso in cui possa prevalere un progetto ideologicamente estraneo a questo sistema) ha governato fin qui la costruzione della città ed ha prodotto questi risultati, come si può far conto che dal suo interno sorga la soluzione del problema, se non ci sarà prima un “cambio di paradigma” che ne rimetta in discussione tutte le premesse?
Un filo di speranza viene dagli Stati Uniti, dove si va facendo strada la corrente del “New Urbanism”, un movimento che, partendo dalla constatazione del fallimento della città americana costruita sulle teorizzazioni del Modernismo, ne ha rimesso in discussione tutti i postulati e guarda ai valori urbani dei Centri Storici europei. Così noi Europei rischiamo di attardarci nell’ultimo degli ismi sopravvissuti, il Modernismo in Architettura, mentre altri si ispirano per il loro futuro proprio a quei meravigliosi spazi urbani che la nostra cultura ha saputo costruire in passato.

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