Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


15 agosto 2010

PARMIGIANO E IDENTITA'

Pietro Pagliardini

Con un ironico e brillante articolo sulla globalizzazione, anzi sulla “grobalizzazione” (per sapere cos’è leggere l’articolo), Vilma Torselli è tornata a scrivere di architettura su Artonweb.
Lo fa parlando di Parmigiano e Coca Cola, il primo, prodotto fortemente legato al territorio, il secondo, da sempre la quintessenza del prodotto globale. E l’architettura cosa c’entra con la Coca Cola? Come sopra, leggere l’articolo.

La globalizzazione è un fenomeno davvero complicato, che ha origine prevalentemente economica, ma che ha ricadute profonde nella società sotto il profilo politico, sociale, culturale ed anche sociologico, perché cambia la percezione che un popolo e i singoli individui che vi appartengono hanno di se stessi all’interno della comunità umana globale.

Globalizzare non è la semplice imposizione dei prodotti di un paese nel mondo; se fosse questo ci troveremmo in una logica “imperialistica” in cui una potenza economica riesce a dominare vaste aree del pianeta utilizzandole come mercato per i propri prodotti. A questo livello si crea una cultura dominante sulle altre, che la subiscono passivamente. Globalizzare significa invece, tra le molte altre cose, che la produzione si sposta là dove esistono convenienze economiche e condizioni politiche favorevoli. Questo comporta un trasferimento di risorse da un paese all’altro, da un’area geo-politica (l’occidente) ad un’altra (l’oriente) e quindi un riequilibrio o un interscambio tra paesi avanzati e paesi (ex)sottosviluppati del mondo. La globalizzazione è un sistema de-regolamentato che, piaccia o no (e a noi occidentali può non piacere) re-distribuisce reddito migliorando le condizioni di vita di popoli fino a poco tempo classificati come terzo mondo.
La globalizzazione credo sia abbastanza indifferente al sistema politico entro cui essa opera, l’importante è che vi sia stabilità, ma non richiede necessariamente un regime democratico. La Cina ne è l’esempio più vistoso.

Ma quali sono i prodotti che si prestano a questo sistema economico? Certamente il parmigiano, prodotto legato al territorio, che ha una storia e una tradizione, che richiede non solo lavoro ma anche materie prime del luogo ed esperienza maturata nel corso del tempo, ha un costo elevato ma de-localizzarne la produzione è, per definizione, impossibile, a parte le contraffazioni che esulano dalla regole del gioco. Non è il prezzo basso la sua caratteristica, quanto la qualità specifica, che deriva dalla sua origine, dalla sua identità geografica. Il parmigiano è identitario, come tutti i prodotti (realmente) tipici. Almeno in questo caso credo sia condivisibile da tutti il fatto che l’identità è “cosa buona”.

La Coca Cola invece è un prodotto economico, con un sapore uguale ovunque, dato che lo “sciroppo”, cioè la base che necessita solo di aggiunta di acqua e bollicine per diventare Coca Cola, viene prodotta in un unico luogo e poi “spedita” nel mondo. La Coca Cola è identitaria oppure no? Tutto sommato, anche questo prodotto è identitario, a prescindere dal luogo di produzione finale, perché è il simbolo di un paese, di una cultura del consumo, anche di un genere grafico e artistico, esportato in tutto il mondo e diventato patrimonio comune a molti popoli, forse a tutti. Forse conserva la sua originaria identità di tipo “imperialista”.
Se è vero che la globalizzazione comporta una certa uniformità di prodotti, proprio per creare un mercato globale capace di assorbirli ovunque, è anche vero che, diversamente da una logica imperialistica, tutti i paesi che ne sono interessati possono raggiungere, alla lunga, autonomia economica, cioè hanno l’opportunità di uscire dalla miseria e possono crescere fino a diventare protagonisti della scena mondiale. Non devono subire i prodotti, ma possono indirizzare i consumi, al pari dei paesi di maggiore “esperienza”.

Questo vuol dire che se la Cina, ad esempio, segue un modello di trasformazione delle città che è mutuato dall’occidente ricco, costruendo grattacieli di acciaio e vetro, lo fa per offrire un’immagine di sé al mondo fatta di simboli capaci di rappresentare quel tipo di “modernità” che tanto piace all’occidente, rinunciando volontariamente a cercare altre strade dato che nessuno glielo impone. E’ dunque una precisa scelta politica e culturale, comprensibile in una fase iniziale di crescita impetuosa. Ma nulla vieta che, una volta assestata la crescita, quei paesi acquistino consapevolezza della loro forza e vogliano affermare una cultura autonoma, sfruttando perciò al meglio i vantaggi della globalizzazione.

Voglio dire, insomma, che siamo alle solite: l’economia è certamente il motore che spinge la macchina della società, che la crea o la annienta, che influisce sulle abitudini di vita e sui costumi delle persone, ma l'autista, una volta partito, può scegliere tutte le strade che vuole: può andare in una corsa pazza verso il nulla o può viaggiare lungo strade sicure e già battute. Una volta raggiunta una certa soglia di benessere può avvenire il ripensamento e i popoli possono comprendere la ricchezza della diversità, dell’identità culturale, dell’orgoglio, direi della bellezza, di appartenere ad un mondo diverso da un altro, e che questa diversità convive e si integra benissimo con l’uniformità dei generi di consumo globalizzati. Di qui la valorizzazione dei prodotti del territorio (non solo alimentari) che coprono settori di mercato diversi.

In questo senso, la scoperta dei valori della città e dell’architettura tradizionale non significa solo conservazione di un patrimonio, ma è una scelta naturale di “mercato”, perché non ha alcun senso andare in Cina per trovarsi nella parodia di Manhattan, né venire a Milano per credere di essere a Londra. Dubai e Las Vegas non sono, invece, esempi da prendere in considerazione, dato che non si tratta di città in senso stretto, ma due maxi o macro (MAXXI o MACRO?) non-luoghi nati con questa specifica vocazione, al pari di un ipermercato o un aeroporto.
Anche nel mondo globale, anzi proprio nel mondo globale, è assolutamente possibile e necessario riscoprire il valore della tradizione, non come affermazione identitaria contro un’egemonia economica e culturale esterna (come nel caso dell’imperialismo) ma come libera scelta all’interno di una comunità di popoli che hanno pari dignità e che si confrontano sul piano economico ed anche su quello della propria cultura e della propria storia.

Peter Eisenmann, invece, in una intervista rilasciata alla Fondazione CAESAR, alla domanda “Ritiene che l’identità sia ancora una categoria valida?”, risponde:
No, io non ritengo l’identità un concetto in cui credere. Certo, ci sono persone che credono che l’architettura sia un problema di identità e lo sia sempre stata, ma personalmente trovo narcisistico e riduttivo un principio d’identità in base al quale un individuo ritiene che l’ambiente esterno debba essere il riflesso di se medesimo e fungere da specchio del suo ego. E’ un’idea figlia della cultura imperialista , o, comunque, della cultura autoritaria in genere. Ma il nostro intento di “demotivare” il significato del/dal segno trova anche una legittimazione nei più recenti sviluppi teorici della linguistica e della semiotica che illustrano l’assenza di una relazione binaria , di corrispondenza diretta ed esclusiva, tra significato e segno, e mostrano che la relazione è, come la definiva Jacques Derrida, “undecideable”. L’architetura non è mai stata al servizio dell’identità”.

A parte l’involuto discorso su Derrida, tirato in ballo per nobilitare il niente, la risposta sull’identità è del tutto privo di senso per questi motivi:
-Il narcisismo non c’entra un bel niente, dato che non è l’ambiente che deve essere lo specchio dell’individuo ma, del caso, esattamente l’opposto. Leggere, riconoscere il carattere dei luoghi ed assecondarlo per dare agli individui un senso di sicurezza e farli appartenere e farli appropriare dei luoghi: questa è l’identità in architettura. Eisenmann attribuisce all’identità i caratteri negativi che invece sono propri della sua personale e narcisistica concezione di architettura, cioè l’egocentrismo dell’architetto che impone la propria visione del mondo ad ogni luogo e ad ogni popolo. Se proprio si vuole parlare di imperialismo, esso è presente nella sua visione che, tra l’altro, mi pare sia alquanto vecchia e non tenga conto delle diversa situazione venutasi a creare con la globalizzazione. Possiamo dunque parlare di una cultura architettonica di pochi che si impongono su molti, e dunque di una cultura “imperialistica”.
-L’affermazione che “l’architettura non è mai stata identitaria” è assolutamente insignificante, dato che l’identità ha valore nell’ambito di una coscienza critica, cioè almeno da due secoli a questa parte, mentre, nell’ambito di una cultura dotata di coscienza spontanea, l’adattamento ai luoghi è accettato e condiviso senza che ve ne sia consapevolezza e il concetto di “identità” non esiste perché essa corrisponde al “comune sentire”(1).

Ma immagino che anche Eisenmann, la cui architettura globalizzata è ideologicamente analoga alla Coca Cola anche se, diversamente da questa, pagata salatissima, sappia apprezzare la bontà del parmigiano, specie sulla pastasciutta, italiana, ovviamente. Farebbe bene a trarne le conseguenze anche per l’architettura. Per la sua e per quella degli altri.

1)Questo non significa, tuttavia, che non vi fosse chi aveva coscienza che fosse opportuno costruire seguendo i caratteri geografici e climatici del luogo. Riporto ad esempio un breve brano di Vitruvio dal De Architectura, Libro VI: “Se dunque, come son diverse le regioni a seconda della diversità della latitudine, così anche la natura delle genti presenta animi differenti e differenti qualità e figure di corpi, non dovremo esitare ad attribuire alle specifiche proprietà delle varie nazioni e genti anche i vari tipi e le varie disposizioni degli edifici: dal momento che troviamo in natura la dimostrazione più chiara e spedita.
Ho esposto colla somma precisione possibile come di debban tenere presenti le naturali caratteristiche dei vari luoghi, e ho detto come si debbano stabilire le qualità degli edifici secondo l’aspetto e le esigenze degli abitanti, in relazione al corso del sole e alla latitudine; ora spiegherò brevemente per ogni genere di edificio il computo della simmetria nell’insieme e nei particolari
”.

Leggi tutto...

5 agosto 2010

Voglio augurare buone vacanze a tutti con una poesia di Emily Dickinson che, comunque la si interpreti, ci ricorda che con il passato i conti non si possono chiudere.


IL PASSATO


E’ una curiosa creatura il passato   
Ed a guardarlo in viso                   
Si può approdare all’estasi           
O alla disperazione.                    


Se qualcuno l’incontra disarmato,  
Presto, gli grido, fuggi!                  
Quelle sue munizioni arrugginite    
Possono ancora uccidere!            

Emily Dickinson

Leggi tutto...

2 agosto 2010

NIENTE COMPLESSI D'INFERIORITA'

Abbattere Corviale? No
Abbattere lo Zen? No
Abbattere i ponti del Laurentino? No
Niente, non si deve abbattere niente. La cultura accademica e reazionaria mantiene il punto su tutto. Quei simboli sono il suo salvagente. Senza quei simboli il sistema rischia il crollo.
E’ una difesa di casta, rabbiosa e disperata. Rabbiosa perché è una lotta per la sopravvivenza, disperata perché combatte contro la gente e l’evidenza. Sopravvivenza di un’idea, naturalmente, e sopravvivenza di posizioni di potere.


La caduta di un regime non è mai un evento indolore. E questo è un regime culturale. Un meccanismo oleato e pervasivo, con solidarietà e collaterismi forti, in ogni settore della stampa, della cultura, della politica. Oltre al mondo accademico, ovviamente.

Conceived as an independent community for about 8000 people including other facilities such as schools, shopping, recreation facilities and even a church, the building was based on the idea of social housing to provide all needed infrastructures of a city within the complex itself, and to encourage social contacts between the occupants. For internal and political reasons many of these originally planned structures were never realized or are, almost 20 years after the first occupants moved in, still unfinished. The area suffers from the lack of an adequate metropolitan infrastructure and it remains isolated from the greater city of which it was intended to be a part”.

Questa è parte della descrizione che viene data del Corviale nel sito MIMOA, una guida di architettura. Anche qui, anche in una guida, si alimenta, come una sorta di copia e incolla o di passa-parola del luogo comune, l’alibi del non finito, dello Stato inefficiente (ma è efficiente quando progetta, però), dei servizi che mancano, della mancanza di collegamenti. Eppure nella guida c’è anche la Garbatella, a riprova del fatto che la guida, in quanto tale, non è uno strumento critico ma si basa sulle informazioni più diffuse. E’ un esempio tra molti, di come si promuove e diffonde una egemonia culturale.

In testa al sito Corviale.it, che pure mostra diverse sfaccettature del mostro, c’è questa frase:
Gli inquilini di Corviale amano il mostro. Anche se non lo capiscono ne sono affascinati. Hanno quasi un senso di fierezza ad abitare in un palazzo così conosciuto, discusso e fatto oggetto di attenzione continua da parte dei media”.

Come a dire che gli inquilini vivono in una specie di reality, sempre sotto gli occhi dei riflettori. Come a dire che gli inquilini sono felici di essere oggetto di voyerismo architettonico.

A questa sistema bisogna sapersi opporre senza alcun complesso d’inferiorità culturale.
Diffidare dei saggi e sapienti che ti cedono qualcosa per salvare il tutto.
Diffidare delle accuse di ideologismo, perchè è solo un vecchio trucco degli ideologi che hanno fatto danni prima e poi ti accusano dei loro misfatti.
Demolire questi mostri, come fanno in Francia, come fanno in Gran Bretagna.
Demolire e basta, niente ristrutturazioni, riusi, rivitalizzazioni.
Non c’è nessuna vita possibile al cimitero, almeno non in questo mondo.
Una sola avvertenza: prima si costruisce, poi si demolisce.

Leggi tutto...

27 luglio 2010

LA GUERRA TRA IPERMERCATI

A proposito di ipermercati, segnalo questo brillante articolo del Prof. Gabriele Tagliaventi


che va oltre la pur legittima aspirazione ad una libera concorrenza tra potenti gruppi economici per auspicare il superamento di un sistema nemico della città.

Leggi tutto...

22 luglio 2010

IPERMERCATO D'ESTATE

Pietro Pagliardini

21 luglio, ore 15,00: appuntamento di lavoro per un sopraluogo. Incontro fissato all’ingresso di un grande centro commerciale; unico motivo della scelta: la vicinanza all’oggetto del sopraluogo e l’aria condizionata, dato per scontato il consueto ritardo di qualcuno.
L’ora non è di punta, molti sono in vacanza, il parcheggio è deserto e nel bar-selfservice due sole coppie di anziani ai tavolini, con l’aria dei turisti. Per fortuna, un caffè senza coda.
Conosco quel luogo – o come si dice non-luogo – ma mai come oggi ne ho ricavato un’impressione di disagio, di degrado e di squallore. Con la folla, la sensazione prevalente era il fastidio claustrofobico, il desiderio di scappare; l’assenza di folla esalta la percezione del brutto e del grossolano


L’attesa e la scarsità di persone costringono a vedere i dettagli – polvere nelle cornici sopra i negozi, carte in terra, arredi del bar e del giornalaio di pessima fattura, materiali di rivestimento da sala d’attesa della stazione, ridondanza di segnali pubblicitari. La pensilina in ferro sopra l’ingresso mostra tracce di ruggine, nella pavimentazione esterna mancano molte piastrelle di gres, specie ai bordi, laddove vi sono i tagli, i buchi riempiti con cemento per non inciampare. Ma anche ad immaginarlo pulito e ben mantenuto e ordinato, è davvero impossibile scovarvi il bello.

Il centro commerciale non è un outlet finto-antico, ma un ipermercato finto-moderno: corridoio longitudinale, simulacro di un “corso urbano”, con negozi posti sul lato esterno - ma rigorosamente non visibili da fuori per costringere il consumatore ad entrare - supermercato sull’altro alto.
Nei due vertici del “corso” gli ingressi, con i servizi bar da una parte, grande negozio di elettronica dall’altro.
Nella zona centrale del “corso” c’è uno slargo e ci sono pure le panchine, patetica parodia di una “piazza”. Davanti a queste un grande banco del gelato, a mò di chiosco.

Dunque, anche il finto-moderno fa il verso alla città, proprio come il finto-antico.
Chissà perché questo viene disprezzato da molti architetti e quello no!

Il non-luogo, nella sua essenza profondamente anti-urbana e anti-sociale, isola scollegata dall’intorno, conserva nell’organizzazione del proprio interno una pur debolissima memoria della città, improbabile tributo a questa grande invenzione umana.

Possiamo dire che l’urbanistica del finto-moderno è di tipo funzionalista: strada dritta, servizi ai lati, ingresso di testa, tutto rigorosamente al chiuso in ambiente totalmente artificiale; quella del finto-antico, invece, è di tipo tradizionale: strade irregolari che convergono in “piazze” e, ai piani superiori, finte finestre di finte abitazioni, tutto, ad eccezione dei negozi ovviamente, rigorosamente all’aperto, con qualche porticato. Almeno l’aria è naturale.

Ma questo viene disprezzato e quello no! Chissà perché, dato che sono sostanzialmente la stessa cosa, due facce della stessa medaglia anti-urbana.

Senza folla, il non-luogo ricorda la scenografia di un film: edifici provvisori e di pessima fattura, tutta facciata, che con la confusione, sostituta della macchina da presa, crea l’inganno della realtà. Come nel Truman Show. Le luci, il rumore, la gente che si aggira con i carrelli e le borse piene, famiglie intere che vagano al riparo dal freddo o dal caldo, alimentano l’illusione di trovarsi in un luogo d’incontro e di scambio sociale; ma vuoto, appare in tutto il suo squallore di spettacolo, di messa in scena organizzata per favorire quell’unica funzione per cui esiste, il consumo.
Il centro commerciale è l’esaltazione dell’effimero che però provoca segni e danni profondi e incancellabili nella città, defraudandola della sua essenza di complesso luogo di scambio e di incontro e, alla lunga, trasformando le abitudini delle persone: abitare, lavorare, ecc. ecc. Sì, ancora lui, LC.

Anche i nuovi musei di cui molti vanno fieri, a prescindere dalle loro insensate forme, altro non sono che non-luoghi come i centri commerciali, dove si dispensa, se non si vende, l’immagine di un’arte assurda quanto il suo contenitore. Anche qui si concentra una funzione importante, quella della cultura - una pessima cultura in verità – che nel centro storico è invece diffusa e gratuitamente offerta in ogni angolo della città, e che i cittadini assimilano continuamente, senza doverla andare a cercare in un non-luogo.

Un corso vero di città, anche vuoto, anche alle 15,00 di un giorno di luglio, offre uno spettacolo di cultura, di bellezza e armonia. Manca solo l’aria condizionata, ma è il sacrificio di 15 giorni e neppure per tutto il giorno. Se poi si deve consumare, basta entrare in un bar, e il fresco è assicurato.

Leggi tutto...

13 luglio 2010

BELLEZZA ED EFFICIENZA SONO DAVVERO ALTERNATIVE?

Forse, nell’oscillare tra la bellezza e l’efficienza, il trionfo contemporaneo della tecnica, il disastro dei quartieri costruiti negli ultimi cinquant’anni, sarà allora solo provvisorio, questo dilagare dell’indifferenza sarà soltanto una infatuazione momentanea cui seguirà il ritorno verso il centro della U, le case di questi cinquant’anni lentamente scompariranno – neppure il cemento armato è eterno – e i loro quartieri verranno ricostruiti più belli e sarà così salvo un principio fondamentale della nostra identità di europei, la bellezza delle città.

O forse no, forse questa infatuazione per una frustrante pretesa della tecnica di condizionare le nostre vite nell’urbs della nostra Europa finirà per dissolverla in un uniforme e desolante paesaggio planetario
”.
E’ questa la conclusione di uno dei capitoli del libro di Marco Romano, Ascesa e declino della città europea, Raffaello Cortina.

Questi due opposti scenari, che comunque contengono un unico giudizio sulla città moderna, cioè la mancanza di bellezza e di identità, o almeno la mancanza di una bellezza riconoscibile e condivisa, si adattano ad un mio vecchio post, Il senso del limite, o meglio, mi ricordano il fatto che Emanuele Severino ha già scritto di questo argomento, cioè del trionfo ineluttabile della tecnica, dato che di mio in quel post c’era ben poco.
Aggiungerò alcuni altri pensieri di Severino, il quale ha il grande pregio di una logica rigorosa e stringente e mette l’uomo contemporaneo di fronte a scenari che lui ritiene inevitabili, che forse non lo sono, ma che è bene conoscere:
La grandezza della tecnica è per ora deformata dall’interpretazione tecnicistica della tecnica; è avvolta nel grigiore dei suoi interpreti ufficiali, che a sua volta alimenta la rozzezza, ovunque percepibile, con cui le forze sociali dominanti intendono voltare le spalle alle “ideologie” e alla “politica” in nome della tecnica, dell’efficienza, della competenza. In nome della razionalità tecnologica ingenuamente intesa, stiamo correndo il rischio di perdere non solo il patrimonio grandioso del nostro passato, ma il significato stesso del nostro esserci dovuti separare da esso.
Vi sono motivi per pensare che la tendenza fondamentale del nostro tempo spingerà ad uscire dalla bassura presente, e che in questo processo restino rafforzate quelle forme di cultura che, come le filosofie dell’esistenza, tengono vivo il ricordo del nostro passato. La condizione fondamentale per allontanarsi dal passato è di conoscerne a fondo il significato. Altrimenti l’allontanamento è un semplice caso, che può venir meno da un momento all’altro. Oggi la nostra civiltà è un navigatore che allontanandosi da terra –dalla terra del passato – non si ricordi più dove sia la terra: può sbattervi contro, nella nebbia della dimenticanza, da un momento all’altro – e ritornare al passato più primitivo e più incolto
”.

Il brano è tratto da Pensieri sul Cristianesimo, E.Severino, BUR. Ovviamente l’autore non sta parlando di architettura o civiltà urbana in senso stretto, ma quel ragionamento è perfettamente sovrapponibile all’una e all’altra, anche perché sono gli stessi concetti espressi nel suo Tecnica e Architettura, E.Severino, Raffaello Cortina.

Severino giudica ineluttabile il trionfo della tecnica, anche perché “ogni azione vuole rendere sempre più reale il proprio scopo, al di là di ogni limite e vincolo”.
Se questo fosse vero, la condizione ineluttabile della città sarebbe l’avveramento della seconda ipotesi di Marco Romano e non quello del ritorno alla bellezza della città. Ho già detto che alla logica di Severino è difficile, almeno per me, opporre argomenti che la smentiscano e ancora più difficile è farlo con il ricorso agli stessi suoi strumenti logici; posso solo dire, anche se ne colgo tutta la debolezza teorica e l’abisso qualitativo tra la forza delle due argomentazioni, che Severino mi sembra trascuri l’azione nella storia della volontà dell’uomo il quale, possedendo il dono della libertà di scegliere, può indirizzare gli accadimenti in un senso o nell’altro.

Severino è difficilmente confutabile (sempre da me, ben inteso) rimanendo all'interno delle grandi visioni filosofiche, ma lo è un po’ più facilmente nel momento in cui si riflette sul fatto che queste sono il frutto della mente, e quindi dell’azione, dell’uomo. Sarà un pensiero banale ma, se si esclude l'atto di fede, e Severino la escluderebbe senz'altro, ogni visione filosofica è prodotta dall'intelligenza umana e perciò stesso non può essere ineluttabile. Se così non fosse sarebbe necessario accettare l’ineluttabilità di ogni evento che sarebbe preordinato e determinato a prescindere dall’intervento umano. Ma è Severino stesso a riconoscere il fatto, ad esempio, che “solidarietà ed efficienza non sono più ciò che esse sono quando, separate, costituiscono lo scopo supremo delle azioni sociali che, rispettivamente, le perseguono. Unite, si limitano, si modificano a vicenda: il capitalismo non è più capitalismo e l’azione sociale del cattolicesimo non è più cattolicesimo”.
Dunque, oltre al fatto che semmai, per omogeneità dei termini, la conseguenza sarebbe che "l’azione sociale del cattolicesimo non è più azione sociale del cattolicesimo" - ma resta il cattolicesimo, decadendo con ciò solo un effetto del cattolicesimo- si ammette l’esistenza di una azione sociale diversa che non è più capitalismo e non è nemmeno azione sociale del cattolicesimo, ma qualcosa d’altro, e questo grazie all’azione e alla volontà umana. Se questo è vero, tornando al tema, sembra essere possibile evitare l’ineluttabile, per il fatto che ineluttabile non sarebbe, e poter tornare anche alla bellezza delle città.

Forse ad una bellezza che tenga conto dell’efficienza imposta dalla tecnica, ma la bellezza non cambia la sua essenza. D’altra parte l’alternativa che ci si presenta davanti da 50 anni a questa parte non è portatrice di bellezza e tanto meno di efficienza, che anzi molti critici della città contemporanea puntano l’indice proprio sull’inefficienza del risultato, sotto ogni profilo, oggi soprattutto sull’inefficienza energetica dei modelli urbani più diffusi, ma anche su quella sociale, ecologica, ambientale.

L’alternativa che Marco Romano segnala, in verità non sembra esistere, almeno logicamente, date le premesse, perché il modello della tecnica non esiste, non è stato trovato, che anzi siamo all’antitesi della razionalità della scienza, sia in campo urbano che architettonico, e non può essere per definizione che una città basata sulla tecno-scienza sia così profondamente inefficiente proprio sotto il profilo tecnico.
Che tecnica è se in 50-60 anni ha solo aumentato i problemi, dato che gli unici risolti sembrano quelli tecnologici di base relativi al solo abitare, ma le cui basi erano già state poste tra l’800 e il ‘900?
Riprendiamoci almeno la bellezza delle nostre città europee per scoprire che ripristineremo una buona parte dell’efficienza della vita comunitaria e del rapporto abitare-lavorare come alcuni studi (1) sembrano dimostrare.


(1) Minimizing car travel by changing how we think about development
Seguire il link Journal of the American Planning Association all’interno dell’articolo

Leggi tutto...

11 luglio 2010

LANGONE, MARCO ROMANO E IL DESTINO DELLE CITTA'

dell'11 luglio

Leggi tutto...

10 luglio 2010

"SARZANA CHE BOTTA" BANDISCE UN CONCORSO

Il comitato “Sarzana che Botta", molto attivo in rete oltre che in città, organizza il concorso di idee "Ri-pensiamo Via Muccini".
Per gli antefatti di questa vicenda rimando al sito del comitato e al ginopiarulliblog.
Questa iniziativa è di grande interesse per diversi motivi:
• un gruppo di cittadini si sono organizzati non solo per contestare un progetto urbano, come accade di frequente e rimanendo nella mera logica del no, ma vogliono proporre soluzioni alternative e valide per la loro città, dando un bell’esempio ai loro amministratori;
• il concorso è palese, cioè ogni concorrente apporrà in calce alle tavole nome e cognome facendo così cadere il velo dell’ipocrisia sul falso anonimato previsto dalle vigenti normative;
• la formula del concorso presenta, finalmente, la caratteristica fondamentale di affiancare alla giuria tecnica, una giuria popolare, scelta oltremodo coerente con il fatto che le indicazioni progettuali sono state date dal comitato stesso, cioè da un insieme di cittadini.

Il fatto più significativo e che più mi interessa è certamente la giuria popolare. Non so quali metodi di selezione e di scelta del progetto saranno adottai ma comunque andrà una cosa si può dire fin d’ora: il progetto sarà quello giusto, o almeno il più giusto tra quelli presentati.
Distillato purissimo di populismo? Neanche per sogno, è invece il risultato di una semplice constatazione e di un minimo di ragionamento: dato che la disciplina urbanistica, e la sua concreta attuazione e gestione, ha ormai toccato il fondo, avendoci consegnato città sempre più brutte, sempre meno città e sempre più periferie monofunzionali e prive di vita, da almeno 60 anni a questa parte, a fronte di procedure e leggi cervellotiche e astratte, il perseverare con la stessa logica, quella cioè di affidarsi, prima, agli esperti che appartengono indiscriminatamente, alla cultura modernista e, poi, alla politica e alla sua indifferenza rispetto alla qualità della città, è totalmente illogico e insensato. Non credo esista altro campo delle scienze sociali applicate che possa vantare una divaricazione così grande tra aspettative e risultati. I risultati contano, non i processi, e i risultati sono pessimi.
E dunque che decidano almeno i cittadini, detentori delle scelte per la loro città, veri e autentici proprietari, come comunità, come civitas, del diritto di decidere sull’urbs.
E poi, se la logica che governa l’architettura deve essere, come di fatto è, quella dello show, del successo, del consenso organizzato e guidato dall’alto che tanto alimenta il mito archistar, tanto vale che a determinare tale successo non siano i media e le riviste, ma la gente direttamente.

Leggi tutto...

9 luglio 2010

APPELLO FOGLIANTE IN FAVORE DEL DIRITTO DI PRIVACY

Nel giorno del silenzio per l'appunto non ho da scrivere niente.
Ma, visto che si legge che anche Internet parteciperebbe al "lutto", proprio perché a me non è morto nessuno, metto un link a questo equilibrato appello:

APPELLO FOGLIANTE IN FAVORE DEL DIRITTO DI PRIVACY

Pietro Pagliardini

Leggi tutto...

8 luglio 2010

LEGGI CONTRO LA CITTA'

Quando una città decide di dotarsi di un nuovo strumento urbanistico generale, il primo problema da affrontare non è il merito delle scelte da compiere ma le procedure da seguire. Non a caso, il primo atto da compiere si chiama: “avvio del procedimento” e non “avvio del progetto”.
Le leggi entro cui ci dobbiamo muovere hanno di gran lunga superato la soglia del pur difficile punto d’equilibrio tra volontà dell’agire e limite procedurale all’agire stesso, affinché la crescita avvenga a vantaggio della comunità dentro il quadro del rispetto della legge e della salvaguardia e conservazione del territorio e dell’ambiente.
Quella soglia si supera nel momento in cui, per la caoticità delle leggi e della loro pratica applicazione, una comunità si viene a trovare nella quasi impossibilità di poter andare avanti, paralizzata come è dall’alternativa tra il rischio di potenziali ricorsi per la non conformità a regole assurde e difficilmente interpretabili, e quella di doversi dotare di uno strumento che risponde alla Legge ma non ai bisogni e ai desideri della comunità stessa e ad un corretto disegno della città.

Oramai si è consolidata una regola generale in base alla quale le scelte di piano sono, lungo tutto l'iter, condizionate molto poco dai contenuti e moltissimo da leggi e procedure. Ma ben più gravi ancora sono gli effetti di questa regola sulla cultura di architetti e amministratori, tutta pervasa da termini giuridici e formali, dove le scelte di merito restano sullo sfondo, sopraffatte come sono da assurde e improbabili procedure formali.

Il piano è ridotto ad un groviglio inestricabile di termini e formule alchemiche dietro cui si nascondono due fatti:
• un declamato rispetto dell’ambiente e della partecipazione, salvo poi commettere le peggiori e più grosse operazioni immobiliari mediante altre formule alchemiche quali piani complessi, accordi di programma, accordi di pianificazione e così via, che avvengono in barba ad ogni principio partecipativo; cito, a titolo di esempio, la vicenda della Città Viola a Firenze (Della Valle-Fuksas), su cui un assessore che si azzardò a dissentire venne dimissionato in un giorno, massima espressione evidentemente della democrazia partecipativa;

• un modo di intendere la legge come se essa non avesse il compito di accompagnare e regolare la crescita e le necessità della società invece che precorrerla e indirizzarla, ponendola cioè a valore di fondo e faro della società stessa, in maniera esattamente corrispondente alle visioni politiche dell'integralismo religioso. Vorrei ricordare, però, che la nostra società occidentale, libera e democratica, è permeata, tra gli altri, dal rivoluzionario principio cristiano che “il sabato è fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato”. In altre parole la legge non è destinata a schiavizzare l’uomo ma, al contrario, è la legge che deve stare al servizio dell’uomo.

Le nostre leggi sono diventate un ostacolo da superare e la maggior parte delle energie vengono consumate proprio per questa corsa a ostacoli. Così facendo si alimenta certamente la voglia di scorciatoie e il principio che le leggi, e lo stato, sono comunque un problema. Se questo avviene non significa che la società è malata ma che le leggi sono sbagliate.
Quali ne siano le cause è difficile dirlo ma di certo, una volta tanto, i politici c’entrano poco, o meglio hanno solo la colpa di non aver capito in tempo che oggi il potere legislativo è quasi esclusivamente nelle mani dei funzionari e dei tecnici. La tecnica, una cattiva tecnica, prevale sulla politica.

Di sicuro l’urbanistica ha del tutto perso il suo scopo fondamentale, quello cioè di dare forma alla città. Le procedure dovrebbero essere solo il metodo per dare forma giuridica al disegno della città e invece avviene l’operazione inversa, e allora accade che le norme urbanistiche scritte – molto male in genere – prevalgono su tutto, segnando e disegnano le trasformazioni urbane: destinazioni di “zona”, destinazioni di singoli edifici, regole “casa per casa”, come avviene nella operazioni militari e ovviamente sbagliate, numeri che si accavallano, commi e sub commi con inestricabili rimandi dall’uno all’altro. Invece che la replicazione dei tessuti urbani abbiamo norme comunali che replicano il metodo delle leggi regionali di riferimento. Questa trasmutazione della regola, Caniggia non l’aveva prevista né la poteva prevedere, avendo egli studiato la città, non la Legge.
La realtà si perde e resta solo la norma astratta, autoreferenziale e fine a se stessa, la quale però qualcosa produce di reale: zonizzazione, edifici assurdi e sbagliati, sfiducia nella legge, ostacoli da superare.

Guardando il video di Léon Krier del post precedente e osservando le immagini proiettate sullo schermo, si vedono, invece, disegni, planimetrie, schemi simbolici che rimandano a concetti, in una parola: “sintesi di un'idea” resa in forma grafica, cioè il mestiere dell’architetto. Quei disegni dovrebbero essere la base del piano, con le norme a fungere da strumento di servizio per renderle attuabili.

Invece no: in urbanistica l’uomo è fatto per il sabato e poiché l’urbanistica è la politica, cioè l’arte di amministrare la città, ne deriva che la nostra, o almeno quella toscana, è una società autoritaria e anti-umana.

Leggi tutto...

4 luglio 2010

LEON KRIER A ROMA: LA FORZA DELLE IDEE

Mi era completamente sfuggito questo video girato a Roma durante il convegno Trasformazione Urbana tenutosi ad aprile, quello delle archistar, per capirsi.

Impossibile non subire il fascino che Lèon Krier promana, dovuto senza dubbio alla capacità di esprimere concetti semplici e allo stesso tempo forti e scandalosi. La semplicità dà scandalo nel mondo dell'architettura, per il fatto che semplicità significa chiarezza e forza di idee, almeno nel caso di Krier. L'architettese non gli appartiene, perché spesso dietro questo assurdo gergo si cela il vuoto di idee. Provate a leggere un'intervista qualsiasi a Peter Eisenmann e poi cercate di decifrarla e spiegarla con parole semplici ai vostri figli. Oppure a Renzo Piano che, viceversa, parla in maniera semplice, ma è come scrivere sull'acqua.
Gli applausi scroscianti in sala ne sono una prova evidente. Una sola piazza italiana in un quartiere pedonale, l'assurdità di tre sale di musica insieme, la monumentalità che non è altezza ma gerarchia tra i piani, l'urbanistica che prevale sull'architettura, la trama urbana che prevale sull'oggetto.
C'è poco da fare: i suoi progetti potranno anche non piacere, ma le sue idee sono forti, chiare, semplici. Più difficile ne è l'applicazione rigorosa in una società democratica, ma almeno lui ne è consapevole e lo dice chiaramente.

Tanto che ci sono, questo è link di un'altra conferenza di Lèon Krier a Rotterdam, Istituto Berlage, che consiglio di guardare:
The compact city


Credits:
Il video di Léon Krier è tratto da UNIROMA TV

Leggi tutto...

2 luglio 2010

PETER CALTHORPE CONTRO LA SPRAWL

Quella che segue è la traduzione di una articolo tratto dal San Francisco Chronicle, trovato tramite il sito Planetizen.
Da tempo negli USA è in atto un ripensamento sulle politiche urbane che hanno prodotto lo sprawl e un ritorno a città più dense e compatte. Uno dei principali artefici di questo indirizzo è Peter Calthorpe, tra i maggiori leader del New Urbanism, che si interessa particolarmente di infrastrutture per la mobilità:


TAGLIARE LO SPRAWL, RISPARMIARE ENERGIA, STIMOLI DI STUDIO

Il nuovo sviluppo in California deve essere progettato fin dall’inizio per risparmiare l'energia elettrica e l’acqua, diminuire il tempo di guida, migliorare la qualità del’aria e promuovere uno stile di vita sostenibile, in accordo con lo studio di riferimento sul futuro della crescita dello stato.
Vision California, il primo documento di pianificazione dello Stato maggiore in quasi 30 anni, è stato pubblicato Mercoledì.

Il rapporto dice che la crescita non dovrebbe concentrarsi sul crescente sprawl suburbano ma piuttosto sulla creazione dello sviluppo compatto nelle città già costituite. Avvicinare i pendolari al loro lavoro, sostengono i suoi autori, può aiutare i californiani a guidare 3.700 miliardi di miglia in meno e risparmiare 140 miliardi di galloni di benzina entro il 2050.
"I giorni in cui la gente poteva permettersi di guidare fino a quando trovava una casa di qualità a prezzi accessibili forse se ne sono andati", ha detto Peter Calthorpe, leader della Calthorpe Associates, la società di Berkeley che ha redatto il piano.

Ci sono poche sorprese nel documento, che si concentra su un tema che i californiani hanno sentito per decenni: Abbiamo bisogno di conservare le risorse sempre più scarse.
Lo sforzo da 2,5 milioni dollari è stato supervisionato dal Comitato strategico per la crescita, un gruppo a livello di governo che il Governatore Arnold Schwarzenegger ha detto di sviluppare come un modello per la crescita.
"La California è leader della nazione nell’affrontare la progettazione territoriale intelligente e integrale", ha detto Schwarzenegger in un comunicato. "Lavorando insieme a tutti i livelli di governo, possiamo contribuire a creare un futuro più luminoso e più sostenibile per le generazioni dei californiani a godere".
Anche se la relazione è soltanto una raccomandazione, senza efficacia, il piano prende di mira direttamente a politiche di sviluppo oggi in California, dove le città e le regioni hanno per decenni insistito per avere l'autonomia di sviluppare le proprie iniziative di crescita.
La differenza ora è che una serie di norme e progetti a livello statale, compresi quelli intesi a ridurre le emissioni di gas a effetto serra e lo sforzo di progettare e costruire un sistema ferroviario ad alta velocità, richiede che le agenzie di pianificazione mirino allo sviluppo da una prospettiva più ampia.

"E 'sempre pericoloso isolare un problema, non importa quanto importante possa essere quel problema”, ha detto Calthorpe.
Le realtà politiche della California potrebbereo diluire l'impatto complessivo della relazione.
Una legge del 2008 consente alle autorità dello Stato di ignorare i piani regionali che non fanno abbastanza per ridurre le emissioni di gas a effetto serra, ma è stata raramente utilizzata dall’autorità.
Inoltre, il candidato governatore Meg Whitman ha detto che se fosse eletto sospenderebbe una legge del 2006 che richiede una riduzione delle emissioni di gas serr di circa il 25 per cento. Whitman e altri conservatori lamentano che il progetto - fortemente voluto da Schwarzenegger - provocherà un aumento dei costi energetici e soffocherà la necessaria crescita economica.
Un provvedimento di sospensione delle regole di emissione si è precisato questa settimana per il voto di novembre.
Ma Calthorpe ha detto che una crescita sostenibile è necessaria e sopravviverà a eventuali ritardi politico a breve termine.
"Francamente, penso che le forze di mercato ci spingono in questa direzione", ha detto. "Penso che molte di queste hanno una propria dinamica".

Leggi tutto...

29 giugno 2010

PREGHIERA DI LANGONE CON ELOGIO DEL FIGURATIVO

di Camillo Langone su Il Foglio

Leggi tutto...

25 giugno 2010

I MISTERI DELLA CHIESA DI SAN PIO

Risvegliamoci e resistiamo al brutto che avanza”: è questo il titolo di un post di Francesco Colafemmina nel suo blog Fides et Forma. Il brutto di Colafemmina è riferito prevalentemente all’arte sacra, o meglio all'arte moderna che di sacro ha assai poco, architettura compresa, ma la frase ha lo stesso valore se riferita all’arte e all’architettura in genere.

Nel suo libro Il mistero della Chiesa di San Pio, progettata da Renzo Piano, il tenace e documentatissimo Francesco dimostra come in quella Chiesa non vi sia praticamente nessun segno tale da poter riconoscere in quell’edificio un luogo di culto cattolico, e questa è già la prova chiara ed evidente di un progetto sbagliato, prescindendo completamente dalla fede, o dalla sua mancanza, da parte di chi giudica. Quella, come molte altre contemporanee, è una Chiesa solo per un fatto di pura comunicazione: si chiama Chiesa, quindi è una Chiesa. Ma, dentro e fuori, di Chiesa cattolica c’è ben poco.


Se un architetto ha l’incarico di redigere un progetto, qualunque esso sia, e alla fine del processo consegna un edificio che non risponde alle caratteristiche e alla funzione richiesta, ma è altra cosa, come chiamare diversamente questo risultato se non errore?
Quali le cause possibili di questa evenienza? Tralascio del tutto la tesi del libro, peraltro assolutamente plausibile e ricca di indizi che in qualche caso potremmo anche chiamare “prove”, in cui si segnala la presenza di simboli riferibili all’esoterismo massonico, e mi limito a considerazioni generali applicabili a qualsiasi progetto o edificio costruito:
- La committenza ha fornito istruzioni ambigue o addirittura sbagliate, tali da lasciare al progettista un ampio margine di interpretazione personale. In questo caso si potrebbe ingenerare confusione nel progettista stesso e metterlo in uno stato di assoluta incertezza, e allora sarebbe probabile un progetto debole e contraddittorio. Non è però il caso in oggetto, perché l’edificio nasce su un impianto planimetrico e volumetrico preciso: quello di una conchiglia a spirale del tipo nautilus. Per questo basta guardare questa tesi di laurea, svolta in maniera del tutto indipendente da ogni influenza esterna.
http://www.youtube.com/watch?v=bRzrbybUmPA
Del resto, che la forma a spirale sia una scelta lo scrive Renzo Piano stesso nella breve relazione al progetto nel suo sito, anche se ci sono schizzi preliminari molto diversi. Dunque in questo caso, dato anche il lungo lasso di tempo trascorso tra progettazione e costruzione, che fa presupporre il fatto che molte persone ne abbiano potuto prendere visione, possiamo ritenere che la committenza fosse ben informata e che abbia condiviso il progetto. E’ perciò da ritenersi che per il committente quel progetto, con tutti gli arredi e opere d’arte presenti, corrisponda alla loro idea di Chiesa.



- La committenza ha chiesto il progetto per una determinata funzione, senza fornire troppe ulteriori specifiche, se non, si può immaginare, un bagdet. Nel caso specifico, trattandosi di una Chiesa e per di più dedicata ad un Santo veneratissimo e oggetto di culto popolare, destinata ad accogliere milioni di pellegrini all’anno, immagino che avranno chiesto anche una grande capienza e un’immagine forte e riconoscibile; richiesta questa implicita nella scelta stessa dell’architetto, il cui nome da solo è capace di produrre interesse, pubblicità, pubblicazioni, foto, interviste, libri, servizi TV e il consueto giro mediatico dell’archistar. Se così fosse l’architetto avrebbe redatto il progetto in maniera autonoma e in piena libertà. D’altro canto al nome Renzo Piano corrisponde una fama e un’autorevolezza tale da ritenere difficile l’imposizione di troppi limiti o intromissioni nella stesura del progetto.
Naturalmente i due casi non sono i soli possibili, essendo più verosimili situazioni oscillanti e intermedie. Ma il dato certo è che il progetto è uscito sbagliato, perché risponde più alla necessità dell’architetto di autorappresentarsi che non a quello di essere un luogo di preghiera, tant’è che le panche sono prive di inginocchiatoio, e non v’è dubbio che il responsabile primo sia il progettista.

Sono stato a San Giovanni Rotondo, circa tre anni fa e, prescindendo dal fatto che la geometria a spirale non è assolutamente percepibile ad altezza d’uomo, né fuori né dentro, confusa com’è con quell’elemento di disordine e di provvisorietà rappresentato dagli archi, i quali invece producono in genere l’effetto opposto di ordine e stabilità, e da quella copertura a corazza di coleottero sospesa su esili elementi metallici che frammentano del tutto la percezione unitaria del volume, che in planimetria appare invece geometricamente preciso e rigoroso, la prima cosa che si nota è l’orientamento della Chiesa, di cui non si trova l’ingresso, se non andandoselo caparbiamente a cercare. Ma poiché uno si scoccia dopo un po’, ci si infila nel primo fra i tanti boccaporti di nave che si trovano aperti e si finisce poi per trovare l’entrata....uscendo. Questa è collocata dalla parte opposta della spianata dalla quale si arriva e, per di più, in uno stretto spazio a ridosso di un muro a retta, e non ho potuto fare a meno di pensare al retro di un ristorante in cui si ammucchiano le casse di acqua e i rifiuti.



Una scelta davvero inspiegabile quella di collocare l’ingresso principale in un vero e proprio anfratto posto sul retro. Quali le motivazioni? Davvero non sono riuscito a darmi la spiegazione e, come me, molti altri.
Ma anche l’interno è disorientante: la selva di archi in conci di pietra che si tengono per effetto della precompressione (un inutile e costoso virtuosismo tecnologico) ha un primo impatto di una certa suggestione ma è solo un attimo, perché la confusione, il disorientamento e il disagio prevalgono. Per camminare si rischia continuamente di battere la testa sugli archi e manca del tutto quel senso di raccoglimento e di rispetto dovuto alla sacralità del luogo; quel sentimento che ti spinge naturalmente a parlare sottovoce, anche se non c’è una funzione religiosa in corso. Delle panche, di buon design e fattura ma senza inginocchiatoio, ho già detto.

Domanda: perché una Chiesa deve essere come una auditorium? Chi l’ha detto che un pellegrino debba pregare per forza seduto o in piedi e non possa inginocchiarsi, se non in terra? Chi ha stabilito che il fronte, debolissimo con un lezioso grigliatino da ufficio aziendale sopra la porta d’ingresso, deve essere nascosto nel retro? Questi sono misteri architettonici della chiesa di San Pio.
Ultima domanda: ma Renzo Piano avrà mai visto una Chiesa? Nessuno gli chiede di essere per forza credente ma è dovere dell’architetto documentarsi e mettersi nei panni di un fedele, oltre che conoscere la liturgia.
A meno che gli sia stato chiesto espressamente di fare una non-chiesa! Nel qual caso, sarebbe solo un brutto progetto di …..non so che cosa.

Leggi tutto...

23 giugno 2010

COMUNICATO STAMPA

Di contro alle scelte spettacolari della giunta comunale relative ai problemi urbanistici di Roma e delle sue periferie, il Gruppo Salìngaros e l'Associazione Simmetria organizzano il seminario aperto:
Reti urbane e biofiliche a Roma
Via Grazioli Lante, 13, il 28 giugno 2010 alle ore 18:00.

La città è luogo quotidiano di relazioni viventi per gli esseri umani, i suoi nodi non si sciolgono con le archistar, ma con un approccio scientifico per recuperare la coerenza di un sistema d’interazioni complesse. Agli interventi dei relatori seguirà la presentazione del progetto di Ettore M. Mazzola per rivitalizzare il Nuovo Corviale, e una discussione aperta con il pubblico.

Argomenti:
L’architettura e l’urbanistica biofiliche, opposte all’architettura e all’urbanistica patogene.
Le reti, i flussi e la città integrata. Complessità, autoorganizzazione, frattali e unfolding in architettura.
Progettazione pari-a-pari e partecipazione dei committenti.
Metodologie per lo studio dei flussi e per la rappresentazione dinamica e comprensibile delle componenti della città.
La conservazione. La modifica distruttiva.
Microchirurgia urbana.

Patrocini:
Regione Lazio; Provincia di Roma; Ordine degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori della Provincia di Roma; University of Notre Dame, School of Architecture - Rome Studies; DIPSU Dipartimento Studi Urbani - Laboratorio TIPUS, Università di Roma Tre; Bioarchitettura; Associazione Ditaubi.

Programma:
Presiedono l’ing. Claudio Lanzi ed il dott. Stefano Serafini.
18:00 Presentazione e benvenuto;
18:05 ing. Claudio Lanzi -Presidente Simmetria, Reti a celle poligonali e ottimizzazione delle priorità nelle azioni
18:10 prof. arch. Antonio Caperna - Università Roma Tre, Gruppo Salìngaros, Wholeness e Unfolding come processo di rigenerazione organica
18:15 prof. arch. Alessia Cerqua - Università La Sapienza, Connettività ambientale e reti ecologiche in ambito urbano
18:20 dott. Stefano Serafini - Gruppo Salìngaros, Neurofisiologia e reti;
18:25 exp. Giuseppe Nenna - Innovation Carrier, Ditaubi, Expetence pattern per reti umane e ottimali
18:30 prof. arch. Alessandro Pierattini - Notre Dame University, Gruppo Salìngaros, Il progetto urbano: reinterpretare i caratteri della città spontanea alla luce della coscienza critica
18:35 prof. arch. Ettore M. Mazzola - Notre Dame University, Gruppo Salìngaros, Progettare a scala umana e biofilica: il progetto Nuovo Corviale.
Pausa.
18:45 Discussione.

La partecipazione è gratuita, ma i posti sono limitati ed è dunque è necessario prenotarsi.

Leggi tutto...

21 giugno 2010

SGARBI!!!

Dopo aver letto questo articolo su Repubblica il pensiero mi è corso a questo parere di Vittorio Sgarbi:

Leggi tutto...

16 giugno 2010

IL FUTURO TORNA ALL'ANTICO

Pietro Pagliardini

L’architettura che verrà avrà sempre meno tecnologia. La parte di tecnologia presente, lo sarà in maniera meno evidente: sarà più legata la materia e meno alla pompa, useremo dei materiali che faranno un uso selettivo dei raggi solari, dei materiali assorbono l’umidità, che trattengono l’energia.
Andremo verso l’opacizzazione dell’involucro edilizio e l’architettura non sarà più prigioniera della tecnologia.

In campo urbanistico lo spazio pubblico non è uno spazio libero, è uno spazio controllato che gli abitanti della città prediligono rispetto allo spazio aperto naturale.
Chi ha pronunciato queste “profetiche” frasi? Lèon Krier? Ettore Maria Mazzola? Nikos Salìngaros? Carlo d’Inghilterra? Un esponente del New Urbanism?


No, Mario Cucinella, il guru italiano della tecnologia “verde” in architettura. Ho tratto queste frasi da un articolo su Italia Oggi. Anche Kipar, che onestamente non conosco, è in sintonia con quanto affermato da Cucinella.
Una inversione a U, un ripensamento totale. Anche se ancora resta un margine di “modernità”, una scoria, o una via di fuga, in quel sottolineare l’aspetto tecnologico dei materiali.
E’ inevitabile chiedersi il perché di tale svolta, da accogliere senz’altro con favore e soddisfazione.
Tralascio le ipotesi più maliziose, quali una pur legittima operazione di marketing per coprire una fascia di mercato evidentemente in espansione, oppure uno studio più accurato di un po’ di fisica tecnica, scienza niente affatto nuova che attribuisce alla massa e alla sua inerzia termica una buona parte della capacità di isolamento termico, sia in estate che in inverno, oppure l’inverno freddo e piovoso e le ultime notizie sul global-warming di origine antropica con l'uscita di scena di Al Gore, che contribuiscono a creare un clima meno ideologico e un approccio più razionale al problema ambientale, più che climatico, che pure esiste.

Non sarò certo io a condannare chi cambia idea, specie se l’ultima è quella più vicino al vero (non ci si può appellare alla scienza e poi smentirla progettando edifici di vetro e facendoci pure fortuna). L’augurio è che la svolta sia autentica, e non ci sono motivi per dubitarne, data anche l’occasione in cui è stata annunciata (Milano. Festival dell’Ambiente).

Di particolare interesse poi sono le affermazioni sulla città e sui “gusti” dei cittadini, sulle loro predilezioni. Pur essendo i toni, almeno nel resoconto giornalistico, alquanto sfumati e il linguaggio immaginifico, da guru appunto, il senso è abbastanza intuibile: la città di cui si parla assomiglia molto a quella tradizionale, fatta di pieni e non di vuoti, di costruzioni e non di solo verde. Manca molto ancora per definire una città, ma quel poco che viene detto è già qualcosa: niente case in mezzo al vuoto ma una sequenza di spazi continui costruiti ma anche ricchi di verde non indistinto. Una svolta dunque piuttosto coerente con una visione fortemente unitaria tra urbanistica e architettura. Perché l’ha fatta? Davvero mi auguro, ma è sempre in agguato la smentita, che vi sia un clima culturale e ambientale favorevole a queste idee, tanto più importante nel mondo ambientalista che spesso, anche a causa delle semplificazioni giornalistiche, è presentato più come un insieme di slogan e parole d’ordine che non con idee chiare e definite nel campo urbano. Invece ambientalismo e tradizione devono andare di concerto, perché c’è accordo nei fatti.
Temi come quello della densificazione e del contenimento della crescita urbana devono diventare patrimonio comune, inseriti però in una visione in cui la città deve essere considerata una grande risorsa, l’ambiente di vita dell’uomo e il luogo delle relazioni sociali, rifuggendo errori quali i grattacieli più o meno (molto meno) ecologici ma riscoprendo che i nostri centri storici sono densi, vitali e ambientalmente sostenibili.

Una conseguenza collaterale ma per me intrigante è che d’ora in poi, quando verrò accusato di antichismo, reazione, conservazione e tutte le altre contumelie possibili, potrò citare, per coloro che necessitano della certificazione di qualche guru (Maestro, archistar, ecc) senza i quali, evidentemente, non riescono a pensare, potrò citare anche Mario Cucinella nel mio personale albero genealogico, e la cosa davvero mi fa presagire future soddisfazioni.
Come dice il proverbio cinese, mi siederò sulla riva del fiume ad aspettare che passi anche Stefano Boeri, non cadavere, evidentemente, ma convertito dal futuro di agricoltura urbana e di boschi verticali al futuro che affonda le sue radici nel passato.

Leggi tutto...

7 giugno 2010

LETTERA AL PROF. MURATORE SULLO ..SQUADRISMO!!!!

Gent.mo Prof. Muratore,
ho trovato un Suo scritto del 2003, dal titolo “Distruggere è anzitutto una sconfitta”, pubblicato su AREA e riportato integralmente su Archinfo.it, sulla demolizione di opere di architettura, che mi ha indotto ad una riflessione proprio in relazione all’affermazione di Buontempo di abbattere il Corviale, sostenuta da Il Covile, da questo blog e dal gruppo che fa riferimento a Nikos Salìngaros.
Intanto va detto che la Sua non è una difesa ideologica o critica di questa o quell’altra opera di architettura ma il Suo ragionamento si fonda su un principio generale che ogni opera è comunque degna di rispetto e di attenzione di “amore per la vita delle cose, anche delle più umili e, quindi, più deboli”. Non è, evidentemente, un atteggiamento di infinito amore francescano per il creato, ma la convinzione che l’opera dell’uomo, l’architettura nella fattispecie, qualunque ne sia l’origine e il risultato finale, è sempre degna di essere preservata dalla furia iconoclasta e “distruttiva” di turno, anche se giustificata dalla contingente reazione ad una opposta furia “costruttiva” che ha prodotto opere dal forte valore ideologico e simbolico palesemente sbagliate sia nei confronti del territorio che dell’uomo. Ma Lei non salva e non assolve l’idea che sottende a queste opere-simbolo, quanto l’opera in sé, con il logico presupposto (è una mia “logica” deduzione) che, una volta costruita, essa esiste a prescindere dalle intenzioni buone o cattive dell’autore, e quindi da quel momento assume una vita propria e si separa da colui che l’ha progettata.

Se questo è il significato del suo atteggiamento (e credo non possa essere altrimenti) personalmente io lo condivido del tutto. Rifuggo, infatti, la beatificazione degli autori, riconoscendone tuttavia l’importanza, positiva o negativa, e la responsabilità nell’esecuzione dell’opera. Proprio per questo credo che le opere vadano giudicate per quello che sono e non per tutto quanto sta a monte (la vita dell’artista, la sua storia, le intenzioni, l’appartenenza ad un ismo, ecc.), che indubbiamente serve e deve essere studiato per comprendere meglio e per formarsi una dimensione critica completa, ma che non può assurgere ad un valore di livello superiore al risultato finale e agli effetti prodotti nella realtà.
Su questo punto si gioca, in verità, tutta la differenza tra l'arte antica e l’arte moderna e contemporanea, la quale vive, il più delle volte, più dei suoi presupposti che del valore dell’opera stessa.
Però Lei sostiene anche che:
Di solito, quando tutto ciò avviene, è perché si è scelta la via breve della sopraffazione nella presunzione di essere latori di una verità e di un'autorità che vengono dalla sedicente e contingente autorevolezza di una superiorità culturale che si fa fisica e materiale. Invocare la distruzione di ciò che non piace perché non lo si comprende è stato spesso l'esercizio di quanti nella convinzione ideologica di interpretare altrui bisogni si sono spesso arrogati il diritto di proposte indecenti. Invocare la demolizione di architetture importanti, come nel caso romano il Vittoriano, il Palazzo di Giustizia e il Palazzo della Civiltà Italiana, più amichevolmente noto come Colosseo "quadrato" (che, se non altro, sono state scenografie storiche e straordinarie di Greenewey, di Welles e di Fellini), piazza Augusto Imperatore, lo stesso Corviale quando si sa che l'ipotesi risulta del tutto impraticabile è esercizio stucchevole e isterico buono solo a sottolineare nell'enfasi retorica del gesto squadristico ed esemplare la propria incapacità di dialogo, di tolleranza, di ascolto e di intelligenza con quanto cozza col proprio modello teorico, con la propria utopia, con il proprio frustrato delirio avanguardistico”.

Lei accomuna qui, in un unico paniere, opere molto diverse tra loro quanto a funzione, valore simbolico, tipologia. Le prime appartengono ai temi collettivi, sono cioè edifici specialistici nati con una precisa funzione urbana, certamente influenzate dallo spirito del tempo, certamente controverse, ma gli effetti che esse apportano incidono solo ed esclusivamente sull’immagine urbana, sul maggiore o minore grado di condivisione che esse possono avere tra i cittadini, e quindi sul senso della loro appartenenza alla città stessa; condivisibili o meno che siano, ormai sono entrate a far parte del patrimonio collettivo di Roma, come la torre Eiffel a Parigi, nata come opera provvisoria e che definire bella sarebbe un azzardo, ma che nessuno si sognerebbe mai di abbattere!

Il Corviale è altra cosa. Il Corviale è edilizia residenziale pubblica, cioè quel campo in cui si misura il rapporto che lo Stato instaura, in ambito urbano, con i suoi cittadini meno fortunati. Al Corviale vivono migliaia di persone (6000, 8000, 10000, boh!) i quali devono percorrere, per entrare in casa, ballatoi lunghi oltre 100 metri ed è un’operazione ideologica fatta sulla pelle della gente, utilizzata come cavia. Al quarto piano erano previsti i negozi. AL QUARTO PIANO! Non c’è, ovviamente, chi potrebbe essere così matto da aprire un negozio al quarto piano di un edificio residenziale. Chissà, forse il progettista pensava a negozi “di Stato”!
Qui non si invoca la distruzione di ciò “che non piace” ma, semmai, si ritiene di dover abbattere ciò che il buon senso di persone dotate di normale cervello e stomaco rifiuta.
Il Corviale riguarda certamente tutti i cittadini romani, ma difficile contestare che riguardi prima di tutto quelle migliaia di residenti. Che si provi qualcuno a dire in una pubblica assemblea al Corviale che l’edificio appartiene alla città, come il Colosseo quadrato o il Palazzaccio, e quindi che è la città o, peggio, gli architetti che devono deciderne il destino! Se vogliamo chiamare questo populismo io sono felicemente populista.

Però Lei per il Corviale utilizza una giustificazione diversa, cioè quella che sarebbe ipotesi “impraticabile” e quindi “esercizio stucchevole e isterico buono solo a sottolineare nell'enfasi retorica del gesto squadristico ed esemplare la propria incapacità di dialogo, di tolleranza, di ascolto e di intelligenza con quanto cozza col proprio modello teorico, con la propria utopia, con il proprio frustrato delirio avanguardistico”.
Qui mi perdo. Impraticabile è il suo mantenimento e ancora più la sua ristrutturazione, dato il sistema costruttivo utilizzato, come hanno spiegato bene E.M.Mazzola e memmo54 in un suo commento al post precedente, e non ho sentito obiezioni alle loro affermazioni.

Più raffinata è l’accusa di “squadrismo” e “incapacità di dialogo”. Intendiamoci: raffinata perché proveniente da Lei, di cui io apprezzo la competenza e l’equilibrio, spesso mascherato da un linguaggio romanesco ironico, disincantato e un po’ sbracato, perché le accuse acquistano e hanno un sapore e un significato diverso in base alla loro provenienza. La stessa frase detta, che so, da Renato Nicolini, meriterebbe una risposta sbrigativa alla Muratore.
Lo squadrista non solo impone la sua volontà su quella degli altri ma, peggio ancora, esige che gli altri la pensino come lui. Esattamente ciò che hanno fatto i progettisti del Corviale sulle migliaia di inquilini, come ha ben chiarito la sociologa Amalia Signorelli in quel video linkato nel precedente post in un dibattito a Valle Giulia. Ma Mazzola, Rosponi e Tagliaventi non vogliono imporre un bel niente, hanno proposto una soluzione possibile da sottoporre al vaglio e alla decisione dei residenti!

E’ squadrismo questo? No. Allora è populismo? Neppure. E’ un “normale” processo democratico. Oddio, tanto normale non è, ma lo dovrebbe diventare. Se progetto una casa per un committente privato, nell’ambito delle regole fissate dalla strumentazione urbanistica, questi ha il potere di fare ciò che vuole e il progettista ha l’obbligo di esaudirlo. Se non ne condivide i contenuti, rinuncia. Se il committente è una cooperativa (ma non ne esistono più di quelle vere) il progetto passa all’approvazione dell’assemblea, e non è un rito, mi creda. Il committente pubblico, invece, non può sottoporre il progetto agli utenti, perché non può conoscere prima chi essi saranno, e allora giocoforza si deve sostituire a loro e interpretare, nel migliore dei modi possibile, le esigenze probabili dei futuri inquilini. Non è stato mai fatto: seguire le leggi, applicare i parametri, tutti rigorosamente numerici e punitivi e poi decida l’architetto. Questo è accaduto anche a Corviale. Ma oggi il caso sarebbe diverso. Si conoscono i “clienti” e cioè gli abitanti di Corviale. Oggi c’è la possibilità di farli scegliere.

Quali dunque le scelte possibili?
1) Lasciare tutto com’è e vendere agli abitanti l’edificio. L’Istituto si libera del gravame e lo trasferisce sulle spalle del condominio, cioè dei futuri acquirenti, che si accorgerebbero ben presto di avere acquistato un debito, cioè di avere preso una sòla.
2) Demolirlo in parte, come dicono molti, e integrare, ricucire, aggiungere, trasformare con il risultato di avere comunque persa la memoria del Corviale (un edificio di un chilometro o è di un chilometro o è un’altra cosa) e di continuare a fare esperimenti tecnologici sulla pelle degli altri per ristrutturare le parti rimanenti, che invece sempre Corviale sono.
3) Cambiarne la destinazione facendolo diventare pubblico, farne un “tema collettivo”. Certamente la tipologia edilizia si presterebbe meglio che non quella residenziale, ma la tipologia costruttiva molto meno e poi, dove “collocare” gli abitanti?
4) Demolirlo e sostituirlo con un ambiente urbano, recuperando una parte dei costi con l’incremento volumetrico e con il fatto che il terreno non è un costo, essendo pubblico. Con quale progetto? Tre ne sono stati presentati, si adoperino altri, facciano proposte e facciano scegliere.

Chi si è esposto non teme certamente il giudizio della gente. Altri semmai lo dovrebbero temere. E sono certo che questi chiederebbero un bel concorso, con la solita giuria di professori e delegati degli ordini, insomma, la solita camarilla in cui non crede nemmeno Lei. Quello che sfugge, o forse non si condivide o non si capisce o si teme, è la presenza di una strategia completamente diversa nella costruzione della città le cui scelte possono e devono tornare nelle mani di coloro che ne hanno pieno titolo e diritto, cioè i cittadini: togliere la città dalle mani degli esperti, che avrebbero il compito di proporre e accompagnare, non di imporre e scegliere.
Se questo è squadrismo, sopraffazione delle idee…. Certo che abbiamo idee molto diverse e le vogliamo anche affermare, e credo sia lecito, come anche Lei Professore vorrà convenire, ma, al massimo, è illusione, ingenuità cui Lei ha già dato risposta con quel suo bonario e annoiato titolo: Ancora sull’abbattimento del Corviale…che palle!
Se facciamo tutto quanto è lecitamente possibile per affermare le nostre idee, se chiediamo un confronto su queste con i “clienti”, i media, le istituzioni, perché chiamarlo squadrismo o ideologia che farebbe da contrappunto a quella realmente messa in atto da decenni? Non facciamo mica un blitz con le squadre speciali al Corviale!
Posso capire il principio di precauzione per opere controverse ma qui di controverso c’è solo il giudizio di qualche architetto che si ostina a difendere l’indifendibile perché per il resto tutto è molto, molto chiaro.
Certo di non avere scalfito il Suo disincanto
Cordialmente La saluto
Pietro Pagliardini

Leggi tutto...

4 giugno 2010

CORVIALE: TUTTO SI TIENE

Questo post è dedicato a tutti coloro che credono nella critica architettonica contemporanea come disciplina avente vita propria e capace di tenere separata l’architettura dalle sue conseguenze tangibili sulla pelle di chi la subisce, quasi un’analisi scientifica e asettica separata dalla società in cui essa opera.

Vittorio Gregotti, Corriere della sera 3 giugno, articolo di Pier Luigi Panza:
A causa di un’interpretazione perversa, nichilista e schizofrenica della globalizzazione, l’architettura sta rinunciando a tre suoi storici principi: quello di modificare il contesto urbano con un disegno razionale e socialmente condiviso, quello di lavorare anche nella piccola dimensione e, infine, quello di intendere la costruzione come metafora di lunga durata”.
Gregotti dice cose condivisibili ma dimentica il suo Zen che non risulta essere “socialmente condiviso”. Sbagliare è ammesso a chiunque, ma non perseverare nella sua difesa ad oltranza. Dunque ciò che dice oggi è giusto ma ciò che continua a pensare è altra cosa.

Renato Nicolini: Cartolina Corviale su PresS/Tletter n° 17
…Ne fa le spese ancora una volta Corviale di Mario Fiorentino. Qualcosa che è stato oggetto di studio, in tutto l’ultimo decennio, in senso esattamente contrario, come intervenire per completarlo e farlo funzionare senza demolirlo. Questo anche per il fascino estetico che ne promana, che aveva particolarmente colpito Bruno Zevi e che per ultimo ha percepito Giorgio Montefoschi inviato dal Corriere della Sera… Una serie d’interventi di delocalizzazione parziale degli attuali inquilini dell’ATER che volessero andarsene, sostituendoli ad esempio con una popolazione studentesca; o di upgrade architecture che si aggiungano modificando; ristrutturazioni parziali e più estese, e restauri – ad esempio della segnaletica; sembrerebbero molto più adeguati ad affrontare concretamente la questione. Corviale ha bisogno di questo tipo d’intervento….avendo lavorato molti anni come assistente nei corsi di Mario Fiorentino, penso che il risultato di qualsiasi architettura dipenda molto da come viene abitata. Fiorentino è stato influenzato dall’ideologia dell’abitazione collettiva, dal valore simbolico che partiva dal Karl Marx Hof di Vienna e dalla sua estrema resistenza all’annessione nazista, per arrivare ai grandi quartieri popolari. Con un’idea degli inquilini forse aprioristica, astrattamente positiva. Per questo insisto sull’importanza di modificare la composizione sociale degli abitanti di Corviale con una robusta iniezione studentesca”.
Qui non c’è niente da condividere e non c’è ripensamento. Anzi c’è una malinconica pervicacia nel difendere l’indifendibile, e molto di più. Queste parole provengono da un altro mondo, che molti immaginano sepolto. C’è ancora l’ingegneria sociale, le persone oggettualizzate a strumento dell’architetto: “penso che il risultato di qualsiasi architettura dipenda molto da come viene abitata”. Vale a dire la colpa è degli inquilini che non sanno abitare.
Sembra la riedizione di una lettera scritta da Le Corbusier nel 1946 ad un certo Malespine:
Alloggiare? Vuol dire abitare, vuol dire saper abitare. Il mondo ufficiale non si occupa di questa questione che in termini elettorali. Ora, l’alloggio è lo specchio della coscienza di un popolo. Saper abitare è il grande problema, e alla gente nessuno lo insegna”.
Ma Le Corbusier non aveva ancora “sperimentato” e potremmo dargli, per così dire, un’attenuante rispetto a Nicolini, che oggi il risultato lo può constatare, se solo lo volesse. E quella trovata meravigliosa del restauro della segnaletica capace, se realizzata, di salvare e rivedere tutta la storia dell’architettura moderna! C’è chi afferma che Le Corbusier sia ormai superato da tempo dalla critica… Forse, dopo la nuova segnaletica, verrà rivalutato, e con lui Fiorentino. Il quale si è ispirato al Karl Marx Hof per la "sua estrema resistenza all’annessione nazista"! Ma nel 1972 Hitler era, fortunatamente, morto da un pezzo!

Giorgio Montefoschi: Corriere della Sera, 2 giugno 2010 – Corviale: il sogno dell’ateneo
Ancora sul Corviale, il chilometro abitativo costruito negli anni Settanta su Progetto di Mario Fiornetino alla fine di della via Portuense, che l’assessore alla Casa Teodoro Buintempo avrebbe voglia di abbattere. Ne parlavo giorni fa con un architetto romano, Giulio Fioravanti. Il quale, oltre a essere assolitamnete d’accordo con tutti quelli che invece vorrebbero conservare questo segno architettonico, forse incompiuto ma certamente di rilievo, mi diceva che, secondo lui, la maniera migliore per rivitalizzare il Corviale sarebbe quella di farci una sede universitari: la sede di Roma Quattro. “E le famiglie?” ho domandato. “Le famiglie-mi ha risposto- rimarrebbero. L’università si potrebbe benissimo sistemare nei due piani del basamento”. Penso che l’idea sarebbe bellissima, e comunque meritevole di essere presa in esame”.
Montefoschi era rimasto affascinato dalla sua prima visita al Corviale di poco tempo fa (vedi qui). Il tema del “segno” ritorna e, pur di non abbattere il segno mettiamoci l’università in coabitazione con gli inquilini dei piani di sopra. E’ giusto, direi, perché i giovani portano allegria e gli inquilini ne godrebbero fortemente e le loro case si rivaluterebbero. Semmai eviterei di metterci la Facoltà di Architettura, perché esiste la seria possibilità che, dai piani alti, professori e studenti possano essere fatti segno di lanci di vasi da fiori da inquilini non proprio soddisfatti degli architetti.

Molto altro ancora ci riserva la stampa, ma è bene non dilungarsi. Piuttosto gettiamo uno sguardo ad alcune vere perle video.
Nientepopòdimenoche Mario Fiorentino che spiega agli studenti il progetto:

Corviale- Architettura a Valle Giulia – parte 1
Benedetto Todaro:
Il Corviale costituisce una specie di topos specifico dell’architettura contemporanea particolarmente caratterizzato non tanto e non solo per la sua realtà effettiva, quanto per il luogo che occupa nell’immaginario collettivo. Quindi Corviale è diventato non soltanto una realtà evolutiva nel tempo, quindi non un Corviale ma tanti Corviali man mano che il tempo andava passando, ma soprattutto è quel Corviale dentro di noi, dentro l’architettura. E’ lì che il discorso diventa intrigante e interessante: cosa è Corviale per noi, cosa rappresenta per noi e a che tipo di riflessione ci induce”.
Non so dire se alla riflessione ha seguito risposta. Mi piacerebbe saperlo però.

Mario Fiorentino spiega agli alunni di un liceo scientifico:
Abbiamo domandato all’Istituto case popolari qual’era lo standard per loro accettabile dal punto di vista dell’amministrazione. Per esperienza loro, praticamente i condomini più grandi che loro fanno e fanno bene, sono circa di 250 appartamenti. Quindi praticamente 250 appartamenti consentivano 5 condomini all’interno di questo sistema. Da qui le 5 porte e da qui i 5 complessi condominiali e da qui i 5 assi su cui è organizzato questo sistema, che è un sistema non di una casa lunga 1 chilometro, che è una cretinata, ma quello di un sistema di assi ortogonali e di assi longitudinali che praticamente attraverso questa maglia organizzano quel sistema che ha una profondità di 250 metri, cioè la sezione di questo elemento qui è una sezione abbastanza complessa di 250, organizzata attraverso questo sistema formale delle cinque porte che riflette un sistema organizzativo interno di 250 appartamenti perché sono 4 condomini da 250 metri”.
Tutto qui? Chi lavrebbe detto che il Corviale altro non sarebbe che il risultato quasi automatico e ottimizzato delle indicazioni date da un amministratore di condominio (pubblico)! Certo, bisogna tenere conto che l’architetto si rivolgeva ad un gruppo di giovani liceali e dunque doveva necessariamente semplificare, però quella battuta sul chilometro, così minimizzante e banalizzante, lascia supporre che vi sia una certa serietà in quello che dice. Ma questo non lo potremo sapere. Resta il fatto che quattro condomini (o cinque, boh, perché si scambiano alloggi con metri e viceversa) lunghi 250 metri, se messi in fila fanno sempre un chilometro e anche un solo condomino di 250 metri strutturato su ballatoi è un mostro, solo un po’ più piccolo. Se fosse vera la storiella raccontata, e io non credo sia vera, sarebbe la dimostrazione dell’incapacità di saper valutare le conseguenze dell’aggregazione di quattro edifici da 250 metri, la cui somma non è stimabile in termini aritmetici perché trascura la promiscuità, la diversa percezione della propria abitazione, il valore simbolico e di “segno” stesso che un edificio di 1 Km comporta. No, io credo ci sia stata precisa volontà e allo stesso tempo indifferenza rispetto alle conseguenze e non sottovalutazione del problema.

Corviale –Parte 2
Mario Fiorentino:
“Ci sono due modi di fare l’architettura. Forse ce n’è uno solo ma è il modo di risolvere certi problemi di architettura. Uno è quello di mettersi nel canale del quieto vivere ed di utilizzare gli schemi supercollaudati che ormai in edilizia si è configurato. E poi c’è la strada della sperimentazione, in un certo senso. E questo appartiene più a questa scala”.
Questa affermazione è certamente autentica ed è il leit-motiv dell’architetto moderno, la giustificazione aprioristica di ogni sbaglio: gli esperimenti, si sa, falliscono, ma, alla fine, qualche volta riescono. In architettura non è successo e inoltre gli esperimenti restano e pesano sulle persone.

Amedeo Schiattarella:
Corviale non è questa sorta di astronave improvvisante precipitata sul suolo romano per gettare panico tra la popolazione, perché in realtà è il frutto di una lunga elaborazione fatta dentro la Facoltà di architettura dagli studenti e dai professori per molti anni, su addirittura idee che nascevano da questa concezione di una città che doveva separare l’edificato dall’area verde e liberare grandi aree da destinare ad ambiente naturale concentrando la cubatura in pochissimi spazi”.
Osservazione pertinente, ma dal tono e dal fatto che “Corviale non getta panico nella popolazione” sembra vi sia una sorta di giustificazione e di adesione al principio dell’elaborazione di chara matrice lecorbuseriana.

Paolo Desideri:
Corviale appartiene certamente ad una idea che nel 1982 ancora mette in scena, mette in figura una cultura abitativa che è sostanzialmente la cultura abitativa della civilizzazione modernista”.
A parte il lapsus della data, Desideri fa un’affermazione vera ma, senza il seguito, difficile da valutare.

Amalia Signorelli, sociologa:
“Credo ci sia stato veramente un’abitudine, un percorso di esperimento in corpore vili. L’architettura italiana si è così massicciamente occupata di edilizia popolare, di edilizia pubblica, sociale e non di edilizia privata perché aveva “carta bianca”, aveva di fronte degli interlocutori che non erano in grado di articolare le proprie esigenze e semmai di fare opposizione alle idee degli architetti, laddove il committente privato, il committente borghese, se non altro articola. C’avrebbe gusti pessimi, filistei, kitsch quanto volete, però siccome paga, pretende”.

Per fortuna che c’è questa signora a raccontarla giusta, pur con la “prudenza” e un residuo di “supponenza” verso il privato ignorante, funzionale però al luogo.

Tutto si tiene, dunque. Critici, architetti, intellettuali, tutti riflettono pensosi sui problemi del Corviale, tutti cercano soluzioni per recuperarlo, ri-usarlo, come diciamo noi architetti, non pensando che se un edificio recente deve essere ri-usato, evidentemente l’uso a cui è stato destinato, o la tipologia per quell'uso, era sbagliato, tutti inneggiano al gesto, lo inseriscono nella “cultura del tempo” e perciò stesso lo assolvono, assolvendo quindi indirettamente anche quella cultura tout court. Ma gli abitanti restano sullo sfondo, merce buona per i servizi sociali, le associazioni di volontariato, i gruppi culturali che li rallegrano con i loro spettacoli e le loro feste dagli immaginifici nomi.
E la sera ognuno di loro torna alle proprie belle case del centro storico, della campagna, dei condomini con portiere, e al Corviale ci restano gli altri. Ma, si sà, il critico deve fare questo, non ha responsabilità nei confronti della società ma solo della sua disciplina! Chissà se avranno mai fatto un convegno su etica ed estetica, etica ed architettura!

Facciano un bel gesto di coerenza, dato che l’Istituto case popolari ha intenzione di mettere in vendita gli appartamenti per liberarsi di un peso, economicamente e socialmente, insopportabile: costituiscano una bella cooperativa, lo comprino loro (la compagnia non manca certo), con il sostegno di imprenditori edili di area che anche questi si trovano, ci vadano a stare, ci facciano un bel Falansterio stile ‘800, case, loft, studi, atelier, un pizzico di Università (ma non troppa perché i giovani sono rumorosi), spazi polivalenti culturali, pista elicotteri in alto, sala cinematografica con una copia restaurata della Corazzata Potiomkin, centro congressi, un albergo per gli amici ospiti, e così il gossip che ora ondeggia tra Capalbio e le masserie pugliesi riacquisterà la sua centralità romana al Corviale.
Una raccomandazione però: nel piano economico-finanziario non sottovalutino i costi di ristrutturazione.

Di seguito il link ad un altro video su Corviale e link a qualche post correlato:

One day at the Corviale

Le Corbusier e lo storicismo
Periferie e archistar
Pratiche pre-moderne dell'urbanistica
Dimenticare Le Corbusier
Sull'edilizia popolare
Dietro il modernismo alcune verità

Leggi tutto...

2 giugno 2010

MARCO ROMANO: SAPER PROGETTARE

Marco Romano ha, tra i tanti meriti, quello di rendere disponibile parte del suo sapere a chiunque. Nel suo sito, Le belle città, che è archivio di materiale iconografico e documentario sulla città davvero consistente, sono liberamente scaricabili molti testi suoi e di altri. I testi sono raccolti dentro la sezione La teoria estetica. Ma altri ve ne sono nella sezione Ritratti di città.


Di uno di questi, dal titolo Saper progettare, riporto di seguito la parte iniziale:

Progettare città non consiste nel coordinare in un quadro unitario le domande più diverse, da quelle propriamente materiali – il piano del traffico o quelli del rumore o dei servizi - a quelle manifestate dai cittadini nelle occasioni più disparate, a quella di nuove case rappresentata dagli imprenditori immobiliari o a quella della grande distribuzione con i suoi shopping center, perché ciascuna di queste domande ha motivazioni sue proprie, tra loro diverse e incommensurabili, sicché il loro realizzarsi o il loro declinare o il loro modificarsi cambiano di per se stessi i presupposti del quadro del quale cerchiamo la coerenza, un quadro con la pretesa di essere stabile nel tempo che non è tuttavia in grado di imprigionare una realtà mobile.

Il fine cui codesto quadro affida la legittimità della propria pretesa di coordinare i comportamenti futuri dei cittadini anche a dispetto dei loro effettivi desideri è quello di perseguire la loro “vera” felicità, consistente in alcuni diritti universali e immutabili - scuole, ospedali, mobilità, verde – da collocare nella città con i criteri di una razionalità distributiva ispirata all’efficienza tecnica.

Ma la città europea è il terreno della libertà e quale sia il “vero bene” dei cittadini è un campo aperto pertinente alla civitas, che quotidianamente lo affronta con le procedure della sua democrazia: sicché, ogni volta che immaginiamo quale dovrà essere il comportamento a priori più conveniente trattiamo gli uomini non come fini – dei quali ampliare le chance di scelta - ma come mezzi, perché ipotizziamo un criterio di funzionamento della città che considera prevedibili (e quindi di fatto coartabili) i comportamenti, riducendone implicitamente la libertà: i piani più rigorosi sono quelli dei regimi totalitari, quelli che registrano la disperazione dei sudditi e che diventeranno subito obsoleti appena riconquistata la libertà.

"La premessa esplicita di Le Corbusier è infatti la ricerca della felicità. Nessun dolore resiste, dice Le Corbusier, quando uno destandosi tre mattine di seguito ha nella faccia lo splendore vivificante del sole che sorge – commenta Gianfranco Contini che ha assistito a una sua conferenza. Dimentichiamo altamente il diritto di piangere contro ogni meteorologia che ce ne vorrebbe frodare; e in un ottimismo ben più ampio e fondamentale chiediamo che il bonheur, e dico uno stabile bonheur, trovi origini assai più fragili e imponderabili fino dentro al buio urbano...Il suo bonheur è un bonheur moscovita, lo svago è obbligatorio, legislativo e collettivo, e dittatorio è l'invito a una natura di Stato".

Ogni piano che pretenda di avere costruito un quadro di coerenza verrà in seguito smentito, perché la maggioranza che lo approva – tirandolo spesso da tutte le parti come una coperta corta per superare i dissensi – pretende di sottrarre quel campo di decisione alle maggioranze future, le quali hanno tutto il diritto di rivederlo, fin dal giorno seguente alla sua approvazione, interpretando nuove domande o ribaltando la loro precedente gerarchia: come le regole degli standard urbanistici che da tempo non intercettano una domanda sociale reale e le cui tracce restano nelle città come dinosauri estinti e innominati rottami
”.

Il tema della libertà è sempre presente in Marco Romano, fatto alquanto raro negli urbanisti, i quali in genere relegano invece il cittadino a comparsa, strumento costretto a muoversi entro i limiti rigorosi stabiliti dal "regista". Non ingannino gli ostentati apporti partecipativi, per sinceri che siano, di cui è costellata oggi la procedura di formazione di un piano: tutto l’apparato normativo e, prima ancora, l’impostazione culturale con cui si affronta il tema città, sono rimasti impositivi e ispirati alla logica di fondo a suo tempo descritta da Gianfranco Contini.
La mancanza di un “soddisfacente universo simbolico”, come lo definisce in seguito Romano, riduce la città a mero congegno da progettare nelle sue varie parti funzionali. In questo quadro l’urbs non è più il risultato della volontà estetica dei cittadini e la civitas si perde, sovrastata dalla potenza di colui che decide per tutti, indifferente ai desideri e ai bisogni immateriali dei singoli individui, tutti invece obbligatoriamente parte di quell’obbligo alla felicità (da conseguire con la sfera del necessario, con la tecnica e con le funzioni) di cui parla Contini.
Consiglio la lettura di tutto il testo, abbastanza breve da non meritare riassunti.

Leggi tutto...

Etichette

Alemanno Alexander Andrés Duany Angelo Crespi Anti-architettura Ara Pacis Archistar Architettura sacra Archiwatch Asor Rosa Augé Aulenti Autosomiglianza Avanguardia Barocco Bauhaus Bauman Bellezza Benevolo Betksy Biennale Bilbao Bontempi Borromini Botta Brunelleschi Bruno Zevi CIAM Cacciari Calatrava Calthorpe Caniggia Carta di Atene Centro storico Cesare Brandi Christopher Alexander Cina Ciro Lomonte Città Città ideale CityLife David Fisher Deridda Diamanti Disegno urbano Dubai E.M. Mazzola EUR Eisenmann Expo2015 Frattali Fuksas Galli della Loggia Gehry Genius Loci Gerusalemme Giovannoni Gregotti Grifoni Gropius Guggenheim Hans Hollein Hassan Fathy Herzog Howard Il Covile Isozaki J.Jacobs Jean Nouvel Koolhaas L'Aquila L.B.Alberti La Cecla Langone Le Corbusier Leon krier Leonardo Ricci Les Halles Libeskind Los Léon Krier MVRDV Maffei Mancuso Marco Romano Meier Milano Modernismo Movimento Moderno Muratore Muratori Musica Natalini New Urbanism New York New York Times New towns Nikos Salìngaros Norman Foster Novoli Ouroussoff PEEP Pagano Palladio Paolo Marconi Petruccioli Piacentini Picasso Pincio Pittura Platone Popper Portoghesi Poundbury Prestinenza Puglisi Principe Carlo Purini Quinlan Terry Referendum Renzo Piano Ricciotti Robert Adam Rogers Ruskin S.Giedion Sagrada Familia Salingaros Salzano Salìngaros Sangallo Sant'Elia Scruton Severino Star system Stefano Boeri Strade Tagliaventi Tentori Terragni Tom Wolfe Tradizione Umberto Eco Valadier Valle Verdelli Vilma Torselli Viollet le Duc Vitruvio Wrigth Zaha Hadid antico appartenenza architettura vernacolare arezzo bio-architettura cervellati città-giardino civitas concorsi concorsi architettura contemporaneità cultura del progetto cupola densificazione falso storico globalizzazione grattacielo identità leonardo levatrice modernità moderno naturale new-town paesaggio periferie restauro riconoscibilità rinascimento risorse scienza sgarbi sostenibilità sprawl steil toscana università zonizzazione