Questo post è dedicato a tutti coloro che credono nella critica architettonica contemporanea come disciplina avente vita propria e capace di tenere separata l’architettura dalle sue conseguenze tangibili sulla pelle di chi la subisce, quasi un’analisi scientifica e asettica separata dalla società in cui essa opera.
Vittorio Gregotti, Corriere della sera 3 giugno, articolo di Pier Luigi Panza:
“A causa di un’interpretazione perversa, nichilista e schizofrenica della globalizzazione, l’architettura sta rinunciando a tre suoi storici principi: quello di modificare il contesto urbano con un disegno razionale e socialmente condiviso, quello di lavorare anche nella piccola dimensione e, infine, quello di intendere la costruzione come metafora di lunga durata”.
Gregotti dice cose condivisibili ma dimentica il suo Zen che non risulta essere “socialmente condiviso”. Sbagliare è ammesso a chiunque, ma non perseverare nella sua difesa ad oltranza. Dunque ciò che dice oggi è giusto ma ciò che continua a pensare è altra cosa.
Renato Nicolini: Cartolina Corviale su PresS/Tletter n° 17
“…Ne fa le spese ancora una volta Corviale di Mario Fiorentino. Qualcosa che è stato oggetto di studio, in tutto l’ultimo decennio, in senso esattamente contrario, come intervenire per completarlo e farlo funzionare senza demolirlo. Questo anche per il fascino estetico che ne promana, che aveva particolarmente colpito Bruno Zevi e che per ultimo ha percepito Giorgio Montefoschi inviato dal Corriere della Sera… Una serie d’interventi di delocalizzazione parziale degli attuali inquilini dell’ATER che volessero andarsene, sostituendoli ad esempio con una popolazione studentesca; o di upgrade architecture che si aggiungano modificando; ristrutturazioni parziali e più estese, e restauri – ad esempio della segnaletica; sembrerebbero molto più adeguati ad affrontare concretamente la questione. Corviale ha bisogno di questo tipo d’intervento….avendo lavorato molti anni come assistente nei corsi di Mario Fiorentino, penso che il risultato di qualsiasi architettura dipenda molto da come viene abitata. Fiorentino è stato influenzato dall’ideologia dell’abitazione collettiva, dal valore simbolico che partiva dal Karl Marx Hof di Vienna e dalla sua estrema resistenza all’annessione nazista, per arrivare ai grandi quartieri popolari. Con un’idea degli inquilini forse aprioristica, astrattamente positiva. Per questo insisto sull’importanza di modificare la composizione sociale degli abitanti di Corviale con una robusta iniezione studentesca”.
Qui non c’è niente da condividere e non c’è ripensamento. Anzi c’è una malinconica pervicacia nel difendere l’indifendibile, e molto di più. Queste parole provengono da un altro mondo, che molti immaginano sepolto. C’è ancora l’ingegneria sociale, le persone oggettualizzate a strumento dell’architetto: “penso che il risultato di qualsiasi architettura dipenda molto da come viene abitata”. Vale a dire la colpa è degli inquilini che non sanno abitare.
Sembra la riedizione di una lettera scritta da Le Corbusier nel 1946 ad un certo Malespine:
“Alloggiare? Vuol dire abitare, vuol dire saper abitare. Il mondo ufficiale non si occupa di questa questione che in termini elettorali. Ora, l’alloggio è lo specchio della coscienza di un popolo. Saper abitare è il grande problema, e alla gente nessuno lo insegna”.
Ma Le Corbusier non aveva ancora “sperimentato” e potremmo dargli, per così dire, un’attenuante rispetto a Nicolini, che oggi il risultato lo può constatare, se solo lo volesse. E quella trovata meravigliosa del restauro della segnaletica capace, se realizzata, di salvare e rivedere tutta la storia dell’architettura moderna! C’è chi afferma che Le Corbusier sia ormai superato da tempo dalla critica… Forse, dopo la nuova segnaletica, verrà rivalutato, e con lui Fiorentino. Il quale si è ispirato al Karl Marx Hof per la "sua estrema resistenza all’annessione nazista"! Ma nel 1972 Hitler era, fortunatamente, morto da un pezzo!
Giorgio Montefoschi: Corriere della Sera, 2 giugno 2010 – Corviale: il sogno dell’ateneo
“Ancora sul Corviale, il chilometro abitativo costruito negli anni Settanta su Progetto di Mario Fiornetino alla fine di della via Portuense, che l’assessore alla Casa Teodoro Buintempo avrebbe voglia di abbattere. Ne parlavo giorni fa con un architetto romano, Giulio Fioravanti. Il quale, oltre a essere assolitamnete d’accordo con tutti quelli che invece vorrebbero conservare questo segno architettonico, forse incompiuto ma certamente di rilievo, mi diceva che, secondo lui, la maniera migliore per rivitalizzare il Corviale sarebbe quella di farci una sede universitari: la sede di Roma Quattro. “E le famiglie?” ho domandato. “Le famiglie-mi ha risposto- rimarrebbero. L’università si potrebbe benissimo sistemare nei due piani del basamento”. Penso che l’idea sarebbe bellissima, e comunque meritevole di essere presa in esame”.
Montefoschi era rimasto affascinato dalla sua prima visita al Corviale di poco tempo fa (vedi qui). Il tema del “segno” ritorna e, pur di non abbattere il segno mettiamoci l’università in coabitazione con gli inquilini dei piani di sopra. E’ giusto, direi, perché i giovani portano allegria e gli inquilini ne godrebbero fortemente e le loro case si rivaluterebbero. Semmai eviterei di metterci la Facoltà di Architettura, perché esiste la seria possibilità che, dai piani alti, professori e studenti possano essere fatti segno di lanci di vasi da fiori da inquilini non proprio soddisfatti degli architetti.
Molto altro ancora ci riserva la stampa, ma è bene non dilungarsi. Piuttosto gettiamo uno sguardo ad alcune vere perle video.
Nientepopòdimenoche Mario Fiorentino che spiega agli studenti il progetto:
Corviale- Architettura a Valle Giulia – parte 1
Benedetto Todaro:
“Il Corviale costituisce una specie di topos specifico dell’architettura contemporanea particolarmente caratterizzato non tanto e non solo per la sua realtà effettiva, quanto per il luogo che occupa nell’immaginario collettivo. Quindi Corviale è diventato non soltanto una realtà evolutiva nel tempo, quindi non un Corviale ma tanti Corviali man mano che il tempo andava passando, ma soprattutto è quel Corviale dentro di noi, dentro l’architettura. E’ lì che il discorso diventa intrigante e interessante: cosa è Corviale per noi, cosa rappresenta per noi e a che tipo di riflessione ci induce”.
Non so dire se alla riflessione ha seguito risposta. Mi piacerebbe saperlo però.
Mario Fiorentino spiega agli alunni di un liceo scientifico:
“Abbiamo domandato all’Istituto case popolari qual’era lo standard per loro accettabile dal punto di vista dell’amministrazione. Per esperienza loro, praticamente i condomini più grandi che loro fanno e fanno bene, sono circa di 250 appartamenti. Quindi praticamente 250 appartamenti consentivano 5 condomini all’interno di questo sistema. Da qui le 5 porte e da qui i 5 complessi condominiali e da qui i 5 assi su cui è organizzato questo sistema, che è un sistema non di una casa lunga 1 chilometro, che è una cretinata, ma quello di un sistema di assi ortogonali e di assi longitudinali che praticamente attraverso questa maglia organizzano quel sistema che ha una profondità di 250 metri, cioè la sezione di questo elemento qui è una sezione abbastanza complessa di 250, organizzata attraverso questo sistema formale delle cinque porte che riflette un sistema organizzativo interno di 250 appartamenti perché sono 4 condomini da 250 metri”.
Tutto qui? Chi lavrebbe detto che il Corviale altro non sarebbe che il risultato quasi automatico e ottimizzato delle indicazioni date da un amministratore di condominio (pubblico)! Certo, bisogna tenere conto che l’architetto si rivolgeva ad un gruppo di giovani liceali e dunque doveva necessariamente semplificare, però quella battuta sul chilometro, così minimizzante e banalizzante, lascia supporre che vi sia una certa serietà in quello che dice. Ma questo non lo potremo sapere. Resta il fatto che quattro condomini (o cinque, boh, perché si scambiano alloggi con metri e viceversa) lunghi 250 metri, se messi in fila fanno sempre un chilometro e anche un solo condomino di 250 metri strutturato su ballatoi è un mostro, solo un po’ più piccolo. Se fosse vera la storiella raccontata, e io non credo sia vera, sarebbe la dimostrazione dell’incapacità di saper valutare le conseguenze dell’aggregazione di quattro edifici da 250 metri, la cui somma non è stimabile in termini aritmetici perché trascura la promiscuità, la diversa percezione della propria abitazione, il valore simbolico e di “segno” stesso che un edificio di 1 Km comporta. No, io credo ci sia stata precisa volontà e allo stesso tempo indifferenza rispetto alle conseguenze e non sottovalutazione del problema.
Corviale –Parte 2
Mario Fiorentino:
“Ci sono due modi di fare l’architettura. Forse ce n’è uno solo ma è il modo di risolvere certi problemi di architettura. Uno è quello di mettersi nel canale del quieto vivere ed di utilizzare gli schemi supercollaudati che ormai in edilizia si è configurato. E poi c’è la strada della sperimentazione, in un certo senso. E questo appartiene più a questa scala”.
Questa affermazione è certamente autentica ed è il leit-motiv dell’architetto moderno, la giustificazione aprioristica di ogni sbaglio: gli esperimenti, si sa, falliscono, ma, alla fine, qualche volta riescono. In architettura non è successo e inoltre gli esperimenti restano e pesano sulle persone.
Amedeo Schiattarella:
“Corviale non è questa sorta di astronave improvvisante precipitata sul suolo romano per gettare panico tra la popolazione, perché in realtà è il frutto di una lunga elaborazione fatta dentro la Facoltà di architettura dagli studenti e dai professori per molti anni, su addirittura idee che nascevano da questa concezione di una città che doveva separare l’edificato dall’area verde e liberare grandi aree da destinare ad ambiente naturale concentrando la cubatura in pochissimi spazi”.
Osservazione pertinente, ma dal tono e dal fatto che “Corviale non getta panico nella popolazione” sembra vi sia una sorta di giustificazione e di adesione al principio dell’elaborazione di chara matrice lecorbuseriana.
Paolo Desideri:
“Corviale appartiene certamente ad una idea che nel 1982 ancora mette in scena, mette in figura una cultura abitativa che è sostanzialmente la cultura abitativa della civilizzazione modernista”.
A parte il lapsus della data, Desideri fa un’affermazione vera ma, senza il seguito, difficile da valutare.
Amalia Signorelli, sociologa:
“Credo ci sia stato veramente un’abitudine, un percorso di esperimento in corpore vili. L’architettura italiana si è così massicciamente occupata di edilizia popolare, di edilizia pubblica, sociale e non di edilizia privata perché aveva “carta bianca”, aveva di fronte degli interlocutori che non erano in grado di articolare le proprie esigenze e semmai di fare opposizione alle idee degli architetti, laddove il committente privato, il committente borghese, se non altro articola. C’avrebbe gusti pessimi, filistei, kitsch quanto volete, però siccome paga, pretende”.
Per fortuna che c’è questa signora a raccontarla giusta, pur con la “prudenza” e un residuo di “supponenza” verso il privato ignorante, funzionale però al luogo.
Tutto si tiene, dunque. Critici, architetti, intellettuali, tutti riflettono pensosi sui problemi del Corviale, tutti cercano soluzioni per recuperarlo, ri-usarlo, come diciamo noi architetti, non pensando che se un edificio recente deve essere ri-usato, evidentemente l’uso a cui è stato destinato, o la tipologia per quell'uso, era sbagliato, tutti inneggiano al gesto, lo inseriscono nella “cultura del tempo” e perciò stesso lo assolvono, assolvendo quindi indirettamente anche quella cultura tout court. Ma gli abitanti restano sullo sfondo, merce buona per i servizi sociali, le associazioni di volontariato, i gruppi culturali che li rallegrano con i loro spettacoli e le loro feste dagli immaginifici nomi.
E la sera ognuno di loro torna alle proprie belle case del centro storico, della campagna, dei condomini con portiere, e al Corviale ci restano gli altri. Ma, si sà, il critico deve fare questo, non ha responsabilità nei confronti della società ma solo della sua disciplina! Chissà se avranno mai fatto un convegno su etica ed estetica, etica ed architettura!
Facciano un bel gesto di coerenza, dato che l’Istituto case popolari ha intenzione di mettere in vendita gli appartamenti per liberarsi di un peso, economicamente e socialmente, insopportabile: costituiscano una bella cooperativa, lo comprino loro (la compagnia non manca certo), con il sostegno di imprenditori edili di area che anche questi si trovano, ci vadano a stare, ci facciano un bel Falansterio stile ‘800, case, loft, studi, atelier, un pizzico di Università (ma non troppa perché i giovani sono rumorosi), spazi polivalenti culturali, pista elicotteri in alto, sala cinematografica con una copia restaurata della Corazzata Potiomkin, centro congressi, un albergo per gli amici ospiti, e così il gossip che ora ondeggia tra Capalbio e le masserie pugliesi riacquisterà la sua centralità romana al Corviale.
Una raccomandazione però: nel piano economico-finanziario non sottovalutino i costi di ristrutturazione.
Di seguito il link ad un altro video su Corviale e link a qualche post correlato:
One day at the Corviale
Le Corbusier e lo storicismo
Periferie e archistar
Pratiche pre-moderne dell'urbanistica
Dimenticare Le Corbusier
Sull'edilizia popolare
Dietro il modernismo alcune verità
4 giugno 2010
CORVIALE: TUTTO SI TIENE
2 giugno 2010
MARCO ROMANO: SAPER PROGETTARE
Marco Romano ha, tra i tanti meriti, quello di rendere disponibile parte del suo sapere a chiunque. Nel suo sito, Le belle città, che è archivio di materiale iconografico e documentario sulla città davvero consistente, sono liberamente scaricabili molti testi suoi e di altri. I testi sono raccolti dentro la sezione La teoria estetica. Ma altri ve ne sono nella sezione Ritratti di città.
Di uno di questi, dal titolo Saper progettare, riporto di seguito la parte iniziale:
“Progettare città non consiste nel coordinare in un quadro unitario le domande più diverse, da quelle propriamente materiali – il piano del traffico o quelli del rumore o dei servizi - a quelle manifestate dai cittadini nelle occasioni più disparate, a quella di nuove case rappresentata dagli imprenditori immobiliari o a quella della grande distribuzione con i suoi shopping center, perché ciascuna di queste domande ha motivazioni sue proprie, tra loro diverse e incommensurabili, sicché il loro realizzarsi o il loro declinare o il loro modificarsi cambiano di per se stessi i presupposti del quadro del quale cerchiamo la coerenza, un quadro con la pretesa di essere stabile nel tempo che non è tuttavia in grado di imprigionare una realtà mobile.
Il fine cui codesto quadro affida la legittimità della propria pretesa di coordinare i comportamenti futuri dei cittadini anche a dispetto dei loro effettivi desideri è quello di perseguire la loro “vera” felicità, consistente in alcuni diritti universali e immutabili - scuole, ospedali, mobilità, verde – da collocare nella città con i criteri di una razionalità distributiva ispirata all’efficienza tecnica.
Ma la città europea è il terreno della libertà e quale sia il “vero bene” dei cittadini è un campo aperto pertinente alla civitas, che quotidianamente lo affronta con le procedure della sua democrazia: sicché, ogni volta che immaginiamo quale dovrà essere il comportamento a priori più conveniente trattiamo gli uomini non come fini – dei quali ampliare le chance di scelta - ma come mezzi, perché ipotizziamo un criterio di funzionamento della città che considera prevedibili (e quindi di fatto coartabili) i comportamenti, riducendone implicitamente la libertà: i piani più rigorosi sono quelli dei regimi totalitari, quelli che registrano la disperazione dei sudditi e che diventeranno subito obsoleti appena riconquistata la libertà.
"La premessa esplicita di Le Corbusier è infatti la ricerca della felicità. Nessun dolore resiste, dice Le Corbusier, quando uno destandosi tre mattine di seguito ha nella faccia lo splendore vivificante del sole che sorge – commenta Gianfranco Contini che ha assistito a una sua conferenza. Dimentichiamo altamente il diritto di piangere contro ogni meteorologia che ce ne vorrebbe frodare; e in un ottimismo ben più ampio e fondamentale chiediamo che il bonheur, e dico uno stabile bonheur, trovi origini assai più fragili e imponderabili fino dentro al buio urbano...Il suo bonheur è un bonheur moscovita, lo svago è obbligatorio, legislativo e collettivo, e dittatorio è l'invito a una natura di Stato".
Ogni piano che pretenda di avere costruito un quadro di coerenza verrà in seguito smentito, perché la maggioranza che lo approva – tirandolo spesso da tutte le parti come una coperta corta per superare i dissensi – pretende di sottrarre quel campo di decisione alle maggioranze future, le quali hanno tutto il diritto di rivederlo, fin dal giorno seguente alla sua approvazione, interpretando nuove domande o ribaltando la loro precedente gerarchia: come le regole degli standard urbanistici che da tempo non intercettano una domanda sociale reale e le cui tracce restano nelle città come dinosauri estinti e innominati rottami”.
Il tema della libertà è sempre presente in Marco Romano, fatto alquanto raro negli urbanisti, i quali in genere relegano invece il cittadino a comparsa, strumento costretto a muoversi entro i limiti rigorosi stabiliti dal "regista". Non ingannino gli ostentati apporti partecipativi, per sinceri che siano, di cui è costellata oggi la procedura di formazione di un piano: tutto l’apparato normativo e, prima ancora, l’impostazione culturale con cui si affronta il tema città, sono rimasti impositivi e ispirati alla logica di fondo a suo tempo descritta da Gianfranco Contini.
La mancanza di un “soddisfacente universo simbolico”, come lo definisce in seguito Romano, riduce la città a mero congegno da progettare nelle sue varie parti funzionali. In questo quadro l’urbs non è più il risultato della volontà estetica dei cittadini e la civitas si perde, sovrastata dalla potenza di colui che decide per tutti, indifferente ai desideri e ai bisogni immateriali dei singoli individui, tutti invece obbligatoriamente parte di quell’obbligo alla felicità (da conseguire con la sfera del necessario, con la tecnica e con le funzioni) di cui parla Contini.
Consiglio la lettura di tutto il testo, abbastanza breve da non meritare riassunti.
Leggi tutto...
25 maggio 2010
GIU' IL CORVIALE, SU IL BORGO CORVIALE
Demolire il Corviale non è solo giusto, ma è anche possibile.
Presento qui tre progetti del nuovo Borgo Corviale, uno dei quali è, in questo momento, il più approfondito, essendosi spinto abbastanza avanti non solo alla scala urbanistica, ma anche nello studio della sua fattibilità economica.
I tre progetti sono rispettivamente del Prof. Ettore Maria Mazzola, del Prof. Gabriele Tagliaventi e dell'Arch. Cristiano Rosponi, quest'ultimo per conto della Fondazione CESAR.
Il progetto di Ettore Maria Mazzola è stato pubblicato per intero nel sito Il Covile, di Stefano Borselli e questo è il link.
Il progetto di Gabriele Tagliaventi è pubblicato nel sito A Vision of Europe, e questo è il link.
Il progetto di Cristiano Rosponi non è ancora pubblicato per intero. Il Tempo di Roma gli ha dedicato questo articolo.
Tutti tre i progetti saranno pubblicati su Il Covile.
Una sintesi dei progetti sono pubblicati anche in Planetizen e ecquo.
Di seguito le immagini:
Tre progetti molto diversi tra loro ma tutti finalizzati all'obiettivo di sostituire la città all'anti-città, la tradizione urbana italiana all'ideologia della machine a habiter, la ricchezza della relazioni sociali all'esclusione e all'emarginazione.
Per approfondire rimando al primo speciale de Il Covile, in cui è illustrato il progetto Mazzola. Seguiranno gli altri e quando avverrà ne darò notizia.
RASSEGNA STAMPA:
Repubblica- Su Corviale è subito lite- Buontempo: Va abbattuto
Il Tempo : Corviale si divide
Il Tempo- Corviale stile Garbatella
Il Tempo- Da Corviale la sfida alle nuove periferie
Il Tempo- Abbiamo un sogno: abbattere Corviale
Il Tempo- Demolire Corviale: adesso o mai più
Punto a capo – Roma, CESAR: su Corviale Buontempo ripropone un nostro progetto
De Architectura- Abbattere il Corviale è giusto
blog architettiimperia, Diario degli Architetti P.P.C. della provincia di Imperia
21 maggio 2010
RITORNO ALLA CITTA': DISPONIBILE DOWNLOAD ATTI DEL CONVEGNO
Dal blog RITORNO ALLA CITTA', curato da un attivissimo e competente gruppo di architetti di Firenze appartenenti a studi diversi, i quali non dedicano la loro vita esclusivamente alla cura del proprio orto ma ogni tanto alzano gli occhi e danno uno sguardo a ciò che li circonda, è possibile scaricare gli atti del convegno RITORNO ALLA CITTA', guarda il caso, da loro organizzato nel settembre 2009.
Del bel convegno scrissi un sintetico resoconto in due post, Ritorno alla città, sintesi di un convegno e Ritorno alla città - Parte seconda, oramai largamente superato da questi atti, che riportano gli interventi ufficiali dei relatori, con relative immagini delle slides allora mostrate:
Marco Romano
Franco Purini
Gabriele Tagliaventi
Sergio Los.
Il Convegno e gli Atti sono stati curati da:
Piero Correnti, Caterina Grisaffi, Angelo Gueli, Carlos Plaza, Elisabetta Vannni, Giovanni Voto.
Consiglio davvero a chi leggesse questo comunicato di scaricare gli atti. Il download è free ed è offerto in due versioni, bassa risoluzione e un'altra non definita ma suppongo a definizione maggiore, dato che ho dovuto rinunciarvi per il tempo che ci voleva.
La prima, per quello che mi riguarda, mi sembra già di buona qualità.
16 maggio 2010
DEMOCRAZIA E BELLEZZA NEL NUOVO LIBRO DI MARCO ROMANO
Quello che segue è un piccolo estratto dal Prologo del nuovo libro di Marco Romano, “Ascesa e declino della città europea”, Raffaello Cortina, 2010 (Il libro è scaricabile anche in formato PDF nel sito Estetica della Città).
Quattro capoversi che sono una sintesi dell’origine della crisi della città e dell’architettura moderna, e la spiegazione del paradosso per cui, ad una società tesa ad allargare sempre più gli spazi di democrazia, ha corrisposto invece una città “scritta” con un linguaggio che esclude i cittadini che non capiscono ma devono subire.
“L’urbanistica contemporanea, figlia di un mondo dominato dal mito trionfale della tecnica, insiste sull’efficienza che sarebbe conseguibile con un buon piano regolatore, su come sarebbe più facile vivere in una città con le sue cose disposte secondo i principi razionali stabiliti dalla disciplina e raccordate da strade veloci che leghino le tre funzioni fondamentali, la casa, il lavoro, la ricreazione: e in questo, nel far coincidere l’efficienza con la bellezza, la conclamata bellezza di un silos, consiste tutta la dottrina estetica moderna sulla città.
La bellezza di una rigorosa efficienza era poi congruente con il rigore delle avanguardie artistiche contemporanee, e come le avanguardie andavano maturando una visione estetica nuova che tendeva a ridurre la pittura a una composizione di punti, linee e superfici (è il titolo di un noto libro di Kandinsky), quasi a prescindere dal suo significato, dalla consistenza figurativa del suo soggetto, così nella città doveva venire messa in campo una visione altrettanto astratta, e come dai quadri e dalle statue andava cancellata la riconoscibilità delle figure così dalle città dovevano scomparire tutte quelle cose che avevano costituito gli elementi essenziali della loro bellezza, le passeggiate e i boulevard, le strade principali e quelle monumentali, le lunghe prospettive trionfali e le piazz , in effetti cancellate dalle futuristiche prospettive della Ville Radieuse di Le Corbusier o della Groszstadt di Ludwig Hillberseimer.
Tuttavia, mentre una qualsiasi nuova forma di espressione artistica è legittima, dalla “maniera moderna” del Pontormo e di Rosso Fiorentino ai quadri luminosi di Claude Monet o ai tagli di Lucio Fontana, anche se coltivata e condivisa soltanto da pochi estimatori, la città deve venire invece apprezzata da tutti i cittadini, e dunque la sua bellezza non può venire fondata su un linguaggio estetico così nuovo da essere comprensibile soltanto da una élite ma deve per sua natura essere accessibile, proprio come il linguaggio verbale, all’intera cittadinanza, perché le scelte che la concernono debbono poter venire discusse da chiunque e non diventare il campo privilegiato di pochi esperti.
Quanto alla coincidenza tra la razionalità dell’organizzazione cittadina e la sua bellezza i conti non tornano, perché la sfera della tecnica è per sua natura soggetta all’intrinseca legge del progresso, dove ogni novità cancella la precedente, mentre l’aspirazione alla bellezza è quella di durare in eterno, sicché ciò che è nato nella sfera dell’efficienza tecnica non potrà mai aspirare all’eternità della bellezza…”.
Sono per me di grande interesse gli esiti degli ultimi due periodi, e cioè:
1. l’origine elitaria dell’urbanistica moderna, mutuata dalle teorie artistiche delle avanguardie, sovrapposte automaticamente alla città, con l’aggiunta di dati tecnici legati all’igiene e alla mobilità, già presenti dal XIX secolo, che sovrappone la visione urbana di pochi, peraltro dimostratasi da tempo del tutto sbagliata, alla visione estetica e ai bisogni reali dei più;
2. il riconoscimento del bisogno di “eternità della bellezza”, che implica il riconoscimento dell’esistenza del bello condiviso e assoluto, basato sulla osservazione della natura e della figura umana in particolare, che non può risiedere nella tecnica, destinata per sua natura intrinseca alla evoluzione e alla transitorietà.
Le teorie urbanistiche basate sul funzionalismo e sulla scomposizione del tempo di vita dell’uomo in “fasi” diverse, corrispondenti a diversi momenti del trascorrere della giornata di tutti e di ciascuno, estrapolate dal taylorismo industriale ed applicate anche alla città, con la divisione in zone a diversa destinazione programmata, hanno trovato la loro espressione grafica e compositiva nelle teorie artistiche “astratte”, che trattano la città come una tavolozza bianca da riempire con disegni che nulla hanno a che vedere con la complessità e ricchezza di relazioni proprie di un insediamento umano. La diffusione di questa teoria, ad ogni livello, fa dire a Marco Romano che, dopo vent’anni di insegnamento di urbanistica, egli non avrebbe saputo dare una risposta adeguata ad un Sindaco che gli avesse chiesto di progettare una città “bella”. E’ ormai abbastanza diffusa nella generazione cui appartiene Romano, non molto lontana da quella a cui appartengo io, la convinzione che l’uomo moderno non sappia più progettare città, tanto meno belle città. Ed è anche maturata la certezza delle cause del disastro, cioè il fallimento completo della disciplina che ha creato generazioni di architetti allevati al gusto “estetico e artistico” dell’astrattezza, con una divaricazione sempre maggiore tra città e abitanti, tra urbs e civitas.
Il disegno urbano moderno non prevede e non considera il fatto che, una volta realizzata, la città contenga persone, che hanno necessità ed emozioni che non trovano soddisfazione in quegli spazi frammentati, pur se progettati unitariamente, privi come sono di una narrazione continua, di un flusso sequenziale di informazioni, di cui gli individui hanno bisogno per muoversi, orientarsi e sentirsi a loro agio nello spazio.
La “bellezza” dell’architetto moderno è invece assolutamente autoreferenziale, prodotto ad uso interno di una categoria di persone capaci solo di immaginare oggetti separati in uno spazio sincopato, discontinuo e inanimato, in cui l'uomo assume lo stesso valore del materiale d’arredo. Scelta consapevole questa, dato che agli abitanti delle case e della città moderne si dovrà “insegnare ad abitare", secondo l'espressione di LC, come se l’abitare non fosse un istinto naturale e primordiale che esclude la possibilità di maestri.
Ma per l’uomo normale, non per l’architetto, la bellezza è eterna, è oggettiva, non necessita di, e non è inquinata da, teorie estetiche imposte dall’alto.
A questo proposito c’è una certa sintonia con Romano in un articolo scritto su Il Covile di Stefano Borselli da Luciano Funari, che è un grido di libertà e di rifiuto dai condizionamenti di una cultura conformista e acritica. Purtroppo non posso linkarlo perché per adesso è stato inviato in newsletter e non è ancora in rete, ma tra poco ci sarà (qui e poi sul N° 586):
“Prima di resuscitare la “Bellezza”, occorre mettere in terapia intensiva l’uomo stesso e applicare un defribillatore alla cultura umanistica, forza generatrice di autocoscienza e libertà! “Anomia, eteronomia, autonomia” scriveva alla lavagna mia madre-professore di liceo- il primo giorno del corso di filosofia: la cultura forma la capacità critica, la libertà ed autonomia di giudizio. Ma non basta! Ci vuole anche il coraggio. L coraggio di proclamare le proprie idee, senza timore alcuno dei mille epiteti e sberleffi che il “mondo” è pronto a lanciare: il mondo dei “conformisti dell’anti-conformismo”, del gregge ossequioso delle conventicole pseudo-intellettuali e delle consorterie politico-affaristiche.
Dunque, per salvare la Bellezza, lanciamo i kamikaze della Verità!....
La Verità, la realtà, lo spirito critico, l’autonomia di giudizio e il coraggio delle proprie idee...
Per salvare l’arte e le nostre città dal Brutto non c’è bisogno di un pubblico di eruditi, esperti in critica sensista: basterebbe tornare alla realtà, alla verità, alla natura delle cose, recuperando almeno la dimensione “organolettica” della fruizione artistica. Se una scultura, una pittura, un’architettura è brutta, lo è e batsa! Chi se ne importa di chi l’ha fatta e dei fiumi di chiacchiere, verstai dai ciarlatani prezzolati per convincerci del contrario, opportunamente mimetizzati dalla cortina fumogena del loro gergo da iniziati: “sfumature sintattiche, semiologia del’infrastruttura e semantica della struttura”, “morfemi di spazio negativo” e “polifemi del dopo immagine architettonico”… “Il significato sintattico non concerne il significato che compete agli elementi o ai rapporti effettivi fra gli elementi ma, piuttosto, concerne il rapporto fra diversi rapporti” (Eisenmann)….
In casuale quanto singolare coincidenza con quanto sopra, è uscito su Il Foglio un articolo di Fabrizio Giorgio, La mirabile visione, su Roggero Musumeci Ferrari Bravo, artista e scrittore dei primi del ‘900, che “rivelò” il canone della Divina Proporzione, cioè la “formula” del bello assoluto.
Dicevo casuale coincidenza, nel senso che certamente non c’è alcuna concertazione, ma non credo sia affatto casuale il fatto che da figure così distanti e diverse l’una dall’altra si affronti lo scivoloso e scandaloso tema della Bellezza. Posso almeno dire che di fronte a tanta bruttezza era finalmente l’ora?
5 maggio 2010
CARLO RIPA DI MEANA, UN ALEMANNO AMLETICO E LE ARCHISTAR
Carlo Ripa di Meana, Presidente di Italia Nostra, rilascia un'intervista sulle incertezze di Alemanno, su Roma e le archistar.
4 maggio 2010
AVANGUARDIA
Pietro Pagliardini
Inaki Abalos, spagnolo, architetto e teorico dell’architettura: come architetto pare sia famoso. Dico pare perché per me è un nome del tutto nuovo. I suoi progetti non appartengono certo al genere che interessano questo blog: grattacielo a forma di cactus, o di Montagne Rocciose, abitazioni nel pieno rispetto della moda con le finestrine verticali irregolari, forme di design. Bisogna leggere le solite riviste per conoscerlo, e io non lo faccio da tempo. Se posso trovargli un merito è quello di fare progetti molto diversi tra loro, non possiede marchio o brand, ed è già un merito.
Come saggista però è straordinario. Ho letto un suo libro del 2000 pubblicato in Italia alla fine del 2009: Il buon abitare. Pensare le case della modernità, Marinotti. Non conosco lo spagnolo ma ci vuole poco a capire che la traduzione è piuttosto libera. Titolo originale: La buena vida. Visita guiada a las casas de la modernidad. Ed in effetti il libro non ha intenti didattici, non è un manuale di progettazione per abitazioni contemporanee, come sembrerebbe dal titolo italiano, ma è proprio una visita guidata a sette abitazioni, di cui una è una scenografia cinematografica, che mostra “come il modo più diffuso tra gli architetti di pensare e progettare lo spazio domestico altro non sia che la materializzazione di certe idee archetipiche sulla casa e sui modi di viverla che hanno origine nella corrente positivista, nonostante da più parti si insista nel segnarla come l’unica ormai esaurita”.
Tra queste visite, la più singolare, divertente e illuminante sulla formazione dell’architetto moderno è quella nella casa che è al centro del film Mon Oncle, di Jacques Tati, attore e regista, e del suo celebre personaggio, Monsieur Hulot. La casa è una villa moderna progettata da un architetto moderno, con tutti i vizi, i tic e gli archetipi della villa moderna, dove vive la famiglia Arpel. La signora Arpel è cugina di Hulot, che, viceversa, vive in una approssimativa casa del centro storico.
In fondo al post una serie di link al film su YouTube, che consiglio di guardare, come consiglio di leggere il libro.
Riporto pochi brani da questa visita guidata:
“Il confronto tra gli Arpel e di monsieur Hulot non scaturisce dai dialoghi o dalle opinioni espresse dai protagonisti…..ma dalle azioni e dagli ambienti che le vedono svolgersi; architettura e urbanistica, al pari dei suoni, sia naturali che artificiali, inducono a certi comportamenti, dei quali possono essere causa e/o conseguenza…..
Di fatto, come vedremo più avanti, la trama riproduce con grande efficacia la lotta tra due atteggiamenti filosofici, la cui influenza durante il XX secolo è stata decisiva. Da un lato il permanere e anzi l’estendersi alla sfera della vita privata del paradigma positivista, della fede nel progresso e nell’ordine come strumenti salvifici, a disposizione dell’uomo per lo sviluppo tecnico e scientifico;… Dall’altro la critica al positivismo condotta da Husserl e Bergson prima, Heidegger e Merleau-Ponty poi, con l’intento di ristabilire un nuovo soggettivismo, o vitalismo, che limitasse l’influenza della scienza e smascherasse il carattere ideologico del positivismo e dei suoi sviluppi sociali e tecnocratici….
In questo aspetto, ma non solo, riscontriamo una similitudine tra la dottrina positivista e l’architetto moderno, nonché l’evidenza della profonda influenza che la prima ebbe sul secondo: l’architetto moderno è incapace di dotare di contenuti concreti i propri appelli, siano all’industrializzazione o alla macchina; è incapace perfino di considerare se stesso uno scienziato. Preferisce comportarsi come un pontefice nell’atto di annunciare l’imminente avvenimento di una mutazione che gli è appena stata rivelata…
Lo spazio della modernità sarà caratterizzato da un’analoga proiezione verso il futuro e dalla rimozione quasi completa del passato e si costruirà, come propugnato dal catechismo positivista, su una serie di leggi e norme universali che delegano al futuro prossimo la propria completa realizzazione. La pianta, la pianificazione e la sua oggettivazione come tecnica di controllo della crescita, l’urbanistica, saranno emblematiche manifestazioni di questa concezione del tempo, un tempo teleologico, perfetto o, per così dire, radioso. Il lavoro sulla pianta si riproduce con un automorfismo scalare dalla casa alla città, rendendo esplicita la tecnica dell’architetto, “tanto necessaria ed immodificabile come una legge fisica”. Lo spazio della casa, la sua atmosfera e la sua memoria, quasi non esistono più; sono stati eliminati per far posto alla quantificazione normativa, all’oggettivazione biologica della famiglia tipo attraverso la pianta, o meglio, l’organizzazione in pianta. La nuova categoria dominate è il “metro quadrato”, il principio ottimizzatore che l’architetto positivista mutua dalle tecniche di produzione industriale espresse da Frank W. Taylor in L’organizzazione scientifica del lavoro (1911) e trasla nella sfera privata”.
E’ difficile non apprezzare la lucidità e la chiarezza espositiva di queste frasi. Mirabile è inoltre la visita alla casa ideale di Mies, in cui traccia un profilo psicologico dell'architetto e la sua corrispondenza con il Superuomo di Nietzsche.
Impossibile non domandarsi perché tra i progetti di Abalos e le sue analisi di questo saggio vi sia una simile frattura. O meglio, perché le conclusioni che ne trae siano così diverse dai contenuti espressi nel libro.
L’atteggiamento per me difficilmente comprensibile è quanta inerzia vi sia nel riuscire a prendere piena consapevolezza del fatto che, se una strada la si riconosce come sbagliata, non c'è altra soluzione che tornare indietro e riprendere quella giusta. Esiste infatti una sorta di schizofrenia tra l’osservazione lucida di ciò che è stato, e di ciò che continua ad essere, degli incommensurabili errori fatti per la casa e per la città che tuttora allungano la loro ombra e di cui ancora si osservano gli effetti nella quotidianità del costruire e dell’amministrare la città, e lo sperare ancora, dopo un secolo di tentativi sbagliati, di trovare una soluzione, invitando a “esercitare la fantasia, stimolare l’interesse che spinga a superare le inerzie acquisite e ad esplorare i limiti della conoscenza della nostra disciplina”, come scrive l’autore nell’epilogo, denunciando l'inerzia altrui ma senza la consapevolezza della propria.
E dice anche altro: “Dobbiamo rallegrarci di avere avuto di aver avuto padri e nonni tanto fortunati ed eccentrici, e godere di esse (le case visitate): si tratta di un vero lusso. Se vogliamo considerarci buoni architetti dovremmo però anche saper essere all’altezza delle circostanze, imparare ad amministrare questo patrimonio e provare, soprattutto, ad accrescerlo e ad attualizzarlo”.
Ecco, probabilmente, la soluzione al problema del dualismo di Abalos il quale, nonostante la sua grande capacità di analisi, la sua raffinata, colta e intelligente interpretazione dei progetti alla luce del pensiero filosofico, è rimasto ancorato inevitabilmente all’idea di avanguardia, alla concezione dell’architetto-pontefice “incapace di dotare di contenuti concreti i propri appelli… incapace perfino di considerare se stesso uno scienziato”.
Uno scienziato, infatti, di fronte a un secolo di errori, avrebbe cambiato strada e avrebbe ricominciato da dove si è manifestato il primo sbaglio nell’esperimento, accorgendosi magari che c’era molto poco da sperimentare.
Come spiegare diversamente il solito, trito appello alla fantasia e alla ricerca, se non come l'impossibilità di sfuggire al condizionamento culturale dell'avanguardia che lui coglie perfettamente nella sua essenza negativa ma che non riesce a scrollarsi di dosso?
Link al film Mon Oncle:
Mon Oncle 1
Mon Oncle 2
Mon Oncle 3
Mon Oncle 4
Mon Oncle 5
Mon Oncle 6
Altri ancora ve ne sono su You Tube, basta cercarli
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1 maggio 2010
ABBATTERE IL CORVIALE E' GIUSTO
La stampa del 30 aprile si interessa del Corviale con due articoli, l’uno sul Corriere della Sera, di Giorgio Montefoschi, l’altro su Il Tempo, di Ettore Maria Mazzola. Atteggiamenti e interessi diversi, dato anche il fatto che l’uno è scrittore e l’altro architetto, per questo è l'articolo di Montefoschi che mi interessa di più, dato che è perfino inutile dire che con E.M. Mazzola sono d’accordo.
Lo capisco, oltre un chilometro di edificio tutto in c.a. non può lasciare indifferenti, è come trovarsi innanzi ad una grande opera di ingegneria, una diga, un ponte, grandi “gesti” anche questi, ma direi più propriamente grandi “segni” nel paesaggio. E il Corviale è un segno nel paesaggio. Ma non è un’opera di ingegneria, che unisce alla forza simbolica del segno anche quella dell’utilità, del progresso tecnico e della vittoria dell’uomo sulla natura; il Corviale dovrebbe essere un luogo dove vivere, dovrebbe essere una città, un insediamento umano. Invece è “una gigantesca nave tirata in secca”, come scrive Montefoschi. Il quale vi entra dentro, lo esplora e riesce a trasmettere al lettore il senso della solitudine, l’assenza di vita, il vuoto.
La descrizione che ne fa non è distaccata ma è priva di preconcetti e realistica: annota il degrado, lo sporco, la mancanza di luoghi di relazione e di negozi, almeno nell’edificio, la chiusura di tutti i locali sede di varie attività sociali in esso presenti. Tutto chiuso, meno un chiosco. Lì c’è qualche segno di vita.
Ma, sorpresa, ecco la conclusione:
“Vado. E mi dico: assessore Buontempo, credo che il suo sogno non si avvererà mai, il Corviale non sarà mai raso al suolo. Come si fa a radere al suolo un segno architettonico che comunque merita rispetto? E come si fa a radere al suolo una città di ottomila abitanti? Se poi il problema è estetico, bisognerebbe radere al suolo mezza Roma. No, il Corviale è solo degradato. E credo che i suoi abitanti, i suoi volontari all’igiene mentale, quelli che vanno al circolo culturale e faranno la Maratonina della Pace il 2 maggio, quelli che stanno alla Banca del Tempo, siano persone migliori di tante altre. Anche se non li ho visti”.
L’errore, figlio del pregiudizio culturale a favore del modernismo, esce fuori alla fine, e nella maniera peggiore: non c’è relazione alcuna tra l'osservazione dei fatti e le conclusioni che ne trae, anzi c’è totale scollamento.
Intanto il Corviale non è una “città”, non nella forma, ma nemmeno nella sostanza; è una grande nave, dunque una macchina destinata ad una funzione specifica e temporanea, non permanente. E in quella grande nave vivono 8000 persone, in secca con essa. E per questo il segno non merita rispetto.
Poi scade nel luogo comune: la colpa è del degrado, come a dire che la colpa è la nostra, cioè dello Stato che non provvede. Solo che Montefoschi sembra, o vuole, non comprendere che il degrado è una condizione di stato intrinseca, e direi necessaria, ad un edificio (se ha senso chiamarlo così) lungo più di un chilometro. Una roba del genere è come una grande macchina che richiede squadre di manutentori specializzate. Ma può avere un senso costruire una casa come se fosse una macchina? Il luogo di vita delle persone costruito con ingranaggi che devono sempre essere oleati per funzionare.
Scrive Inaki Abalos, architetto spagnolo certamente non tradizionalista ma di notevole cultura e capacità di analisi, in Il buon abitare, 2009, parlando della Carta di Atene concepita in crociera: "L'architetto è un turista affascinato dal macchinismo, del quale ignora la meccanica, un turista folgorato dalla bellezza del transatlantico su cui decide di viaggiare per pontificare sulla città, ma che è incapace, proprio mentre visita la Corsica e Atene elaborando la sua città ideale, di mostrare la minima sensibilità di fronte alla memoria storica della città. A questo turista non tremerà la mano quando proporrà la distruzione del passato in favore di una logica sociale macchinica". Il "turista" è Le Corbusier, padre del Corviale.
Il neo-assessore Buomtempo ha ragione: l'edificio deve essere abbattuto, senza divagare o dirottare sulle altre brutture di mezza Roma come fa Montefoschi, perchè il Corviale è un simbolo negativo, e i simboli negativi si abbattono. E' giusto e inevitabile. Come con i tiranni.
Credits:
La foto è tratta da bing ma purtroppo l'edificio è un pò troppo lungo e non entra tutto nel video.
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20 aprile 2010
STRALCI DAL "PRINCIPE BIANCO"
Riporto qui alcuni stralci di un libro noiosissimo, ripetitivo e alquanto povero di contenuti: Architettura integrata, di Walter Gropius. Il che non significa che non sia efficace rispetto allo scopo per cui è stato scritto, vale a dire quello di diffondere il verbo del modernismo negli USA. Tutt’altro. La ripetitività e l’assertività di concetti privi di approfondimenti e argomentazioni logiche credibili sono alla base del meccanismo propagandistico in cui Gropius dimostra di essere Maestro. In corsivo brevissime impressioni personali.
Non è tanto un dogma bell’e pronto che voglio insegnare, ma un insegnamento spregiudicato, originale ed elastico verso i problemi della nostra generazione. Inorridirei se il mio insegnamento dovessi risolversi nella moltiplicazione di una concezione fissa di “architettura alla Gropius”. Quel che desidero è far sì che i giovani intendano quanto siano inesauribili i mezzi del creare se si fa uso degli innumerevoli prodotti dell’epoca moderna, e incoraggiare questi giovani a trovare le proprie soluzioni personali”.
Il Principe si schernisce ma si intuisce benissimo che è proprio un dogma che sta preparando, quello delle soluzioni individuali.
Come concepii la Bauhaus.
IL FINE. Avevo già trovato, prima della guerra mondiale, il mio linguaggio in architettura, com’è provato dall’edificio Fagus del 1911 e da quello del Werkbund all’esposizione di Colonia del 1914. Ma fu appunto la guerra mondiale, durante la quale presero, per la prima volta, forma le mie premesse teoriche, a darmi la coscienza piena, basata su autonoma riflessione, delle mie responsabilità di architetto”.
Altissima considerazione di sé stesso: fondatore di un nuovo linguaggio, tutto basato su “autonome” riflessioni personali. Come architetto, prende sulle sue spalle i mali del mondo e diventa, perciò, il profeta e sommo sacerdote della nuova religione in terra d’America. Prende se stesso a metro e misura del vero e scrive in prima persona: la sua storia personale è il compendio e l’archetipo dell’architettura e del nuovo che avanza.
DIFFERENZA TRA LAVORO MANUALE E INDUSTRIALIZZATO
“….; e sebbene si debba intendere e accettare quanto lo sviluppo della tecnica ha dimostrato, e cioè che una forma collettiva di lavoro può condurre l’umanità a una somma di efficienza superiore rispetto all’opera autocratica dell’individuo isolato, non si dovrebbe prescindere dall’efficacia e dall’importanza dello sforzo personale. Al contrario, consentendogli di assumere il giusto ruolo nell’attivitàcollettiva, verrà esaltato il suo rendimento pratico. Quest’atteggiamento non vede più nella macchina meramente uno strumento economico per eliminare il massimo numero possibile di lavoratori manuali e privarli della loro vitalità, e nemmeno un mezzo per imitare il prodotto artigianale; piuttosto la vede come uno strumento che deve sollevare l’uomo dalla più oppressiva fatica fisica, e irrobustirne la mano sì da renderlo capace di dare forma al suo impulso creativo. Il fatto che non padroneggiamo ancora i nuovi mezzi di produzione, e che perciò da essi debba ancora derivarci sofferenza, non è un argomento valido contro la loro necessità”.
Pensieri a dir poco mediocri oltre che sprezzanti della durezza del lavoro industrializzato. In fondo, anche se non avesse mai visto una fabbrica o letto un libro in proposito, sarebbe bastato andare al cinema a vedere Charlie Chaplin nel suo Tempi moderni, del 1931. Astrazione assoluta dalla realtà, nel migliore dei casi, e disprezzo verso gli altri, considerati meri strumenti del suo disegno di rifondazione della società.
EDUCAZIONE AL COMPORRE
La mia tesi è che la creazione artistica trae vita dalla mutua tensione tra le facoltà sub consce e consce della nostra esistenza, e che essa fluttua tra realtà e illusione. I poteri subconsci o intuitivi di un individuo sono pertanto unicamente suoi. E’ de tutto futile, per chi educa a comporre, proiettare nella mente dell’allievo le proprie sensazioni soggettive. Tutto ciò che egli può fare, se intende ottenere qualche risultato, è svolgere il suo insegnamento sulla base della realtà, dei fatti obiettivi, comune proprietà di tutti noi. Ma lo studio di ciò che sia realtà e di ciò che sia illusione richiede una mente fresca, non influenzata da residui d conoscenza intellettuale. Tommaso d’Aquino ha detto: “Debbo svuotare la mia anima perché possa entrarvi Iddio”. Questo vuoto, questa disponibilità senza pregiudizi è lo stato mentale proprio della concezione creativa. Ma l’accento che oggi intellettualisticamente poniamo sull’educazione libresca non promuove questo clima mentale. Compito preliminare di un insegnante di composizione dovrebbe essere liberare l’allievo da ogni inibizione intellettuale incoraggiandolo ad affidarsi alle proprie reazioni subconsce e a sforzarsi di ricostituire la ricettività spregiudicata della sua infanzia. Deve perciò guidarlo nel progressivo sradicamento di pregiudizi tenaci e salvarlo dal ricadere nella pura imitazione, aiutandolo a trovare un denominatore espressivo comune che sorga dalla sua stessa osservazione ed esperienza”.
Vale a dire: dimenticate tutto, liberate la vostra mente e fate come dico io. E’ il principio di un culto, di una setta, come hanno scritto Tom Wolfe e Nikos Salìngaros. Più volte nel testo Gropius tornerà su questo tema, suggerendo di estendere questo metodo a far data dalla prima infanzia, su, su fino alle scuole di architettura, dove propone di eliminare ogni studio storico per i primi tre anni. Il motivo è evidente: inculcare nei giovani i suoi principi senza prima che ne possano conoscere altri. Guai educare alla capacità critica, molto meglio, e anche più facile, a quella creativa”. E’ atteggiamento tipico da setta, che chiede di spogliarsi di tutto e di rigenerarsi alla fonte della verità, che è ovviamente il pensiero del sacerdote, in questo caso il Principe Bianco.
A.Base Educativa Generale
“…Questo non è vero per lo spirito inventivo e creativo nel campo tecnico: qui (negli USA) l’attuale generazione non sembra avere difficoltà di sorta ad incoraggiare il più ardito pionierismo e il più fiero disprezzo delle norme stabilite dal passato. L’atteggiamento nei riguardi dell’arte è, invece, del tutto differente….. penso che siamo riusciti, e in grado straordinario, a laborare metodi per far conoscere ai nostri figli le conquiste del passato: ma non credo che riusciamo a stimolarli ad esprimere se stessi. Abbiamo fatto loro studiare tanto intensamente la storia dell’arte, che non hanno trovato il tempo di esprimere le proprie idee….
Hanno perduto la lieta, giocosa urgenza dell’infanzia a modellare le cose in forme nuove…”
L’idea è sempre la stessa, quella di liberare la creatività. Idea che curiosamente contrasta con quanto affermato precedentemente, nel cogliere solo la realtà. L’unica coerenza che riesco a trovare è quella di imporre negli USA una nuova visione dell’architettura, per il resto le motivazioni sono oscure e inconsistenti, nemmeno giustificate da un’analisi approfondita della realtà.
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15 aprile 2010
FUCK THE CONTEST
NOTA:
Ne' Piano nè Rogers hanno un simile incarico, nè mi consta che abbiano qualsivoglia incarico, ad Arezzo. Il presente montaggio è, perciò, la goliardica semplificazione del motto "fuck the contest", in cui ho utilizzato il Beabourg, paradossalmente, per la sua scansione geometrica regolare. Non me la sono sentita, dunque, di esagerare e inserirci un MAXXI, ad esempio. Avrei voluto provare con la Teca di Meier ma non ha le giuste proporzioni. Insomma il Beabourg era l'edificio più "classico" tra quello del genere archistar e quello che meglio rispettava il rapporto altezza/lunghezza nonchè il ritmo degli archi delle Logge del Vasari.
Speriamo che qualche amministratore non resti affascinato da questo montaggio decidendo di dar corso a idee simili, magari da qualche altra parte della città.
Non saprei perdonarmi una simile colpa. Leggi tutto...
12 aprile 2010
LUOGHI, NON-LUOGHI E...PADANIA
Pietro Pagliardini
Vilma Torselli ha scritto un bell’articolo su Artonweb: La fine dei luoghi, che mi ha procurato una strana suggestione, probabilmente figlia della lunga e noiosa campagna elettorale e della consueta lunga e noiosa fase post-elettorale: un accostamento tra luoghi, non-luoghi e Lega. Sì, proprio quella, proprio il partito italiano più “legato” al territorio, più “legato” ai luoghi.
La Lega è un fenomeno, da tre decenni, assolutamente unico e straordinario per la molteplicità di temi diversi e apparentemente contrastanti che è capace di tenere insieme e sintetizzare in un amalgama fortissimo e vincente.
Dovendo indicare le parole d’ordine che caratterizzano questo partito/movimento culturale (aldilà dei noti slogan propagandistici) direi: localismo-globalità, identità-accoglienza, tradizione-modernità.
I termini di ciascun binomio vengono normalmente utilizzati dalla politica e dal mondo culturale, come opposti e anzi, come bandiere delle diverse “identità” politiche per distinguersi dagli avversari, ma nella Lega si coniugano, invece, miracolosamente bene.
In una logica europea in cui l’idea di nazione si depotenzia a vantaggio di un potere sovranazionale, le grandi ideologie al lumicino, la Lega ha compreso da subito, unico partito fra i tanti, che le radici sono necessarie e che queste andavano ritrovate in ambito locale. Evidentemente devono aver previsto che l’Europa non avrebbe avuto anima, se non finanziaria.
Infatti il nord è senza dubbio l’area economicamente più globalizzata d’Italia, ma allo stesso tempo quella che di buon grado accetta non tanto il bizzarro e pagano rito dell’ampolla delle sorgenti del Po (senza trascurarne tuttavia il forte valore simbolico di unità geografico-antropologica da ovest a est, dalle Alpi agli Appennini), quanto la valorizzazione delle tradizioni locali del dialetto, dei prodotti della terra, dei prodotti industriali, della laboriosità sempre in chiave antropologica, del paese, del campanile, dei luoghi insomma.
Paese e metropoli, così come la intende Vilma nel suo articolo, unite allo stesso tempo e non opposte. Luogo, non-luogo e anche super-luogo che convivono senza creare turbamenti o contraddizioni.
Fantasie o slogan propagandistici? Niente di tutto questo, ma il frutto di una lettura e di una analisi molto precisa di una realtà economica e sociale che caratterizza la “Padania”, e la riprova sta nel fatto che alla Lega non riesce, e forse non le interessa nemmeno, se non in termini di puro mercato politico, varcare gli Appennini, perché in quest’area geografica l’ambiente economico, sociale e culturale è completamente diverso: c’è vivacità d’iniziativa, c’è legame con il territorio ma tutto è molto più istituzionalizzato, tutto è più lento e burocratizzato e ogni attività è regolata più dal ritmo delle leggi, dal pubblico, piuttosto che da quello della società civile. La Toscana è terra di esportazione non solo di vini, di lardo di Colonnata, di prosciutto di cinta senese, di paesaggi da cartolina, ma anche di leggi, che le regioni del nord mutuano ma che poi sanno applicare con efficienza e senso di realtà, mentre qui diventano camicie di forza dalle quali non riusciamo a liberarci più, se non con nuove e peggiori leggi. Se c’è un luogo dove acquista pregnanza di significato il termine società civile, questo è la Padania, grazie alla Lega.
Non è, evidentemente, solo un fatto politico ma una “diversità” etnico-antropologica se le stesse leggi producono effetti totalmente diversi in luoghi diversi anche a parità di colore politico delle amministrazioni. Ma non la superiorità antropologica imposta e voluta dall'alto dalla sinistra, quanto una reale diversità di approccio alla realtà.
Ma ho divagato troppo. Colpa della Lega e della sua spesso ruvida ma coinvolgente anomalia. Unico partito che afferma con fierezza e convinzione la propria appartenenza ai luoghi ed anche alla comune religione cattolica, intesa più in senso di tradizione che di fede, e guai a chi tenta di minacciarla, ma che allo stesso tempo accoglie, con decoro, altri popoli con altre fedi, dando ad essi un lavoro e una casa ed esigendo, in cambio, conoscenza e rispetto dei luoghi e delle loro tradizioni. Unico partito capace di esprimere una vera e nuova cultura della modernità, non del modernismo, con l’operosità e l’efficienza dei suoi amministratori ma soprattutto del suo popolo aperto ai mercati globali e alla delocalizzazione, e della tradizione dei luoghi, in una miscela in cui è difficile capire quale sia l’ingrediente più importante, tanto l’uno è necessario all’altro. Un partito che risolve nella prassi il problema della multiculturalità e della convivenza.
La domanda che si impone, e che in altro modo anche Vilma si pone, è: sarà la Lega ad aver creato il mercato dell’identità locale intriso di globalità oppure c’è una esigenza profonda di radici, di appartenenza, di identità che non confligge affatto con la globalità economica e di cui la Lega si è fatta espressione politica, amplificandola?
Naturalmente io propendo per quest’ultima risposta, pur con tutte le incognite e i distinguo del caso. Propendo per questa ipotesi non solo per convinzione personale ma perché il legame tra la Lega e il suo capo, da una parte, e il suo popolo, dall’altra, è profondo e viscerale e non dettato da immediato interesse politico, almeno nella sua base stabile.
Se questo fosse vero ci dovrebbe essere una ricaduta in ambito urbano e architettonico, dato che la città è il luogo deputato ad accogliere le istanze prime di una comunità di persone e non può restarne indifferente. Quali possano essere le forme in cui queste istanze locali e globali si dovranno esprimere è tutto da scoprire.
POST SCRIPTUM
Ho parlato di noiosa campagna elettorale, ma non mi riferivo certo a quella della Lega. Ascoltando la rassegna stampa alla radio ho verificato che la Padania, il quotidiano di quel partito, ha ignorato quasi del tutto le notizie sulla par condicio, sui fatti giudiziari, sulle intercettazioni, su Santoro, ecc. ma ha sempre affrontato temi legati al territorio, ai suoi problemi, alle soluzioni possibili. Sembrava il giornale di un altro mondo. Quello vero.
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11 aprile 2010
UNA NUOVA INCURSIONE DI E SU LANGONE
Camillo Langone si è scatenato ed affronta un tema collaterale, ma mica tanto, all'architettura e all'ambiente di vita dell'uomo. Ecco la sua
9 aprile 2010
CONSIGLI DI LANGONE AD ALEMANNO
Un altro link ad un articolo su Il Foglio di Camillo Langone. Tema? Lo dice il titolo:
Consigli ad Alemanno per salvare Roma da architetti incapaci e cinici.
7 aprile 2010
ITALIA NOSTRA SU ALEMANNO, ARCHISTAR E TECA DI MEIER
ITALIA NOSTRA: ALEMANNO ROVESCIA SUE INTENZIONI
"SI STRINGE AD ARCHISTAR CHE HANNO FATTO GRAVI DANNI A ROMA".
(DIRE) Roma, 7 apr. - "Il sindaco Gianni Alemanno ha rovesciato con la comunicazione del Convegno delle Archistar le sue intenzioni urbanistiche e le prime decisioni espresse all'inizio del suo mandato assumendo il governo della citta'". E' quanto si legge in una nota di Italia Nostra.
"Oggi- spiega Italia Nostra- si stringe tutto fiero al petto alcune archistar che hanno gia' prodotto gravi guasti anche a Roma, nel centro storico, con opere incongrue e costosissime, come fino all'anno scorso lo stesso Alemanno giudicava ad esempio la teca dell'Ara Pacis realizzata da Richard Meier".
"Appare misterioso- continua Italia Nostra- il proposito annunciato di negoziare con Meier ulteriori interventi, in particolare sul Lungotevere e verso largo Augusto Imperatore, dove il white architect ha gia' ferito con l'ossessione del colore bianco il Mausoleo di Augusto e le chiese che chiudono quello spazio con le patine, i colori, i disegni delle facciate anche di Valadier".
"Egualmente misterioso e' il sopralluogo annunciato a Tor Vergata con lo spagnolo Santiago Calatrava, che per il momento ha unicamente comunicato l'importo spropositato della sua parcella.
Italia Nostra Roma conferma la sua delusione e la sua contrarieta' a questo rilancio del narcisismo e delle spese pazze inaugurato da Rutelli, ripreso da Veltroni e fatto proprio da
Alemanno nella continuita' provinciale di queste committenze cosi' mortificanti per la citta'- conclude Italia Nostra- Basta con i complessi di inferiorita' che portano a Roma guai e sola
retorica".
MURI DA ABBATTERE, ARCHISTAR E IDENTITA' E MOLTO ALTRO
Era un po' di tempo che Camillo Langone non si dedicava all'architettura e stavo entrando in astinenza.
Ecco questa quotidiana Preghiera, dedicata all'Ara Pacis ma anche al Sindaco Alemanno e al suo ineffabile assessore Croppi.
Quanto al convegno sull'identità (identità?)delle periferie ne riparliamo dopo perché sono davvero interessato a conoscere cosa intendano per identità i grandi urbanisti Hadid, Calatrava e Meier. Davvero molto interessato.
3 aprile 2010
FUCK THE SPACE
"Lo spazio è una cosa effimera. Inafferrabile. Ci sono milioni di soluzioni possibili e nessuna è giusta. E' questo che mi piace".
Frase tratta dalla quarta di copertina di un libro su Gehry.
Frase significativa per essere del tutto priva di significato in quanto lo spazio non è nemmeno riferibile ad uno spazio dell'anima, ad uno spazio per ciascun individuo: se nessuna soluzione è giusta, non esiste una soluzione giusta per qualcuno. Ogni cosa che si progetta è comunque sbagliata, o giusta, o giusta e sbagliata allo stesso tempo.
Frase da artista. Frase da archistar perfetta e assoluta. Non a caso Gerhry è il prototipo di questo nuovo genere.
Lo spazio non esiste.
Lo spazio è relativo ma il giudizio sullo spazio è assoluto e definitivo: nessuna soluzione è giusta.
Verrebbe da parafrasare: "Fuck the space".
Verrebbe da chiedersi: perché farsi prendere in giro? Leggi tutto...
1 aprile 2010
SULL'EDILIZIA POPOLARE
Ettore Maria Mazzola
Il recente post di Pietro Pagliardini sul questo blog, stimola diversi spunti di riflessione.
In base alla cultura prodotta nell’arco degli ultimi anni, specie in base a come ci sono state raccontate le cose, siamo portati a credere che sia vero che l’unico modo di produrre edilizia popolare sia quello promosso a partire dalla Legge 167.
Durante la presentazione del mio libro ad Arezzo, come ricordava Pietro Pagliardini, è nato un interessante dibattito con l’ex direttore dell’IACP locale. Quest’ultimo sosteneva che gli unici successi in termini di edilizia popolare del XX secolo si devono ai piani INA Casa e GESCAL.
In realtà il tecnico probabilmente ignorava – forse per l’insegnamento ricevuto e il luogo in cui ha esercitato – assolutamente in buona fede, quanto di meglio fosse stato prodotto, in materia di edilizia popolare, precedente a quegli esempi.
L’Italia, partita parecchio in ritardo rispetto ad altre nazioni che avevano affrontato i problemi dell’industrializzazione prima di lei, in breve riuscì a mettersi al passo, e forse addirittura a superare molti di quei Paesi.
Se analizzassimo la storia degli albori dell’edilizia popolare in Italia, all’indomani della legge Luzzatti che istituì nel 1903 l’Istituto per le Case Popolari, ci accorgeremmo che in breve tempo, grazie anche alle capacità critiche degli studiosi locali (architetti/ingegneri, sociologi, economisti, specialisti di etiologia, ecc,) si seppero riconoscere, e prevenire, i limiti delle “Città Giardino”, generando un sistema di Città Giardino all’italiana, molto più valido dei monotoni modelli anglosassoni che in quel periodo venivano presi ad esempio ovunque.
Gustavo Giovannoni, e il suo gruppo di colleghi dell’Associazione Artistica Cultori di Architettura, viaggiarono al fine di studiare, liberi da pregiudizi, gli aspetti positivi e quelli negativi del nuovo modello di città teorizzato e messo in pratica da personaggi come Owen e Unwin, e vi riconobbero gli aspetti da prendere in considerazione, come quelli da evitare. La conoscenza di alcuni articoli contenuti nel Codice Urbanistico dell’Ufficio Municipale del Lavoro di Roma, ci fa scoprire cose molto interessanti, per esempio il fatto che fosse noto, già da quell’epoca, che gli utenti di una città non sono tutti uguali tra loro: vi sono persone che non possono curare un giardino, altre che, anche potendolo fare, non lo farebbero mai, poi ci sono gli anziani che non possono fare gli stessi spostamenti delle persone giovani (peraltro destinate anch’esse ad invecchiare), le famiglie numerose e quelle no, gli individui singoli che vivono da soli, quelli che possono permettersi un mezzo di trasporto e quelli sprovvisti, ecc. Insomma una vera e propria città, fatta di individui singoli, ognuno con le proprie esigenze, non un contesto urbano concepito come un sistema omogeneo, ed elaborato a tavolino per un utente identico. Giusto per non dilungarmi, mi fa piacere ricordare alcuni tra i punti interessanti:
• sulla necessità di variare i profili stradali: «[…] Il difetto capitale di alcuni sobborghi giardino di Londra […] sta nell’aspetto monotono che presentano le file interminabili di centinaia di casette tutte dello stesso tipo che sembrano uscite da uno stampo. Costruzioni di identico numero di ambienti possono avere un aspetto esterno ben diverso» (1) ;
• sulla necessità di evitare i cloni e di riferirsi, sempre, ai luoghi in cui si interviene «[…] Perché l’insieme della città-giardino riesca realmente estetico occorre che le costruzioni siano dello stile adatto al paese. Nessun peggiore risultato di quando lo spirito di imitazione porta a costruire tipi esotici nati per rispondere ad esigenze ben diverse da quelle locali. Ogni regione ha il suo tipo di costruzione […]» (2);
• sul ruolo sociale dell’Urbanistica: «[…] se può facilitare la fusione tra le classi, la società le sarà debitrice della risoluzione di un compito importante»(3).
Quest’ultimo punto, in particolare, risulta meritorio di essere sottolineato: dopo la disastrosa esperienza dei primi edifici costruiti a Roma per la classe operaia da parte di speculatori (banchieri, nobili e membri del clero) disinteressati alle condizioni di vita degli abitanti – esperienza che portò a dei fenomeni di violenza simili a quelli vissuti nelle banlieues francesi nel 2006 – si svilupparono una serie di studi mirati a comprendere le ragioni di tanto malcontento, studi necessari a concepire un nuovo modo di progettare la città.
Grazie allo studio proto-sociologico condotto da Domenico Orano nel quartiere Testaccio (1905-10), ed alla conseguente creazione del Comitato per il Miglioramento Economico e Morale di Testaccio – comitato che, oltre al sociologo ed agli artigiani esperti di costruzioni, raggruppava persone di qualsiasi estrazione culturale e sociale, di qualsiasi credo religioso, ecc. – si ottenne, con i due nuclei progettati da Giulio Magni e Quadrio Pirani (traducendo in architettura i suggerimenti del Comitato), un drastico miglioramento delle condizioni di vita dei residenti che, per la prima volta, vennero a riconoscersi come “appartenenti” a quel luogo. La memoria di questo cambiamento è storicamente impressa nella parole lasciateci dal Presidente dell’Istituto Romano Case Popolari, Malgadi che, nel suo testo del 1918 intitolato “il nuovo gruppo di case al Testaccio” affermava: "Parlare di arte in tema di case popolari può sembrare per lo meno esagerato; ma non si può certo negare l’utilità di cercare nella decorazione della casa popolare, sia pure con la semplicità imposta dalla ragione economica, il raggiungimento di un qualche effetto che la faccia apparire, anche agli occhi del modesto operaio, qualche cosa di diverso dalla vecchia ed opprimente casa che egli abitava […] Una casa popolare che, insieme ad una buona distribuzione degli appartamenti unisca un bello aspetto esteriore, è preferita ad un’altra […] e dove questo vi è si nota una maggior cura da parte degli inquilini nella buona tenuta del loro alloggio e in tutto ciò che è comune con gli alloggi del medesimo quartiere […] Una casa che piace si tiene con maggiore riguardo, ciò vuol dire che esercita anche una funzione educativa in chi la abita".
Nasceva così lo slogan dell’Istituto per le Case Popolari: LA CASA SANA ED EDUCATRICE.
L’istituto, finché gli venne consentito di svilupparsi, (con una mano al portafogli e l’altra agli studi filantropici), produsse gli ultimi esempi di città vivibile, una serie di luoghi dove la gente è tutt’oggi orgogliosa di vivere, quartieri e case dove, quando i reco con i miei studenti per far lezione, c’è sempre qualcuno che viene mostrarsi orgogliosamente, oppure ad offrirci qualcosa, o ad invitarci addirittura ad entrare per vedere quanto dignitosa sia la sua casa o il suo giardino. Purtroppo, le leggi fasciste a partire dall’istituzione dei Governatorati, che tolsero qualsiasi autonomia e possibilità di ricerca all’Istituto, posero la pietra tombale su una delle migliori istituzioni che, affiancata dalla Unione Edilizia Nazionale, aveva generato l’ultima architettura degna di essere menzionata nella storia del Novecento.
Non si tratta solo di dover riconoscere il ruolo estetico di quell’architettura, ma anche quello economico atto a ridurre la disoccupazione e sviluppare l’economia locale. Non posso dilungarmi in questa sede, né intendo ripetere quanto ho avuto modo di raccontare nel mio ultimo libro “La Città Sostenibile è Possibile”, (Gangemi Editore 2010), ma le norme per la collettività, prodotte prima delle leggi per gli interessi personali emanate in periodo fascista per favorire l’imprenditoria privata e smantellare il cooperativismo messo su in Italia da Montemartini, Colajanni ed altri, sono lì ad aspettare di essere riscoperte. Quelle norme, e quelle istituzioni, non necessitano di essere reinventate per migliorare la città di domani, vanno semmai rispolverate e messe al fianco dei moderni sistemi quali il Project Financing, i Contratti di Quartiere, i Patti Territoriali, ecc.
Non ci vuole molto ad accorgersi che, l’illuminata norma che vietava zone esclusivamente destinate alla classe operaia, in nome dell’integrazione sociale, sia cosa buona e giusta, se a questo aspetto filantropico - pedagogico affianchiamo la strategia costruttiva dell’ICP, che arrivò ad operare come un’azienda che costruiva per conto terzi alloggi destinati alla vendita o all’affitto per i dipendenti del pubblico impiego, allora ci accorgeremmo che sarebbe possibile ridurre, se non addirittura eliminare, i costi per la realizzazione degli alloggi popolari, che potrebbero essere appartamenti sparsi qua e là e che, grazie al senso di appartenenza ed all’istinto imitativo dell’essere umano, farebbero sentire più nobili gli affittuari meno fortunati, migliorandone l’integrazione sociale e il comportamento … […] Una casa popolare che, insieme ad una buona distribuzione degli appartamenti unisca un bello aspetto esteriore, è preferita ad un’altra […] e dove questo vi è si nota una maggior cura da parte degli inquilini nella buona tenuta del loro alloggio e in tutto ciò che è comune con gli alloggi del medesimo quartiere […] Una casa che piace si tiene con maggiore riguardo, ciò vuol dire che esercita anche una funzione educativa in chi la abita.
Ma questo non significherebbe migliorare solo le condizioni di vita delle classi disagiate – e questo era stato studiato attentamente – questo infatti aiuterebbe anche a svolgere un ruolo di calmiere sul prezzo delle costruzioni e dei terreni: gli alloggi costruiti dall’ente statale potrebbero essere messi sul mercato al pari delle frumentationes dell’antica Roma!
Inoltre, l’Architettura di cui parlo, e che ho ampiamente documentato nel mio ultimo libro, è costruita con materiali durevoli, e infatti, a cento anni di distanza dalla costruzione, non è mai stata oggetto di restauri, ed oggi viene venduta come edilizia di lusso. Tutto ciò non è stato accidentale. Pirani infatti, nella relazione che accompagnava i progetti per Testaccio, scrisse: «l’esperimento fatto in Roma nella costruzione di casette isolate, è più che sufficiente a stabilire che quelle non riescono a buon mercato e non possono quindi considerarsi come vere case popolari. Riteniamo peraltro che, ammesso il principio di fabbricare case a più piani, non si debba necessariamente far delle caserme o degli alveari, ma si possa invece, alternando i diversi corpi di fabbrica in diverse altezze, adottando avancorpi e rientranze, ottenere oltre che un movimento di linee che giova all’estetica, anche un gioco d’aria e di luce sulle aree interne destinate a cortili, sufficiente a diminuire se non ad eliminare, l’impressione della caserma o dell’alveare umano ... i nostri cortili non sono aree chiuse tra i corpi di fabbrica su cui prospettano i soli locali di servizio, ma sono come una continuazione delle pubbliche strade: danno accesso a tutte le scale che disimpegnano i diversi appartamenti e contengono piccoli edifici speciali adibiti ai servizi comuni (asilo, bagni, ecc.)», e poi aggiunse, «non solo la casa ”bella all’esterno e pulita all’interno” contribuisce all’elevazione delle classi che la abitano, ma che un giusto impiego di materiali durevoli, quali i laterizi e le maioliche, porta ad una diminuzione nel tempo delle spese di manutenzione degli edifici, soprattutto quando si tratti di edifici a più piani riuniti in un isolato o in un quartiere urbano».
Ebbene, considerato che l’edilizia popolare si costruisce con le tasse di tutti noi, imparare da questi esempi, che il tempo ha ampiamente testato e dimostrato validi, significherebbe ridurre le tasse di tutti i cittadini.
Alla luce di tutto ciò, risulta davvero triste pensare che ancora oggi, nonostante il disastroso insuccesso dei quartieri Corviale di Roma, Zen di Palermo, Vele di Napoli, Gallaratese di Milano, ecc., gli architetti (la gente comune la pensa molto diversamente) continuino a sostenere che quelle mostruosità non siano da condannare … gli architetti sostengono che, se quegli interventi non hanno funzionato è solo colpa degli italiani … ignorando che anche l’Unitè d’habitation di Le Corbusier a Marsiglia è stata un fallimento dove per anni la gente si è rifiutata di vivere.
Quello che poi si ignora del tutto sono i costi di costruzione ed i tempi di realizzazione dell’edilizia popolare pre e post bellica, cosa che ho ampiamente documentato nel libro. Quello che non è noto, o che si finge di non sapere, è l’intenzionalità di fare esperimenti su delle cavie umane adottata da alcuni architetti come Mario Fiorentino, l’autore di Corviale. Egli, con grande orgoglio auto-celebrativo, disse del mostro che aveva concepito e realizzato: «ci sono due modi di fare Architettura ... o forse ce n’è solo uno ... c’è quello semplice e pacato dell’utilizzazione degli schemi super testati che l’edilizia pubblica in Italia – e non considero solo quella romana – ha più o meno accettato. E poi c’è quello sperimentale, che è il metodo a cui l’esperienza di Corviale appartiene. Io ricorderò sempre come Ridolfi, che è stato il mio vero maestro, sempre mi diceva: “quando progetti per un cliente (e l’edilizia pubblica è un cliente come un qualsiasi altro privato), senza rivelarglielo tu devi sempre sperimentare” perché, in effetti, queste sono esattamente le opportunità nelle quali gli esperimenti possono essere fatti!»
I danni sociali di Corviale fanno sì che queste frasi non meritino commenti!
Note:
1) Ufficio Municipale del Lavoro di Roma, il problema Edilizio, Ed. Centenari, Roma 1920
2) Ufficio Municipale del Lavoro di Roma, op. cit.
3) Ufficio Municipale del Lavoro di Roma, op. cit.
Il progetto della foto in testa è di Quadrio Pirani per il quartiere San Saba, 1924
La foto del quartiere Gallaretese è tratta da Google Earth
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