Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


30 agosto 2012

BIENNALE NON D'AUTORE?

L’architettura è processo, coinvolge una pluralità di attori, dal committente, all’inquilino che la trasforma e una molteplicità di operatori progettuali….La Biennale e l’architettura non deve essere come XFactor , l’architettura non deve essere espressione di una autobiografia, ma professione collettiva, utile alleanza: non ha bisogno di geni”.
Pierluigi Panza ha scritto sul Corriere della Sera un articolo sul copyright alla Biennale di Venezia e cita questa frase di David Chipperfield che dichiara di essere contro l’opera d’autore.
Per essere pronunciata da un “autore” può suonare strana, però l’ha detta.
Non so come sia o sarà la Biennale, e nemmeno mi appassiona più di tanto, ma se fosse consequenziale al contenuto della frase potrebbe non essere peggio del solito.
Forse è per questo che Luigi Prestinenza Puglisi ne dice peste e corna.

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23 agosto 2012

LA "LUNGA EMERGENZA" E IL RIFIUTO DELLA REALTA'

di
Ettore Maria Mazzola


La crisi che sta mettendo in ginocchio il nostro Paese e l’intero pianeta, le false rassicurazioni di uscita dalla stessa dei nostri governanti, creano le giuste condizioni per riflettere sul messaggio di allarme lanciato alcuni anni fa da James Howard Kunstler.

Molto opportunamente nei giorni scorsi, sul blog “De-Architectura”, Pietro Pagliardini ha pubblicato il video dell’interessantissima conferenza “How Bad Architecture Wrecked Cities” tenuta da James Howard Kunstler nel lontano febbraio 2004.

Con l’occasione, Pietro ha anche gentilmente postato il link al mio articolo "Costruire con parsimonia" scritto all’indomani della tragedia di Fukushima.
Il motivo del collegamento è che, in quell’articolo, ponevo dei quesiti sull’attuale modo di costruire e consumare energia, del tutto in linea col pensiero di Kunstler.
James Howard Kunstler è un personaggio coraggioso e fantastico ... per questo è uno di quelli che danno fastidio.
Personalmente, ritengo il suo "The Long Emergency" (pubblicato in Italia dalla Nuovi Mondi col titolo di "Collasso - Come sopravvivere alla fine dell'era del petrolio a buon mercato”) un libro straordinario, altrettanto dicasi per il precedente "Geography of Nowhere".


Purtroppo, quelli di Kunstler sono discorsi che gli architetti, gli urbanisti, i petrolieri e gli industriali – ed i politici ai loro servigi – rifiutano di ascoltare ... resta però per lui la soddisfazione che mai nessuno sia ancora riuscito a smontare le sue parole, sulla fine del “petrolio a buon mercato” e sulla dipendenza di tutte le presunte energie alternative dal petrolio.
… Una ragione in più per rimboccarsi le maniche e ripensare al nostro futuro ed a quello dei nostri figli, prima del raggiungimento del punto di non ritorno ("The Long Emergency").

L’esistenza, nel web, di video sottotitolati in italiano come quello citato, è per me una grande speranza, la speranza che i nostri ignorantissimi politici, e l'enorme massa di pseudo-architetti e pseudo-urbanisti che infesta il nostro Paese, ascolti, o legga i sottotitoli di cui i video sono provvisti e, finalmente, comprenda che dal dopoguerra ad oggi abbiamo intrapreso una strada che non va da nessuna parte … se non al collasso della nostra presunta "civiltà".
Ascoltare certi discorsi, aiuta le persone di buona volontà a capire, una volta per tutte, che quello dell'architettura e dell'urbanistica non è un problema di "stile architettonico", ma di "stile di vita".
A tal proposito, ritengo anche molto utile un altro video, della stessa serie sottotitolata, relativo alla conferenza “Retrofitting Suburbia“ tenuta ad Atlanta nel gennaio 2010 da Ellen Dunham-Jones.
Nel video, la relatrice si spinge – anche se brevemente – a ricordare quelli che sono i disastrosi effetti collaterali sulla nostra salute dell'urbanistica fallimentare del dopoguerra, mostrando anche qualche esempio americano di rigenerazione urbana possibile.

Personalmente mi sento molto coinvolto da questi discorsi, e vorrei che in tanti, in Italia, lo fossimo.
Sono ormai tanti anni che “combatto” – spesso usando toni molto aspri e provocatori – nella speranza che certi architetti, certi pseudo-storici e "critici" di architettura comprendano la grande menzogna che ci è stata raccontata sui banchi universitari e sulle riviste patinate. Costoro dovrebbero smetterla di accusare di "passatismo" chi come me, rifiutando in nome del bene comune uno stile di vita sbagliato, promuova un tipo di architettura e di urbanistica a dimensione umana e rispettosa dei luoghi.
Per questo mi auguro che ascoltino Kunstler – CHE GUARDA CASO NON È UN ARCHITETTO! – e apprendano dalle sue parole una serie di termini come "senso di appartenenza", "grammatica", "definizione dello spazio", ecc. … se mai riuscissero ad essere umili, costoro potrebbero finalmente, rivedere le proprie posizioni, troppo spesso arroganti, ignoranti e presuntuose.
Gli architetti infatti – ma anche tutti gli urbanisti, i costruttori e gli amministratori della cosa pubblica – che presumono di poter fare ciò che vogliono in nome di una ipotetica modernità dettata dalla propria ideologia, oppure in nome di una distorta visione della libertà a danno degli altri, dovrebbero sempre ricordare che questo pianeta ci è dato prestito dalle generazioni future che, si suppone, gradirebbero vederselo “riconsegnato” ancora salubre e fruibile.

A seguito del dibattito scaturito dai post precedenti, Pietro Pagliardini ha pubblicato alcune sue ulteriori riflessioni nel post, “Leonardo Benevolo e la Città del Movimento Moderno

Questo articolo pone a confronto un estratto de “La città nella storia europea” (Edizioni Laterza, 1993), di Benevolo, e il contenuto della conferenza di Kunstler.
Al termine della citazione del testo di Benevolo, Pagliardini scrive: “Una sintesi onnicomprensiva e perfetta di un periodo storico, con una conclusione (e un tono complessivo) che però mostra la mancata presa di distanza da quel modello, soprattutto delle ricadute, dell’applicazione di quel modello sull’attuale deserto urbano”. Suggerisco vivamente a tutti di leggere il testo completo, sia di Benevolo che di Pagliardini.

Personalmente direi che il testo di Benevolo, come Pagliardini ha fatto notare, non solo non prenda le distanze da quelle scelte che hanno condotto l’architettura al triste punto in cui viviamo, ma che addirittura abbia voluto giustificarle ed enfatizzarle, tanto da “ringraziare” il movimento modernista per le teorie moderniste sviluppate nel quinquennio ’24 – ’29 che, a quanto l’autore sostiene, spianarono la strada verso la “liberazione dai condizionamenti del passato” aiutando le città a migliorarsi.

Benevolo dice: “È il climax della cultura artistica europea, che taglia nello stesso tempo i legami con la tradizione propria dell’Europa e offre una base concettuale utilizzabile in tutto il mondo, per modernizzare ogni altra tradizione … Per spezzare le limitazioni della teoria e della pratica post-liberale, bisognava passare attraverso la tabula rasa, sgomberare una volta per tutte l’enorme carico delle forme convenzionali dedotte dal passato (...) Si perde la continuità soggettiva con la vicenda europea, per recuperare la comprensione oggettiva dell’intera serie degli interventi umani nel paesaggio terrestre (…)”.

E ancora: “ma senza lo strappo, la consapevole presa di distanza, non si sarebbe potuto affrontare seriamente la progettazione della città moderna, riconoscere la molteplicità delle esigenze da sintetizzare e anche la ricchezza delle tradizioni locali, da sottrarre alle schematizzazioni degli stili”. … in poche parole la madre di tutte le pippe mentali che crearono le premesse “culturali” che hanno consentito agli architetti di abusare a proprio piacimento delle nostre città, conducendole verso il delirio attuale!! Quelle pippe mentali che, nel fare tabula rasa, dimenticarono intenzionalmente quanto di buono era stato sviluppato nel primissimo Novecento.

Benevolo, nel suo racconto parziale del modernismo, dimentica infatti di far notare che, proprio all'indomani di quel quinquennio che lui sembra voler osannare, qui in Italia (ma anche altrove) nacquero i primi veri problemi delle città.

Infatti, fino alla legge del '25 sui Governatorati, che portò anche all'esautoramento dell'ICP – che fino ad allora costruiva meravigliosamente in proprio e per conto terzi risultando un Ente florido e non in perdita – le cose non erano andate affatto male, le prime esperienze delle "città giardino all'italiana" di Giovannoni & co., anni luce diverse da quelle estere, avevano infatti generato – senza alcuna necessità di fare "tabula rasa" – gli ultimi quartieri degni di esser annoverati tra i luoghi "urbani" piacevoli da vivere, e in grado di generare quel "senso di appartenenza e di comunità” tanto importante per i residenti ... i casi romani che ho più volte elencato lo dimostrano.

Quanto al testo di Pagliardini, sebbene condivida totalmente il suo scetticismo sul "New Urbanism" e sul suo approccio al problema, non riesco ad essere d'accordo quando definisce "catastrofista" il discorso di Kunstler sull'esaurimento del petrolio.
E' infatti stato scientificamente dimostrato – e Kunstler in "The Long Emergency" cita le autorevoli fonti scientifiche cui attinge … tant'è che nessuno l'ha potuto smentire – che il petrolio è in fase di esaurimento, per la precisione i dati presentati da Kunstler nel 2005 davano altri 34 anni di petrolio estraibile, sebbene a costi crescenti, dopo di che il costo di estrazione supererà quello dell'estratto e non sarà più logico procedere alle trivellazioni! Non è un caso se le principali guerre che hanno insanguinato il pianeta negli ultimi anni si siano concentrate in quella "sfortunata" regione che, diagrammi alla mano, vede la presenza del petrolio ancora di poco al di sotto del picco massimo ... altro che talebani e motivi religiosi! Ma questo è un altro argomento che necessiterebbe lunghe discussioni che esulano da questo contesto.

Per questo motivo, se mai dovessi fare una critica a Kunstler, cosa che non mi pare giusta visto che stiamo parlando di un giornalista e non di un progettista, dovrei far notare che nei suoi scritti manchino delle proposte concrete.

Kunstler si limita voler far riflettere la gente, egli fa un ammonimento che solo la miopia dei potenti della terra non vuole raccogliere.

Le grandi lobbies del petrolio e degli armamenti hanno infatti tentato, attraverso la consueta manipolazione dei media, di screditare i discorsi di Kunstler, mettendo in giro l’accusa di catastrofismo … mai però è stato dimostrata!

Del resto, l’arrogante affermazione di G. W. Bush “Lo stile di vita americano non è negoziabile!” lascia capire tante cose sull’ottusità dei cosiddetti “potenti della Terra” e dei loro burattinai!

Spetta quindi a noi progettisti a raccogliere il grido di allarme, e spetta soprattutto al corpo docente delle nostre università farlo, perché è lì che le teorie e le ricerche dovrebbero svilupparsi al di là delle ideologie ed in nome del bene comune.

Questo è uno dei motivi principali che mi anima, e che mi espone alle critiche – spesso sterili – di chi, non volendo cambiare il suo modo di fare e pensare, preferisce accusare di "passatismo" la mia attenzione e il mio interesse a recuperare l'esperienza dei nostri predecessori (anche molto recenti) per poter pianificare un futuro migliore, non per noi, ma per le generazioni a venire.

Il messaggio di Kunstler è forte e chiaro: fermatevi e riflettete ora che siete ancora in tempo per migliorare le cose ... quando comincerà la "lunga emergenza" non ci sarà più spazio per pensare, ma solo tentativi, violenti, per accaparrarsi le ultime risorse di greggio disponibili e sopravvivere nel nostro “stile di vita” distorto ... ma, si badi, egli ci ricorda anche che quei tentativi sono già iniziati, anche se mascherati da presunte ragioni religiose.

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22 agosto 2012

EGEMONIA DEL PARAMETRICISMO? E' COME AUSPICARE UNA EPIDEMIA!

di
Ettore Maria Mazzola


Recentemente, sul blog “amatelarchitettura.com” è apparso un articolo che intendeva far riflettere sul significato, e giustificarne l’aspetto, dell’orribile Casa della Musica realizzata da Rem Koolhaas a Porto. Questo è il link:
Cu nasci tunnu un’ pò moriri quadratu

Volendo dimostrare il fatto che i posteri arrivano sempre a dimostrare la validità di un’opera incompresa dai suoi contemporanei, l’autore del post aveva redatto una ipotetica critica scritta da un iguvino del ‘300 disturbato dalla realizzazione del Palazzo dei Consoli della sua città.
A quel post aveva fatto seguito un altro post, apparso su De Architectura, nel quale Pietro Pagliardini dimostrava l’assurdità del contenuto dell’articolo in questione. Questo è il link:
Gattapone archistar?

Ne è scaturito un acceso dibattito, provocato anche dal mio intervento, “not really politically correct”, con il quale esponevo le ragioni per cui ritenevo che Pagliardini fosse stato troppo magnanimo nei confronti dell’anonimo autore del post su Koolhaas e Gubbio.


A chiarire ulteriormente le ragioni per cui il testo su Koolhaas e Gubbio fosse fuori luogo, Pagliardini ha pubblicato un nuovo post, molto ben articolato, col quale discute di argomenti poco digeribili da parte dei sostenitori di Koolhaas & co., vale a dire se si debba svolgere la professione all’interno di regole universalmente riconosciute, oppure se sia meglio fregarsene in nome del “fuck the context”, slogan e vera e propria ragione di vita dell’architetto olandese.
Questo è il link:
Gattapone ovvero delle regole vs la casualità

Nell’articolo, stimolato dal mio commento nel quale raccontavo del mio scontro con Patrick Schumacher (teorico del “parametricismo”) in occasione di una conferenza/confronto tenutasi a Londra un paio di anni fa, Pagliardini ha parlato del modo di progettare dei cosiddetti “parametricisti”, dimostrando come, alla fin fine, il progetto venga elaborato più dal computer che dall’architetto che ne faccia uso.
La progettazione parametrica è proprio quella descritta da Pagliardini, una progettazione nella quale i presunti "schizzi" di Zaha, possono tramutarsi in "architetture" solo grazie agli “schiavetti” in grado di gestire il software, adattando il modellatore CAD affinché esca fuori qualcosa che assomigli allo scarabocchio iniziale … un po’ pochino per essere considerati delle archistars!
Generalmente infatti, queste archistars non sanno nemmeno come il loro progetto sia venuto fuori, e gli ingegneri che (come nel caso del MAXXI) sono riusciti a farlo stare in piedi, resteranno degli illustri sconosciuti pur essendo i reali realizzatori dell'opera.
Vale a dire che tutti quei sindaci, affamati di fama, che spendono una barca di soldi pubblici per portare nelle “loro” città la griffe dell'archistar di turno, portano nel “loro” territorio il lavoro di un computer passato attraverso le dita di qualche giovane “smanettatore” (magari sottopagato perché sta facendo esperienza!) che resterà sempre ignoto all’umanità.

Agli architetti incapaci – come Zaha e Patrick Schumacher – di progettare in maniera rispettosa della tradizione, ovvero quegli architetti che condannano chi lo faccia di falsificare la storia, o di essere passatisti, non comporta alcun senso di colpa realizzare opere che, oltre a non essere state disegnate da loro, risultano anche essere il clone di porcherie similari.

Questo modo di progettare porta infatti a delle “opere” che sono il risultato dell'uso di softwares che lavorano per modelli precostituiti … ecco il perché il MAXXI e l'obbrobrioso museo di Liverpool sembrano essere usciti dallo stesso stampo!

In pratica, siamo davanti ad un modo molto facile per potersi sentire architetti, anche se si è incapaci di progettare, è la legge parassita della nostra società, una società basata sul principio del "massimo del guadagno con il minimo dello sforzo".
... Forse Schumacher intendeva questo quando ha affermato che il "parametricismo" sarebbe divenuto la "tradizione egemone" ... le colonie di parassiti infatti, come le cellule cancerose, quando vengono ad “avere la vita facile”, si moltiplicano a dismisura a danno delle cellule sane e, se non si provvede a fermarle in tempo, finiscono per distruggere ciò che le circonda!
Mi dispiace per l'orrendo paragone finale, ma ogni tanto è necessario arrivare a tanto per portare la gente a riflettere!

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21 agosto 2012

LEONARDO BENEVOLO E LA CITTA' DEL MOVIMENTO MODERNO

Da Leonardo Benevolo, La città nella storia europea,Edizioni Laterza, 1993.
I grassetti sono i miei, i corsivi dell’autore:

L’invenzione di una nuova città
…Nei primi due decenni del ‘900 [queste] due linee di esperienze si incontrano. Infatti:
- La ricerca artistica smaltisce, nella sua accelerazione, tutto il repertorio delle forme accumulate in passato, e arriva alla “parete nuda” (Kandisky), disponibile per un’invenzione totalmente nuova;
- La sperimentazione concreta, ingrandendo la scala degli interventi pubblici sussidiari e sperimentali – i quartieri di edilizia sovvenzionata, le città giardino – si accorge che l’urbanizzazione pubblica può diventare un metodo alternativo per lo sviluppo della città e una chiave per ricostruire, in senso moderno, l’equilibrio tra scelte individuali e collettive.

L’amministrazione e gli operatori si spartiscono i compiti nel tempo, non nello spazio; l’amministrazione acquista i terreni da trasformare , li sistema e cede le porzioni fabbricabili ai vari operatori pubblici e privati, in pareggio economico. Diventa possibile disegnare la sistemazione complessiva, senza l’ostacolo dei confini di proprietà, e i singoli edifici, senza la pressione della rendita fondiaria; così si apre lo spazio per una progettazione nuova in cui è pronta a inserirsi la cultura artistica finalmente liberata dai condizionamenti del passato.

Le due linee convergono così verso un risultato unico: da un lato reintrodurre l’invenzione artistica nelle varie scale della progettazione urbana, dall’altro trasformare la pianificazione in una combinazione razionale di interessi pubblici e privati componibili tra loro dentro le regole del mercato e della competizione imprenditoriale. La posta è un nuovo assetto della città, considerata in tutta l’estensione del suo significato, come quadro fisico in cui la vita umana può acquistare il suo intero valore….

..Il movimento che è stato chiamato dell’”architettura moderna” coglie con estrema tempestività il momento in cui le molte fila da riannodare sono aperte e disponibili: l’esaurimento della ricerca pittorica post-cubista, il desiderio di una nuova integrazione di valori dopo la tragedia della prima guerra mondiale, i grandi programmi di ricostruzione del dopoguerra, l’inizio di una comprensione scientifica dei comportamenti individuali e collettivi. Il tentativo è compresso in un tempo brevissimo – tra la ripresa economica del ’24 e la crisi del ’29 – ma imprime una svolta durevole alla cultura europea: progettisti di molte esperienze imparano a collaborare tra loro nel Bauhaus di Gropius e da questo crogiolo escono le più straordinarie esperienzae architettoniche comparse in Europa da molti secoli: Mies van der Rohe, Le Corbusier, Alvar Aalto.
E’ il climax della cultura artistica europea, che taglia nello stesso tempo i legami con la tradizione propria dell’Europa e offre una base concettuale utilizzabile in tutto il mondo, per modernizzare ogni altra tradizione…..Per spezzare le limitazioni della teoria e della pratica post-liberale, bisognava passare attraverso la tabula rasa, sgomberare una volta per tutte l’enorme carico delle forme convenzionali dedotte dal passato….. Si perde la continuità soggettiva con la vicenda europea, per recuperare la comprensione oggettiva dell’intera serie degli interventi umani nel paesaggio terrestre….

Il ruolo della città, come sistema paesistico contrapposto al territorio, diventa necessariamente problematico: il quadro della nuova progettazione è l’intero ambiente geografico ed entro questo quadro la città va nuovamente definita a ragion veduta.
Si distinguono le funzioni della città: abitare, lavorare, coltivare il corpo e lo spirito (Le Corbusier), e si definiscono i loro caratteri in contrapposizione con la città post-liberale. La residenza, dove si trascorre la maggior parte della giornata, diventa l’elemento più importante della città, ma è inseparabile dai servizi che formano i suoi “prolungamenti”; la attività produttive determinano i tre tipi di fondamentali di insediamento umano: la città sparsa nel territorio, la città lineare industriale, la città radiocentrica degli scambi; le attività ricreative richiedono un’abbondanza di spazi liberi, che non basta concentrare in certe zone, ma devono formare uno spazio unico dove tutti gli altri elementi siano liberamente distribuiti (il parco ottocentesco prefigura la nuova città, che è un grande parco attrezzato per tutte le necessità della vita urbana); la circolazione dev’esser selezionata secondo le necessità dei vari mezzi di trasporto e alla rue-corridor va sostituito un sistema di percorsi separati per i pedoni, le biciclette, i veicoli lenti e i veicoli veloci, tracciati nello spazio continuo della città-parco…..
I primi tentativi su questa strada son risultati spesso utopistici e approssimativi; ma senza lo strappo, la consapevole presa di distanza, non si sarebbe potuto affrontare seriamente la progettazione della città moderna, riconoscere la molteplicità delle esigenze da sintetizzare e anche la ricchezza delle tradizioni locali, da sottrarre alle schematizzazioni degli stili
.

Una sintesi onnicomprensiva e perfetta di un periodo storico, con una conclusione (e un tono complessivo) che però mostra la mancata presa di distanza da quel modello, soprattutto delle ricadute, dell’applicazione di quel modello sull’attuale deserto urbano. Sono riproposti in questo brano tutti i principali temi di quel periodo storico che ha prodotto l’attuale modernità. Alcuni poi sono addirittura all’ordine del giorno del dibattito contemporaneo, come la specializzazione dei percorsi urbani.
Se si mette in sequenza questo testo con la breve lezione di J.H. Kunstler del post precedente, ecco che ognuno dei criteri del Movimento Moderno viene smontato pezzo per pezzo, fino a dire che di ognuno di quei criteri è necessario applicare il suo opposto per tentare di recuperare le nostre città ad una civile vita urbana:
- la campagna che entra nella città come un piano continuo in cui liberamente si appoggiano i vari edifici diversi per funzione creando uno spazio indistinto, un vuoto fisico e un vuoto dell’anima, diventa la definizione dei confini urbani, la netta differenza qualitativa tra lo spazio urbano e quello naturale;
- alla dispersione dell’urbanizzazione nel territorio per zone specializzate si deve opporre la concentrazione della città con la commistione delle diverse attività;
- alla specializzazione dei percorsi si deve opporre la rue-corridor, la strada tradizionale stretta tra cortine di edifici e caratterizzata dalla pluralità delle funzioni e dall’integrazione, dalla prossimità, dalla naturale pedonalità, dalla permeabilità, come dice Kunstler, cioè dal fatto che c’è scambio continuo tra gli edifici e la strada stessa.

Come non vedere, inoltre, nel MM una ideologia totalizzante di chi si sente investito della missione di cambiare il mondo, di creare l’uomo nuovo, attraverso una progettazione integrale di ogni parte del territorio? Lo stesso Benevolo lo riconosce quando scrive: ”Si perde la continuità soggettiva con la vicenda europea, per recuperare la comprensione oggettiva dell’intera serie degli interventi umani nel paesaggio terrestre

C’è quindi alla base del MM una visione di tipo “morale”, in perfetta analogia con le ideologie del secolo breve, l’epoca delle grandi visioni politiche che hanno prodotto le più grandi catastrofi della storia, così come il MM ha prodotto l’era della disgregazione delle città e la perdita della conoscenza, delle regole per costruire la città, avendo azzerato nella teoria, ma anche nella memoria della cultura urbanistica e architettonica, ogni ricordo, ogni canone, ogni esperienza, se non cristalizzandola e museificandola nelle espressioni di “centro storico” e “monumento”.

Per questo motivo, personalmente non apprezzo molto di Kunstler e del New Urbanism l’insistere in maniera ideologica su aspetti che hanno anch’essi un background di tipo morale, quali quelli ambientalistico-catastrofistici sull’esaurimento delle risorse petrolifere (che in verità non sono esaurite ma il cui prezzo è destinato ad aumentare per l’incremento della domanda da parte dei paesi emergenti e per ragioni geo-politiche e se anche fosse finito non ci sarebbe da compiacersene), proprio perché anch’essi si presentano, nell’ansia di voler dimostrare gli errori commessi, come una visione “globale” che coinvolge ogni aspetto della vita degli uomini e il loro “stile di vita”. E dal voler cambiare lo stile di vita all’”uomo nuovo” il passo è breve.

Non serve l’uomo nuovo, serve la città nuova, cioè la città tradizionale, in cui l’uomo di sempre, l'uomo e basta, abbia la possibilità di comportarsi da cittadino di una comunità di persone. La città nuova serve anche per motivi energetici, ma servirebbe anche se il petrolio costasse poco.

Non c’è bisogno di ricorrere a queste visioni perché si rischia lo stesso abbaglio ideologico del secolo scorso, dato che è sufficiente la presa d’atto degli errori fatti e la necessità di rivalutare il principio civile di cittadinanza, proprio come afferma molto opportunamente lo stesso Kunstler nell’intervista, non considerando cioè i cittadini solo come consumatori ma come esseri umani che hanno la necessità di vivere in una comunità che offra loro la possibilità di avere una vita urbana piena, civile e accogliente e in essa poter dispiegare tutta la ricchezza e la varietà di attività, interessi, rapporti, emozioni che il diritto di cittadinanza è in grado di offrire.
La città tradizionale ne è la premessa indispensabile perché ciò avvenga, un mezzo e non un fine di ordine morale.

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19 agosto 2012

JAMES HOWARD KUNSTLER: VIDEO

Su segnalazione di un'amica, propongo un altro video, questa volta di James Howard Kunstler, sulla città americana.
Questa volta però, contrariamente al video precedente, i concetti che Kunstler esprime sono perfettamente validi anche per le nostre città europee e italiane.
Tra l'altro il video è anche molto divertente perchè Kunstler è brillante e ha il dono di dire cose intelligenti e importanti con grande umorismo.
Al solito, il video può essere sottotitolato in italiano.


Altri post su Kunstler
- LA SOSTENIBILITA' DI JAMES KUNSTLER E QUELLA DI CASA NOSTRA
- COSTRUIRE CON PARSIMONIA, di Ettore Maria Mazzola

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17 agosto 2012

RETROFITTING SUBURBIA-VIDEO

Pubblico il link ad un video dal titolo "Retrofitting suburbia" che illustra principi ed esempi di come restituire alla città aree dismesse destinate a parcheggio o a grandi centri commerciali oppure insediamenti tipici dello sprawl americano.
E' evidente che l'esperienza, la cultura e il territorio americano sono molto diversi rispetto all'Europa e non sono riproducibili sic et simpliceter, tuttavia l'approccio concettuale resta di notevole interesse. In fondo è il concetto di densificazione a guidare queste esperienze.
Singolare la coesistenza di due mentalità che a me appaiono contrastanti e che guidano tutta l'esposizione:
da una parte la cifra prevalente è quella di un grande pragmatismo dove è l'operazione economica, e quindi il profitto, a determinare l'interesse e la fattibilità per gli investitori; dall'altra gli argomenti utilizzati a supporto dell'abbandono dello sprawl e della densificazione sono impostati, per lo più, sulla forma più acritica del "politicamente corretto", basandosi tutto sul cambiamento climatico, tutto da dimostrare, a maggior ragione quello per cause antropiche, e su una smisurata fiducia sulla previsione di come evolverà la società addirittura nei prossimi 100 anni.
Informo che il video è sottotitolato anche in italiano, basta selezionare la funzione nella barra del video, in basso a destra .

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15 agosto 2012

GATTAPONE, OVVERO DELLE REGOLE V/S LA CASUALITA'

Il post precedente, immediata risposta a quello di amatelarchitettura su Gubbio, merita un approfondimento, anche alla luce di un primo commento, molto ideologico, lasciato in quel blog.

In particolare è dell’architettura del complesso del Palazzo dei Consoli, costituito dal Palazzo dei Consoli vero e proprio, dalla piazza posta a livello della via dei Consoli, che costituisce copertura per un edificio di due piani, e il Palazzo dei Priori, che mi interessa sottolineare la grande “modernità”, elemento questo che può avere tratto in inganno l’autore del post di amatelarchitettura.
Certo bisogna intendersi sul termine modernità, non quella legata al periodo storico di sviluppo della società industriale, che ha trovato la sua espressione architettonica nel Movimento Moderno, rimasto congelato in un modernismo d’antiquariato e conservatore che ha perso ogni rapporto con la realtà dell’abitare individuale e collettivo, con l’architettura e la città, che ha mummificato l’idea della “tabula rasa” rispetto ai canoni di cui si era alimentata la tradizione, che ha perduto la spinta originaria, sbagliata ma comprensibile per le mutate condizioni economiche e sociali e l’impetuoso urbanesimo, e che ha perduto la percezione stessa del motivo per cui esiste la città e le parti che la compongono, cioè l’ambiente di vita più adatto all’uomo, al suo creatore cioè.


Per modernità, riferita all’architettura, intendo ciò che ancora oggi è attuale e vitale, indipendentemente dall’età anagrafica del manufatto, e che risponde alle varie esigenze della vita individuale e collettiva: modernità dell’essere e non dell’apparire.

Ebbene io credo che l’autore del post di amatelarchitettura, Qfwfq, abbia avuto una suggestione, abbia intuito la modernità del Palazzo dei Consoli, ma abbia avuta questa intuizione guardando il progetto di Koolhaas a Porto e, da questo abbagliato per puri motivi formali, abbia sentito il bisogno di giustificare quel progetto, diversamente privo di alcun significato se non di pura autoreferenzialità, appoggiandosi alla modernità di Gattapone, l’architetto del 1300. Ha insomma voluto fornire un sostegno di dignità storica e culturale alla Casa della Musica, ha compiuto un’operazione inversa, forse per non sentirsi troppo fuori moda, e ha ribaltato la realtà, facendo di Gattapone una archistar ante literram, piuttosto che di una archistar un improbabile seguace di Guattapone. Avrebbe cioè finito per dare dignità culturale al Palazzo dei Consoli grazie a…Rem Koolhaas. Io credo che Rem Koolhaas sarebbe il primo a contestare del tutto questa idea, intanto perché è ideologicamente indifferente al contesto, “’fanculo il contesto” è la sua cifra, e poi perché non credo sia affatto ignorante o stupido e saprebbe leggere con maggiore acume il complesso del Palazzo dei Consoli.

In vero, la forma vagamente psicanalitica di questa mia analisi, è solo un artificio retorico per esprimere in maniera discorsiva un concetto, rimanendo cioè nel rapporto dialogico tra due persone e tra due idee, e quindi non è riferita direttamente a quella specifica persona, Qfwfq, ma ad una forma mentis diffusa tra gli architetti, una rappresentazione di due modi opposti di attribuire significati alle medesime architetture. Nè vale discutere troppo sulla forma ironica e/o provocatoria di quel post, ancorchè stimolante, perchè ciò che emerge chiaro anche dai commenti è una interpretazione molto "seria" di quanto affermato.

Perché dunque il Palazzo dei Consoli “è” e “appare” moderno, tanto da meritare un confronto - e resto nel gioco surreale del ribaltamento dei meriti - con la Casa della Musica?
Cominciamo “dall’apparire moderno".
Se si astrae il complesso dal suo contesto, come nella foto iniziale, un plastico tratto da l’Italia in miniatura ed elaborato al computer per ridurlo alle sue linee essenziali, privarlo di decorazione, smaterializzarlo insomma per renderlo astratto secondo il gusto modernista, si può comprendere che:
si tratta di una “piastra” di due piani dalla quale spiccano due “torri” parallelepipede - e pure con poche finestre, che è il massimo per l’architettura del purismo - e con una decorazione misurata in una delle due e quasi assente nell’altra.
Quanti progetti moderni, in senso cronologico, di questo tipo esistono! Due esempi famosi, la Lever House di SMO, con una sola torre, e la Biblioteca Nazionale di Francia a Parigi, con quattro torri.
Il complesso “Palazzo dei Consoli” è tipologicamente una piastra ridotta ai suoi elementi essenziali e quindi niente di strano che questo insieme offra suggestioni all’architetto modernista, anche se di questo suo aspetto tipologico colpisce più il parallelepipedo che emerge e svetta su tutta Gubbio piuttosto che il sistema nel suo insieme.

E veniamo “all’essere moderno".
Se è vero che il progetto è una piastra, è però vero che la forma in cui si presenta oggi questa tipologia è del tutto diversa ed opposta. Si faccia una ricerca su google con le chiavi “edifici a piastra immagini” e appariranno: ospedali, sedi di grandi aziende, università, grandi complessi commerciali, edifici fieristici, vale a dire edifici specialistici. Ma non basta, perché tutti presentano una caratteristica comune: sono complessi unitari a sé stanti, sono oggetti “calati dall’alto”, questi sì, come scrive Qfwfq nel suo post, che vivono di vita propria e potrebbero essere collocati ovunque. E’ l’idea stessa di piastra a richiederlo: il piano terra, la piastra vera e propria, contiene la distribuzione e tutti i servizi comuni necessari e al servizio delle funzioni svolte negli edifici specializzati a torre.
Il Palazzo dei Consoli no, perché la piastra non è una scelta tipologica coscientemente teorizzata ma è la risoluzione straordinaria di un problema urbano e architettonico che appartiene a quel luogo e solo a quello. La piastra di due piani è utile ad assorbire il forte dislivello tra la strada maestra superiore e quella parallela inferiore e per creare una piazza pubblica pianeggiante, e allo stesso tempo terrazza panoramica sulla città, al livello di via dei Consoli, nel luogo centrale in cui convergono le due strade principali e dove, per questo, si incontrano tutti i quartieri. Non solo: al piano strada inferiore vi sono fondi di servizio alla strada stessa, più che agli edifici sovrastanti.

Quello è il luogo sacro, - in senso civile - della comunità, è lo spazio pubblico in cui tutti si potevano riconoscere e si riconoscono tutt’ora, che meritava due palazzi che eccellessero anche in dimensioni, con uno spazio pubblico aperto, la piazza, e uno pubblico interno, l’Arengo al piano primo del Palazzo dei Consoli, una vera e propria piazza al coperto unita a quella all’aperto dalla splendida scalinata:
A questo punto passiamo al termine di paragone, alla Casa della Musica di Rem Koolhaas.

Architettonicamente siamo in presenza di un’astronave, oggetto quindi caduto dall’alto, che ha aperto il portello e ha allungato la scala. Mi pare sia del tutto evidente la simbologia, chiamiamola così, l’idea guida. La forma esterna suggerisce certamente la presenza al suo interno di almeno una sala pubblica (che sia musica, o convegni o altro bisogna saperlo, ovviamente). Ma dove è atterrata questa astronave? In uno spazio indifferenziato, come se avesse scelto quello più adatto ad un atterraggio sicuro. La sua unica relazione è con il terreno, nel senso letterale del termine, perché sembra esserci letteralmente penetrata con la carena.

Questa la descrizione che ne fa l’autore nel suo sito:
La localizzazione della Casa della Musica è stata la chiave dello sviluppo del pensiero di OMA; abbiamo scelto di non costruire la nuova sala concerti sull’anello di vecchi edifici che definiscono la Rotonda, ma di creare un edificio isolato che si appoggia su un piano di travertino davanti al Parco della Rotonda, confinante con un quartiere operaio. Con questo concetto, i problemi del simbolismo, la visibilità e l'accesso sono state risolte in un solo gesto”.
Fantastica descrizione! Nella prima parte è chiara la volontà di non trovare alcuna relazione con la Rotonda e con la città, di rifiutare cioè l’anello, l’elemento urbanistico forte di quell’area. Nella seconda mi sembra vi sia una fumosa accondiscendenza al “sociale” non ben comprensibile, mentre è chiarissimo l’atteggiamento progettuale riassumibile nel “gesto”. Quindi inutile perdersi in discussioni sull’inserimento perché, quand’anche non ce lo avesse spiegato l’autore, basta questa foto a spiegarla.
Sull’edificio che altro dire! E’ instabile, come si conviene ad una astronave senza gambe appena atterrata e conficcatasi al suolo.
Siamo agli antipodi di Gubbio, proveniamo da un altro pianeta e qui non ci troviamo molto a nostro agio.
Perché andare a cercare relazioni inesistenti e impossibili quando lo stesso progettista le rifiuta per scelta? Siamo nella modernità apparente, nella modernità modaiola il cui valore sta al massimo nella funzione che vi si svolge, merito questo, e onere, del committente e del gestore, non dell’architetto, cui è demandato il compito, che spero sia stato assolto, di risolvere la funzionalità interna. Siamo nel campo del rifiuto preconcetto della città a favore dell’oggetto singolare e “diverso”. Siamo nel campo dell’immagine, dell’effimero, del provvisorio.
Il Palazzo dei Consoli invece sta là da 700 anni, saldamente ancorato al suolo e legato alle strade, alla città, alla comunità; funziona ancora, è il simbolo di una città per i suoi cittadini e per chi la visita.
Ma di cosa stiamo parlando, in effetti?


Credits:
Immagini tratte da:
Italia in miniatura, Bings map, Sito ufficiale OMA

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10 agosto 2012

GATTAPONE ARCHISTAR?

Esso svetta come un macigno per almeno 50 metri sopra la città, rendendosi visibile in tutta la sua imponenza da ogni parte del borgo eugubino; una massa bianca, un cubo astratto calato dall’alto, noncurante della trama urbana che lo circonda”.

“Esso” è il Palazzo dei Consoli a Gubbio e chi scrive è Qfwfq sul blog amatelarchitettura, che dipinge uno spericolato e surreale quadro in cui equipara esso Palazzo, che è in realtà un complesso di due palazzi con una piazza pensile, alla Casa della Musica di Rem Koolhaas a Porto.

Prima di verificare l’autenticità del quadro è bene chiarire, nel caso qualcuno avesse dato una lettura troppo veloce al post di amatelarchitettura, che l’autore gioca tutto in chiave estremamente ironica, talora irridente, con un forte gusto per il paradosso, per significare che la rottura rispetto al contesto del progetto di Koolhaas, è assolutamente paragonabile a quella del Palazzo dei Consoli a Gubbio e che i due edifici hanno caratteristiche del tutto analoghe sia dal punto di vista architettonico che nei confronti della città.



Tutto il ragionamento, che è molto efficace sul piano comunicativo, con quel giocare sull’equivoco e con l’uso sapiente di quelle immagini allegate piuttosto che altre, vuole portare il lettore alla conclusione che “nihil sub sole novi”, che la figura dell’architetto è sempre la stessa, che Gattapone (l’architetto eugubino) non era altro, in fondo, che l’equivalente delle nostre archistar, nello specifico Koolhaas, che la molla che l’ha spinto a fare un edificio così imponente è lo stesso egocentrismo che ha guidato il nostro contemporaneo e furbissimo olandese teorizzante, e che il potere, quando è potere vero, quando cioè può e non solo aspira a potere, si rappresenta con gli stessi simboli di potenza, con l’eccezionalità e la rupture rispetto al contesto. Pompidou e Mitterand ne sono l’esempio migliore nel nostro tempo.
Inoltre vuole veicolare il messaggio che la città si è sempre trasformata, non è mai stata uguale a se stessa (e qui niente da eccepire), ma che l’ha fatto anche attraverso architetture violente, di opposizione e non in armonia con il tessuto e la trama urbana. E’ solo dal contrasto, dalla diversità, dalla rottura dell’armonia, sembra dire Qfwfq, che nasce la singolarità del progetto e quindi la manifestazione del potere, che diamine!

Anche se lo spirito di Qfwf è provocatorio al limite del goliardico (termine cui non attribuisco alcun significato negativo, anzi), tuttavia fa affermazioni impegnative e quindi una verifica sui contenuti vale la pena di farla.
Dalla citazione in testa al post emerge subito che l’errore di fondo è quello tipico di chi ha l’abitudine di valutare l’architettura come fatto autonomo, di fermarsi al massimo allo skyline, all’immagine cartolina, di non considerare come fondamentali le relazioni urbane. Quello del post è cioè un giudizio suggestivo e impressionistico, che però è fuorviante in questo caso. Guardiamo la foto che segue:

Il complesso Palazzo dei Consoli-Piazza pensile-Palazzo dei Priori, che Qfwfq vede come sopraelevato rispetto alla strada a valle (ed è sopraelevato), è però, prima di tutto complanare alla strada a monte, cioè via Dei Consoli, che a giudicare dalle foto sembra una strada di mezzacosta e comunque la strada maestra, la più importante in senso longitudinale. E seguiamo l'altra strada importante, la via Perugina,  che dal parcheggio in basso al centro si dirige verso nord-est fino a concludersi, nel lato est del Palazzo dei Priori, proprio in via Savelli, la parallela a valle di Via dei Consoli, e a questa collegata con la scalinata della foto che segue, oltre che con l’altra opposta che immette sulla piazza passando sotto il porticato del Palazzo dei Consoli:
Cosa significa tutto ciò? Significa che il complesso è collocato al centro della città, perfettamente integrato nel tessuto urbano e il forte dislivello tra le due strade longitudinali, ben visibile nella foto, è stato risolto con una piazza pensile che costituisce copertura per ben due piani di edificio. Quale migliore inserimento contestuale avrebbe potuto esserci? Come si può affermare che è “noncurante della trama urbana”!
Quali attenzioni maggiori avrebbe potuto avere un architetto, non un’archistar, cioè Gattapone, per la situazione pre-esistente?

Questo è un capolavoro di Genius loci urbano, altro che “strappo” al genius loci. Questa è una meraviglia di adattamento alla geografia e alla morfologia del terreno, alla trama della città, con un’architettura forte e rappresentativa come si conviene alla committenza, che è poi la città stessa.
Un complesso come questo dovrebbe essere fatto studiare in facoltà proprio per mostrare come risolvere il tema di una spazio pubblico urbano, un tema collettivo come lo chiama Marco Romano, in presenza di dislivelli di questo tipo, riuscendo a dare grande dignità architettonica e simbolica agli edifici pubblici rappresentativi.
Altro che invenzioni, queste sì astratte, da archistar!

Senza tante analisi, peraltro da me improvvisate sulla foto aerea e con le immagini di street-view, quindi suscettibili di errore, il colpo d’occhio della foto aerea non rimanda alcuna immagine di discontinuità rispetto alla trama viaria.
Ma aggiungo di più: questa grande “massa bianca”, questo “macigno alto 50 metri", questo “cubo astratto calato dall’alto”, lo si osservi in relazione agli edifici su via de Consoli:
E si osservi la bella foto a inizio post tratta da Estetica della città di Marco Romano.
E’ così sproporzionato come ci vorrebbe far credere l’articolo? Certo, nei confronti della parallela strada a monte c’è da aggiungerci tutto il dislivello tra la piazza e la strada, che è notevolissimo e corrispondente a due piani, ma è nella logica di costruire su terreni scoscesi. Per fare un esempio, si prenda Pitigliano:
Si può dire forse che quegli edifici aggrappati allo strapiombo tufaceo sono opere da archistar? No, non sono neppure di architetto, sono edilizia di base costruita adattandosi spontaneamente alla morfologia del terreno, in questo caso per chiari motivi difensivi. Se si passeggia dentro Pitigliano, gli edifici hanno altezze di due, massimo tre piani! Ma da fuori sono necessariamente fuori scala, “macigni” di ben oltre 50 metri.

Certo che l’edificio di Gubbio svetta sulla città, al pari di qualsiasi cattedrale o palazzo pubblico in città collinari. Basta guardare la successiva immagine di Arezzo, la mia città, tratta dagli affreschi di Piero della Francesca per rendersene conto; ma non ce ne sarebbe bisogno, lo sanno tutti che è così. Il potere si rappresenta in maniera adeguata alla sua importanza: talvolta svetta quello laico, talvolta quello ecclesiastico, in altri casi i due tentano di conservare un equilibrio.
Esaminiamo adesso velocemente, perché non merita troppo tempo, il progetto di Koolhaas a Porto e a dire il vero sono in imabarazzo a fare un accostamento di questo genere, perché quand’anche Koolhaas l’avesse progettato avendo in testa Gubbio, e ne dubito fortemente, sarebbe venuta fuori una parodia, e credo che basti guardare la foto aerea per rendersene conto:
Questo è distillato di opera di archistar dove è impossibile, perché espressamente rifiutata, trovare qualsiasi relazione con il tessuto viario ed edilizio esistente. Questo progetto vive solo di fotografie che escludono tutto il resto, solo foto dal basso e ravvicinate, solo dettagli fotografici che esaltano spezzoni di “geometrie astratte” completamente strampalate e, tra l’altro, anche abbastanza sgradevoli.
Come è possibile che in un commento abbia letto che è impressionante la somiglianza tra i due edifici! L’unica somiglianza sta…nelle dimensioni, nel volume (nel senso di cubtaura, non in senso spaziale). I due edifici non potrebbero essere più diversi da come sono.

Morale? Questo post è una risposta agostana ad un post volutamente eccessivo, ritengo, che però sottende una visione dell’architettura e della città impostata sugli oggetti, sulla cultura dell’invenzione fine a se stessa e svincolata da ogni relazione urbana. Sull’esaltazione inutile, sbagliata e dannosa dell’architetto.
Tuttavia, io credo che chi scrive su un blog come amatelarchitettura, che ha un bel seguito di giovani architetti, che ha molti meriti nel trattare argomenti professionali di grande attualità, che non si limita a scrivere ma che organizza convegni, incontri, iniziative di vario tipo, che ha come co-autori colleghi impegnati in prima persona in istituzioni quali la Cassa di Previdenza e l’Ordine, che sono, in un certo senso e magari contro la loro volontà e intenzione, quasi una istituzione di carattere professionale e culturale, dovrebbero essere un po’ più prudenti nello spingersi in impossibili paragoni del genere, anche se ironici e paradossali. Vorrei sapere quanti invece hanno condiviso il messaggio letterale e non quello forse un po’ troppo sottile dell’allusione che lascia però margini per ritenere che, tutto sommato, il paragone ci potrebbe stare e che Koolhaas vale Gattapone e che quindi, se le nostre città antiche sono così belle è merito della mentalità da archistar. Questo non è assolutamente vero ed è fuorviante.

Dimenticavo una cosa importante, anzi fondamentale: informo chi non lo sapesse che la piazza dei Consoli ha costituito l’ambientazione di ben due serie TV: Don Matteo e Ho sposato uno sbirro.
Potrà essere astratto un luogo che viene utilizzato come sfondo per quanto di più nazional-popolare e ad uso familiare venga prodotto in TV?
Registi, sceneggiatori e soprattutto scenografi sanno bene quanto l’ambientazione sia fondamentale rispetto al tema e al target di pubblico di un film, specie una serie TV, e a Porto, al massimo, in quello spiazzo indistinto e vuoto, nonostante la cubatura considerevole,avrebbero potuto girarci la fiction “Ho sposato un alieno”.

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6 agosto 2012

CAMILLO LANGONE SUL MAXXI

Preghiera di Camillo Langone sul Maxxi e Zaha Hadid in genere:

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30 luglio 2012

LA MORTE DELLA CULTURA URBANA

Si può sempre apprendere qualcosa da altri popoli, da altri gruppi e farlo proprio, ma ogni sistema culturale integra comportamenti estranei soltanto se questi non sono in contraddizione con il modello di base , se non ne altera la “forma” significativa. Gli studi compiuti dai maggiori antropologi in questo campo sono ormai dei classici, impossibili da mettere in dubbio. Da Boas a Kroeber a Benedict a Mead a Malinowsky a Leroi-Gourhan, non c’è chi non abbia dedicato la maggior parte delle sue ricerche a scoprire e verificare il funzionamento del “sistema significativo” che sostiene ogni modello culturale.
Il risultato è sempre lo stesso, e non avrebbe potuto non esserlo visto che la “cultura” è il fattore naturale che contraddistingue la specie umana e ne guida i comportamenti. Ogni modello culturale possiede una “forma”, nel senso gestaltico del termine, e rigetta perciò gli elementi estranei non compatibili, in analogia con il sistema immunitario di sorveglianza e di identificazione con il quale li rigetta l’organismo biologico. Non appena, quindi, viene meno la reazione di rigetto e il sistema comincia a lasciarsi invadere da elementi appartenenti a sistemi diversi, inizia il suo itinerario verso l’estinzione e manda il tipico segnale che l’antropologo percepisce come “etnologico”: segnale di pseudo vita, di “vita morte”….”
.


Questa è una parte del testo con cui Ida Magli, nel suo atroce ma rivelatore libro Dopo l’Occidente, BUR, descrive il metodo attraverso il quale modelli culturali appartenenti a sistemi diversi entrano in contatto tra di loro e come uno di essi può soccombere fino ad estinguersi.

Non sono l’architettura e l’urbanistica al centro dell’attenzione del libro, essendo invece un grido di dolore con poche speranze sulla fine dell’Occidente e della sua cultura secolare, ad iniziare dall’Europa, l’anello più debole della catena, ma i richiami all’arte, all’architettura, alla storia, alla letteratura, al pensiero filosofico europeo e a quello italiano in particolare sono frequenti ed accorati perché i popoli d’Europa si risveglino ed evitino l’estinzione, minati come sono da una cultura di morte per avere perso ogni legame con la tradizione, con il proprio passato, con i legami familiari, con la propria religione, con tutto il suo patrimonio culturale, con il comune buon senso.

Non si occupa di città Ida Magli ma, pur non essendo certo io esperto di antropologia, come pensare che la città, come tutti gli insediamenti umani, non faccia parte del patrimonio culturale dei popoli, se è vero che la città è l’ambiente creato dall’uomo per potervi sviluppare tutti i propri rapporti sociali? Si può dire che la città è il luogo della società. E allora come non osservare i cambiamenti che le città hanno avuto negli ultimi cento anni, e nel nostro caso negli ultimi sessant’anni, grazie ad un “modello culturale” ad essa prima estraneo e di “forma” completamente diversa e volutamente a quello opposta!

L’annientamento della strada, prima di tutto, con la perdita delle sequenze spazio-temporali di quel continuum che era la città precedente, a vantaggio di uno spazio sincopato e frammentato, disegnato esclusivamente per il mezzo meccanico, per l’auto soprattutto, e costituito da zone tra loro separate e ciascuna monofunzionale e super specializzata.
La perdita quindi della ricchezza delle relazioni umane, della varietà delle azioni da compiere nell’arco dell’intera giornata.
La perdita della scoperta continua di situazioni e della possibilità di azioni diverse che accadono nell’arco spazio-temporale di qualche centinaio di metri e della stessa giornata, una variazione dei rapporti umani improntati alla regola della “uniformità nella diversità”, al pari delle abitazioni dell’edilizia di base, ciascuna con le medesime caratteristiche tipologiche eppure ognuna morfologicamente diversa dall’altra per la variazione di pochi elementi architettonici.

Cosa ha a che vedere una città-organismo in cui ogni parte è in relazione al tutto e dove l’insieme delle varie parti è ben più della somma delle stesse, con un modello frammentato, esploso, splittato in cui le singole parti sono relazionate alle altre solo con strade adatte alle automobili, impraticabili a piedi, e dove l’insieme, l’organismo, non esiste perché ogni parte funziona (male) separatamente dall’altra?

Cosa ha a che vedere un modello di città denso caratterizzato dalla pluralità di funzioni, dalla prossimità, intesa in senso spaziale, funzionale e simbolico, con un modello in cui ad ogni zona corrisponde una sola funzione e per assolvere a più funzioni nell’arco della giornata è necessario spostarsi con il mezzo meccanico? La prima città in un certo senso si muove con il cittadino, perché il suo fluire continuo ti accompagna ovunque; la seconda è immobile e gli abitanti devono spostarsi in massa da un luogo all’altro: se si bloccano gli spostamenti in auto, la città non funziona più, si paralizza. Paradossalmente i due estremi ingorgo-blocco del traffico producono lo stesso risultato: la paralisi della vita urbana.

Cosa ha a che vedere un modello di città caratterizzata da fronti continui che racchiudono la strada, lungo la quale si sviluppa la vita di relazione, con quello di una somma di edifici scollegati tra loro, tenuti insieme da vuoti informi, da verde di tutti e quindi di nessuno e/o da parcheggi, entrambi destinati presto a diventare luogo di degrado?
Il secondo modello, totalmente estraneo e diverso dal primo, è figlio di una cultura diversa, immessa a forza nel sistema culturale esistente da una macchina propagandistico-culturale straordinaria, che si è impadronita di quella precedente, ma ha iniziato “il suo itinerario verso l’estinzione e manda il tipico segnale che l’antropologo percepisce come etnologico”, cioè quello di una cultura morta. Questo fenomeno è già certamente avvenuto nella mente degli architetti, cioè di coloro che insieme alla politica, al mondo accademico, ai media avrebbero avuto il compito di capire in tempo cosa stesse accadendo e di porvi rimedio. Ma così non è stato e così non è tuttora, anche se vi sono segnali, deboli e incerti che vanno nella direzione opposta.

Segnali confusi però in mezzo a molti altri segnali, non sbagliati in se stessi, ma il cui forte rumore mediatico finisce per coprire i primi:
• la "smart-city", sistema tecnologico fors’anche utile, ma di secondo o terzo livello, solo software, quando la città invece è hardware, è forma delle varie parti relazionate tra loro. Una città funziona se la sua forma è giusta e i sistemi tecnologici sono utili supporti che, da soli e in presenza di una forma non idonea, poco o niente possono risolvere. Al pari di una abitazione, in cui ciò che conta è il tipo, gli spazi interni che la definiscono, la materia con cui è costruita, non gli impianti, avanzati quanto si vuole, ma che possono essere cambiati o migliorati in ogni momento.
•la città “sostenibile” o “green”, concetto generico entro cui ci sta tutto e il suo contrario. Non è certamente sostenibile per la sola presenza di un po' fotovoltaico, è sostenibile se il risparmio energetico deriva dalla sua forma, cioè se è pedonabile non per decreto del Sindaco ma perché è compatta ed è possibile accedere alla gran parte delle funzioni di uso quotidiano senza la necessità dell’auto.

In questi segnali non è difficile leggere il marchio delle lobbies industriali e commerciali che hanno tutta la convenienza a lasciare le cose come stanno, cioè a conservare la morta città attuale, per vendere i loro prodotti salvifici. Il mondo della cultura urbanistica non deve lasciarsi distrarre da queste idee, continuamente e ossessivamente veicolate dai media, che allontanano la ricerca della soluzione, per cadere ancora una volta nella trappola tecnicistica, dopo quella dello zoning che favoriva prima e adesso obbliga all’uso esclusivo e massiccio dell’auto.

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26 luglio 2012

COME TRARRE GUADAGNO DALLE TRAGEDIE NATURALI

Come trarre guadagno dalle tragedie naturali – evoluzione di un metodo … da L’Aquila a Ferrara via Roma
di
Ettore Maria Mazzola

Qualche mese dopo la tragedia che colpì l’Abruzzo l’Italia intera si indignò nell’apprendere delle intercettazioni telefoniche dei “furbetti del quartierino” che si fregavano le mani al pensiero di come avrebbero potuto trarre grossi guadagni dalla ricostruzione delle zone terremotate.
Sappiamo tutti come andata … o non è andata a finire, quindi, fermo restando il mio pensiero per quelle povere persone – che praticamente sono ancora in mezzo a una strada – e per quei centri storici ancora in attesa di essere ricostruiti com’erano e dov’erano, passo ad esprimere la mia solidarietà per gli amici emiliani e romagnoli … ma anche veneti e lombardi dimenticati dallo Stato. Il mio pensiero va a loro non solo per ciò che hanno subito e ciò che hanno perso, ma soprattutto per ciò a cui andranno incontro.
Avrei voluto scrivere da tempo su questo argomento, se non altro per esprimere la mia solidarietà verso quel popolo laborioso ed allegro, popolo che, all’indomani del sisma, è stato in grado di dare una lezione di umanità e di ingegnosità a tutta la nazione.

Quando avvenne la prima scossa ero in aereo, stavo volando verso Portland. Arrivato in albergo lessi l’orribile notizia e scrissi subito ai miei carissimi amici e colleghi Fabio e Luca, che vivono in quei luoghi, volevo sincerarmi che loro e i loro cari stessero bene. Mi ero ripromesso di scrivere, di dare una mano in questo difficile momento, ma tra gli impegni professionali e accademici, e la preoccupazione per mia madre che il 19 aprile ha subito un difficilissimo intervento chirurgico cui è seguito un vero e proprio calvario, a causa delle infezioni contratte nella schifossissima clinica dove ha fatto la riabilitazione, calvario non ancora terminato, ho colpevolmente mantenuto il silenzio.
Stamane però, dopo aver letto il breve e drammatico articolo di Maria Ferdinanda Piva pubblicato ieri su “Informare per Resistere”, non ho potuto più tacere. Non importa quanti pensieri e problemi possa avere in questo momento, non c’è pensiero o problema che possa impedirmi per spendere mezz’ora per scrivere il mio disgusto per questa orribile faccenda che va fatta conoscere meglio all’Italia intera.
Per un approfondimento, questo è il link al breve articolo della Piva che suggerisco a tutti di leggere:

Speciale terremoto. Ricostruzione, si arrangi chi può

La Piva inizia, e termina, il suo articolo dicendo “Si arrangi chi può”.
Nel breve testo l’autrice racconta – o meglio lascia che a parlare siano gli articoli di legge emanati dal “governo tecnico” – di come i fondi stanziati siano meno di ¼ di quelli realmente necessari, e di come la ricostruzione debba avvenire a spese dei terremotati che, se saranno fortunati, nell’arco di 4 anni potranno recuperare circa il 25% delle spese sostenute!
La Piva denuncia:

«La condanna a morte dell’economia emiliana nelle zone terremotate è contenuta nel decreto legge n.74 del 6 giugno scorso (il “decreto ricostruzione”) corredato dal decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 4 luglio per la ripartizione dei fondi fra le regioni colpite dal sisma: perché se è vero che l’Emilia è di gran lunga la più colpita (riceverà, almeno per ora, il 95%), ci sono stati danni anche in Lombardia e in Veneto».
In pratica, se gli emiliani e i romagnoli possono sperare in un recupero parziale ridicolo, lombardi e veneti possono scordarsi anche quello!

Ma chi ha perso tutto non ha i soldi per autofinanziarsi la ricostruzione di ciò che aveva, sicché dovrà indebitarsi, con i tassi che conosciamo, presso le banche, per cui quel margine di “rimborso” del 25% risulterà insufficiente a coprire nemmeno gli interessi vergognosi che si dovranno versare per il mutuo o il prestito ottenuto.

Ecco dunque il salto di qualità operato dai nostri “amati” tecnici. Non ci troviamo davanti all’intercettazione di una telefonata tra due impostori trogloditi che pensano a come sfruttare l’occasione della tragedia abruzzese per i loro sporchi guadagni, ci troviamo davanti alla più che legale emanazione, da parte di un blasonato gruppo di luminari dell’economia italiana – che occupa senza essere stato eletti dagli italiani le poltrone da cui si decide il futuro del nostro Paese – di due Decreti atti a promuovere (se ancora ce ne fosse stato il bisogno) gli interessi delle banche a discapito della cittadinanza in difficoltà.
Un ingenuo si chiederebbe: come mai? … chi conosce il “blasone” dei luminari sa invece darsi una risposta immediata!

La cosa, ovviamente, non riguarda solo chi deve ricostruirsi una casa, ma anche i tanti, splendidi, imprenditori di quell’area che tanto peso hanno nel fottutissimo PIL dello Stato. Quegli splendidi imprenditori danno da lavorare a tantissime famiglie … ma il nostro “cattolicissimo” Stato, e il nostro “cattolicissimo” Presidente del Consiglio se ne strafregano dell’operosità di quella gente, nonché del disastro socio-economico di quelle famiglie.
… Nonostante le manifestazioni di facciata, nella nuova scala di valori della “cattolicissima Italia”, le famiglie risultano collocate in una posizione di gran lunga inferiore a quelle di testa, occupate da banche e multinazionali.

Riusciremo mai a svegliarci da questo incubo?


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18 giugno 2012

KOOLHAAS L'IMMOBILISTA

Le città cambiano ed è impossibile arrestare il processo in quanto la città è un organismo e come tale nel tempo, inevitabilmente, cambia”. Farei mia questa frase, la sposerei come si dice, se non fosse uscita dalla bocca e dalla mente di Rem Koolhaas , e allora è necessario ricorrere al pregiudizio in base al quale le parole non hanno sempre un significato oggettivo ma assumono significati diversi in base a chi le pronuncia. E’ un fenomeno abbastanza noto in politica che puntualmente si ripete.

Analizziamo la città-organismo, nella versione di Koolhaas. Questi si appella alla città come organismo per giustificare il suo progetto al Fondego dei Tedeschi a Venezia, accusando implicitamente gli oppositori di quel progetto di essere immobilisti e conservatori. Artificio retorico molto abile ed efficace perché utilizza un argomento proprio della tradizione per far passare l’idea di un progetto che invece la nega.
Mossa doppiamente abile, in quanto la sua metafora fa ricorso ad un attributo che effettivamente un organismo vivente possiede - e la città con i suoi edifici è un organismo vivente - vale a dire quello della “crescita”, facendo però ben attenzione a tacere l’altro fondamentale attributo, cioè quello del “modo” in cui ogni organismo cresce.

La natura ha previsto determinate regole per ogni specie, animale o vegetale, in base alle quali, ad esempio, un uomo nasce in un determinato modo e poi cresce formalmente uguale a se stesso ma con proporzioni e dettagli del tutto diversi. Poi ci sono specie che hanno un’altra storia, quali la metamorfosi, ma tutte hanno comunque un cambiamento prestabilito. Esistono poi variazioni e modificazioni significative così come esistono le malattie, anch’esse da considerare naturali ma tuttavia da debellare in quanto considerate “patologia” e non “fisiologia”.

Il progetto architettonico, e quindi il suo prodotto, l’edificio, appartiene in qualche misura alla natura in quanto opera dell’uomo, non come espressione di una legge, con tutte le sue eccezioni, non come prodotto di combinazioni genetiche in cui sta scritta, in buona misura, la storia futura di un organismo, bensì della sua volontà, del suo pensiero, dei suoi bisogni, della sua libertà di scelta come singolo individuo o come collettività. L’edificio quindi cresce, e deve crescere, anche nel senso di trasformarsi, al pari un organismo, per dare risposta a stimoli, necessità e scelte dell’uomo e della collettività.

Detto questo si potrebbe dunque dedurne che se la volontà dell’uomo, le condizioni esterne della società, la libertà di scelta, detto in una sola parola: la sua cultura è l’elemento caratterizzante la crescita di un edificio, è l’uomo stesso e non la natura direttamente a decidere, e questa scelta potrebbe essere dunque indifferentemente una crescita armonica e senza soluzione di continuità oppure una crescita dissonante e di rottura con ciò che esiste, questo in base a diverse scelte, culturali appunto, variabilida soggetto a soggetto. Ed effettivamente è così che avviene ed in maniera intensiva e diffusa da almeno un secolo, e Rem Koolhaas fa appello proprio a questo metodo di crescita dell’edificio di Venezia, che trova la sua ragion d’essere nella libera scelta del progettista, nella sua “sensibilità” e creatività, nel suo capriccio in fondo.

Prima della rottura del novecento non era questo il metodo di crescita degli edifici e della città. La città e gli edifici che la compongono crescevano con forme e metodi costruttivi determinati in massima parte dalla “coscienza spontanea”. Scrive Gianfranco Caniggia in Lettura dell’edilizia di base, Alinea Editrice:

Al confronto con altri comportamenti non antropici, nel campo della biologia o della struttura della materia, possono notarsi sorprendenti analogie. Riteniamo che ciò non debba stupire poiché l’uomo non è “altra cosa” dal mondo della natura, non ne sta al di fuori: il suo modo di organizzare l’ambiente è sostanzialmente fondato sui medesimi presupposti e sulle medesime leggi che governano i processi biologici unitamente ai processi di progressiva formazione e mutazione della materia. In sostanza , quando l’uomo agisce, si assume il carico di partecipare al sistema di globale del divenire di tutta la struttura del reale, quindi è intrinsecamente “naturale” anche quando attua le sue strutturazioni dotate di un alto grado di “artificialità”: lavora sulla materia che esiste, e non può che aderire, anche se non lo sa e non lo vuole, alle leggi formative della natura”.

Ecco, il punto è questo: Koolhaas non aderisce “alle leggi formative della natura”. O meglio, vi aderisce (nessuno può sfuggire a questa regola, anche se lo volesse), ma alle leggi del genere “malattie” o “virus” come li chiama Nikos Salìngaros, di qualcosa di estraneo o anomalo alla legge della crescita di un organismo.
Lo spiega bene proprio Nikos Salìngaros in Anti architettura e Demolizione, LEF, 2008:

Gli scienziati non sono ancora giunti ad un accordo definitivo sulla reale essenza della vita, tuttavia vi è un crescente consenso sulla natura dei processi che ne costituiscono il fondamento. Alcune delle caratteristiche salienti sono:
1) La vita è imperniata su connessioni e trame.
2) La vita è una “complessità organizzata”, una potente miscela di regole e contingenza, ordine e spontaneità.
3) La vita non può essere definita mediante equazioni matematiche tradizionali ceh pretendono di dare “una risposta”; ma è qualcosa di più che una rivelazione, paragonabile all’azione espletata dal programma di un computer.
4) La vita è un algoritmo genetico che crea e sviluppa complessità organizzata durante l’apprendimento.
5) E la vita non è soltanto complessa, ma – in modo ancora più misterioso, forse – è ordinata, mostrando una gamma di simmetrie davvero ampie
”.

Oggi è l’architetto, cioè un solo soggetto, che decide come la città deve crescere, ma prima era la comunità, come somma di singoli individui, a decidere. A questo proposito riporto, proprio su Venezia, un passo dalla relazione al concorso “Ridisegnare Venezia”, di G. Caniggia, messo gentilmente a disposizione in rete da Giancarlo Galassi:

La chiave della vitale complessità, e della duttilità del costruito veneziano sta nel suo processo formativo: nell’edilizia autenticamente di base e non in quella progettata. Non è lecito confondere: il “progetto” che “dietro i palazzi”, e, aggiungiamo, prima dei palazzi ha conformato Venezia è un grande evento collettivo, una illimitata schiera di “vite edilizie” che nello spazio di più di un millennio si è esercitata nella costruzione della città: progetto che è lontano dal piccolo numero di unità unitariamente progettate, quanto il progetto che ha fatto Roma è lontano dall’Esquilino o dal Testaccio, che ne sono una mera proiezione inficiata da intenzionalità devianti.
Di qui il nostro modo di intendere il “progetto come processo”, che vogliamo esercitare rivolgendoci alla rilettura critica della processualità di formazione-mutazione del costruito veneziano. Accettando il paradosso evidente, consistente nell’interpretare l’atto simultaneo del “progetto” per la Giudecca come prodotto di una successione storica di un costruito mutante, servendosi della “simulazione del processo” sia nell’assetto del tessuto che nel progressivo raggiungimento del costruito. E’ ciò che intendiamo col motto “progetto come processo”: attraverso la simulazione del processo cerchiamo una garanzia di connessione con un tessuto urbano derivato da un lungo processo di mutazioni che (nella misura in cui saremo riusciti a capire criticamente la successione di fasi e i caratteri determinanti e quindi nei limiti delle nostre capacità di approfondimento della lettura di ciò che è realmente avvenuto) chiamiamo a guidare il nostro progetto
”.

Koolhaas potrà dunque progettare come vuole, potrà fare tutti i gesti che desidera, la sua libertà di scelta glielo permette, ma di certo non solo non stabilirà alcuna “connessione” con ciò che esiste (e questo non lo desidera nemmeno) ma avrà determinato una crescita anomala e malata dell’organismo originario, avrà cioè prodotto una patologia.

Quindi non c’è immobilismo nella tradizione e nel rispetto dei caratteri originari dell’edificio. Non so se il Fondego sia adatto ad una attività commerciale, ma suppongo di sì - e forse è anche utile un riuso prima che l’edificio decada per abbandono – perché, citando ancora Caniggia:

Occorre infatti ricordare sempre che l’edilizia può avere una durata indefinita, e la sua corrispondenza ad esigenze attuali non deve impedire il progressivo adattamento al mutare delle condizioni civili”.

Non sarà immobilista invece l'atteggiamento di Koolhaas e di tutti quelli come lui che hanno una sorta di coazione a ripetere gli stessi schemi, gli stessi atteggiamenti ovunque e comunque, senza un minimo di lettura ed interpretazione del corpo vivente in cui operano?

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14 giugno 2012

GABRIELE TAGLIAVENTI SULLA RICOSTRUZIONE IN EMILIA

Il Prof. Arch.Gabriele Tagliaventi, docente alla Facoltà di Architettura di Ferrara, ha scritto un articolo che qui linko sul dov'era e com'era, riferito al terremoto in Emilia.
Gabriele è certamente più colpito e più parte in causa di altri in quanto emiliano e quindi legato ai luoghi e alla sua gente.



Sullo stesso tema un mio recente post:

COM'ERA E DOV'ERA

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6 giugno 2012

UNA GENIALE INTUIZIONE SU ARCHIWTACH

Un post di Manuela Marchesi su Archiwatch che avrei voluto fare io:

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31 maggio 2012

L'IMCL DI PORTLAND PREMIA IL BORGO CORVIALE DI E.M.MAZZOLA

Questa è dunque la prima accusa che noi formuliamo contro di voi: l’iniquità dell’odio vostro per il solo nome di tradizionalista. Quella stessa ragione che sembra scusare la vostra iniquità, in realtà l’aggrava e la refuta: voglio dire l’ignoranza. Che cosa infatti di più iniquo per gli uomini dell’odiare una cosa che ignorano, anche se è meritevole di odio? Essa non merita il vostro odio, se voi non sapete che lo meriti. Se la conoscenza di ciò che essa meriti fa difetto, come difendere la fondatezza di un odio, che non può essere provato dal fatto, ma dalla intima conoscenza? Quando gli uomini odiano perché ignorano quale sia l’oggetto del loro odio, non può allora darsi che esso sia tale da non meritare d’essere odiato? Così dunque noi contestiamo ambedue le cose, e l’una con l’altra, la loro ignoranza di ciò che odiano e l’ingiustizia di un odio per ciò che essi ignorano”.

Questo splendido e incalzante atto di accusa è tratto dall’Apologeticum di Tertulliano, ma con l’introduzione, da parte mia, di una pesante e strumentale mistificazione: al posto di “tradizionalista”, nel primo periodo, l’oggetto dell’odio cui l’autore si riferisce è il “cristiano”.


Intanto è bene chiarire che non voglio apparire per quello che non sono, cioè Umberto Eco, ma devo solo ringraziare la lunga serie economica del Corriere della Sera (1 euro) di classici greci e latini della BUR.

Certo che, fatte le dovute proporzioni, l’ostracismo da parte del mondo accademico e della cultura urbanistica dominante del nostro paese nei confronti di chi si occupa di architettura e urbanistica tradizionale, nell’insegnamento come nella professione, presenta caratteri qualitativamente analoghi e congruenti con quelli del brano: l’odio preconcetto nei confronti di ciò che non si conosce e/o non si vuole conoscere e riconoscere. Si è mai visto un concorso di architettura non dico vinto, ma che abbia presentato nella rosa di premiati o segnalati almeno un progetto ispirato alla tradizione o alla classicità? Niente sforzi, non lo trovereste. Ho sempre pensato invece che, in assenza di un pregiudizio ideologico, in un concorso non dovrebbero essere premiati progetti sostanzialmente uguali o dello stesso genere, come invece accade, ma, tra quelli meritevoli, una gamma di soluzioni proposte, una selezione rappresentativa di varie idee e tendenze. Questo dovrebbe essere lo scopo di un concorso: esaltare le differenze, oltre che premiare il progetto migliore. Così non è. In Italia però, perché altrove invece la situazione è molto diversa.

E così accade che un progetto di rigenerazione urbana in cui al posto di un “gratta terra”, quale il Corviale a Roma, ha ricevuto un prestigioso premio negli USA, a Portland, Oregon, da parte dell’International Making Cities Livable. Il progettista è naturalmente l’amico Prof. Arch. Ettore Maria Mazzola.

Non sarò io a raccontare i dettagli della 49th International Making Cities Livable Conference on True Urbanism: Planning Healthy Communities For All & Exhibit on Successful Designs For Healthy Inclusive Communities, durante la quale è stato presentato il progetto da Mazzola ed è stato consegnato il premio, perchè non c’ero.

C’è invece il link al resoconto che mi ha mandato E.M. Mazzola, che offre un quadro più ampio del contesto in cui il riconoscimento si è inserito.

Io ho linkato un video e, soprattutto, insisto su questa palese contraddizione che dimostra il chiuso provincialismo accademico di casa nostra: c’è un progetto diverso, assolutamente diverso da quelli che generalmente circolano nelle riviste (quali non saprei, dato che oramai sono tutte scoppiate sotto il peso di internet e della loro noiosissima ripetitività) o in internet o nelle varie sagre dell’architettura dove invece che la porchetta si espongono progettifici industriali in serie; ammetto, come fa Tertulliano, che questo progetto possa anche essere “meritevole di odio” ma perché non mostrarlo, non cercare di capirlo? “Che cosa infatti di più iniquo per gli uomini dell’odiare una cosa che ignorano”.


Se si è così sicuri che esso progetto, una volta conosciuto, divulgato, reso pubblico, diventato oggetto di discussione, sarà disprezzato dai più, perché allora ignorarlo, non volerlo conoscere, tenerlo nascosto? Quanto più grande sarebbe la vittoria una volta che il giudizio sul progetto fosse unanimemente negativo in quanto consapevolmente e criticamente riconosciuto come sbagliato, non adeguato, peggiore addirittura di ciò che vuole andare a sostituire!

Invece….niente, non accade niente. Il metodo prevede il silenzio e il disconoscimento della esistenza stessa di quel progetto. Possibile che, tra le tante cazzate (unico termine adeguato al caso) che non lasciano tracce di sé tra quelle che si presentano in convegni, seminari, mostre, lezioni universitarie, mai una volta che un progetto diverso come quello del Borgo Corviale non possa trovare un perfido critico o docente che se la senta di sputtanarlo pubblicamente invitando il suo autore? Sarebbe una grande soddisfazione, per il perfido critico, ovviamente. Non è forse degno quel progetto, almeno per la sua veste grafica, di mettere piede nel sacrario di un’aula universitaria?

Sia chiaro, E.M. Mazzola non ha bisogno di entrare in un’aula dell’Università pubblica italiana per dimostrare le sue capacità, tanto meno per essere legittimato. Altrove fuori d’Italia il suo lavoro è apprezzato e parecchio, e non mi riferisco solo al Premio a Portland, ma ad altre situazioni quali la Biennale di Architettura Classica e Tradizionale di Mosca, cui Ettore partecipa con 12 pannelli dedicati ai progetti per il Corviale e per lo Zen di Palermo in Russia, e ad altre ancora su cui adesso è opportuno non insistere.

Il fatto è che, parafrasando Martin Luther King, I have a dream: che non esistano le Biennali di Architettura Classica e Tradizionale e le Biennali di Venezia, che non hanno attributi dichiarati, ma che di fatto sono a senso unico, anche se dicono di mettere in mostre varie tendenze. Non è vero, mettono in mostra variazioni della stessa tendenza.
Questa non è cultura, semplicemente è “ignoranza di ciò che odiano e l’ingiustizia di un odio per ciò che essi ignorano”.


P.S.
Riporto di seguito il commento che memmo54 ha lasciato sul blog Archiwatch di Giorgio Muratore, nel post dedicato proprio al premio in oggetto. Mi sembra colga un punto essenziale ma spesso trascurato dell'odio per la tradizione da parte della cultura ufficiale:

"Ciò che non si perdona ad Ettore è l’assoluta mancanza di riferimenti “illustri” recuperati tra i maestri internazionali. Quelli citati sulla vulgata bibliografia che ogni architetto pone innanzi a se come dichiarazione d’appartenenza
Non una citazione di alcun personaggio di spicco: non si intravede Mis Vanderrò, non si scorge Gropìus, tantomeno Le Curvasier.
Difetta anche di Dudok, Asplund, Bonatz, Oud, De Klerk ud ed altri nordici.
Ciò è letteralmente imperdonabile.
Ci si può ispirare al più lontano maestro islandese , finlandese, lappone, swahili o polinesiano..
Chiunque è benvento ed apprezzato: riconosciuto ed omaggiato.
La storia di tutti (…indistintamente “tutti”…di tutte le epoche di qualsiasi tendenza e/o ispirazione) è seriamente ed ampliamente considerata nonchè apprezzata.
Quella propria no !
Robetta, minuzie di cui non vale la pena interessarsi.
Stanche rimasticature beaux arts… al massimo “barocchetto” decadente. Le più astiose s’imperniano intono al mesto concetto di “falso storico”: come se la storia fosse solo quella nostra, contingente, e tutto il resto un sogno: incubo indotto da un demone pervicace.
Come definire quest’atteggiamento che lascia fuori, sminuisce e dileggia, per definizione, ciò che appartiene ed è sempre appartenuto alla propria cultura.
Provinciale ? Ci sono, forse, termini più adatti ?
Autolesionismo ? Cupio dissolvi ?
Eppure si sentono “impapocchiare” fumose spiegazioni sul al passo con i tempi, vagheggiamento di tempi futuri cui adeguarsi necessariamente, laboriose subornazioni della sociologia progressiva e democratica nonchè altre amenità .
M proprio questa mancanza, questo profilo quotidiano, dimenticato ma vero, è la carta vincente.
Saluto
memmo54
"

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30 maggio 2012

DOV'ERA, COM'ERA



Dov’era, com’era, senza se e senza ma.

Sì, il ricorso a parole d’ordine, a vieti luoghi comuni perfino, per rafforzare la perentorietà dell’unica soluzione possibile, coerente, logica, umana.

Non c’è nessuna spiegazione da dare, c’è solo un imperativo categorico da rispettare.

Niente esercizio di capacità critica, niente seghe mentali, niente intellettualismi: com’era e dov’era, senza se e senza ma.

Non esiste alternativa, esiste solo il problema economico e organizzativo, il resto è scontato, ovvio. Deve essere scontato e ovvio.

Niente concorsi, niente architetti, se non come costruttori, niente critici, niente fiera della vanità. Niente giovanilismo assistenziale.

Nessuna pensata, nessuna idea, nessuna sperimentazione.

Com’era, dov’era.

Per i morti, per i vivi, per le città, per l’Emilia-Romagna.

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