Ho ricevuto una mail che mi segnala questo sito sulle volte a stella e volentieri lo rilancio, come già ha fatto il prof. Giorgio Muratore su Archiwtach.
Ogni opportunità è buona per valorizzare un mestiere tradizionale:
VOLTE A STELLA
29 aprile 2012
VOLTE A STELLA
19 aprile 2012
GRATTACIELI A ROMA: I VIDEO
Si è svolto a Roma il 13 aprile un incontro per discutere sulla proposta di Alemanno di individuare aree per costruire i grattacieli. Erano presenti tra gli altri: Paolo Portoghesi, Oreste Rutigliano, Vittorio Sgarbi, Amedeo Schiattarella, Ettore Maria Mazzola, Giorgio Muratore, Franco Purini. Alcuni di essi fanno parte della "commissione grattacieli" voluta dal Sindaco di Roma.
Non ero presente quindi mi limiterò ad allegare i video che al momento sono disponibili in rete. Anche l'ordine cronologico non so se corrisponda, ma non ritengo sia molto importante. Purtroppo il video di E.M. Mazzola è stato girato senza inquadrare le slides che venivano da lui illustrate.
Mi risultano oscure e molto estemporanee le motivazioni che possano spingere un sindaco di una qualsiasi città, a maggior ragione di Roma, a decidere di istituire una "commissione grattacieli" per individuare aree adatte a tale tipologia.
Soprassedendo sull'anacronismo, sulla non sostenibilità ambientale, sulla pericolosità, sulla estraneità di tale tipo rispetto alla realtà italiana, è incomprensibile e profondamente sbagliata l'idea stessa di immaginare zone adatte ai grattacieli perchè è un modo diverso di perpetrare una zonizzazione, che in questo caso è tipologica, creando "isole" specializzate destinate a diventare nuove periferie alternative e diverse rispetto alla città. Uno sprawl verticale in sostanza.
Aggiungo, con un misto di amarezza e sadismo, che probabilmente il "combinato disposto" di IMU e rivalutazione triennale del valore degli immobili sarà l'ostacolo che riuscirà a fermare questa sciagurata operazione.
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17 aprile 2012
NOI PER LO ZEN: IL PROGETTO
Il video della presentazione a Palermo del progetto del Prof. Arch. Ettore Maria Mazzola per il Borgo San Filippo Neri in luogo dell'attuale Zen
12 aprile 2012
ZEN-CORVIALE: UNA COINCIDENZA
Guardo il TG2 delle 20,30, l’unico TG decente che riesco a seguire per intero e che si adatta ai miei orari.
C’è un servizio sulle periferie di Milano (Quarto Oggiaro), Roma (Corviale), Napoli (Ponticelli).
Interviste agli abitanti più giovani per conoscere le speranze per il loro futuro. Non mi fido quasi mai di queste interviste, conosciamo tutti il clichè delle interviste TV al mercato (è aumentato tutto….), in spiaggia (tanto sole dopo l’inverno…), all’uscita degli esami di maturità (era difficile, speriamo bene…), ecc., la sagra dell’ovvietà, però un piccolo e impressionistico spaccato di umanità delusa e senza grandi speranze nel futuro nel servizio esce fuori.
A Napoli mi ha colpito l’intervista ad un padre Comboniano che adesso opera nel quartiere. Mi colpisce che un sacerdote dica che non c’è speranza e penso, mentre mangio, che forse farebbe meglio ad appendere al chiodo la tonaca e a cambiare mestiere. Poi, a fine pasto, ci ripenso: forse si è espresso male, forse voleva dire qualcos’altro. Si vede che le mie impressioni oscillano in base alla fame o alla sazietà.
Le immagini di Corviale, non della località ma proprio del serpentone sono devastanti, il degrado è inimmaginabile, il vuoto dei corridoi è assoluto, la porta che si apre sulle scale mostra spazi disumani, come salire in un locale impianti.
Le frasi introduttive del giornalista in studio sono ambivalenti: “il serpentone figlio dell’ideologia anni ‘70” non posso non condividerlo perché è vero, poi conclude con la speranza per i giovani riposta nello sport (almeno lui ce l’ha la speranza, a differenza del sacerdote), nel senso di una squadra di rugby che, con la sua disciplina, possa fornire valori a quei ragazzi costretti a vivere in quel malvagio sogno utopico. Ambivalente perchè se è vero che lo sport, come altre iniziative capaci di dare il senso di appartenere ad una comunità civile, è sicuramente utile, è altrettanto vero che quello stesso sport lo si potrebbe ugualmente svolgere, come avviene in centinaia di altre situazioni, senza essere costretti a fine allenamenti a dover rientrare in quel disumano edificio. Lo sport quindi come cura ad un malessere causato proprio dall’ambiente costruito. La miglior cura sarebbe stata però la prevenzione (mai luogo comune è risultato più vero), cioè non averlo costruito in quel modo.
Dopo cena salgo al computer, guardo la posta e trovo dall’amico Ciro Lomonte una mail con un link al Corriere del Mezzogiorno che annuncia oggi pomeriggio alle 15,00 la presentazione a Palermo del progetto di Ettore Maria Mazzola per il Borgo San Filippo Neri al posto dello Zen, quello di Gregotti, Purini & C.
Leggo con piacere che saranno presenti molti candidati alla carica di Sindaco e pure i rappresentanti degli imprenditori. Non dubito che apprezzeranno, non fosse altro perché hanno bisogno di consenso. Non intendo con questo minimamente sminuire il progetto dell’amico Mazzola, ma il fatto è che conosciamo tutti i nostri politici e in fondo i politici di tutto il mondo: quando c’è da prendere voti non badano a spese. Tuttavia è un segnale di attenzione, vuol dire che riconoscono un problema, sanno anche che non è un progetto di restauro e se si muoveranno vuol dire che hanno la percezione che c’è da ottenere consenso popolare. Questo, per me che sono considerato populista e che vado orgoglioso di questo appellativo quando chi me lo appiccica è qualche elitario scarsamente democratico, rappresenta la certezza di un sentiment diffuso contro quell’insediamento.
Non dubito nemmeno che il progetto creerà due partiti fieramente opposti, come è giusto che sia.
Da una parte i sostenitori dell’iniziativa, e questo è ovvio, ma credo con un largo seguito popolare, e questo sarebbe estremamente positivo, almeno per un populista come me.
Dall’altra una parte del mondo della cultura, specie architetti, alcuni in buona fede, i più per pura ideologia, per abitudini consolidate, come dice Ciro Lomonte nell’articolo, per un pregiudizio di appartenenza al gruppo della figliolanza di Gregotti.
Poi ci sono gli imprenditori. Beh, loro sono importanti, anzi fondamentali, ma è sicuro e normale che giudicheranno in base al loro interesse imprenditoriale, quindi dovranno essere i numeri a convincerli, oltre alla vendibilità del progetto, al suo appeal. Certo, i tempi non sono proprio quelli adatti agli investimenti.
Comunque vada, che le mie previsioni siano giuste o sbagliate, quello di cui sono sicuro è, anche dopo aver visto quelle immagini del Corviale, che tutte le opinioni possono essere rispettabili, ad eccezione di quella di mantenere una testimonianza storica di un periodo. E’ un lusso che non ci possiamo né dobbiamo permettere sulle spalle e sui dolori degli altri. Per essere autorizzati solo a pensarlo, a prescindere dal fatto che l’operazione possa o meno prendere avvio, è necessario che si assumano in prima persona l’impegno solenne di andarci a vivere, cioè abitare, lavorare, divertirsi, tanto per rimanere in tema. Viceversa, tacciano e tornino a rimirarsi il proprio ombellico.
PS
Ancora non ho informazioni su come si sia svolto l’incontro. Immagino che domani troveremo notizie e comunque mi saranno comunicate.
7 aprile 2012
4 aprile 2012
UTOPIE
“La città contemporanea è diversa da tutte le città del passato. L’industria e i trasporti meccanici hanno provocato una trasformazione, mentre l’incapacità di prevedere gli effetti di questi nuovi mezzi ha permesso alla città di espandersi in modo abnorme che ne è risultata una condizione di caos. I pericoli del traffico , il rumore, l’inquinamento dell’aria, le aree degradate aumentano continuamente e, con essi, aumenta il pericolo per la salute e la vita dell’uomo. E’ strano pensare che lo straordinario progresso della tecnologia non ha fatto altro che distruggere la città: tuttavia non bisogna rifiutare il progresso tecnologico in quanto tale. La causa reale è l’incapacità della città di adeguarsi al processo di sviluppo tecnologico.
La città, costruita per i pedoni, non ha saputo adattarsi alle esigenze delle civiltà motorizzate; e questa incapacità è messa in evidenza dalle innumerevoli indagini e statistiche sul traffico, gli incidenti, la congestione, le aree degradate, le abitazioni, le malattie, i crimini. Ma la città appare ancora incapace di invertire il suo corso disastroso.
Le limitazioni di traffico e di parcheggio, l’eliminazione delle esalazioni nocive, la ristrutturazione delle zone degradate e altre misure sono solo palliativi, che non possono risolvere in alcun modo il problema che stiamo affrontando, il quale riguarda l’intera città. La sua soluzione riguarda la riorganizzazione delle parti costitutive della città stessa e la capacità di collegarle in modo razionale; richiede , inoltre, l’integrazione della città con i suoi immediati dintorni.
Il sistema di strade e lotti secondo cui sono costruite le nostre città è vecchio quanto la storia, e forse, addirittura, anche più.
La sua funzione è sempre stata la stessa: raggruppare le case in blocchi e collegare questi con le altri parti della città per mezzo di una rete viaria. Questo sistema ha funzionato relativamente bene fin quando è comparsa l’automobile che lo ha reso inattuale e pericoloso. La velocità dell’automobile ci spinge a sostituite quell’impianto con uno che elimini, per quanto possibile, gl’incroci di strade, che costituiscono un attentato alla vita.
Ciò significa che dobbiamo sostituire l’antico sistema a griglia, o a lotti, con un elemento nuovo, una nuova unità di insediamento, la cui struttura possa risolvere, in termini generali, i problemi di tutte le diverse zone della città e delle loro interrelazioni: dovrebbe dai luogo a un’espansione urbana libera e senza ostacoli creando una struttura adeguata a una sana esistenza della comunità.
Le aree residenziali, quelle di lavoro e quelle per il tempo libero sono gli elementi principali di ogni città. Il problema consiste nell’organizzare ogni area secondo la funzione alla quale è destinata, nel dare a ciascuna la propria collocazione rispetto alle altre aree e a tutto l’insieme, in modo che nessuna possa influenzare negativamente l’altra. Se si rispettano tutte queste condizioni, si avrà come risultato un’unità perfettamente funzionale in cui la distanza fra diverse zone sia tale da rendere minima o eliminare l’esigenza di trasporti meccanizzati a livello locale”.
Chi scrive è Ludwig Hilberseimer, in La natura delle città, Il Saggiatore, 1969, prima edizione negli USA del 1955. Si tratta dell’inizio del 3° capitolo “Problemi di pianificazione”, mentre i primi due titolano ”Origine, crescita e declino” e “Modello e forma”.
Il testo continua con la descrizione, piuttosto precisa, del tipo di insediamento “ideale” che risponda ai requisiti generali sopra esposti. Viene chiamato “unità di insediamento”, ogni funzione è separata dalle altre e la viabilità è gerarchizzata in modo tale che all’interno della aree residenziali non possano entrare auto.
La prima osservazione è che il libro sembra scritto da due persone diverse: nei primi due capitoli si analizzano molte città del passato e del presente, con competenza e sensibilità, sapendone cogliere gli aspetti concreti e quelli simbolici e anzi attribuendo a questi una grande importanza nella forma e nella crescita della città, e vi si trovano frasi di questo genere:
“L’architettura di una città è un’architettura che implica non i singoli edifici o gruppi di edifici, ma tutto il complesso che costituisce la città stessa; la relazione mutua tra le sue parti e quella fra ciascuna parte e la città nel suo insieme. Il suo obiettivo è l’uso creativo degli elementi materiali della città; il suo scopo è il raggiungimento di un odine visivo adeguato all’ordine fisico della città”.
E poi:
“I materiali dell’architettura della città sono il luogo della città e la sua topografia, gli edifici della città, e gli spazi interni ed esterni ad essa”.
Non solo: il secondo capitolo, come scritto in Prefazione “si occupa dei modelli organizzativi e della forma della città, analizza i due sistemi di pianificazione, geometrico e organico”, che determinano il tipo, l’architettura e il paesaggio urbano”. Il fatto singolare è che l’autore attribuisce al modello organico, quello cioè che asseconda la morfologia del terreno e la natura e “prende in considerazione necessità e funzione” - mentre quella geometrica è pianificata in base ad un’idea generale preesistente al luogo - la sua preferenza, anche di tipo politico e sociale:
“Castellazzo (insediamento geometrico) e Galstonbury (insediamento organico) rappresentano, a un livello primitivo, i due tipi universali di città: la città autocratica e la città libera, che sono rintracciabili in tutte le epoche”.
Niente è più geometrico, ideale e autocratico della città verticale e di quella che è stata prodotta dal libro, vale a dire Lafayette Park a Detroit.
Colpisce, inoltre, il fatto che la lettura del brano in testa potrebbe trovarsi in un qualsiasi testo contemporaneo, in un blog, in un articolo di giornale: traffico, inquinamento, limitazioni alla circolazione, criminalità, incidenti; sono passati sessanta anni e i problemi sembrano essere sempre gli stessi, evidentemente irrisolti. Non solo: Hilberseimer è convinto della relazione esistente tra degrado urbano e criminalità, cioè del rapporto diretto tra qualità della città e comportamenti sociali e individuali.
Nonostante tutto questo “L’idea chiave che sottintende l’urbanistica progressista è quella della modernità”(1). “Non meno che dall’ambiente, la pianta della città progressista risulta indipendente dalle coercizioni della tradizione culturale. […] La preoccupazione di efficienza si manifesta subito con l’importanza accordata al problema della salute e dell’igiene. L’ossessione dell’igiene si polarizza intorno alle nozioni di sole e di verde. […] La conseguenza più importante sarà l’abolizione della strada […] [e] la costruzione in altezza, per sostituire alla continuità dei vecchi edifici bassi, un numero ridotto di unità […] verticali. […]”.(2)
Hilberseimer non sfugge a questa legge e vi sono infatti ampie parti del libro che trattano di salute e igiene. Soprattutto è l’automobile il feticcio intorno a cui ruotano tutte le scelte: tenere lontano le auto dalle residenze ma senza perdere i vantaggi alla mobilità derivanti dalla esistenza di questo mezzo. Effettuando una separazione e gerarchizzazione di strade carrabili in principali e secondarie, e in strade pedonali, si consolida il modello dello zoning, della città separata per funzioni diverse. Che sia la città verticale, precedente a La natura delle città, o quello orizzontale di Lafayette Park a Detroit, il modello è concettualmente lo stesso: tutto è separato e funzionalizzato, e anche la separazione dei percorsi si colloca entro questo schema e contribuisce alla costruzione di una città dissociata in parti.
La logica è quindi sempre la stessa, e il programma di Hilberseimer è sempre lo stesso, come scrive nella parte di testo ad inizio post:
“Il sistema di strade e lotti secondo cui sono costruite le nostre città è vecchio quanto la storia, e forse, addirittura, anche più. La sua funzione è sempre stata la stessa: raggruppare le case in blocchi e collegare questi con le altri parti della città per mezzo di una rete viaria”; la fine della strada, della rue corridor, determina la fine della città tradizionale, senza aver portato però alcun beneficio alla città e alla soluzione del problema traffico, passati ormai sessant’anni.
Oggi c’è il rischio che il tema si ponga in maniera speculare a quella di allora: una città pedonalizzata e/o ciclabile dove l’auto non è più il simbolo della modernità ma è considerata il dramma della modernità. A me sembrano due facce della stessa medaglia che ha nome “utopia”.
Prima si è preteso di andare contro la storia della città e a favore dell’auto, adesso contro l’auto ma a favore della città; credo che sia un errore, un’illusione, nonostante la benzina a due euro. Ritengo la mobilità individuale un valore di libertà e immaginare di progettare paradisi urbani senza auto può portare a progetti che, sperando in un futuro luminoso senza auto, di fatto ripropongono un disegno della città utopico e astratto e comunque non necessariamente valido sempre. Si rischia cioè di costruire una “macchina” urbana, esattamente come è accaduto prima, non un “organismo” urbano, il quale invece sa reagire alle mutazioni di abitudini e alla società che cambia e si evolve.
Le strade sono le arterie e le vene attraverso cui scorre al linfa vitale della città, attraverso cui la città è permeabile in ogni sua parte e che consentono libertà di scelta tra più alternative possibili e restano l’elemento fondamentale, la struttura portante della città, a prescindere cioè dall’uso e dalla regolamentazione che se ne può fare e che può essere suscettibile di cambiamenti nel tempo. Modificare profondamente l’impostazione della forma urbana avendo in mente solo l’uso o solo il non uso dell’auto significa precludere alla città la possibilità di modificarsi nel tempo, affidandosi ad una predizione del futuro e quindi ad un'alta probabilità di sbagliare. Impostare la città su una ideologia o pregiudizio pro o contro l’auto è comunque una forma di utopia. Io credo che sia più corretto dare per scontato l’esistenza del mezzo auto, prescindendo dal giudizio di merito, o peggio dalle crociate, in modo tale che siano possibili le due opzioni:
- la convivenza pedone-auto, quella che di fatto avviene oggi, ma in maniera caotica e non regolamentata;
- la possibilità di chiudere al traffico determinate strade con la semplice regolamentazione, che non è di competenza del progettista, ma appartiene alla fase gestionale.
La terza non va presa in considerazione, perché è quella delle autostrade urbane, quella di Hilberseimer, che non solo è anti-urbana, ma ha dimostrato di non funzionare.
1) Choay F., La città. Utopie e realtà, Einaudi, Torino, 1973.
2) Choay F., Op. cit.
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2 aprile 2012
ARE THESE THE UGLIEST BUILDINGS IN THE WORD?
Io ci aggiungerei anche questo:
Koolhaas, Delirious in Beijing
e questo:
Royal Ontario Museum
e questo......... Leggi tutto...
1 aprile 2012
TOGLIETEMI TUTTO... MA NON IL CORVIALE
Toglietemi tutto … ma non il Corviale
L’ultima presa per i fondelli necessaria a tenere in vita un mostro urbano del quale si è fatta una fonte di reddito a spese dei residenti
di
Ettore Maria Mazzola
Introduzione – Breve riassunto della storia recente di Corviale
In questi anni politici e politicanti, con l’ausilio di architetti e docenti universitari fondamentalisti del “modernismo”, si sono spinti ad ipotizzare le soluzioni più stravaganti e discutibili pur di scongiurare l’abbattimento a furor di popolo dell’orribile complesso di case popolari di Corviale.
Si iniziò con l’assurda pretesa di regolarizzare gli alloggi (ma anche studi medici, uffici e sedi di tutti i partiti politici!!!) realizzati abusivamente al 4° piano(1) spacciando questo intervento come un’opera di “riqualificazione” del complesso … ovviamente, da questa milionaria “regolarizzazione” a spese pubbliche, gli unici che trarrebbero beneficio sarebbero gli occupanti abusivi piuttosto che il resto dei residenti, che continuerebbe a vivere nello squallore impostogli dai creatori di cotanta bruttezza!
Nel frattempo, facendo forza su un video demagogico che promuove le potenzialità e la presunta bellezza del “Quadrante di Corviale” – video che mostra le immagini del lontano Buon Pastore di Brasini e/o della campagna romana, piuttosto che lo squallore senza precedenti del complesso edilizio in questione, alcuni personaggi – rigorosamente non residenti a Corviale – legati al mondo politico e accademico romano, personaggi che hanno fatto di Corviale la propria fonte di reddito a vita attingendo a fondi di ogni tipo, iniziarono a promuovere altre ipotesi di “riqualificazione”, combattendo in maniera subdola l’ipotesi di demolizione e ricostruzione a scala umana del complesso, ipotesi che era stata richiesta a gran voce dai residenti in occasione di una sorta di referendum, organizzato all’epoca del commissariamento dello IACP, che portò alla conferenza “Rigenera Corviale” tenutasi presso la Sala dello Stenditoio del San Michele a Ripa nel dicembre del 2001.
Personalmente, a titolo gratuito e semplicemente a scopo dimostrativo, ho sviluppato una proposta di sostituzione graduale dell’edificato, proposta che, oltre a portare un miglioramento della qualità della vita dei residenti, servirebbe a creare tanti posti di lavoro, e porterebbe tanti soldi nelle casse dell’ATER, denaro che potrebbe essere riutilizzato per sanare altre situazioni di degrado. Questo progetto, inaspettatamente, è anche stato premiato, il premio verrà consegnato il 20 maggio p.v. a Portland nell’Oregon in occasione del 49th International Making Cities Livable, come miglior modello di “rigenerazione urbana” a scala mondiale … ma Roma nicchia.
Sfortuna vuole, che il progetto sia stato preso a cuore dall’assessore Buontempo, facendo sì che venisse interpretato dai dubbi personaggi di cui sopra, come un progetto politico afferente alla destra … indipendentemente dal fatto che il sottoscritto e il Gruppo Salìngaros (all’interno del quale il progetto è stato concepito) risultino assolutamente estranei a qualsivoglia partito o schieramento politico e lo abbiano apertamente dichiarato più volte.
Così, si è assistito ad indegne conferenze, come quella tenutasi nel dicembre 2010 presso il Mitreo Iside di Corviale. In quella occasione, senza possibilità di replica (almeno così speravano) personaggi come Mario Di Carlo, Gianni Paris ed Esterino Montino, moderati da Pino Galeota, attaccarono l’assessore Buontempo, reo di aver bloccato i finanziamenti per realizzare una serie di opere inutili, dopo essersi fatto abbindolare da una serie di “architetti azzeccagarbugli” che gli avevano fatto credere possibile l’operazione di sostituzione edilizia. Ecco che il progetto di rigenerazione del Corviale venne bollato come fascista.
Purtroppo, dal canto suo anche l’assessore Buontempo aveva commesso l’errore di bollare l’attuale Corviale come sovietico, ignorando che il fatto che il progetto di Fiorentino – benché realizzato in un periodo in cui la cultura dominante risultava essere “di sinistra” – appartiene alla cultura modernista figlia dell’ideologia di Le Corbusier e dei suoi seguaci. Le Corbusier nella sua vita provò peraltro a legarsi con tutti i dittatori del mondo, da Hitler a Mussolini a Lenin, pur di promuovere le sue folli visioni urbanistiche basate sulla spersonalizzazione degli esseri umani e la promozione degli interessi privati a discapito del popolo, ma questo non si dice!
Purtroppo per i relatori di quella conferenza, io ero presente e, invitato da Pino Galeota ad intervenire dal palco invece che dalla platea, potetti sbugiardare i relatori davanti agli astanti. Il pubblico mi ringraziò a lungo per avergli aperto gli occhi … quella sera mi fu davvero difficile riuscire a tornare a casa, a causa dell’incredibile manifestazione di affetto e di interesse a saperne di più da parte di decine e decine di “corvialesi”, inclusi “quelli del 4° piano”, che mi trattennero a parlare fino a tardi.
Il giorno dopo ricevetti una telefonata da parte di Fabio Carosi, un giornalista del giornale on-line “Affari Italiani”, il quale mi chiese di intervistarmi presso il Corviale (questo è il link al breve video http://www.youtube.com/watch?v=hnIrk1zXWRI) … aveva saputo del mio intervento presso il Mitreo Iside e, a telecamera spenta mi chiese: “ma lei con chi sta?” … anch’egli era convinto della matrice politica dietro il progetto. Tuttavia, ben presto comprese che non v’era alcun interesse, al di là di quello di voler migliorare le condizioni di vita dei residenti. Al termine dell’intervista, con mia grande soddisfazione, disse: “non capisco … vedo che lei è una persona calma e molto ragionevole, mi avevano detto ben altro dopo il suo intervento al Mitreo!”
Intanto Pino Galeota, sapendo che stavamo cercando di organizzare un convegno su Corviale e sulle periferie romane, disse di voler ospitare il mio progetto in una mostra convegno che avrebbe dovuto raccontare, liberi da ogni ideologia, tutta la vera storia delle proposte sviluppatesi negli anni per risolvere il problema Corviale.
… Ovviamente, Pino Galeota s’è “dimenticato” di questa promessa, e a quell’evento ha mostrato tutto tranne che i nostri progetti di rigenerazione(2)… evidentemente le nostre proposte risultavano troppo distanti dalle loro … probabilmente i nostri progetti, e la strategia politico-economica per realizzarli, risultano troppo attenti all’interesse della collettività, piuttosto che ad altro!
E. M. Mazzola – Proposta di Rigenerazione Urbana di Corviale
Ecco quindi che, dal cilindro magico di alcuni professionisti e docenti universitari, venne tirata fuori l’idea di “dividere” lo steccone di 1 chilometro in 5 condomini … noncuranti dei costi di realizzazione e della qualità della vita di queste case, che sembrano ispirarsi all’organizzazione spaziale dei loculi disposti perpendicolarmente alla parete di un cimitero!
G. Tagliaventi – Proposta di Rigenerazione Urbana di Corviale
Altre menti illuminate hanno invece suggerito di farci una sede universitaria, altre ancora di utilizzare i terreni circostanti per realizzare un parco dell’arte contemporanea(3), dove alcuni pseudo artisti contemporanei (sempre a spese nostre e a discapito dei poveri abitanti di Corviale a cui verrebbe anche imposta la visione delle “opere”), sotto l’egida dei più “grandi” nomi del mondo accademico e professionale romano in materia di Arte ed Architettura, avrebbero potuto dare libero sfogo alla loro arte sperimentale!
«Per rendere accessibile il parco – dice l'architetto Nicola di Battista – Nunes ha elaborato un sistema di attraversamento: grandi rotoli di doghe di legno che ricordano le balle di fieno e che saranno srotolati a segnare le strade». Il nuovo Parco Nomade, aggiunge Bonito Oliva, «è pensato in relazione al carattere agricolo del terreno. Uno spazio in progress che terrà conto delle quattro stagioni: ci saranno artisti primaverili, invernali, estivi ed autunnali»Si è arrivati perfino alla promozione dell’idea di fare le Olimpiadi a Corviale!!! … Toglietemi tutto … ma non il Corviale!
Intanto, come ebbi modo di denunciare all’indomani del convegno organizzato dal Circolo PDL ATER – cui assistetti anche se non invitato – presso l’Hotel Universo di Roma, anche la destra locale ha sviluppato il suo “sistema di guadagno” dal Corviale, non un guadagno economico, forse, ma elettorale. Nell’articolo “Corviale, l’ATER cerca invece di rivenderle con tutte le crepe”(4) raccontavo infatti dell’immorale ipotesi di svendere le case popolari agli ignari residenti. Questi personaggi pidiellini dell’ATER, pur di entrare nelle grazie dei residenti “difficili”, ebbero modo di spiegare che, poiché le case vanno restaurate, possono essere svendute a prezzi stracciati, se non quasi regalate, ai residenti (ovazione del pubblico!).
Nella realtà dei fatti, poiché l’ATER non può permettersi di restaurare il serpentone, questi signori vorrebbero passare la patata bollente ai residenti senza rivelarglielo, così, una volta divenuti proprietari “quasi a gratis”, di qui a qualche anno le 1200 famiglie dovranno mettersi d’accordo per restaurare il mostro: cosa impossibile! … bella vergogna!
In pratica, che si tratti della sinistra, così come della destra, ognuno nei vari schieramenti ha trovato i modo di guadagnare grazie al “problema Corviale”, problema che, Al Quaeda e altri “nemici invisibili” ci insegnano, finché esiste fa comodo a tanti, mentre se venisse meno bisognerebbe inventarsi qualcos’altro!!
Purtroppo, come Gruppo Salìngaros e come Società Internazionale di Biourbanistica e A.V.O.E., negli ultimi due anni abbiamo commesso l’errore di dar credito a chi ha finto di mostrare interesse per la proposta di sostituzione del Corviale con un quartiere a misura d’uomo.
In ben due occasioni, abbiamo visto sfumare una mostra convegno che, in maniera molto minuziosa, avevamo organizzato.
In realtà le occasioni sarebbero tre, visto che già un altro convegno, “Ritorno alla Città”, dedicato al problema delle periferie romane – convegno che avevamo provato ad organizzare all’indomani del megaconvegno che si tenne l’8 e 9 aprile 2010 presso l’Auditorium Parco della Musica – ci venne letteralmente scippato (titolo incluso) dagli organizzatori del successivo convegno a tema che si tenne presso l’auditorium del Museo dell’Ara Pacis … commettemmo l’errore di consegnare la bozza del programma e delle tematiche da trattare, nonché i nomi dei possibili relatori, ad un noto personaggio politico che finse interesse per le nostre iniziative, invitandoci a parlarne presso il suo ufficio di Piazza San Silvestro.
Qualche giorno dopo quel personaggio, parlando alla citata conferenza del Circolo PDL ATER, probabilmente perché mi aveva riconosciuto nella platea disse: “ora che Comune, Regione e Italia sono del Centro Destra, è arrivato il momento per portare avanti le nostre idee e promuovere quegli architetti che da anni militano nel partito … piuttosto che quei professionisti che finora sono stati alla finestra senza mai schierarsi politicamente, e oggi vorrebbero salire sul nostro carro dei vincitori!”.
Ebbene, lo scorso luglio si sarebbe dovuto tenere il Convegno “Demolire per Rigenerare – Roma rinasce dalla Periferia”, durante il quale si sarebbe dovuto mostrare alla cittadinanza non solo i progetti per Corviale, ma anche una serie di realizzazioni simili operate nella vicina Francia (avrebbero dovuto mostrarcele il sindaco di Plessis Robinson, Philippe Pemezec, e il Direttore dell’Ufficio Urbanistico di Val d’Europe, Bernard Rival). Nell’occasione, un esperto di demolizioni, Stefano Chiavalon (Direttore Commerciale della General Smontaggi) avrebbe dovuto illustrare costi, strategie e sistemi di smaltimento e/o riciclaggio dei detriti per una demolizione “indolore” e sostenibile dell’attuale complesso di Corviale.
Il convegno venne posticipato all’ultimo momento al 23 e 24 settembre: 20000 posters a colori di grandi dimensioni, 2000 brochure a colori di 16 pagine, 1000 biglietti d’invito vennero stampati, un video promozionale ed un messaggio audio vennero registrati dall’Assessore alla Casa, per pubblicizzare l’evento, tutto a spese della Regione Lazio, ovviamente … poi però, ad una settimana dall’evento, la presidentessa della Regione, Renata Polverini, fece sapere all’on. Buontempo che, “per esigenze della Presidenza” il convegno non poteva più tenersi.
Intanto gli ospiti francesi erano pronti a partire, alcuni alberghi aspettavano gli ospiti italiani e stranieri, tantissime persone di tutta Italia, interessatissime all’argomento, si erano già attrezzate acquistando biglietti e prenotando alberghi per venire a Roma ed assistere all’evento del quale avevano avuto notizia tramite alcuni siti web.
Non c’è stata nemmeno una parola di scusa nei nostri confronti … probabilmente rei di aver operato gratuitamente! … Soprattutto, non ci sono state scuse nei confronti degli ospiti stranieri da parte della Regione. Tanti soldi sono volati al vento, ma ci è stato detto che la Regione non aveva denaro per poter portare a compimento questo convegno … stranamente, però, in contemporanea sono stati organizzati “in quattro e quattro otto”, diversi convegni dove la Polverini, l’on. Ciocchetti e altri membri del Consiglio Regionale, sono andati a promuovere il vergognoso Piano Casa, addirittura promuovendolo non come Piano della Regione, ma solo a nome della Giunta Polverini.
Probabilmente i nostri piani, “troppo sociali”, cozzavano con quelli di carattere prettamente privatistico del Piano Casa della Regione. Ecco perché, ad una settimana dall’evento – ovvero quando la Polverini e Ciocchetti, dovendo preparare i loro interventi, hanno letto le nostre relazioni rendendosi conto del rischio imminente – è stato deciso che quel convegno non andasse più fatto!
Per vie traverse, abbiamo saputo che il convegno ha fatto traballare la sedia di Buontempo, probabilmente questa è la ragione per cui anche lui ha deciso di dimenticarsi di noi, nonché degli ospiti nazionali ed internazionali e del convegno!
L’ultima trovata
Il 23 marzo u.s., l’indomabile Pino Galeota ha trasmesso a tutti i nominativi inclusi nella sua mailing list – me incluso – l’invito alla conferenza, tenutasi presso la Sala di Controllo - Biblioteca di Corviale, intitolata “Corviale indiretta con Pechino e New York – vi raccontiamo una storia vera: Corviale incontra il mondo che verrà”.
L’idea è di quelle che solo nella mente di un architetto visionario, e con una cognizione relativa della realtà, può svilupparsi:
“Una Rete glocale di tetti (United Roofs), uniti dalle coltivazioni possibili, con o senza suolo naturale, per la creazione di una vera e propria armatura ecologica finalizzata alla bonifica della crosta urbana di cemento e asfalto. Inizia così il lancio pubblico dei primi nodi di questa Rete globale, che sfruttando l'ecosistema digitale trasforma la rigenerazione degli ecosistemi urbani in un vero e proprio sogno condiviso ad occhi aperti. Corviale si candida ad essere il più grande orto pensile (Roof Top Farm) del mondo da mostrare all'Esposizione Universale di Milano 2015, per nutrire il pianeta nell'era del nuovo urbanesimo”.Purtroppo, molti architetti autoproclamatisi “bio”, e soprattutto moltissimi docenti dediti all’insegnamento di una pseudo-sostenibilità, tendono a promuovere idee “ecocompatibili” che di biologico e possibile hanno davvero poco!
Sarebbe quindi utile informare i comuni mortali che tanti teorici di queste idiozie – il cui sedere incollato alla cattedre universitarie ha impedito negli anni di dotarsi di un’esperienza pratica della costruzione, così come di conoscere l’abc della botanica –tendono a confondere la realtà virtuale con quella reale!
In pratica, poiché un rendering al computer consente loro di rappresentare alberi e piante ovunque, indipendentemente dal fatto che non vi siano le condizioni ambientali, alcuni architetti risultano fermamente convinti che la cosa sia possibile. Questi individui risultano talmente assoggettati alla realtà virtuale, da confonderla con quella vera, e questo convincimento diviene sempre maggiore quando, grazie alla loro autorevolezza, riescono facilmente ad illudere la gente comune: quest’ultima è infatti assolutamente convinta che, “poiché la cosa è detta da un esperto” è vera e possibile, nonché ecologicamente sostenibile!
Per fare un esempio su tutti, visto che nel documento di Corviale si fa menzione di Milano 2015, possiamo discutere della proposta dell’archistar nostrana Stefano Boeri elaborata per far credere agli stolti che i grattacieli possano essere “sostenibili”. Boeri è infatti convinto che possa realizzarsi un “Bosco Verticale”, una idea a dir poco ridicola che non tiene conto di molti fattori:
1. gli alberi necessitano di radici profonde per poter crescere correttamente e non cader via al primo vento o nevicata … nel qual caso dunque, cadendo da un’altezza di gran lunga superiore a quella di un marciapiedi, qualche problema lo potrebbero causare!
2. gli alberi necessitano di potature stagionali e, a meno che non si voglia chiedere a Reinhold Messner e compagni se vogliano mettersi a fare i potatori, difficilmente si può pensare che qualcuno possa potare degli alberi al 30° piano di un edificio;
3. la presenza delle fitte alberature dei rendering di Boeri lascia pensare che, indipendentemente dalla presunta sostenibilità, i residenti saranno costretti a tenere le luci accese 24 ore al giorno;
4. gli edifici per il bosco verticale sono rigorosamente di tipo industriale, ovvero risultano realizzabili solo ed esclusivamente con materiali e tecniche lontane anni luce dai canoni della sostenibilità reale;
5. tutte le tecnologie atte a rendere possibile un verde che non cresca dove la natura lo avrebbe pensato, (verde orizzontale o verticale che sia), prevede sempre una massiccia presenta di sistemi chimici di “fertirrigazione”, che di biologico e di ecocompatibile non hanno proprio nulla! Si vedano per esempio su internet i siti della case produttrici che pubblicizzano i “prati verticali”.
Nel caso di Corviale inoltre, non si può fare a meno di sottolineare lo stato di fatiscenza delle strutture, nonché l’assenza delle condizioni ambientali e strutturali che impediscono qualsivoglia ipotesi di piantumazione delle terrazze!!
Tuttavia, essendosi convinto anch’egli della reale possibilità della cosa, Pino Galeota ha provveduto subito a promuovere il Seminario Aperto "Coltiviamo insieme Corviale. Prove di innovazione sociale", tenutosi il 29 marzo 2012. È incredibile notare la velocità con la quale certe cose vengano organizzate, si trovino i fondi e si mettano in pratica!
In certe iniziative, è fondamentale infarcire i testi di retorica, sicché nell’invito si può leggere:
«Riemergono nelle società moderne i bisogni ancestrali legati alle relazioni uomo-terra e uomo-cibo come reazioni al disagio urbano e alla crisi economica con cui soprattutto le società occidentali stanno già facendo i conti. Ripensare ai modelli di welfare e di governo del territorio nonché il senso stesso del luogo e dell’abitare significa interagire con un futuro, che già è qui, di una globalizzazione in cui crescono l’insicurezza alimentare, il rischio di esaurimento delle risorse naturali, la crisi energetica, i cambiamenti climatici e l’intensificarsi dei flussi migratori.
Corviale e il suo Quadrante da problematico aggregatore insediativo mette al centro di questo incontro seminariale la sua volontà di trasformazione in un aggregatore di socialità positive.
Roma Capitale sta, in continuità con il passato, allargando il suo corpo in un’area metropolitana di ingenti dimensioni. Ne fanno testo le migrazioni degli abitanti e la crescita su un’area vasta dei problemi collegati a questo modello di espansione urbana.
Un sovrapporsi di insediamenti spesso scollegati e costruiti su scelte dettate dalla rendita fondiaria, una sorta di continuum urbano-rurale in cui le attese di un futuro e redditizio cambiamento delle destinazioni d’uso prevalgono su una programmata visione degli intessi delle Comunità e delle vocazioni dei territori.
Il filo che si sta riannodando in modo orizzontale parla la lingua della multifunzionalità e l’interdisciplinarietà dell’agricoltura, la tutela attiva dei territori, uno sviluppo locale partecipato, un’interazione dell’urbano rurale che risponda ad una domanda di servizi che i cittadini e le nuove economie verdi richiedono.
Orti urbani, agricoltura sociale, tetti da costo a risorse, co-housing, food hubs, economia di comunione sono alcuni esempi di innovazione sociale in cui le dicotomie città/campagna, modernità/tradizione, complesso/semplice si stanno trasformando in forme reali, possibili e sostenibili dell’abitare.
Insieme abbiamo il dovere di presentare Roma all’Expò Milano 2015 con diverse carte in regola».
… Peccato che di biologico e di ancestrale non ci sia proprio nulla!!
Ebbene, penso che sia ora di smetterla con queste prese in giro nei confronti della popolazione residente in realtà degradate come Corviale.
L’agricoltura va promossa, ma non sui tetti, e non a base di sostanze chimiche che la rendano possibile!
Corviale non può continuare ad essere una fonte di guadagno per chi non vi risiede, o per chi continui ad attingere ininterrottamente a fondi e contributi pubblici per organizzare convegni e mostre, che a tutto servono, tranne che a migliorare la vita di chi viva all’interno di un esperimento urbanistico fallimentare!
Se si vuole pensare a come migliorare le cose si deve cambiare necessariamente visuale, ciò vuol dire cambiare innanzitutto quei consiglieri che portano personaggi come Galeota, il sindaco e i vari assessori, a credere alle idiozie che gli vengono propinate come “giuste perché dette da degli esperti”.
Questo significa che, piuttosto che pensare ancora a tenere in vita un fallimentare capriccio modernista, ipotizzando le soluzioni più stravaganti e insostenibili, bisognerebbe pensare a come creare integrazione e posti di lavoro per i residenti, bisognerebbe promuovere l’artigianato e la piccola e media imprenditoria locale, bisognerebbe pensare a come tornare ad operare come quando l’edilizia popolare era costruita in proprio dall’Ente, che mirava a ridurre al minimo, se non addirittura ad eliminare, le spese di manutenzione dell’edilizia pubblica, secondo le indicazioni date da Quadrio Pirani in occasione del Concorso per un Nuovo Tipo di Casa Popolare del 1911, bisognerebbe mirare a creare il senso di appartenenza e il senso di comunità per i residenti, arrivando a realizzare dei centri vitali alternativi al centro storico, e dotati di luoghi di aggregazione, istruzione, produzione e commercio, ove tutte le funzioni vitali risultino presenti.
Note:
1)Il 4° piano, secondo la mente illuminata dell’autore del progetto avrebbe dovuto essere il piano negozi
2) Anche Gabriele Tagliaventi, insieme con Alessandro Bucci, ha sviluppato una proposta di sostituzione graduale dell’attuale Corviale con una sorta di “Città Giardino”
3) “Parco Nomade” di Corviale, il grande progetto curato da Achille Bonito Oliva e realizzato dalla 'Fondazione Volume!' cfr. http://roma.corriere.it/roma/notizie/cronaca/10_giugno_22/corviale-parco-nomade-deleo-1703247281170.shtml
4)Il Tempo, 1 Giugno 2010, Cronaca di Roma, pag.42
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25 marzo 2012
DANILO GRIFONI: LA NATURA DELLA CITTA'
Pubblico una autentica Lectio magistralis sulla Natura della città, di Danilo Grifoni, architetto e urbanista, autore di numerosi piani regolatori in Provincia di Arezzo, .
Si tratta di 4 video registrati sabato 22 marzo, nell'ambito di un ciclo di incontri organizzati dai giovani del Partito Democratico, finalizzato a dare una preparazione in campo urbanistico ai giovani del PD per un loro eventuale futuro impegno politico nelle amministrazioni. Un'ottima iniziativa durata 4 pomeriggi.
Non ho partecipato alle prime tre, ma quello di ieri è stato un finale con il botto.
Danilo Grifoni ha tenuto una vera lezione di oltre un'ora sulla nascita, lo sviluppo e la natura della città, in cui Arezzo era, in fondo, solo l'esempio utile a trovare riscontri su quanto raccontava.
Si tratta di quattro video della durata complessiva di circa 70 minuti, un tempo molto lungo per poter essere seguiti con attenzione in internet, a differenza della realtà dove Grifoni ha inchiodato i presenti alle poltrone.
Il tema della giornata era "Chi l'urbanistica", che voleva indicare il rapporto che esiste tra i cittadini e la città, i cittadini e l'urbanistica. Anche questo argomento è stato toccato, cavallo di battaglia di Grifoni che è stato anche amministratore al Comune di Castiglion Fiorentino, ma è solo uno dei tanti punti da lui toccati.
Consiglio chi avesse tempo e voglia di seguirle tutte perchè si tratta davvero di merce rara, e questo giudizio non è inquinato o falsato dall'amicizia, che direi anzi l'amicizia essere nata in conseguenza della stima.
GUARDA GLI ALTRI 3 VIDEO
18 marzo 2012
IL GREGOTTI SCATENATO
Sull’ultimo numero di Sette, magazine del Corriere della Sera, ci sono quattro pagine di un’intervista di Vittorio Zincone a Vittorio Gregotti. Il professore è letteralmente scatenato ed anche molto incisivo: la forma dell’intervista evidentemente gli si confà perchè lo costringe alla massima sintesi.
Inizia con una sparata contro l’abuso dei rendering: “Il nostro dovrebbe essere un lavoro di approssimazioni successive. Se, invece, basta un clic per realizzare un progetto…… si perde il rapporto tra la mente e la mano. Che è fondamentale”. A parte l’ingenuità del clic, difficile dargli torto sul fatto che l’uso esasperato dei software attuali per la progettazione tende a cambiare la sostanza del processo progettuale e del progetto stesso, per cui la tecnica va ben oltre l’aspetto meramente rappresentativo, trasformandosi da strumento per il progetto a essenza del progetto stesso, fino ad assumere, in architettura, il significato che nella comunicazione ha la famosa frase di Mc Luhan: “ Il medium è il messaggio”, vale a dire “Il software è il progetto”.
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Venezia: Cannaregio di V.Gregotti - Foto di Steve Cadman |
Inoltre, quel richiamo alla relazione tra “mente e mano” è il segno di una cultura antica in gran parte persa, a onor del vero già da prima dell’uso massivo del computer, dove il bel disegno, la bella rappresentazione grafica, certamente fondamentale, sembrava potesse prescindere dal contenuto.
Alla domanda su CityLife e sui tre grattacieli di Zaha Hadid, Arata Isozaki e Daniel Libeskind, è lapidario: “Abominevoli”.
Poi continua osservando come i nomi siano solo il pretesto per gli affari dei costruttori. Non è la scoperta dell’America per questo blog, tanto meno per l’amico Nikos Salìngaros che ci ha scritto un libro, No alle Archistar, LEF, Firenze, e ha imperversato, rara avis, su quotidiani e riviste italiane e straniere, però è pur sempre un’affermazione importante.
Gregotti dice poi di apprezzare Renzo Piano ma alla richiesta di un suo giudizio sull’Auditorium di Roma, la definisce “un’opera sfortunata….. che con Roma non c’entra nulla. Tra gli architetti contemporanei c’è un’ideologia diffusa per cui ci si deve ribellare alla storia e al contesto”.
Zincone domanda se un sindaco, un presidente di Regione o un premier non abbiano il diritto di voler lasciare il proprio segno in una città e Gregotti risponde: “Anche i Papi volevano lasciare un segno. Ma almeno si rivolgevano alla persone giuste. E poi non si può ragionare in termini di competizione: a chi lo fa più alto. Anche perché se no si finisce come Shangai, con 2.000 grattacieli tutti diversi e paradossalmente non più distinguibili. Quando manca una regola, l’eccezione non esiste”.
In questa settore dell’intervista, pur trasparendo una sorta di rimpianto per i tempi che furono, quelli cioè in cui Gregotti era il dominus della cultura urbanistica italiana, una sorte di santone chiamato ovunque, e quando aveva anche forti relazioni politiche, certamente determinate anche da una sua passione civile figlia del momento storico, tuttavia fa un richiamo alla responsabilità della politica che ha, anche secondo il mio parere, il diritto e il dovere che le deriva dal voto popolare, di fare scelte per la città di cui possano e debbano rispondere. Scelte che, con la paura della corruzione e del clientelismo, che peraltro continuano imperturbabili ad ogni legge (l’onestà non si ottiene per legge), sono affidate ormai al caso e comunque escono dall’ambito di responsabilità e di decisione dell’amministratore. Che sia concorso o che sia gara, resta tutto nell’ambito degli uffici e, a posteriori, l’amministratore deve necessariamente subire ma farsi vanto dell’opera realizzata. Potrebbe fare altrimenti? Una situazione a dir poco grottesca.
Notevoli le considerazioni sul rifiuto della storia da parte degli architetti contemporanei e sulla mancanza di regole (non di leggi, che straripano, ma di regole urbane) che determina la mancanza di qualità.
L’intervista è molto più lunga e non posso riassumerla tutta né trascriverla per ovvi motivi, ma non mancano giudizi su Ghery, su Meier, sul MAXXI - di cui dice: “Pura calligrafia. Senza senso. E con errori elementari. C’è più superficie di percorso che superficie espositiva” - sulla eco-sostenibilità - “è un mezzo, non un fine….. Il verde verticale non mi pare molto diverso dal balcone pieno di piante di mia zia” - e, verso la fine, investe necessariamente il suo progetto dello Zen, che Gregotti continua a difendere con le stesse argomentazioni di sempre. Sorvolo. Degna di nota invece la proposta urbanistica che segue la fatidica domanda sul quartiere Zen: “Ne hanno fatto un quartiere abbandonato, monoclasse e monofunzionale. Nelle città, invece, ogni quartiere dovrebbe avere una sua articolazione: un centro, i servizi, il verde pubblico, ecc….. Alle grandi città bisogna restituire la qualità diffusa”. Un esempio di qualità diffusa è “….San Gimignano o una qualsiasi città europea medievale. La qualità diffusa [è uscita dai progetti urbanistici] dagli anni Settanta. L’idea del “disegno urbano” ha lasciato il posto alla prevalenza dimostrativa dei singoli oggetti architettonici”.
Trascurando lo Zen e senza considerare un certo distacco tra teoria e prassi professionale, tra pensiero e opere, Gregotti con gli anni è migliorato parecchio: in genere è vero il contrario.
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15 marzo 2012
RIPAVIMENTARE PIAZZA SIGNORIA?
Il professor Alberto Asor Rosa è un ben strano ambientalista-conservatore del patrimonio culturale! Sulla ipotesi di rifacimento della Piazza Signoria a Firenze in cotto al posto della pietra dice:
“Una proposta distruttiva almeno quanto lo possono essere interventi di degrado in ambito edile e territoriale. Anche l’antiquaria ed il restauro obbediscono alle leggi della storia. Se si dovesse ragionare con il criterio di Renzi, dovremmo rifare il Colosseo e, perché no, magari in cemento armato. Dubito che si possa ritrovare il cotto così come si faceva nel Rinascimento” (fonte: Corriere della Sera del 3/3/2012, ma l’articolo linkato è quello della redazione fiorentina).
Come paradosso, quello di ricostruire il Colosseo in c.a. è proprio scadente e non fa nemmeno sorridere, ma è proprio la costruzione intera della dichiarazione ad essere confusa: che cosa sarebbe “l’antiquaria.... che risponde alla legge della storia"? Troppo difficile addentrarsi nei meandri dei ragionamenti di AAR. Davvero è impossibile capire il nesso logico tra gli “interventi di degrado in ambito edile”, con la quale espressione immagino si riferisca a Monticchiello o a nuovi interventi edilizi in luoghi di pregio paesaggistico, e la ripavimentazione di una piazza del centro storico. Non c’è proprio relazione.
Mette insieme, AAR, problematiche diverse al solo scopo di essere contro; a chi non saprei dire. C’è però nelle sue parole l’eco di una cultura del restauro intesa come congelamento assoluto della situazione e con l’iperbole del Colosseo da ricostruire (non in c.a. ovviamente) non viene nemmeno un momento sfiorato dall’idea che in molti casi il ricostruire il monumento con le stesse tecniche originarie sia operazione di restauro vero e non di conservazione, secondo le definizioni di Paolo Marconi, il quale, non a caso, si dice favorevole all’ipotesi Renzi, insieme a Sgarbi e Portoghesi.
La proposta di Renzi mostra una concezione della città storica non immobile e fissata una volta per tutte a…quando non si sa, diciamo allo stato attuale, ma di una città bella e degna di tutte le attenzioni e il rispetto possibile, ma non completamente museificata ed esclusa del tutto dal processo naturale di trasformazione. Il Sindaco ha fatto solo una proposta sensata e tutta da verificare alla luce della storia ma anche in virtù del risultato finale che, fatta salva la qualità del materiale da impiegare, a me appare decisamente migliore della omogeneizzante pietra. Non so se Asor Rossa si sia scandalizzato per il progetto realizzato di piazza Santa Maria Novella, quello sì sbagliato anche a prescindere dalla “storia” ma proprio in relazione allo spazio circostante: una pavimentazione in pietra con tessitura e trattamento superficiale “moderno”, neanche fosse l’interno di un negozio.
Il professore non sembra essersi posto nemmeno lontanamente il “merito” della proposta Renzi, cioè non “l’antiquaria” ma la qualità dello spazio e il progetto, il confronto tra come è adesso la piazza e come potrebbe essere alla luce di un quadro esistente di Francesco Rosselli del 1498, così come è riportato sul Corriere e di una simulazione, un rendering in sostanza, che mostra un probabile risultato finale (purtroppo non l'ho trovato in rete). Quella di Asor Rosa è una preconcetta ostilità ad ogni cambiamento in nome di una malinteso senso della conservazione ad ogni costo.
In effetti ci troviamo nella assurda condizione, nel caso dei centri storici, di essere stretti tra atteggiamenti estremi: da una parte progetti fantasiosi opera di architetti creativi in cerca di un facile successo d’immagine, dall’altra invece lasciare tutto come è, anche se è peggiore di come potrebbe essere e addirittura di come in effetti era.
E’ una ben strana situazione questa che condanna questo paese al degrado o per stravolgimento del patrimonio cittadino o per abbandono. E’ una condizione molto sovrintendenziale: conservare il bene ma inserendovi elementi dichiaratamente nuovi per leggere le varie epoche. Gli estremi si incontrano, come al solito.
Malignità? Niente affatto, Alberto Asor Rosa era favorevole alla pensilina di Isozaki, guarda un po’!
Vedi link: Pensilina di Isozaki e concorsi
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10 marzo 2012
A MILANO STOP ALLO ZONING!
Scrive Marco Romano sul Corriere della Sera del 9 marzo 2012:
“Tra le modifiche alle norme edilizie proposte nella nuova stesura del Pgt (Milano), spicca per il suo carattere virtualmente radicale la liberalizzazione delle destinazioni d’uso dei fabbricati: d’ora in avanti tutti potranno costruire quanto loro consentito senza dover rispettare alcun vincolo di destinazione. La norma constata quanto da tempo tutti sanno per esperienza diretta, che cioè la destinazione d’uso dei fabbricati cambia nel tempo mentre la forma della città, il suo aspetto visibile nelle strade e nelle piazze, resta il medesimo per secoli, e dunque non possiamo progettare un piano regolatore con la destinazione d’uso delle varie zone delle città legate poi insieme da una rete di strade e di trasporti, proprio come una circolazione sanguigna lega i diversi organi del corpo umano”.
Poi fa un richiamo al PRG di Milano del 1884, un piano disegnato evidentemente, di cui descrive alcuni esiti positivi.
Quindi conclude:
“E’ il momento – se portiamo alla sua conclusione il processo iniziato dalle abolizioni delle destinazioni d’uso – di riprendere il disegno di quel piano e di estenderlo a quei quartieri che ancora restano da costruire, ridisegnando con i medesimi criteri le loro sequenze di strade e di piazze. Tutti sembrano concordare che la cultura è sviluppo, e che la bellezza delle città è la radice della nostra cultura: se vogliamo passare dalle parole ai fatti, è il momento di fare di Milano una bella città. Le regole di quel piano – fatto di disegni e di una breve relazione di dodici pagine – consentivano a quanti disponevano di un lotto affacciato su una strada di costruire liberamente – senza che fosse necessario come oggi l’intermediazione di un imprenditore immobiliare – un fabbricato alto in proporzione esteticamente armonica con la sua larghezza, sicchè la densità edilizia era l’esito di un progetto estetico che poteva venire anche concordemente migliorato con, per esempio, i grattacieli del Centro svizzero e della Velasca.
Vogliamo tornare a fare di Milano una città bella?”
Finalmente qualcuno che ha ricominciato a ragionare e ad osservare la realtà: non è a Marco Romano che mi riferisco, lui non ha mai smesso, ma al Comune di Milano che ha fatto una scelta di grande coraggio e intelligenza a dimostrazione, se ce ne fosse bisogno, che un Piano regolatore si fa avendo alle spalle cultura e idee non solo una somma di leggi e informazioni il più delle volte inutili e fuorvianti.
Non tragga in inganno il termine liberalizzazione, il cui significato, così come usato nel'articolo, non ha molto a che vedere con quello di gran moda oggi relativo esclusivamente alla concorrenza e ai problemi della finanza. La liberalizzazione delle destinazioni d’uso attiene strettamente alla storia della città ed è semmai un ritorno all’antico dopo la lunghissima parentesi della selvaggia zonizzazione orizzontale, di cui Le Corbusier è stato, se non l’inventore, il grande teorizzatore e divulgatore, il cui pensiero ha contribuito a cristallizzare nella cultura urbanistica e nella mente di architetti, politici e perfino dei cittadini la divisione in zone funzionali classificate con lettere nella legge urbanistica del 1942.
Poi, certo, esiste anche una componente dirigistica di tipo più strettamente politico che si è sovrapposta, aggravandola, a quella strettamente urbanistica, e in questo senso, ma solo in questo, liberalizzazione acquista un significato più vicino alla cronaca. Ma il significato autentico resta quello di orientarsi verso una città vera, densa, viva, vitale e realmente sostenibile, grazie al mix di funzioni, alla zonizzazione verticale, come la chiama Gabriele Tagliaventi, a significare che nello stesso edificio possono (è una libera scelta, non un obbligo) coesistere attività diverse, con le attività commerciali e artigianali al piano terra, a contatto diretto della strada.
La liberalizzazione delle funzioni è solo un primo passo, ma importantissimo, che permette di porsi in un’ottica realmente urbana che sarà del tutto raggiunta solo con il ritorno della strada tradizionale. Una volta rotto il tabù delle aree funzionali, sarà inevitabile ripensare alla forma della città.
Frantumato lo schema a blocchi (in senso grafico e mentale) che è stato ed è ancora l’ideogramma della città moderna, caratterizzato dalle sue connessioni semplici e inefficaci, non si potrà non porsi il problema della rete di connessioni complesse che caratterizzano la vera città e che sono il principio della vita, esattamente come la circolazione corporea.
Se la città torna ad essere un insieme unico, un unico organismo in cui tutte le funzioni urbane sono presenti, il problema della costruzione della rete - fatta di arterie principali ma anche di molti capillari - e del disegno della città risalterà in tutta la sua imprescindibilità.
Sarà come passare da poche tessere sparse sul tavolo, che necessitano solo di connessioni costituite da semplici aste, ad un’unica, grande tessera e, a quel punto, sarà impossibile non cominciare a scavarvi dentro alla ricerca di connessioni interne. Di qui al disegno il passo è, solo concettualmente, breve.
Spero che questa metaforica prefigurazione di come si potrebbe evolvere il processo negli anni a venire, se la scelta di Milano farà scuola, sia imprecisa o fantasiosa solo nella descrizione del modo in esso avverrà ma non nel risultato finale.
Concludo con una selezione ristretta di link pertinenti all'argomento, tra cui un mio commento su Antithesi in risposta a Vilma Torselli, partito da un argomento diverso ma arrivato, chissà come, a questi argomenti:
Commento su Anthitesi
Gabriele Tagliaventi: La città che vorrei
De Architectura: Strade, piazze, funzioni, eventi
De Architectura: Società liquida, città solida
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9 marzo 2012
MAURO ANDREINI SUGLI INTELLETTUALI
Mauro Andreini, un architetto che nei suoi progetti riesce a far coesistere una forte originalità personale con richiami evidenti alla tradizione, ha scritto per presS/Tletter di Luigi Prestinenza Puglisi un articolo sugli intellettuali gustoso e acuto che linko molto volentieri.
Un dubbio mi rimane rispetto a quanto egli scrive: ma esistono ancora gli intellettuali? O meglio, sono proprio quelli che Mauro descrive gli intellettuali nostrani? Infatti, più andavo avanti nella lettura e più mi rendevo conto che Mauro ci racconta di soggetti che fanno parte del mondo dei media, dello spettacolo e della politica e che noi inquadriamo nella categoria intellettuali per il solo fatto che sono loro stessi a fregiarsi di questo appellattivo.
Non che prima, negli anni '70, fosse molto diverso, a onor del vero, ma il fenomeno era più oscuro, velato e non così evidente come lo è oggi. Forse, tra tanti difetti, la sincera passione civile di pochi contribuiva a far apparire migliori i molti. I vizi che Mauro descrive sono gli stessi di quelli di allora ma in forma di copia sbiadita e parodistica, una rappresentazione imperfetta dell'idea originale, anch'essa peraltro assai mitizzata.
Voglio forse dire che l'intellettuale non esiste? No, voglio dire che gli intellettuali veri a questo punto non possono essere che quelli che non appaiono o che appaiono solo saltuariamente, quelli che non lo fanno per mestiere, un prodotto di nicchia insomma.
Quindi Mauro, non li invitare al bar, perchè ci rimetteresti solo una bevuta in cambio di poco.
Il rapporto conflittuale tra l'intellettuale e il Bar dello Sport
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6 marzo 2012
PREGHIERA DI LANGONE
Una Preghiera di Camillo Langone su Il Foglio in ricordo di Lucio Dalla e in omaggio alla città
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4 marzo 2012
DIVERSE MODERNITA'
"Un'altra modernità è possibile", Lèon Krier
CONTINUA....
Vilma Torselli, a corredo del suo commento, mi manda le due foto che seguono, Ronchamp di Le Corbusier, che presentano analogie negli effetti di luce con le due foto della Pieve di Arezzo e con la chiesa di Foligno di Fuksas.
Emanuele ha colto ironia nel mio post fotografico. Una certa ironia c'è senz'altro ma è probabilmente involontaria.
In verità il post nasce da una passeggiata della domenica mattina nella parte alta della città, quando non c'è quasi anima viva, da qualche scatto con il cellulare e dalla ovvia constatazione che molti elementi architettonici vengono riproposti nel tempo in forme e all'interno di architetture e contesti completamente diversi.
Anche per questa ovvietà ho evitato di scrivere perchè mi sembrava, e mi sembra, superfluo, visto che le foto sono già abbastanza eloquenti. Ho lasciato che ognuno giudicasse in base alle proprie convinzioni, avendo io espresso la mia attraverso il titolo e la famosa frase di Léon Krier.
Il confronto più intrigante è quello della prima foto dove è la luce a farla apparentemente da padrona. Dico apparentemente perchè la luce è il prodotto e il risultato dell'architettura, non dell'illuminazione artificiale. La luce con la sua suggestione è ingannevole nel senso che può produrre effetti diversi in funzione dello spazio entro cui si colloca: in una chiesa la si giudica, o forse la si percepisce, come elemento fortemente legato al sacro con un richiamo evidente al cielo, all'infinito, all'atto della creazione; in uno spazio museale o dedicato all'arte esalta e valorizza le opere esposte e l'architettura stessa. Per certo la luce di Foligno, almeno giudicando quel solo scatto, non ha alcunchè di sacro, provenendo da una serie di aperture leziose, manieriste e banalotte, più adatte all'arredo di una discoteca, impressione prima che ho avuto anche dall'insieme del progetto. Quella di LC fornisce indubbiamente una suggestione più intensa, ma la composizione delle aperture, ancorchè su una parete dotata di una notevole massa muraria, unita alla consueta purezza della superficie intonacata bianca, restituisce un senso di astrattezza compositiva geometrica molto formalista.
La facciata interna della Pieve, con l'ordine regolare delle bucature a contorno del rosone, inserite in un muro di cui è ben visibile la trama delle pietre da costruzione, che svolge, come dice Salìngaros, la necessaria funzione di elemento di passaggio tra la piccola e la grande scala percettiva, restituisce allo stesso tempo suggestione e ne connota in maniera evidente il suo essere parte di una chiesa, oltre che contribuire all'illuminazione di fondo dello spazio. Eppure anche questa facciata ha elementi puristi, con il taglio netto delle finestre su una parete liscia priva di decori. Da qui la sua modernità.
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29 febbraio 2012
CONSIDERAZIONI SUL MODERNO:SCAMBIO EPISTOLARE IN DUE PUNTATE- 1°
A corto di tempo causa prolungati impegni legati a vicende di tipo urbanistico-sindacale-ordinistico e quindi a corto di idee, queste essendo tutte orientate all'azione e alla scrittura di testi degni più di un politico che non di un architetto, mi arrangio facendo ricorso ad uno scambio epistolare del 2006 con un amico e collega, l'Architetto Mario Maschi, su un argomento allora alle origini e che proprio in questo periodo sta venendo a maturazione: la vendita di un edificio degli anni 70 sede della Camera di Commercio e il relativo dibattito sulla sua trasformazione.
L'Architetto Maschi mandò una lettera-appello per salvare l'edificio, molto circostanziata e documentata, ma ben presto il discorso si spostò, in uno scambio via mail a più voci, sull'eterno tema del "moderno".
Riporto solo l'ultimo scambio tra me e Maschi, anche perchè con il passare del tempo si trasformò in uno scherzoso e ironico dibattito tra amici che non si trovano d'accordo sull'architettura ma riescono, tuttavia, a prenderla con leggerezza.
Questa la prima mail, di Mario Maschi che introduce appunto l'aspetto ironico:
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26 febbraio 2012
RIFLESSIONE SUL METODO
Questa è una riflessione sul metodo, suscitata da diversi giorni di intenso dibattito e scontro su questioni urbanistiche cittadine, ma che sono estendibili anche al dibattito urbanistico e architettonico. Non scopro niente di nuovo, ovviamente, ma una rinfrescatina alla memoria è utile.
Nella vita pubblica degli individui e dei gruppi di individui riuniti in forme di qualsiasi tipo (associazioni, partiti, sindacati, mondo del lavoro, aziende private, ecc.), e quindi nella politica intesa in senso ampio, esistono due livelli di comportamento che devono guidare l’azione utile a conseguire un determinato fine: quello strategico e quello tattico.
La strategia è l’insieme dei principi generali che rappresentano l’obiettivo da raggiungere, il fine, il cui tempo è variabile in base al soggetto che se lo pone e in base alle condizioni che ne determinano la possibilità o meno di poterlo raggiungere. Alcuni principi, infatti, non hanno tempo, sono o possono essere assoluti e addirittura eterni, è il caso della libertà e della religione, altri sono più limitati nel tempo, quali ad esempio quelli di un partito politico che deve conseguire il risultato di riuscire a rendere vincente la propria visione di società nell’arco di un certo numero di anni. Determinate dottrine politiche invece durano da e per secoli.
La strategia fissa gli obiettivi nobili, che sono la carta di identità di ciascuno individuo o gruppo. Gli obiettivi possono perciò subire aggiustamenti e modificazioni in base alle mutate condizioni ma, in linea di principio, alcuni punti debbono rimanere fissi e immutabili. Per fare qualche esempio, perfino la religione è soggetta a interpretazioni diverse, e la teologia esiste apposta, l’importante è che la base fondante di ognuna non si stravolga, altrimenti diventa una religione diversa e si va nell’eresia. Per quanto riguarda la politica, esiste la dottrina filosofica e politica cui ispirarsi e che avrà certi punti cardine non “negoziabili” e se si considera il liberalismo, ad esempio, esso non potrà trasformarsi mai nella prevaricazione dello Stato sull’individuo, pena la morte della dottrina stessa.
La tattica, invece, è il metodo che permette di conseguire gli obiettivi, di raggiungere il fine; è l’azione che consente, nel tempo, l’avveramento della strategia finale.
La tattica dunque è e deve essere necessariamente variabile in funzione delle condizioni al contorno in quel determinato momento. La tattica è flessibile. La tattica non deve esprimere verità che chiamiamo assolute per comodità, ma verità relative ad un particolare caso o momento, tenendo sempre a mente però la strategia finale.
Dunque possiamo dire, semplificando, che la strategia è assoluta, la tattica è relativa. La strategia richiede una maggiore elaborazione del pensiero astratto ma la tattica richiede una grande capacità e intelligenza nel saper valutare una serie numerosa di variabili in gioco perché richiede scelte veloci e in sequenza continua. La lotta politica ne è l’esempio più conosciuto da tutti.
Veniamo ora al caso, anzi ai casi.
In questi giorni, dicevo, ad Arezzo è in corso un ampio dibattito sul vigente PRG approvato da pochi mesi e, come ampiamente previsto dai più, inutilizzabile. Senza parlare dei contenuti, che sono del tutto assenti, è proprio la lettura e l’interpretazione ad essere difficile, astrusa e contraddittoria. L’obiettivo è dunque cambiarlo per ottenere un primo scopo: poterlo utilizzare con relativa semplicità.
Poi esiste un altro scopo, quello strategico, cioè avere un PRG che risponda ad una idea di città, attualmente assente. Per fare questo non è sufficiente rifare tutto il PRG, anche se sarebbe già un gran risultato che oggi, per una serie di fattori, è però difficilmente perseguibile, ma è necessario cambiare il modello culturale di riferimento che è la legge urbanistica regionale. Arezzo è una città in emergenza, tutto è paralizzato dalla crisi economica ma, quelle poche iniziative che ci sono, anche piccole da parte dei cittadini per la propria casa, vengono frustrate da norme inesplicabili.
Cosa è opportuno fare dunque in una situazione come questa? Immaginare di trasformare radicalmente la legge regionale, che richiede il concorso non di una sola città, tra l’altro marginale rispetto alle altre della Toscana, oppure prendere atto che la legge esiste e intervenire laddove è possibile, vale a dire sullo strumento di “governo del territorio” che è nelle attribuzioni proprie del Comune?
Mi pare evidente la risposta. E invece, in questi giorni in cui si è fatta insistente la richiesta dal basso di modificare il PRG (o meglio quella parte di PRG che si chiama Regolamento Urbanistico, ecco una complicazione della legge regionale) spuntano coloro che si rifanno alla strategia: la responsabilità è della legge regionale, bisogna cambiare quella. E’ chiaro che parlare in termini strategici significa parlare in termini di lustri se non di decenni, visti i tempi della politica e di quella regionale in particolare. Se si scegliesse questa direzione, tutto rimarrebbe com’è e, quando accadesse il miracolo della nascita della meravigliosa nuova legge urbanistica questa troverebbe una città morta e sepolta.
Quindi coloro che oggi privilegiano la visione strategica, di fatto difendono la conservazione dello status quo perché mancano di visione tattica. Il richiamo al “ci vuole ben altro”, tipico della cultura italiana, è un modo per non cambiare niente passando però da persone colte e intelligenti oppure per politici capaci.
La soluzione semmai, sta nel doppio binario, che non è affatto impedito, vale a dire nella doppia azione di modifica dello strumento che non funziona e in quella parallela, e del tutto coerente con la prima, di agire per la revisione profonda della legge regionale, basata sull’urbanistica e non sulla somma di astratte procedure urbanistiche.
In campo architettonico e urbanistico avviene la medesima cosa. Nello scontro tra i così detti antichisti e i modernisti (questi non sono così detti, sono e basta), spunta sempre quello bravo che fa riferimento alla strategia, cioè all’architettura tout court, senza se e senza ma, all’esistenza di principi che prescindono dagli opposti ismi e da valori fondanti che devono essere applicati. Ebbene, affermando questo si favorisce, nei fatti, la tendenza dominante, cioè il modernismo nelle sue varie manifestazioni di moda, la creatività, l’architettura-spettacolo, la città zonizzata ed esplosa. La tattica invece prevede l’opposizione forte ad un pensiero forte perché consolidato nella prassi, nella mente degli architetti perché dominante ormai per abitudine e, sempre per abitudine condita da opportunismo, trasmesso dalle università.
Stare a disquisire quanto sia fuori della storia Tor Bella Monaca di Lèon Krier significa, willy nilly, apprezzare la squallide Tor bella Monaca attuale. Tor Bella Monaca di Lèon Krier non sarà l'obiettivo strategico da raggiungere, ma senza "questa" Tor Bella Monaca tutto rimarrebbe come oggi.
Architettura ed urbanistica sono arti civiche, cioè sociali, i cui soggetti preminenti non sono gli architetti, se non nella fase di soluzione tecnica del problema alle risposte della società e degli individui, hanno a che fare con la politica, sono politica nel senso che la politica ne è il brodo di coltura perché interessa tutti indistintamente i cittadini, quindi le modalità di azione sono esattamente le stesse di qualsiasi azione politica. Il luogo di scontro non sono le accademie o le riviste di critica, ovviamente necessarie e importanti se non sono solo luoghi di potere, il luogo di scontro e di decisione è la città.
Solo con un corretto rapporto conflittuale si può giungere ad una sintesi, non essendo l’architettura arte o scienza, le quali invece possono essere per una buona parte demandate ai soli esperti.
Perché il conflitto? Perché non esiste armonia nella società democratica, esiste affermazione delle proprie idee con metodi specifici della democrazia. L’armonia esiste solo nelle società non democratiche. In Cina, ad esempio, c’è molta armonia, ma la democrazia è assente. Il metodo occidentale è altro.
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20 febbraio 2012
VITRUVIO, L'URBANISTICA E IL PRINCIPIO DI REALTA'
Nel corso di una manifestazione di partito svoltasi nei giorni scorsi avente come tema il Regolamento Urbanistico di Arezzo, alquanto problematico, un consigliere comunale, il Prof. Ing. Alessandro Ghinelli, oltre ad avere brevemente riassunto la lunga storia dell’approvazione del PRG, un percorso a ostacoli di circa 10 anni, ha concluso con un richiamo alla triade vitruviana: firmitas, utilitas , venustas, cioè solidità, utilità e bellezza.
All’inizio non capivo il motivo per tirare in ballo il buon Vitruvio in un incontro dedicato all’urbanistica, anche se nel De Architectura vi è un riferimento positivo alle mura di Arezzo. Soprattutto non capivo quale relazione potesse esserci tra la sua famosa triade, attributi propri di una costruzione, con l’urbanistica e a maggior ragione con un Piano Regolatore.
Per un attimo ho avuto l’impressione che Ghinelli, che è conosciuto come persona intelligente e colta e stimato oltre i confini del suo partito, volesse fare mostra di diversità rispetto ai soliti discorsi dei politici, quando va bene generici, intercambiabili ed utilizzabili in qualsiasi circostanza. Un modo per distinguersi insomma, lecito senz’altro ma probabilmente fuori tema. Certo, sempre meglio sentire parlare di Vitruvio che di legge urbanistica toscana e dei suoi futuri, improbabili miglioramenti, ma un minimo di coerenza con l’argomento sembrava necessario.
Poi ho capito invece che Vitruvio c’entrava eccome. Il richiamo alla sua triade è un richiamo alto alla realtà delle cose, dato che l’urbanistica come prodotto di leggi è ridotta a puro formalismo giuridico, rispetto di procedure contorte senza alcuna relazione con il territorio, invenzione nominalistica per descrivere il nulla, retorica ambientalista e verde che sembra però fatta apposta per favorire i grossi interventi immobiliari a scapito di quelli ben più utili e modesti quantitativamente dei singoli cittadini. Una accozzaglia di classificazioni del territorio con nomi altisonanti e pretese pseudo-scientifiche, una quantità di verifiche e valutazioni strategiche, ambientali, integrate e chi più ne ha più ne metta. Sigle ed acronimi come se piovesse, ovviamente diversi da regione a regione talchè ognuno di noi è condannato a restare confinato entro un “regionalismo giuridico”, se anche si presentasse l’opportunità di allargare l’orizzonte oltre i propri confini amministrativi. Altro che accordi di Shengen , siamo invece in presenza di dogane invisibili ma ben più impermeabili di quelle con sbarre e guardie di frontiera.
Vitruvio invece riporta il discorso alla sostanza del progetto, alle regole che non sono fini a se stesse ma finalizzate ad un risultato preciso che si vuole ottenere. In Vitruvio vige il principio di causa-effetto. E Ghinelli cita il caso dell’altezza massima e dell’importanza che la gerarchia dei piani ha nella progettazione di un edificio. Come Léon Krier parla di massimo tre, quattro piani, ma senza porre limiti prestabiliti all’altezza d’interpiano di ciascuno, così Ghinelli osserva che imporre un’altezza massima per ciascun piano esclude a priori la possibilità di poter costruire edifici analoghi a Palazzo Strozzi o al Portico di Santa Maria delle Grazie ad Arezzo, perché sarebbero difformi dalle Norme Tecniche di Attuazione del Piano.
Certo, l’urbanistica è anche altro, ma il richiamo fatto a norme di tipo “prestazionale” e non norme “prescrittive” è un richiamo all’essenza dell’architettura e dell’urbanistica: avere un’idea della città che attraverso il Piano si vuole realizzare, poche norme per ottenere il risultato e il resto demandarlo alla responsabilità e alla cultura dei progettisti e a quella di chi è addetto al controllo. Un ritorno ad un modo più umano ed umanistico di affrontare il tema ed anche di svolgere la nostra professione. Un abbandono della minuziosa e parcellare analisi settoriale a vantaggio della lettura del territorio nella sua unità e organicità seguita dalla sintesi da cui scaturisce il progetto.
Richiamo che probabilmente cadrà nel vuoto ma che ben ha fatto Ghinelli a ricordare, anche per cercare di interrompere il perverso vortice leguleio che ci sta trascinando, non solo ad Arezzo ma in Italia, sempre più in basso e che fa il gioco della politica e della burocrazia, non quello della città e dei cittadini.
18 febbraio 2012
LA CIVILTA' DELL'IGNORANZA
di Ettore Maria Mazzola
Antonio Salvadori, nel suo capolavoro in tre volumi “Civiltà di Venezia”, ricordava come la formula di approvazione di un progetto architettonico per la città lagunare – fino all’avvento dell’era moderna – fosse “che el sia fato che el staga ben”, ovvero che si realizzi in modo che risulti appropriata al contesto!
Immaginare il rispetto del “decorum” oggi sembra quasi fantascienza. Nell’era del mordi e fuggi e dell’egoismo più sfrenato, sembra non esserci più alcuna speranza di vagheggiare un’amministrazione politica che possa ancora tenere a cuore il bene e il bello comune. Se a questo aggiungiamo lo stato di indigenza in cui versano le casse comunali di tutta Italia, allora non c’è da meravigliarsi se qualche furbacchione abbia trovato il sistema per prendere per la gola un sindaco incapace di mettere al primo posto della sua scala di valori l’estetica e la vivibilità della sua città.
Sto parlando dell’incredibile notizia pubblicata su Repubblica del 13 febbraio 2012 nell’articolo di Salvatore Settis “Megastore con vista su Rialto – il progetto che divide Venezia”.
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Esterno ed interno del Fondaco dei Tedeschi nei renderings di Rem Koolhaas |
Così, dietro una “convincente” regalia di 6.000.000 di Euro il Comune ha firmato una convenzione che, si legge nell’articolo, consentirà al gruppo Benetton di “realizzare nel Fondaco una superficie di vendita non inferiore a mq 6.800, e perciò presenterà svariate domande di autorizzazione edilizia e commerciale, anche in deroga al vigente piano regolatore. Per parte sua, il Comune si impegna a elargire ogni permesso "con la massima diligenza e celerità", e in modo da "non pregiudicare la realizzazione integrale del progetto".
Lo choc e l’indignazione che la notizia mi ha provocato mi avevano inizialmente indirizzato a scrivere questo pezzo intitolandolo "come ti legalizzo la tangente!", poi però ho pensato che fosse più giusto evidenziare come, nonostante i proclami culturali, la società contemporanea sarà molto più semplicemente ricordata come quella più ignorante ed arrogante che la storia dell’umanità potrà mai annoverare.
Non si tratta di attribuire al nihilismo, che caratterizza tutte le manifestazioni d’arte contemporanea, le ragioni del degrado e della pochezza di contenuti che la nostra società sarà in grado di tramandare ai posteri, bensì di riconoscere il fatto che il livello di ignoranza che il sistema consumistico-capitalista ha prodotto non trova precedenti nemmeno nei secoli più bui della nostra travagliata storia.
In quei secoli “bui” almeno, alcuni valori come la spiritualità, il senso civico e il senso artistico non hanno mai cessato di esistere; nonostante le difficoltà economiche del momento infatti, la società medievale ha saputo concepire delle città efficienti e vitali che dovevano celebrare i nascenti Comuni. Così si sono sviluppate città che in primo luogo miravano alla realizzazione di spazi ed edifici pubblici, città dove l’attività edilizia privata era regolata da statuti illuminanti votati alla celebrazione dell’immagine d’insieme in nome del bene e del bello comune. Quelle città erano caratterizzate da luoghi per la socializzazione dimensionati sulla scala umana, luoghi ed edifici che ancora oggi il mondo ci invidia e, si badi, non si sta parlando delle città ideali del Rinascimento, bensì di quelle che tra l’XI e il XIII secolo hanno definito il proprio carattere, un carattere così forte e deciso che ha generato negli abitanti quell’orgoglioso senso di appartenenza che, nonostante le vicissitudini storiche, ha fatto sì che certe realtà ci venissero tramandate quasi integralmente.
Diversamente da quell’infaticabile ricerca di sviluppo, salvaguardia e promozione del bene collettivo che chiamiamo “città”, l’individuo di oggi – appartenente alla “società dello spettacolo” – sembra avere come unico scopo di vita quello di far parlare di sé, nel bene o nel male, purché possa godere dei suoi “5 minuti di notorietà”.
Uno che ha capito molto bene questo è stato Oliviero Toscani e, con lui, i suoi principali mecenati a partire dal 1982: La famiglia Benetton!
Da quando è iniziato questo “matrimonio culturale”, le città italiane sono state tappezzate di foto che, spesso e volentieri, hanno mostrato una carrellata di esempi di pessimo gusto che hanno portato Toscani, la Benetton e tante altre aziende, a pensare che tutto si potesse mostrare. Tutti gli italiani ricordano un paio di anni fa l’orribile campagna antianoressia di Toscani che mostrava l’immagine agghiacciante della modella anoressica Isabel Caro nuda.
Recentemente la United Colors of Benetton si è tirata addosso le peggiori critiche per la campagna pubblicitaria che ritraeva una serie di baci omosessuali tra i principali capi di governo mondiale, incluso il bacio tra il Papa e l’Imam del Cairo: una campagna pubblicitaria per la quale perfino Toscani ha espresso il suo disappunto.
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Il Papa e l'Imam del Cairo nel fotomontaggio della campagna "anti-odio" della Benettoni |
Alla base delle campagne della Benetton c’è principio secondo il quale per apparire bisogna trasgredire! Ecco quindi che la Benetton risulta più famosa per le immagini delle sue pubblicità che non per uno specifico capo d’abbigliamento che ha fatto storia.
In quest’ottica però accade che, così come un ragazzino viziato rischia di perdere la capacità di accontentarsi di ciò che possiede, spingendosi a ricercare esperienze sempre più stimolanti che finiranno per mettere a rischio la sua vita, altrettanto la Benetton arriva a necessitare di un “salto di qualità” rispetto alla trovata pubblicitaria immortalata su di un cartellone stradale.
Probabilmente la ragione di questo atteggiamento va ricercata in quello che George Simmel definiva l’atteggiamento blasé:
«l'individuo dell’ambiente metropolitano ostenta indifferenza e scetticismo e risponde in maniera smorzata a un forte stimolo esterno a causa di una precedente sovrastimolazione, o meglio in conseguenza di stimolazioni nervose in rapido movimento, strettamente susseguentesi e fortemente discordanti. La più immediata causa all'origine di questo atteggiamento è la sovrastimolazione sensoriale offerta dalla città. Il cittadino sottoposto a continui stimoli in qualche modo si abitua, diviene meno recettivo. Il susseguirsi quotidiano di notizie ed emozioni fa divenire tutto normale, consuma le energie. Così subentra un'incapacità di reagire a sensazioni nuove con la dovuta energia e questo costituisce quell'atteggiamento blasé che, infatti, ogni bambino metropolitano dimostra a paragone di bambini provenienti da ambienti più stabili e tranquilli. Gli aspetti economici, l'economia monetaria e la divisione del lavoro alimentano anch'essi l'atteggiamento blasé. Il denaro è l'equivalente, l'unità di misura e spesso l'unico termine di confronto, di tutti gli innumerevoli oggetti, fra loro molto diversi, di cui dispone l'uomo. Oggetti per altro acquistati da un mercante e non da chi con fatica ed intelligenza li ha prodotti. Naturale conseguenza è la perdita dell'essenza e del significato delle cose. Tutto diventa opaco, la valutazione pecuniaria dell'oggetto finisce col divenire più importante delle sue stesse caratteristiche. Così si acquisisce l'insensibilità ad ogni distinzione, che è un'altra caratteristica dell'atteggiamento blasé».
La Benetton necessita quindi di affermare la propria immagine trasgressiva in maniera più impattante e, la storia ci insegna, l’uso retorico dell’architettura può tornare utile.
Ecco quindi che, al pari del premio dato a Richard Meier da Rutelli prima di conferirgli l’incarico per il Museo dell’Ara Pacis, potremmo trovare una spiegazione logica all’assurdo Leone d’Oro alla carriera conferito a Rem Koolhaas dalla giuria dell’ultima Biennale veneziana, premio che, si leggeva nella motivazione, veniva dato all’architetto olandese perché avrebbe
“allargato le possibilità dell’architettura. Si è focalizzato sull’interazione tra le persone nello spazio. Egli crea edifici che fanno socializzare la gente, e in questo modo forma degli obiettivi ambiziosi per l’architettura. La sua influenza sul mondo è andata oltre l’architettura. Gente appartenente ad ambiti assolutamente diversi sente la grande libertà del suo lavoro”
… peccato che, nella realtà dei fatti, Koolhaas abbia svolto la sua opera intorno ad una frase che lo rese famoso negli anni ‘80: “Fuck the context”, ovvero “fanculo il contesto!” … altro che “che el sia fato che el staga ben!”
A dimostrazione del fatto che la Benetton ricerchi l’archistar di turno per fare breccia nella società dello spettacolo, c’è il fatto che quest’estate si è divulgata la notizia che il Gruppo Benetton ha conferito l’incarico a Massimiliano Fuksas per realizzare, nel cuore di Roma, un altro megastore. Nello storico edificio dell’Unione Militare, posto all’angolo tra via Tomacelli e via del Corso, di fronte a via dei Condotti, è oggi in corso di realizzazione un folle sventramento necessario ad installare una informe torre di vetro, il cui scopo è evidentemente quello di affermare, con tutta la violenza del caso, la presenza del gruppo Benetton nel punto più centrale della capitale.
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L'Edificio dell'Unione Militare in via Tomacelli a Roma, prima e dopo la "cura" Fuksas |
Una riflessione: recentemente lo stato italiano ha sostenuto che gli scandalosi stipendi accordati ai “manager pubblici” siano dovuti all’esigenza di prevenire una loro possibile corruzione … se questo è vero, allora ritengo sia giunto il momento di ricominciare a rifocillare le esangui casse dei comuni prima che i sindaci, presi per la gola, finiscano per devastare i nostri centri storici che, a conti fatti, dovrebbero risultare la nostra principale fonte di reddito.
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