Pietro Pagliardini
Con un ironico e brillante articolo sulla globalizzazione, anzi sulla “grobalizzazione” (per sapere cos’è leggere l’articolo), Vilma Torselli è tornata a scrivere di architettura su Artonweb.
Lo fa parlando di Parmigiano e Coca Cola, il primo, prodotto fortemente legato al territorio, il secondo, da sempre la quintessenza del prodotto globale. E l’architettura cosa c’entra con la Coca Cola? Come sopra, leggere l’articolo.
Globalizzare non è la semplice imposizione dei prodotti di un paese nel mondo; se fosse questo ci troveremmo in una logica “imperialistica” in cui una potenza economica riesce a dominare vaste aree del pianeta utilizzandole come mercato per i propri prodotti. A questo livello si crea una cultura dominante sulle altre, che la subiscono passivamente. Globalizzare significa invece, tra le molte altre cose, che la produzione si sposta là dove esistono convenienze economiche e condizioni politiche favorevoli. Questo comporta un trasferimento di risorse da un paese all’altro, da un’area geo-politica (l’occidente) ad un’altra (l’oriente) e quindi un riequilibrio o un interscambio tra paesi avanzati e paesi (ex)sottosviluppati del mondo. La globalizzazione è un sistema de-regolamentato che, piaccia o no (e a noi occidentali può non piacere) re-distribuisce reddito migliorando le condizioni di vita di popoli fino a poco tempo classificati come terzo mondo.
La globalizzazione credo sia abbastanza indifferente al sistema politico entro cui essa opera, l’importante è che vi sia stabilità, ma non richiede necessariamente un regime democratico. La Cina ne è l’esempio più vistoso.
Ma quali sono i prodotti che si prestano a questo sistema economico? Certamente il parmigiano, prodotto legato al territorio, che ha una storia e una tradizione, che richiede non solo lavoro ma anche materie prime del luogo ed esperienza maturata nel corso del tempo, ha un costo elevato ma de-localizzarne la produzione è, per definizione, impossibile, a parte le contraffazioni che esulano dalla regole del gioco. Non è il prezzo basso la sua caratteristica, quanto la qualità specifica, che deriva dalla sua origine, dalla sua identità geografica. Il parmigiano è identitario, come tutti i prodotti (realmente) tipici. Almeno in questo caso credo sia condivisibile da tutti il fatto che l’identità è “cosa buona”.
La Coca Cola invece è un prodotto economico, con un sapore uguale ovunque, dato che lo “sciroppo”, cioè la base che necessita solo di aggiunta di acqua e bollicine per diventare Coca Cola, viene prodotta in un unico luogo e poi “spedita” nel mondo. La Coca Cola è identitaria oppure no? Tutto sommato, anche questo prodotto è identitario, a prescindere dal luogo di produzione finale, perché è il simbolo di un paese, di una cultura del consumo, anche di un genere grafico e artistico, esportato in tutto il mondo e diventato patrimonio comune a molti popoli, forse a tutti. Forse conserva la sua originaria identità di tipo “imperialista”.
Se è vero che la globalizzazione comporta una certa uniformità di prodotti, proprio per creare un mercato globale capace di assorbirli ovunque, è anche vero che, diversamente da una logica imperialistica, tutti i paesi che ne sono interessati possono raggiungere, alla lunga, autonomia economica, cioè hanno l’opportunità di uscire dalla miseria e possono crescere fino a diventare protagonisti della scena mondiale. Non devono subire i prodotti, ma possono indirizzare i consumi, al pari dei paesi di maggiore “esperienza”.
Questo vuol dire che se la Cina, ad esempio, segue un modello di trasformazione delle città che è mutuato dall’occidente ricco, costruendo grattacieli di acciaio e vetro, lo fa per offrire un’immagine di sé al mondo fatta di simboli capaci di rappresentare quel tipo di “modernità” che tanto piace all’occidente, rinunciando volontariamente a cercare altre strade dato che nessuno glielo impone. E’ dunque una precisa scelta politica e culturale, comprensibile in una fase iniziale di crescita impetuosa. Ma nulla vieta che, una volta assestata la crescita, quei paesi acquistino consapevolezza della loro forza e vogliano affermare una cultura autonoma, sfruttando perciò al meglio i vantaggi della globalizzazione.
Voglio dire, insomma, che siamo alle solite: l’economia è certamente il motore che spinge la macchina della società, che la crea o la annienta, che influisce sulle abitudini di vita e sui costumi delle persone, ma l'autista, una volta partito, può scegliere tutte le strade che vuole: può andare in una corsa pazza verso il nulla o può viaggiare lungo strade sicure e già battute. Una volta raggiunta una certa soglia di benessere può avvenire il ripensamento e i popoli possono comprendere la ricchezza della diversità, dell’identità culturale, dell’orgoglio, direi della bellezza, di appartenere ad un mondo diverso da un altro, e che questa diversità convive e si integra benissimo con l’uniformità dei generi di consumo globalizzati. Di qui la valorizzazione dei prodotti del territorio (non solo alimentari) che coprono settori di mercato diversi.
In questo senso, la scoperta dei valori della città e dell’architettura tradizionale non significa solo conservazione di un patrimonio, ma è una scelta naturale di “mercato”, perché non ha alcun senso andare in Cina per trovarsi nella parodia di Manhattan, né venire a Milano per credere di essere a Londra. Dubai e Las Vegas non sono, invece, esempi da prendere in considerazione, dato che non si tratta di città in senso stretto, ma due maxi o macro (MAXXI o MACRO?) non-luoghi nati con questa specifica vocazione, al pari di un ipermercato o un aeroporto.
Anche nel mondo globale, anzi proprio nel mondo globale, è assolutamente possibile e necessario riscoprire il valore della tradizione, non come affermazione identitaria contro un’egemonia economica e culturale esterna (come nel caso dell’imperialismo) ma come libera scelta all’interno di una comunità di popoli che hanno pari dignità e che si confrontano sul piano economico ed anche su quello della propria cultura e della propria storia.
Peter Eisenmann, invece, in una intervista rilasciata alla Fondazione CAESAR, alla domanda “Ritiene che l’identità sia ancora una categoria valida?”, risponde:
“No, io non ritengo l’identità un concetto in cui credere. Certo, ci sono persone che credono che l’architettura sia un problema di identità e lo sia sempre stata, ma personalmente trovo narcisistico e riduttivo un principio d’identità in base al quale un individuo ritiene che l’ambiente esterno debba essere il riflesso di se medesimo e fungere da specchio del suo ego. E’ un’idea figlia della cultura imperialista , o, comunque, della cultura autoritaria in genere. Ma il nostro intento di “demotivare” il significato del/dal segno trova anche una legittimazione nei più recenti sviluppi teorici della linguistica e della semiotica che illustrano l’assenza di una relazione binaria , di corrispondenza diretta ed esclusiva, tra significato e segno, e mostrano che la relazione è, come la definiva Jacques Derrida, “undecideable”. L’architetura non è mai stata al servizio dell’identità”.
A parte l’involuto discorso su Derrida, tirato in ballo per nobilitare il niente, la risposta sull’identità è del tutto privo di senso per questi motivi:
-Il narcisismo non c’entra un bel niente, dato che non è l’ambiente che deve essere lo specchio dell’individuo ma, del caso, esattamente l’opposto. Leggere, riconoscere il carattere dei luoghi ed assecondarlo per dare agli individui un senso di sicurezza e farli appartenere e farli appropriare dei luoghi: questa è l’identità in architettura. Eisenmann attribuisce all’identità i caratteri negativi che invece sono propri della sua personale e narcisistica concezione di architettura, cioè l’egocentrismo dell’architetto che impone la propria visione del mondo ad ogni luogo e ad ogni popolo. Se proprio si vuole parlare di imperialismo, esso è presente nella sua visione che, tra l’altro, mi pare sia alquanto vecchia e non tenga conto delle diversa situazione venutasi a creare con la globalizzazione. Possiamo dunque parlare di una cultura architettonica di pochi che si impongono su molti, e dunque di una cultura “imperialistica”.
-L’affermazione che “l’architettura non è mai stata identitaria” è assolutamente insignificante, dato che l’identità ha valore nell’ambito di una coscienza critica, cioè almeno da due secoli a questa parte, mentre, nell’ambito di una cultura dotata di coscienza spontanea, l’adattamento ai luoghi è accettato e condiviso senza che ve ne sia consapevolezza e il concetto di “identità” non esiste perché essa corrisponde al “comune sentire”(1).
Ma immagino che anche Eisenmann, la cui architettura globalizzata è ideologicamente analoga alla Coca Cola anche se, diversamente da questa, pagata salatissima, sappia apprezzare la bontà del parmigiano, specie sulla pastasciutta, italiana, ovviamente. Farebbe bene a trarne le conseguenze anche per l’architettura. Per la sua e per quella degli altri.
1)Questo non significa, tuttavia, che non vi fosse chi aveva coscienza che fosse opportuno costruire seguendo i caratteri geografici e climatici del luogo. Riporto ad esempio un breve brano di Vitruvio dal De Architectura, Libro VI: “Se dunque, come son diverse le regioni a seconda della diversità della latitudine, così anche la natura delle genti presenta animi differenti e differenti qualità e figure di corpi, non dovremo esitare ad attribuire alle specifiche proprietà delle varie nazioni e genti anche i vari tipi e le varie disposizioni degli edifici: dal momento che troviamo in natura la dimostrazione più chiara e spedita.
Ho esposto colla somma precisione possibile come di debban tenere presenti le naturali caratteristiche dei vari luoghi, e ho detto come si debbano stabilire le qualità degli edifici secondo l’aspetto e le esigenze degli abitanti, in relazione al corso del sole e alla latitudine; ora spiegherò brevemente per ogni genere di edificio il computo della simmetria nell’insieme e nei particolari”.
Leggi tutto...