Pietro Pagliardini
C’è un articoletto nella Terza pagina del Corriere di sabato 23 maggio che titola: Urbanistica: la destra si prende un tema di sinistra.
Nel sito internet dello stesso giornale c’è un articolo su Alemanno che boccia il litorale di Fuksas non per il "merito", che dice di non conoscere, ma per il “metodo”, in quanto questo incarico sarebbe stato dato a Fuksas da Veltroni ad personam, al pari di quello dell’Ara Pacis dato a Meier da Rutelli.La frase di Alemanno riportata sul giornale è la seguente:
“Del progetto Fuksas su Ostia so poco, anche perché è uno di quei progetti calati dall' alto sul territorio. Noi, invece, vogliamo indire bandi reali e pubblici che permettano a tutti gli architetti di partecipare. È finito il tempo degli incarichi ad personam”.
Voilà, risolti i problemi dell’urbanistica e dell’architettura con la “legalità”.
A parte il fatto che non credo che gli incarichi a Meier e Fuksas fossero irregolari sotto il profilo amministrativo altrimenti ci sarebbe stata qualche denuncia (immagino che quello di Meier sia stato dato tra le pieghe delle varie modifiche della Merloni e quello di Fuksas sia un project o simile). Se, viceversa, fossero irregolari perché i due sindaci sarebbero usciti impuniti? Come minimo gli ordini professionali, vestali della legalità (o meglio dello status quo)avrebbero denunciato qualcosa.
Ma, questioni legali a parte, il problema è ben diverso, è culturale e politico: quando Alemanno vuole indire bandi e concorsi regolari dice una cosa ovvia (la legge va rispettata) ma con i metodi attuali di selezione dei progettisti e/o dei progetti che garanzia di qualità c’è? Secondo me (e secondo i risultati) nessuna; ma ,soprattutto, visto che Alemanno si è presentato con l’idea di demolire o modificare o spostare la teca dell’Ara Pacis non credo sia stato spinto solo dalla presunta irregolarità dell’assegnazione dell’incarico ma dalla qualità del prodotto finale, davvero pessima. E se vuole chiamare Vittorio Sgarbi come consulente, non credo che lo vorrà utilizzare come super-burocrate addetto alla verifica di regolarità dei concorsi, anche perché sarebbe la persona meno adatta; suppongo che sia stato prescelto per le sue capacità di critico d’arte e di architettura, per la sua ben precisa visione dell'architettura che non collima né con quella di Meier né con quella di Fuksas, tantomeno con quella di Libeskind e compagnia.
Qual è il problema allora? Quando Alemanno parla di “progetti calati dall’alto”, per “alto” intende riferirsi a due circostanze:
1. il fatto che l’incarico è assegnato direttamente dal potere (il sindaco, in questo caso);
2. il fatto che la civitas subisce i progetti senza poter discutere.
A me sembra molto più interessante il secondo fatto, anche se i due sono intimamente legati perché la procedura per arrivare all’incarico non è affatto indifferente alla soluzione del secondo problema.
Personalmente - ma mi rendo conto di fare un’affermazione impopolare - non mi scandalizza che colui che ha avuto la fiducia della città attraverso il voto abbia il diritto, e aggiungerei il dovere, di scegliere chi vuole, colui in cui crede e che ritiene adatto alla realizzazione dell’idea di città che egli possiede(o dovrebbe possedere.
Naturalmente so che una legge moralistica esistente non lo consente ma io faccio un ragionamento generale visto che, se Dio vuole, le leggi si possono criticare e, incredibile a dirsi, perfino cambiare. Il sindaco, con il sistema elettorale vigente, ha un potere reale e simbolico straordinario, viene votato, il più delle volte, a prescindere dall’appartenenza politica; non a caso, quando si parla di riforme costituzionali, per riconoscere più poteri al Presidente del Cosnsiglio si dice che dovrà essere il “Sindaco d’Italia”. Superfluo aggiungere che il Sindaco può essere sfiduciato dal Consiglio oppure può essere non rivotato la volta successiva. Democrazia non vuol dire che nessuno deve avere potere (ma parlerei anche e forse più di responsabilità) ma che ci sono organi che bilanciano quel potere, per evitare che ne prenda troppo; soprattutto vuol dire che i cittadini giudicano e poi confermano o mandano a casa.
Detto questo, il problema vero è il secondo fatto: poiché, come dice il prof. Marco Romano (vedi post Archittetura come arte civica 2) “La civitas costituisce in se stessa, nella specifica organizzazione dialettica della sua democrazia, il committente dei temi collettivi, e per questo la loro grandiosa dimensione, come abbiamo accennato, li rende espressivi del suo desiderio di manifestare il proprio rango”, allora, per i temi collettivi, cioè per quelle opere in cui la città si riconosce tutta, deve essere la civitas stessa a scegliere e decidere. Questa affermazione potrà sembrare a qualcuno demagogica, ad altri nostalgica, ad altri ancora entrambe, invece è semplicemente un’ovvietà; è solo questione di individuare bene metodi che non trasformino una scelta democratica in una tattica dilatoria per non decidere un bel niente, in aggiunta alle tante trappole burocratiche che ci sono nel percorso di approvazione di un’opera.
Con la legge attuale non solo il Sindaco non decide niente ma anche i cittadini subiscono i progetti senza poter attribuirne la responsabilità a nessuno, perché scelgono “gli esperti”, molto spesso architetti docenti di qualche cosa in qualche facoltà universitaria, i quali sono assolutamente non responsabili rispetto alle decisioni di merito prese, visto che il giudizio delle commissioni è insindacabile.
Tralasciamo per adesso lo scambio di figurine che viene fatto nei concorsi fra commissari e partecipanti, per cui c’è una specie di compagnia di giro i cui attori una volta assumono un ruolo e una volta l’altro; non si tratta tanto di corruzione in senso stretto ma di affermazione e consolidamento di potere e rendite di posizione. E’ cosa assolutamente nota a chiunque partecipi a concorsi, per cui con questo sistema se il progetto alla fine è quello sbagliato, e lo è quasi sempre, non sono responsabili i giurati, non sono responsabili i progettisti perché sono stati giudicati dai giurati, non è responsabile il Sindaco perché non ha avuto voce in capitolo (l’unica cosa che può fare è non dare attuazione al progetto, con grande frustrazione di tutti) e la città subisce un progetto senza fiatare.La difesa (debolina)che viene fatta di questo sistema è che i bandi sono fatti male, che ci vuole sempre il mitico “documento preliminare della progettazione” che deve spiegare bene le intenzioni dell’amministrazione e che la giuria si deve attenere rigorosamente a quello. Cioè, le sorti di una città vengono assegnate ad uno strumento prettamente burocratico, ad una procedura, il più delle volte scritta da qualcuno che non sa scrivere e che, se la commissione non lo rispetta, non si sa bene come fare ad annullare il concorso.
Prendiamo il caso Ara Pacis e ipotizziamo che, a seguito di regolare concorso, fosse stato redatto il famigerato documento. Certamente questo avrebbe contenuta l’indicazione di “rispettare le caratteristiche storiche, ambientali, artistiche ed architettoniche del contesto su cui dovrà sorgere l’opera”. Ma è proprio su queste considerazioni che i difensori (pochi) dell’Ara Pacis si basano, dicendo che la teca “valorizza” l’Ara Pacis, perché la storia si rispetta rendendola “viva” ed attuale, bla, bla, bla. Mai fidarsi dell’architettese, figurarsi di quello declinato in forma burocratica nei documenti di progettazione!
Non parliamo poi delle gare di progettazione al massimo ribasso o che comunque non prevedono il progetto per l’assegnazione, perché siamo alla lotteria di capodanno: raramente vincono i più bravi ma i più grossi, e raramente i grossi, dopo aver fatto anche un forte ribasso, hanno tempo da perdere per farsi condizionare dall’Amministrazione durante la progettazione, casomai avviene proprio il contrario.
Io credo che, come avrò detto almeno in quattro post, la soluzione per i progetti importanti che, secondo la definizione di Marco Romano, rappresentano temi collettivi (non certo per un campetto di calcio) si possa seguire sia la gara di progettazione (con qualche correttivo) che il concorso di progettazione, ma con giuria in cui il sindaco possa scegliere almeno un “esperto” di sua fiducia e almeno un amministratore sia giurato. Dopo di che si dia la parola anche ai cittadini, con un voto ovviamente consultivo ma ugualmente significativo. Ripeto per l’ennesima volta che in Olanda si è fatto e si continua a farlo tuttora quindi è possibile.
Un’amministrazione efficiente può guadagnare due mesi nelle operazioni successive per la realizzazione dell’opera in cambio di due mesi “persi” per fare esprimere i committenti e gli utenti dell’opera stessa.
Se poi una scelta come questa sia di sinistra o di destra non saprei dire: a me sembra solo la scelta giusta.
Elenco dei post che trattano ossessivamente lo stesso argomento:
Architettura come arte civica- 2
Architettura come arte civica: il caso CityLife
L'ide di Politca e Architettura di Mimmo Paladino
Referendum per demolire o referendum per costruire?
I cittadini e la politica scelgano, non gli architetti
25 maggio 2008
DESTRA O SINISTRA, LA CITTA' E' DI TUTTI I CITTADINI
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2 commenti:
gia daccordissimo con aleanno per il fatto che non debba essere il sindaco a prendere certe decisioni...
ma meglio un concorso pubblico con la partecipazione di esperti e cittadini...
Il problema è che alemmano voul buttar giù l'ara pacis perche non gli piace.. stona con il contesto...
ma nel centro di roma con che stile bisonerebbe costruire? Romana, barocco, rinascimentale o neoclassico? o va bene uno qualsiasi?
Non mi sembra una questione di scegliere uno stile, in senso stretto e una volta per tutte. Direi che si tratta di fare progetti dopo un'attenta lettura dei caratteri tipologici e morfologici del luogo, di come si sono evoluti nel tempo, della presenza o meno di edifici specialistici particolarmente significativi, di valutare come il progetto si pone rispetto alla maglia viaria, di interpretare anche il "sapore" del luogo, cioè se è un luogo popolare o se invece ha un carattere più rappresentativo per la città intera, ecc.
Dopodichè nulla impedisce che il progetto abbia anche forme più contemporanee, basta che risponda alla triade Vitruviana: utilitas, firmitas e venustas.
Detta così sembra una formula miracolosa, invece è difficile, anche ad avere le migliori intenzioni. Figuriamoci con quelle peggiori!
Pietro
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