Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


20 aprile 2010

STRALCI DAL "PRINCIPE BIANCO"

Riporto qui alcuni stralci di un libro noiosissimo, ripetitivo e alquanto povero di contenuti: Architettura integrata, di Walter Gropius. Il che non significa che non sia efficace rispetto allo scopo per cui è stato scritto, vale a dire quello di diffondere il verbo del modernismo negli USA. Tutt’altro. La ripetitività e l’assertività di concetti privi di approfondimenti e argomentazioni logiche credibili sono alla base del meccanismo propagandistico in cui Gropius dimostra di essere Maestro. In corsivo brevissime impressioni personali.

“Desidero che un giovane architetto sia capace di trovare in qualsiasi circostanza la sua strada; desidero che, traendola dalle condizioni tecniche economiche e sociali nelle quali si trova a operare, egli crei, in piena indipendenza, forme autentiche, genuine, anziché imporre formule scolastiche a dati ambientali che possono esigere soluzioni del tutto diverse.

Non è tanto un dogma bell’e pronto che voglio insegnare, ma un insegnamento spregiudicato, originale ed elastico verso i problemi della nostra generazione. Inorridirei se il mio insegnamento dovessi risolversi nella moltiplicazione di una concezione fissa di “architettura alla Gropius”. Quel che desidero è far sì che i giovani intendano quanto siano inesauribili i mezzi del creare se si fa uso degli innumerevoli prodotti dell’epoca moderna, e incoraggiare questi giovani a trovare le proprie soluzioni personali”.
Il Principe si schernisce ma si intuisce benissimo che è proprio un dogma che sta preparando, quello delle soluzioni individuali.
Come concepii la Bauhaus.
IL FINE. Avevo già trovato, prima della guerra mondiale, il mio linguaggio in architettura, com’è provato dall’edificio Fagus del 1911 e da quello del Werkbund all’esposizione di Colonia del 1914. Ma fu appunto la guerra mondiale, durante la quale presero, per la prima volta, forma le mie premesse teoriche, a darmi la coscienza piena, basata su autonoma riflessione, delle mie responsabilità di architetto”.
Altissima considerazione di sé stesso: fondatore di un nuovo linguaggio, tutto basato su “autonome” riflessioni personali. Come architetto, prende sulle sue spalle i mali del mondo e diventa, perciò, il profeta e sommo sacerdote della nuova religione in terra d’America. Prende se stesso a metro e misura del vero e scrive in prima persona: la sua storia personale è il compendio e l’archetipo dell’architettura e del nuovo che avanza.

DIFFERENZA TRA LAVORO MANUALE E INDUSTRIALIZZATO
“….; e sebbene si debba intendere e accettare quanto lo sviluppo della tecnica ha dimostrato, e cioè che una forma collettiva di lavoro può condurre l’umanità a una somma di efficienza superiore rispetto all’opera autocratica dell’individuo isolato, non si dovrebbe prescindere dall’efficacia e dall’importanza dello sforzo personale. Al contrario, consentendogli di assumere il giusto ruolo nell’attivitàcollettiva, verrà esaltato il suo rendimento pratico. Quest’atteggiamento non vede più nella macchina meramente uno strumento economico per eliminare il massimo numero possibile di lavoratori manuali e privarli della loro vitalità, e nemmeno un mezzo per imitare il prodotto artigianale; piuttosto la vede come uno strumento che deve sollevare l’uomo dalla più oppressiva fatica fisica, e irrobustirne la mano sì da renderlo capace di dare forma al suo impulso creativo. Il fatto che non padroneggiamo ancora i nuovi mezzi di produzione, e che perciò da essi debba ancora derivarci sofferenza, non è un argomento valido contro la loro necessità”.
Pensieri a dir poco mediocri oltre che sprezzanti della durezza del lavoro industrializzato. In fondo, anche se non avesse mai visto una fabbrica o letto un libro in proposito, sarebbe bastato andare al cinema a vedere Charlie Chaplin nel suo Tempi moderni, del 1931. Astrazione assoluta dalla realtà, nel migliore dei casi, e disprezzo verso gli altri, considerati meri strumenti del suo disegno di rifondazione della società.

EDUCAZIONE AL COMPORRE
La mia tesi è che la creazione artistica trae vita dalla mutua tensione tra le facoltà sub consce e consce della nostra esistenza, e che essa fluttua tra realtà e illusione. I poteri subconsci o intuitivi di un individuo sono pertanto unicamente suoi. E’ de tutto futile, per chi educa a comporre, proiettare nella mente dell’allievo le proprie sensazioni soggettive. Tutto ciò che egli può fare, se intende ottenere qualche risultato, è svolgere il suo insegnamento sulla base della realtà, dei fatti obiettivi, comune proprietà di tutti noi. Ma lo studio di ciò che sia realtà e di ciò che sia illusione richiede una mente fresca, non influenzata da residui d conoscenza intellettuale. Tommaso d’Aquino ha detto: “Debbo svuotare la mia anima perché possa entrarvi Iddio”. Questo vuoto, questa disponibilità senza pregiudizi è lo stato mentale proprio della concezione creativa. Ma l’accento che oggi intellettualisticamente poniamo sull’educazione libresca non promuove questo clima mentale. Compito preliminare di un insegnante di composizione dovrebbe essere liberare l’allievo da ogni inibizione intellettuale incoraggiandolo ad affidarsi alle proprie reazioni subconsce e a sforzarsi di ricostituire la ricettività spregiudicata della sua infanzia. Deve perciò guidarlo nel progressivo sradicamento di pregiudizi tenaci e salvarlo dal ricadere nella pura imitazione, aiutandolo a trovare un denominatore espressivo comune che sorga dalla sua stessa osservazione ed esperienza”.
Vale a dire: dimenticate tutto, liberate la vostra mente e fate come dico io. E’ il principio di un culto, di una setta, come hanno scritto Tom Wolfe e Nikos Salìngaros. Più volte nel testo Gropius tornerà su questo tema, suggerendo di estendere questo metodo a far data dalla prima infanzia, su, su fino alle scuole di architettura, dove propone di eliminare ogni studio storico per i primi tre anni. Il motivo è evidente: inculcare nei giovani i suoi principi senza prima che ne possano conoscere altri. Guai educare alla capacità critica, molto meglio, e anche più facile, a quella creativa”. E’ atteggiamento tipico da setta, che chiede di spogliarsi di tutto e di rigenerarsi alla fonte della verità, che è ovviamente il pensiero del sacerdote, in questo caso il Principe Bianco.

A.Base Educativa Generale
“…Questo non è vero per lo spirito inventivo e creativo nel campo tecnico: qui (negli USA) l’attuale generazione non sembra avere difficoltà di sorta ad incoraggiare il più ardito pionierismo e il più fiero disprezzo delle norme stabilite dal passato. L’atteggiamento nei riguardi dell’arte è, invece, del tutto differente….. penso che siamo riusciti, e in grado straordinario, a laborare metodi per far conoscere ai nostri figli le conquiste del passato: ma non credo che riusciamo a stimolarli ad esprimere se stessi. Abbiamo fatto loro studiare tanto intensamente la storia dell’arte, che non hanno trovato il tempo di esprimere le proprie idee….
Hanno perduto la lieta, giocosa urgenza dell’infanzia a modellare le cose in forme nuove…”
L’idea è sempre la stessa, quella di liberare la creatività. Idea che curiosamente contrasta con quanto affermato precedentemente, nel cogliere solo la realtà. L’unica coerenza che riesco a trovare è quella di imporre negli USA una nuova visione dell’architettura, per il resto le motivazioni sono oscure e inconsistenti, nemmeno giustificate da un’analisi approfondita della realtà.

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15 aprile 2010

FUCK THE CONTEST



NOTA:
Ne' Piano nè Rogers hanno un simile incarico, nè mi consta che abbiano qualsivoglia incarico, ad Arezzo. Il presente montaggio è, perciò,  la goliardica semplificazione del motto "fuck the contest", in cui ho utilizzato il Beabourg, paradossalmente, per la sua scansione geometrica regolare. Non me la sono sentita, dunque, di esagerare e inserirci un MAXXI, ad esempio. Avrei voluto provare con la Teca di Meier ma non ha le giuste proporzioni. Insomma il Beabourg era l'edificio più "classico" tra quello del genere archistar e quello che meglio rispettava il rapporto altezza/lunghezza nonchè il ritmo degli archi delle Logge del Vasari.
Speriamo che qualche amministratore non resti affascinato da questo montaggio decidendo di dar corso a idee simili, magari da qualche altra parte della città.
Non saprei perdonarmi una simile colpa.

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12 aprile 2010

LUOGHI, NON-LUOGHI E...PADANIA

Pietro Pagliardini

Vilma Torselli ha scritto un bell’articolo su Artonweb: La fine dei luoghi, che mi ha procurato una strana suggestione, probabilmente figlia della lunga e noiosa campagna elettorale e della consueta lunga e noiosa fase post-elettorale: un accostamento tra luoghi, non-luoghi e Lega. Sì, proprio quella, proprio il partito italiano più “legato” al territorio, più “legato” ai luoghi.

Mi rendo conto che coinvolgere l’ansia di comprensione di Vilma in un argomento così quotidiano, inflazionato e molto spesso sciatto come la nostra politica può sembrare irriverente e “fuori luogo” ma forse qualche relazione c’è e può aggiungere un tassello alla comprensione del rapporto tra luoghi e non-luoghi, soprattutto nella percezione del rapporto tra modernità e tradizione.

La Lega è un fenomeno, da tre decenni, assolutamente unico e straordinario per la molteplicità di temi diversi e apparentemente contrastanti che è capace di tenere insieme e sintetizzare in un amalgama fortissimo e vincente.
Dovendo indicare le parole d’ordine che caratterizzano questo partito/movimento culturale (aldilà dei noti slogan propagandistici) direi: localismo-globalità, identità-accoglienza, tradizione-modernità.
I termini di ciascun binomio vengono normalmente utilizzati dalla politica e dal mondo culturale, come opposti e anzi, come bandiere delle diverse “identità” politiche per distinguersi dagli avversari, ma nella Lega si coniugano, invece, miracolosamente bene.

In una logica europea in cui l’idea di nazione si depotenzia a vantaggio di un potere sovranazionale, le grandi ideologie al lumicino, la Lega ha compreso da subito, unico partito fra i tanti, che le radici sono necessarie e che queste andavano ritrovate in ambito locale. Evidentemente devono aver previsto che l’Europa non avrebbe avuto anima, se non finanziaria.
Infatti il nord è senza dubbio l’area economicamente più globalizzata d’Italia, ma allo stesso tempo quella che di buon grado accetta non tanto il bizzarro e pagano rito dell’ampolla delle sorgenti del Po (senza trascurarne tuttavia il forte valore simbolico di unità geografico-antropologica da ovest a est, dalle Alpi agli Appennini), quanto la valorizzazione delle tradizioni locali del dialetto, dei prodotti della terra, dei prodotti industriali, della laboriosità sempre in chiave antropologica, del paese, del campanile, dei luoghi insomma.
Paese e metropoli, così come la intende Vilma nel suo articolo, unite allo stesso tempo e non opposte. Luogo, non-luogo e anche super-luogo che convivono senza creare turbamenti o contraddizioni.

Fantasie o slogan propagandistici? Niente di tutto questo, ma il frutto di una lettura e di una analisi molto precisa di una realtà economica e sociale che caratterizza la “Padania”, e la riprova sta nel fatto che alla Lega non riesce, e forse non le interessa nemmeno, se non in termini di puro mercato politico, varcare gli Appennini, perché in quest’area geografica l’ambiente economico, sociale e culturale è completamente diverso: c’è vivacità d’iniziativa, c’è legame con il territorio ma tutto è molto più istituzionalizzato, tutto è più lento e burocratizzato e ogni attività è regolata più dal ritmo delle leggi, dal pubblico, piuttosto che da quello della società civile. La Toscana è terra di esportazione non solo di vini, di lardo di Colonnata, di prosciutto di cinta senese, di paesaggi da cartolina, ma anche di leggi, che le regioni del nord mutuano ma che poi sanno applicare con efficienza e senso di realtà, mentre qui diventano camicie di forza dalle quali non riusciamo a liberarci più, se non con nuove e peggiori leggi. Se c’è un luogo dove acquista pregnanza di significato il termine società civile, questo è la Padania, grazie alla Lega.
Non è, evidentemente, solo un fatto politico ma una “diversità” etnico-antropologica se le stesse leggi producono effetti totalmente diversi in luoghi diversi anche a parità di colore politico delle amministrazioni. Ma non la superiorità antropologica imposta e voluta dall'alto dalla sinistra, quanto una reale diversità di approccio alla realtà.

Ma ho divagato troppo. Colpa della Lega e della sua spesso ruvida ma coinvolgente anomalia. Unico partito che afferma con fierezza e convinzione la propria appartenenza ai luoghi ed anche alla comune religione cattolica, intesa più in senso di tradizione che di fede, e guai a chi tenta di minacciarla, ma che allo stesso tempo accoglie, con decoro, altri popoli con altre fedi, dando ad essi un lavoro e una casa ed esigendo, in cambio, conoscenza e rispetto dei luoghi e delle loro tradizioni. Unico partito capace di esprimere una vera e nuova cultura della modernità, non del modernismo, con l’operosità e l’efficienza dei suoi amministratori ma soprattutto del suo popolo aperto ai mercati globali e alla delocalizzazione, e della tradizione dei luoghi, in una miscela in cui è difficile capire quale sia l’ingrediente più importante, tanto l’uno è necessario all’altro. Un partito che risolve nella prassi il problema della multiculturalità e della convivenza.

La domanda che si impone, e che in altro modo anche Vilma si pone, è: sarà la Lega ad aver creato il mercato dell’identità locale intriso di globalità oppure c’è una esigenza profonda di radici, di appartenenza, di identità che non confligge affatto con la globalità economica e di cui la Lega si è fatta espressione politica, amplificandola?
Naturalmente io propendo per quest’ultima risposta, pur con tutte le incognite e i distinguo del caso. Propendo per questa ipotesi non solo per convinzione personale ma perché il legame tra la Lega e il suo capo, da una parte, e il suo popolo, dall’altra, è profondo e viscerale e non dettato da immediato interesse politico, almeno nella sua base stabile.

Se questo fosse vero ci dovrebbe essere una ricaduta in ambito urbano e architettonico, dato che la città è il luogo deputato ad accogliere le istanze prime di una comunità di persone e non può restarne indifferente. Quali possano essere le forme in cui queste istanze locali e globali si dovranno esprimere è tutto da scoprire.


POST SCRIPTUM
Ho parlato di noiosa campagna elettorale, ma non mi riferivo certo a quella della Lega. Ascoltando la rassegna stampa alla radio ho verificato che la Padania, il quotidiano di quel partito, ha ignorato quasi del tutto le notizie sulla par condicio, sui fatti giudiziari, sulle intercettazioni, su Santoro, ecc. ma ha sempre affrontato temi legati al territorio, ai suoi problemi, alle soluzioni possibili. Sembrava il giornale di un altro mondo. Quello vero.


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11 aprile 2010

UNA NUOVA INCURSIONE DI E SU LANGONE

Camillo Langone si è scatenato ed affronta un tema collaterale, ma mica tanto, all'architettura e all'ambiente di vita dell'uomo. Ecco la sua

del 9 aprile, che tra l'altro, si presta bene ad introdurre il mio prossimo post.

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9 aprile 2010

CONSIGLI DI LANGONE AD ALEMANNO

Un altro link ad un articolo su Il Foglio di Camillo Langone. Tema? Lo dice il titolo:

Consigli ad Alemanno per salvare Roma da architetti incapaci e cinici.

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7 aprile 2010

ITALIA NOSTRA SU ALEMANNO, ARCHISTAR E TECA DI MEIER

ITALIA NOSTRA: ALEMANNO ROVESCIA SUE INTENZIONI
"SI STRINGE AD ARCHISTAR CHE HANNO FATTO GRAVI DANNI A ROMA".
(DIRE) Roma, 7 apr. - "Il sindaco Gianni Alemanno ha rovesciato con la comunicazione del Convegno delle Archistar le sue intenzioni urbanistiche e le prime decisioni espresse all'inizio del suo mandato assumendo il governo della citta'". E' quanto si legge in una nota di Italia Nostra.
"Oggi- spiega Italia Nostra- si stringe tutto fiero al petto alcune archistar che hanno gia' prodotto gravi guasti anche a Roma, nel centro storico, con opere incongrue e costosissime, come fino all'anno scorso lo stesso Alemanno giudicava ad esempio la teca dell'Ara Pacis realizzata da Richard Meier".
"Appare misterioso- continua Italia Nostra- il proposito annunciato di negoziare con Meier ulteriori interventi, in particolare sul Lungotevere e verso largo Augusto Imperatore, dove il white architect ha gia' ferito con l'ossessione del colore bianco il Mausoleo di Augusto e le chiese che chiudono quello spazio con le patine, i colori, i disegni delle facciate anche di Valadier".
"Egualmente misterioso e' il sopralluogo annunciato a Tor Vergata con lo spagnolo Santiago Calatrava, che per il momento ha unicamente comunicato l'importo spropositato della sua parcella.
Italia Nostra Roma conferma la sua delusione e la sua contrarieta' a questo rilancio del narcisismo e delle spese pazze inaugurato da Rutelli, ripreso da Veltroni e fatto proprio da
Alemanno nella continuita' provinciale di queste committenze cosi' mortificanti per la citta'- conclude Italia Nostra- Basta con i complessi di inferiorita' che portano a Roma guai e sola
retorica".

*****
Link a Il Tempo. Meier è entusiasta del suo muro che verrà demolito. Mah!

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MURI DA ABBATTERE, ARCHISTAR E IDENTITA' E MOLTO ALTRO

Era un po' di tempo che Camillo Langone non si dedicava all'architettura e stavo entrando in astinenza.
Ecco questa quotidiana Preghiera, dedicata all'Ara Pacis ma anche al Sindaco Alemanno e al suo ineffabile assessore Croppi.

Quanto al convegno sull'identità (identità?)delle periferie ne riparliamo dopo perché sono davvero interessato a conoscere cosa intendano per identità i grandi urbanisti Hadid, Calatrava e Meier. Davvero molto interessato.

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3 aprile 2010

FUCK THE SPACE

"Lo spazio è una cosa effimera. Inafferrabile. Ci sono milioni di soluzioni possibili e nessuna è giusta. E' questo che mi piace".

Frank Gehry

Frase tratta dalla quarta di copertina di un libro su Gehry.
Frase significativa per essere del tutto priva di significato in quanto lo spazio non è nemmeno riferibile ad uno spazio dell'anima, ad uno spazio per ciascun individuo: se nessuna soluzione è giusta, non esiste una soluzione giusta per qualcuno. Ogni cosa che si progetta è comunque sbagliata, o giusta, o giusta e sbagliata allo stesso tempo.
Frase da artista. Frase da archistar perfetta e assoluta. Non a caso Gerhry è il prototipo di questo nuovo  genere.


Lo spazio non esiste.
Lo spazio è relativo ma il giudizio sullo spazio è assoluto e definitivo: nessuna soluzione è giusta.


Verrebbe da parafrasare: "Fuck the space".
Verrebbe da chiedersi: perché farsi prendere in giro?

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1 aprile 2010

SULL'EDILIZIA POPOLARE

Ettore Maria Mazzola

Il recente post di Pietro Pagliardini sul questo blog, stimola diversi spunti di riflessione.
In base alla cultura prodotta nell’arco degli ultimi anni, specie in base a come ci sono state raccontate le cose, siamo portati a credere che sia vero che l’unico modo di produrre edilizia popolare sia quello promosso a partire dalla Legge 167.
Durante la presentazione del mio libro ad Arezzo, come ricordava Pietro Pagliardini, è nato un interessante dibattito con l’ex direttore dell’IACP locale. Quest’ultimo sosteneva che gli unici successi in termini di edilizia popolare del XX secolo si devono ai piani INA Casa e GESCAL.
In realtà il tecnico probabilmente ignorava – forse per l’insegnamento ricevuto e il luogo in cui ha esercitato – assolutamente in buona fede, quanto di meglio fosse stato prodotto, in materia di edilizia popolare, precedente a quegli esempi.


L’Italia, partita parecchio in ritardo rispetto ad altre nazioni che avevano affrontato i problemi dell’industrializzazione prima di lei, in breve riuscì a mettersi al passo, e forse addirittura a superare molti di quei Paesi.
Se analizzassimo la storia degli albori dell’edilizia popolare in Italia, all’indomani della legge Luzzatti che istituì nel 1903 l’Istituto per le Case Popolari, ci accorgeremmo che in breve tempo, grazie anche alle capacità critiche degli studiosi locali (architetti/ingegneri, sociologi, economisti, specialisti di etiologia, ecc,) si seppero riconoscere, e prevenire, i limiti delle “Città Giardino”, generando un sistema di Città Giardino all’italiana, molto più valido dei monotoni modelli anglosassoni che in quel periodo venivano presi ad esempio ovunque.

Gustavo Giovannoni, e il suo gruppo di colleghi dell’Associazione Artistica Cultori di Architettura, viaggiarono al fine di studiare, liberi da pregiudizi, gli aspetti positivi e quelli negativi del nuovo modello di città teorizzato e messo in pratica da personaggi come Owen e Unwin, e vi riconobbero gli aspetti da prendere in considerazione, come quelli da evitare. La conoscenza di alcuni articoli contenuti nel Codice Urbanistico dell’Ufficio Municipale del Lavoro di Roma, ci fa scoprire cose molto interessanti, per esempio il fatto che fosse noto, già da quell’epoca, che gli utenti di una città non sono tutti uguali tra loro: vi sono persone che non possono curare un giardino, altre che, anche potendolo fare, non lo farebbero mai, poi ci sono gli anziani che non possono fare gli stessi spostamenti delle persone giovani (peraltro destinate anch’esse ad invecchiare), le famiglie numerose e quelle no, gli individui singoli che vivono da soli, quelli che possono permettersi un mezzo di trasporto e quelli sprovvisti, ecc. Insomma una vera e propria città, fatta di individui singoli, ognuno con le proprie esigenze, non un contesto urbano concepito come un sistema omogeneo, ed elaborato a tavolino per un utente identico. Giusto per non dilungarmi, mi fa piacere ricordare alcuni tra i punti interessanti:
• sulla necessità di variare i profili stradali: «[…] Il difetto capitale di alcuni sobborghi giardino di Londra […] sta nell’aspetto monotono che presentano le file interminabili di centinaia di casette tutte dello stesso tipo che sembrano uscite da uno stampo. Costruzioni di identico numero di ambienti possono avere un aspetto esterno ben diverso» (1) ;
• sulla necessità di evitare i cloni e di riferirsi, sempre, ai luoghi in cui si interviene «[…] Perché l’insieme della città-giardino riesca realmente estetico occorre che le costruzioni siano dello stile adatto al paese. Nessun peggiore risultato di quando lo spirito di imitazione porta a costruire tipi esotici nati per rispondere ad esigenze ben diverse da quelle locali. Ogni regione ha il suo tipo di costruzione […]» (2);
• sul ruolo sociale dell’Urbanistica: «[…] se può facilitare la fusione tra le classi, la società le sarà debitrice della risoluzione di un compito importante»(3).

Quest’ultimo punto, in particolare, risulta meritorio di essere sottolineato: dopo la disastrosa esperienza dei primi edifici costruiti a Roma per la classe operaia da parte di speculatori (banchieri, nobili e membri del clero) disinteressati alle condizioni di vita degli abitanti – esperienza che portò a dei fenomeni di violenza simili a quelli vissuti nelle banlieues francesi nel 2006 – si svilupparono una serie di studi mirati a comprendere le ragioni di tanto malcontento, studi necessari a concepire un nuovo modo di progettare la città.
Grazie allo studio proto-sociologico condotto da Domenico Orano nel quartiere Testaccio (1905-10), ed alla conseguente creazione del Comitato per il Miglioramento Economico e Morale di Testaccio – comitato che, oltre al sociologo ed agli artigiani esperti di costruzioni, raggruppava persone di qualsiasi estrazione culturale e sociale, di qualsiasi credo religioso, ecc. – si ottenne, con i due nuclei progettati da Giulio Magni e Quadrio Pirani (traducendo in architettura i suggerimenti del Comitato), un drastico miglioramento delle condizioni di vita dei residenti che, per la prima volta, vennero a riconoscersi come “appartenenti” a quel luogo. La memoria di questo cambiamento è storicamente impressa nella parole lasciateci dal Presidente dell’Istituto Romano Case Popolari, Malgadi che, nel suo testo del 1918 intitolato “il nuovo gruppo di case al Testaccio” affermava: "Parlare di arte in tema di case popolari può sembrare per lo meno esagerato; ma non si può certo negare l’utilità di cercare nella decorazione della casa popolare, sia pure con la semplicità imposta dalla ragione economica, il raggiungimento di un qualche effetto che la faccia apparire, anche agli occhi del modesto operaio, qualche cosa di diverso dalla vecchia ed opprimente casa che egli abitava […] Una casa popolare che, insieme ad una buona distribuzione degli appartamenti unisca un bello aspetto esteriore, è preferita ad un’altra […] e dove questo vi è si nota una maggior cura da parte degli inquilini nella buona tenuta del loro alloggio e in tutto ciò che è comune con gli alloggi del medesimo quartiere […] Una casa che piace si tiene con maggiore riguardo, ciò vuol dire che esercita anche una funzione educativa in chi la abita".

Nasceva così lo slogan dell’Istituto per le Case Popolari: LA CASA SANA ED EDUCATRICE.
L’istituto, finché gli venne consentito di svilupparsi, (con una mano al portafogli e l’altra agli studi filantropici), produsse gli ultimi esempi di città vivibile, una serie di luoghi dove la gente è tutt’oggi orgogliosa di vivere, quartieri e case dove, quando i reco con i miei studenti per far lezione, c’è sempre qualcuno che viene mostrarsi orgogliosamente, oppure ad offrirci qualcosa, o ad invitarci addirittura ad entrare per vedere quanto dignitosa sia la sua casa o il suo giardino. Purtroppo, le leggi fasciste a partire dall’istituzione dei Governatorati, che tolsero qualsiasi autonomia e possibilità di ricerca all’Istituto, posero la pietra tombale su una delle migliori istituzioni che, affiancata dalla Unione Edilizia Nazionale, aveva generato l’ultima architettura degna di essere menzionata nella storia del Novecento.
Non si tratta solo di dover riconoscere il ruolo estetico di quell’architettura, ma anche quello economico atto a ridurre la disoccupazione e sviluppare l’economia locale. Non posso dilungarmi in questa sede, né intendo ripetere quanto ho avuto modo di raccontare nel mio ultimo libro “La Città Sostenibile è Possibile”, (Gangemi Editore 2010), ma le norme per la collettività, prodotte prima delle leggi per gli interessi personali emanate in periodo fascista per favorire l’imprenditoria privata e smantellare il cooperativismo messo su in Italia da Montemartini, Colajanni ed altri, sono lì ad aspettare di essere riscoperte. Quelle norme, e quelle istituzioni, non necessitano di essere reinventate per migliorare la città di domani, vanno semmai rispolverate e messe al fianco dei moderni sistemi quali il Project Financing, i Contratti di Quartiere, i Patti Territoriali, ecc.

Non ci vuole molto ad accorgersi che, l’illuminata norma che vietava zone esclusivamente destinate alla classe operaia, in nome dell’integrazione sociale, sia cosa buona e giusta, se a questo aspetto filantropico - pedagogico affianchiamo la strategia costruttiva dell’ICP, che arrivò ad operare come un’azienda che costruiva per conto terzi alloggi destinati alla vendita o all’affitto per i dipendenti del pubblico impiego, allora ci accorgeremmo che sarebbe possibile ridurre, se non addirittura eliminare, i costi per la realizzazione degli alloggi popolari, che potrebbero essere appartamenti sparsi qua e là e che, grazie al senso di appartenenza ed all’istinto imitativo dell’essere umano, farebbero sentire più nobili gli affittuari meno fortunati, migliorandone l’integrazione sociale e il comportamento … […] Una casa popolare che, insieme ad una buona distribuzione degli appartamenti unisca un bello aspetto esteriore, è preferita ad un’altra […] e dove questo vi è si nota una maggior cura da parte degli inquilini nella buona tenuta del loro alloggio e in tutto ciò che è comune con gli alloggi del medesimo quartiere […] Una casa che piace si tiene con maggiore riguardo, ciò vuol dire che esercita anche una funzione educativa in chi la abita.

Ma questo non significherebbe migliorare solo le condizioni di vita delle classi disagiate – e questo era stato studiato attentamente – questo infatti aiuterebbe anche a svolgere un ruolo di calmiere sul prezzo delle costruzioni e dei terreni: gli alloggi costruiti dall’ente statale potrebbero essere messi sul mercato al pari delle frumentationes dell’antica Roma!
Inoltre, l’Architettura di cui parlo, e che ho ampiamente documentato nel mio ultimo libro, è costruita con materiali durevoli, e infatti, a cento anni di distanza dalla costruzione, non è mai stata oggetto di restauri, ed oggi viene venduta come edilizia di lusso. Tutto ciò non è stato accidentale. Pirani infatti, nella relazione che accompagnava i progetti per Testaccio, scrisse: «l’esperimento fatto in Roma nella costruzione di casette isolate, è più che sufficiente a stabilire che quelle non riescono a buon mercato e non possono quindi considerarsi come vere case popolari. Riteniamo peraltro che, ammesso il principio di fabbricare case a più piani, non si debba necessariamente far delle caserme o degli alveari, ma si possa invece, alternando i diversi corpi di fabbrica in diverse altezze, adottando avancorpi e rientranze, ottenere oltre che un movimento di linee che giova all’estetica, anche un gioco d’aria e di luce sulle aree interne destinate a cortili, sufficiente a diminuire se non ad eliminare, l’impressione della caserma o dell’alveare umano ... i nostri cortili non sono aree chiuse tra i corpi di fabbrica su cui prospettano i soli locali di servizio, ma sono come una continuazione delle pubbliche strade: danno accesso a tutte le scale che disimpegnano i diversi appartamenti e contengono piccoli edifici speciali adibiti ai servizi comuni (asilo, bagni, ecc.)», e poi aggiunse, «non solo la casa ”bella all’esterno e pulita all’interno” contribuisce all’elevazione delle classi che la abitano, ma che un giusto impiego di materiali durevoli, quali i laterizi e le maioliche, porta ad una diminuzione nel tempo delle spese di manutenzione degli edifici, soprattutto quando si tratti di edifici a più piani riuniti in un isolato o in un quartiere urbano».


Ebbene, considerato che l’edilizia popolare si costruisce con le tasse di tutti noi, imparare da questi esempi, che il tempo ha ampiamente testato e dimostrato validi, significherebbe ridurre le tasse di tutti i cittadini.
Alla luce di tutto ciò, risulta davvero triste pensare che ancora oggi, nonostante il disastroso insuccesso dei quartieri Corviale di Roma, Zen di Palermo, Vele di Napoli, Gallaratese di Milano, ecc., gli architetti (la gente comune la pensa molto diversamente) continuino a sostenere che quelle mostruosità non siano da condannare … gli architetti sostengono che, se quegli interventi non hanno funzionato è solo colpa degli italiani … ignorando che anche l’Unitè d’habitation di Le Corbusier a Marsiglia è stata un fallimento dove per anni la gente si è rifiutata di vivere.
Quello che poi si ignora del tutto sono i costi di costruzione ed i tempi di realizzazione dell’edilizia popolare pre e post bellica, cosa che ho ampiamente documentato nel libro. Quello che non è noto, o che si finge di non sapere, è l’intenzionalità di fare esperimenti su delle cavie umane adottata da alcuni architetti come Mario Fiorentino, l’autore di Corviale. Egli, con grande orgoglio auto-celebrativo, disse del mostro che aveva concepito e realizzato: «ci sono due modi di fare Architettura ... o forse ce n’è solo uno ... c’è quello semplice e pacato dell’utilizzazione degli schemi super testati che l’edilizia pubblica in Italia – e non considero solo quella romana – ha più o meno accettato. E poi c’è quello sperimentale, che è il metodo a cui l’esperienza di Corviale appartiene. Io ricorderò sempre come Ridolfi, che è stato il mio vero maestro, sempre mi diceva: “quando progetti per un cliente (e l’edilizia pubblica è un cliente come un qualsiasi altro privato), senza rivelarglielo tu devi sempre sperimentare” perché, in effetti, queste sono esattamente le opportunità nelle quali gli esperimenti possono essere fatti!»

I danni sociali di Corviale fanno sì che queste frasi non meritino commenti!

Note:
1) Ufficio Municipale del Lavoro di Roma, il problema Edilizio, Ed. Centenari, Roma 1920
2) Ufficio Municipale del Lavoro di Roma, op. cit.
3) Ufficio Municipale del Lavoro di Roma, op. cit.

Il progetto della foto in testa è di Quadrio Pirani per il quartiere San Saba, 1924

La foto del quartiere Gallaretese è tratta da Google Earth

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28 marzo 2010

INGEGNERIA SOCIALE

Pietro Pagliardini

Un riferimento al Corviale fatto da E.M. Mazzola in un commento al precedente post, mi fornisce l’occasione per raccontare l'intervento di un collega alla presentazione del libro dello stesso Mazzola ad Arezzo, presso l'Ordine, La città sostenibile è possibile, Gangemi. Il collega, architetto Franco Lani, che è un amico, un ragazzo più vicino ai 70 che ai 60 anni che ha fermato l’orologio del tempo alle sue idee giovanili, e quasi una istituzione tra gli architetti aretini, ex direttore tecnico dell'Istituto Autonomo Case Popolari (o come diavolo si chiama oggi), giustificava ideologicamente quel transatlantico che, proprio come una nave, relega gli esseri umani in una dimensione diversa da quella terrestre, quale esempio di ingegneria sociale. C'è senza dubbio una forma di utopismo tragico, come in tutte le utopie sociali, in quel progetto, espresso nel bisogno o nella volontà di creare un mondo nuovo e, naturalmente, migliore.


Poi Lani, che è persona intelligente, riconosceva che qualcosa non ha funzionato a dovere e affermava che succede spesso nel passaggio dall'idea alla sua concreta applicazione che si commettano errori. Siamo però al vecchio discorso dei compagni che sbagliano: si condannano i singoli errori per tentare di salvare l’idea.
In verità non è l'applicazione del metodo ad essere sbagliata ma il metodo stesso, è il principio di ingegneria sociale applicato all'architettura e all'urbanistica ad essere profondamente anti-umano, e giustificarne il fallimento come un semplice incidente di percorso vuol dire nascondere la testa sotto la sabbia, non voler vedere l’errore che sta alla base, non fare i conti con la storia e con la realtà, non voler capire che l’uomo non può essere preso a semplice cavia di laboratorio avendo deciso, già da prima, che se l’esperimento fallisce la colpa non è della finalità dell’esperimento ma della mancanza di qualche ingrediente e quindi predisporsi l’alibi per procedere con un altro tentativo e altre cavie.
Avviene sempre così: lo Zen sarebbe un progetto corretto e Gregotti caparbiamente afferma ancora oggi che lo rifarebbe uguale perché la responsabilità è di altri (Comune, IACP, ecc) che non hanno completato il tutto con i necessari servizi.

Continua l’illusione e si perpetua nel tempo con nuove giustificazioni: tutto fuorché ammettere lo sbaglio madornale che sta alla base del problema, e cioè l’adesione incondizionata ad un progetto utopico e scellerato di trasformazione della società contro l’uomo, partorito nel cervello di pochi e di cui ancor’oggi le nostre città, e soprattutto i loro abitanti, pagano le conseguenze. E il metodo continua a riprodursi tranquillamente anche se si ammanta di forme architettoniche diverse, non immediatamente riconoscibili e assimilibili direttamente a quelle tipiche dell'origine e che fa dire a molti che c'è una grande differenza tra le avanguardie del novecento e quanto accade ai nostri tempi.

Continua nella dimenticanza della storia della città, nel considerare gli uomini un accessorio dell’architetto, quasi fossero le figurine che affollano maquette e rendering, nei quali quelle assumono lo stesso ruolo della mongolfiera o dell’aereoplanino che vola gioioso in cielo, parodia della vita vera.

Continua nella produzione di oggetti unici e singolari privi di contesto, in realtà tutti identici a se stessi nella loro banalità, monotonia e mancanza di ogni significato.

Continua nella presunzione di poter trascurare gli elementi reali di una città quali la geografia, le preesistenze naturali o artificiali, le stratificazioni che si sono succedute nei secoli che la rendono così ricca di significati, l’esistenza di una comunità di persone che sono considerate come semplici utenti e non come un corpo sociale che ha memoria, sentimenti, sensibilità.


Sovrapporre a quelle stratificazioni delle astronavi, piccole o grandi, prive di attinenza alcuna con ciò che esiste per materiali, tipi, senza relazioni tra le parti, vuol dire considerare la città da un punto di vista puramente astratto, al pari di una tela pittorica da riempire, trascurandone del tutto la complessità che costituisce la condizione stessa per la vita dell’organismo urbano. Una tela per quadri, per quanto sia arduo l'accingersi a riempirla di forme e contenuti che abbiano la capacità di assurgere all'arte, è pur sempre il frutto della mente del solo suo autore e non incide mai sulle vite altrui né sulla ricchezza dei rapporti sociali tra le persone.
La povertà anti-urbana, ma direi la miseria, di operazioni come il Corviale, figlio dell’Unitè d’habitation e dei vari falansteri del secolo ad essa precedente, rispetto alla ricchezza della città di cui abbiamo esempi e tracce sotto gli occhi, basta volerli vedere, giustificherebbe da sola il desiderio ricorrente di vederlo cadere sotto i colpi del martello demolitore o dell’esplosivo, non diversamente da quanto accadde per Punta Perotti.

Peccato che quel lavacro purificatorio collettivo in diretta web abbia assunto solo una valenza legata al ripristino della legalità, cosa peraltro non del tutto esatta perché una concessione edilizia era pure stata rilasciata, invece che come simbolo di un genere di architettura, di un'idea stessa nata contro l’uomo, la geografia, l’ambiente, la storia dei luoghi.



P.S. Ho pensato dopo averlo pubblicato che il sottotitolo di questo post avrebbe potuto essere: Antiarchitettura e demolizione, cioè il titolo del primo libro pubblicato in italiano da Nikos Salìngaros, editrice LEF.

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25 marzo 2010

IMITAZIONE

1.Gli uomini anticamente nascevano come le fiere nelle selve e nelle caverne e nei boschi e nutrendosi di cibo agreste trascorrevan la vita. Intanto in qualche luogo dove gli alberi erano più densi, sotto l’azione delle tempeste e dei venti, dallo sfregamento dei rami coi rami nacque il fuoco; e gli uomini che si trovavan vicini, spaventati, fuggirono. Riaccostatisi poi a cose calme, constatando qual grande comodità per il corpo fosse stare al calore del fuoco, gettando su nuove legna e così alimentando e conservando quella cosa, condussero altri uomini e mostravan coi cenni l’utilità che dal fuoco poteva trarsi. Intanto in quelle riunioni si emettevano vari suoni dalla bocca; e così, giorno per giorno ripetendoli secondo il bisogno, giunsero a costituire i vocaboli; in un secondo tempo poi, significando più spesso le varie cose via via che si verificavano, cominciaron per avventura a parlare e intrecciaron discorsi tra loro.


2. La scoperta del fuoco è stata quindi la causa onde nacque la convivenza umana; e così si radurono più uomini in un sol luogo, avendo la natura come privilegio sugli altri animali di camminar eretti e non a testa in giù, di contemplare la magnificenza del mondo e del cielo, di maneggiare facilmente ogni oggetto che volessero colle articolazioni delle mani. Così in quella società gli uni cominciarono a fare il tetto di frondi, altri a scavar caverne sotto i monti, altri, imitando la costruzione dei nidi di rondini, a costruir con fango e stecchi ripari per rifugiarsi. Osservando poi le capanne altrui e utilizzandone i perfezionamenti o creandone col proprio spirito inventivo, fabbricavano abitazioni via via migliori.

3. Ed essendo gli uomini atti per natura ad imitare e imparare, gloriandosi ogni dì delle proprie invenzioni, mostravan l’uno all’altro le loro costruzioni, e così, esercitando l’intelligenza dell’emulazione, di giorno in giorno miglioravano nei loro criteri. E per prima cosa, alzate le forche e interposti dei rami, fabbricaron le pareti col fango. Altri, facendo seccare l’argilla, costruivano muri che legavano con legname e ricoprivano con canne e frondi contro le piogge e i calori. Avendo poi constatato che nelle tempeste invernali i tetti non potevano reggere alla pioggia, costruiti dei tetti a punta, spalmati di fango, coll’inclinazione del tetto determinarono lo scolo delle acque.

4. Che queste cose si siano svolte così all’origine, possiamo dedurlo dal fatto che tutt’oggi i barbari costruiscono le loro abitazioni con questi sitemi, come in Gallia, Spagna, Lusitania, Aquitania, con assicelle di rovere e con paglia. (Omissis)

Vitruvio Pollione, De Architectuar, Libro Secondo.

Si osserverà che il Vitruvio antropologo è ricco di fantasia e poco scientifico. E’ possibile che sia vero. Mi domando però quanto sia importante la veridicità del suo racconto rispetto alle “ipotesi” altrettanto fantasiose che vengono fatte anche ai nostri tempi dagli archeologi su mille argomenti: le Piramidi, la loro costruzione, Troia, Omero, Stonehage, ecc. La differenza sta nel fatto che Vitruvio le dà per buone mentre oggi si ha la consapevolezza del fatto che si tratta di ipotesi ma, una volta confrontate le più attendibili, si arriva infine alla tesi più accreditata. Che ovviamente non vuol dire essere quella vera. E’ un metodo, non un riscontro di fatti; è importante, dunque, non per i risultati ottenuti, che non hanno possibilità di verifica, se non indiretta, ma per rappresentare il modo di pensare di una società in una determinata epoca.
Anche il racconto di Vitruvio è importante per questo, perché ci racconta come una società rappresenta se stessa e le sue origini. In parte suffragate dall'osservazione di certi metodi costruttivi utilizzati da altri popoli coevi.
In più ci dice alcune cose importanti: l’imitazione come metodo di conoscenza e della sua diffusione: 1) imitazione della natura e imitazione delle altrui osservazioni e scoperte. 2)applicazione dell’ingegno per migliorare ciò che altri hanno scoperto.


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19 marzo 2010

MA SOLO L'ANTICO E' FALSO?

Pietro Pagliardini

Quell’edificio crollato non deve essere ricostruito com’era perché sarebbe un FALSO!
Quel progetto in campagna non deve imitare una casa colonica perché sarebbe un FALSO!
Quell’edificio è adatto a Disneyland perché è una copia quasi identica ad una villa palladiana, ed è un FALSO!
Tre situazioni diverse che raccolgono la riprovazione della “cultura” architettonica imperante verso il “falso” e la mimesi.
Per il momento non vorrei confutarla ma vorrei portare casi diversi:
Quel progetto è fantastico! Si vede che è un allievo di Ghery.
Quel progetto ha il dinamismo e il senso dello spazio di Zaha Hadid!
Quel progettista fa uso di tecnologia con sensibilità e grazia. Mi ricorda Renzo Piano.
Niente paura, nessuna sparata contro le archistar; i loro nomi servono solo per l’esempio.

Ogni architetto, in specie nella fase giovanile, fa riferimento ad una figura di riferimento. In genere, con il tempo, acquisita sicurezza nei propri mezzi e maturata la capacità di dominare il progetto, tende a distaccarsene, fino all’abbandono, e ad elaborare un linguaggio personale. Voglio immaginare che il nostro architetto riesca a raggiungere un livello professionale alto, tanto che molti riconoscono l’autore negli edifici da lui costruiti.

Ma siamo assolutamente certi che questo bravo architetto non debba niente a qualcuno in particolare o a ciò che osserva viaggiando o alle riviste e ai libri che legge o a tutto quanto ha studiato all’università e, ancor prima, ai suoi stessi ricordi giovanili? Siamo sicuri che esista veramente qualcuno, in qualsiasi campo, che non debba la propria conoscenza e competenza ad altri?

L’apprendimento inizia con l’imitazione. Successivamente non si chiama più imitazione, ma studio, osservazione, esperienza ed elaborazione di informazioni.
Qualsiasi disciplina, intellettuale o manuale, è un accumulo di conoscenza ed esperienza sedimentata nel tempo in opere o libri o trasmissione verbale. Oggi anche in forme più tecnologiche e nuove: immagini, video, audio. Cambia e si evolve il mezzo, ma il contenuto è lo stesso: conoscenza di alcuni, fissata perché possa essere trasmessa ad altri.

Ogni disciplina, intellettuale o manuale, è imitazione, mimesi; quello che si osserva viene elaborato e riproposto in forme e modi diversi e in base alla propria inclinazione.
Ma ecco che interviene la variabile “ricerca”. C’è sempre stata, naturalmente. Chissà se l’anonimo inventore della ruota riconoscerebbe il suo prodotto guardando un gran premio di formula 1 nel momento in cui i meccanici ne cambiano 4 in 4 secondi! Alta tecnologia e specializzazione, ma il principio della ruota è sempre lo stesso: un cerchio rigido che gira intorno al suo centro. Ma la ruota non si è materializzata nella mente del suo inventore da una tabula rasa, anche se la rivoluzione è stata grande. Vai a capire i millenni che ci sono voluti per fare meno fatica a trasportare roba! Certo, il passaggio intermedio di una ruota quadrata non credo ci sia stato, ma molte slitte su rulli sì. Il principio era già a portata di mano, bastava vincolare il rullo. Alla fine è arrivata l’ideuzza giusta. Da quel momento l’evoluzione del mezzo: di materiali, di tecnica per diminuire l’attrito, nel centro e nella circonferenza, e resistere all’usura. Ma il principio è sempre lo stesso: copiare le idee altrui, quelle che si ritengono buone, per andare avanti, aggiungendoci del proprio. Gli scambi di opinione, ad esempio, servono a questo e sono anche un modo per trovare nuovi stimoli.

Torniamo alle esclamazioni iniziali.
I tre campioni di “falso” sono riferiti a tipi architettonici antichi o semplicemente vecchi. Qual è il limite superato il quale non si parla più di “falso” ma, al massimo, di progetto “datato? Difficile stabilirlo. Approssimando un po’ potremmo dire che il limite è l’introduzione di tecnologie nuove, quale il c.a., naturalmente nella fase di una certa diffusione. Ecco, un progetto anni ’60 di edilizia corrente, con mensole in c.a. a vista e marcapiani in c.a. riproposto oggi, magari con un minimo di “ironia”, verrebbe considerato “datato”, ma “falso” certamente no. Un progetto alla Rietveld, per alcuni datatissimo, per altri potrebbe essere l’inizio di un nuovo neo-ismo.
Fissando una data, credo si possa affermare sia considerato “falso” tutto ciò che non corrisponde ai canoni e alle forme di prima degli anni ’20 del secolo scorso.
C’è una logica. Apparente.

I nostri tre architetti che vengono confrontati con Ghery, Hadid o Piano, hanno, anche inconsapevolmente, “attinto” a quelle fonti; hanno fatto un’operazione mimetica. Hanno copiato, bene, da coloro che più apprezzano. Così come il nostro giovane architetto, venuto su bene, in autonomia e in libertà da banali copie del maestro di riferimento, non si è inventato tutto, né del progetto né, a maggior ragione, delle tecniche costruttive.
Diciamo che, al pari della ruota, hanno sviluppato e interpretato qualcosa che già esiste, aggiungendoci quel tanto di “gesto” individuale che lo rende riconoscibile e di successo.
Queste sono situazioni ideali! Ma se sfogliamo le solite riviste, cartacee oppure on line, si vedono centinaia di autentici “falsi” contemporanei. Hanno plagiato forse? Certamente no, hanno solo sviluppato ciò che ritenevano valido dell’opera altrui. E’ come con la musica: Ennio Moricone dice che il plagio musicale è ormai quasi inevitabile perché le combinazioni sono praticamente esaurite e quando una musica è nell’aria è facilissimo riproporla in buona fede come propria.
E’ normale, è logico persino, perché nessuno può pretendere, anche se vuole, di inventare ogni volta qualcosa di “nuovo”.

Ma i tre esempi iniziali invece vengono condannati senza appello come “falsi”. Solo loro tre, poverini, vengono additati al pubblico ludibrio. Perché?
Ma è chiaro, perché sono “modelli” ante anni ’20 del secolo scorso!

Il concetto di falso, così come viene utilizzato dalla kultura arckitettonica ha esclusivamente una connotazione temporale: è falso tutto ciò che non è moderno o contemporaneo!

Il concetto di moderno o contemporaneo, invece che servire da semplice “datazione” di prima approssimazione, assurge al rango di valore fine a se stesso. E’ una condizione del tutto priva di senso
.
Io copio (come tutti, sia chiaro) un progetto che ho visto in internet e sono magari bravo; io copio un tipo di casa colonica della bonifica lorenese, perché devo fare un progetto in campagna, e sono un imbroglione!
Io devo ricostruire una casa nel centro storico e, se la faccio di vetro, copiando da un repertorio infinito di nefandezze attuali, va bene, ma se la rifaccio com’era, o come si può ricavare che fosse, vengo classificato antichista e nostalgico!
Bossi, Bossi! Qui ci vorrebbe la tua lapidaria frase in milanese per chiudere il discorso!


Credits: Le foto sono tratte da Dezeen.
L'idea del post mi è venuta grazie al dibattito seguìto alla conferenza di Ettore Maria Mazzola ieri 18 marzo ad Arezzo. Praticamente ho fatto un "falso".

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15 marzo 2010

ECCE BOMBO

Trovo questo lungo articolo su www.archinfo.it, firmato da Maria Argenti e Maura Percoco
Innovazione e tecnica nel progetto della residenza

di cui riporto la prima parte che sono certo raccoglierà i consensi di molti. Ma lo faccio non per accondiscendere ai gusti altrui ma perché a me ricorda i dialoghi di un film datatissimo e ormai inguardabile nella sua interezza (con battute però diventate giustamente un cult) ma che al tempo mise a nudo i vizi di un’epoca, di una generazione, di un linguaggio, e cioè Ecce Bombo di Nanni Moretti. Con una grande differenza però: qui l’ironia è totalmente assente.
Tuttavia, sarà la cultura dell’ossimoro, sarà la coincidenza degli opposti di cui si parla all’inizio, vi trovo qualche conferma a mie convinzioni ripetutamente scritte in questo blog:

In un'epoca che coltiva la cultura dell'ossimoro, della contraddizione che si fa sistema, della convivenza degli opposti che non necessariamente si sciolgono in una sintesi, ma piuttosto si perpetuano, è interessante notare come anche l'architettura sia costretta dai tempi e dalla tecnica a misurarsi con uno spazio che non è più statico, ma dinamico, scorrevole, discontinuo. La stabilità diventa instabile; la temporaneità durevole. La contemporaneità diviene il valore di riferimento. Vivere l'attimo, catturare l'istante, trasformarsi continuamente per non rimanere indietro sono gli obiettivi condivisi. A questo processo non resta estranea nemmeno l'idea della casa. Anch'essa cambia, sta cambiando, per rimanere aderente allo spirito del tempo. Ora che la tecnologia le permette relatività un tempo impossibili con soluzioni semplici e innovative; ora che lo spazio virtuale ha acquistato la stessa corporea dimensione di quello reale; ora che i "non luoghi" hanno la stessa forza dei luoghi, e la rete conta più delle radici; l'abitazione collettiva conosce cambiamenti, che sono un insieme di tecniche e di valori. È il concetto stesso di intimità domestica che si sta trasformando. Per rispondere alle esigenze della contemporaneità, l'architettura chiede ad una tecnologia sempre più potente risposte sempre più nuove e flessibili. Risposte che fanno della casa stessa un meccanismo variabile e individuano anzi, proprio nel meccanismo, nella sua capacità di adattarsi alle più diverse esigenze individuali o collettive, il centro del sistema, lasciando in secondo piano la forma (mutevole), i modelli tipologico formali (sorpassati), gli schemi (troppo statici). Persino le regole strutturali classiche sono messe in discussione da una tecnologia che, se lo ritiene utile, può contraddirle. La stessa standardizzazione cambia codici e livello. Non comporta necessariamente una omologazione estetica e tipologica. Appare al contrario la leva con cui poter mettere in discussione il sistema del pensiero unico alimentato dal marketing pubblicitario. Scende ai componenti primari. Permette, teoricamente, infinite possibilità combinatorie all'interno del medesimo standard. Realizza e proietta verso un futuro ancora più innovativo la profezia corbuseriana della casa come machine à habiter senza metterne in discussione la domesticità. Permette ad ognuno di ritagliarsi il proprio habitat domestico su misura, di superare il concetto di spazio architettonico come qualcosa di fisso, immutabile, congelato per sempre. E di costruire spazi che cambiano con noi, che si adattano alle nostre sempre nuove esigenze. Spazi unici. Personalizzati dai singoli abitanti chiamati a completare in un processo senza fine, un work in progress, il lavoro del progettista”.

Un tono di grande sicurezza data da molte certezze caratterizza questo inno all’incertezza. La certezza delle incertezze, la instabile stabilità, il relativismo assoluto.
Vi trovo la conferma della contemporaneità come valore di riferimento autoreferenziale, cioè una semplice condizione temporale che diventa autonomo fondamento culturale; l’illusione di sfuggire alle stesse regole strutturali, quasi a vincere la forza di gravità; la conferma della totale continuità dell’oggi con la “profezia corbuseriana”, termine del tutto appropriato all’aspetto religioso e di culto della sua teoria.

Vi trovo anche qualche ingenuità, quale l’illusione che la standardizzazione, o comunque il processo edilizio come lo intendono le autrici, possa mettere in discussione il pensiero unico del marketing pubblicitario, quasi invece non ne fosse il prodotto. Oppure la mitizzazione degli abitanti tutti protesi in un work in progress a completare il lavoro del progettista.
E mi immagino questi poveri residenti che ogni volta che tornano a casa dovrebbero arrovellarsi il cervello nel trasformare, modificare, stravolgere, adattare la propria abitazione con un occhio all'orologio, dato che il valore fondante è l’attimo, come se non fosse già abbastanza pressante la scadenza del mutuo e della rata del credito al consumo per i mobili!

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13 marzo 2010

TRASFORMARE LE PERIFERIE

Un link ad un sito legato al New Urbanism che mostra, con l'utilizzo di Photoshop, come sia possibile trasformare un suburbio in città.


Non è poi così difficile, anche se non risolutivo. Quante periferie di città italiane ne avrebbero bisogno!
Perché da noi non si fa? C'è qualcuno che lo impedisce?
Si fa abuso dell'espressione "consumo di suolo", ma vi è maggior consumo prima o dopo la cura?

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11 marzo 2010

MEMORIA

Jacques Delors, uno dei padri fondatori dell'Europa, in una intervista a Repubblica dichiara, in relazione alle modeste prospettive politiche a lungo termine per L'Europa:

"Abbiamo perso la memoria di dove veniamo, come possiamo avere un'idea di dove andare?".

Vale per la politica, ma vale per ogni azione umana e vale per l'architettura.
A questo proposito mi viene in mente la "tabula rasa" di Bruno Zevi.

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6 marzo 2010

OMAGGIO AD AREZZO TRA "VERO" E "FALSO"

Un omaggio fotografico ad Arezzo antica, o finto-antica,  tra ciò che da taluni è considerato vero e da tal'atri falso. Per certo, tutto quanto mostrato esiste.
Le foto sono di Massimo Guadagni che ringrazio.















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5 marzo 2010

MODERNISTI E TRADIZIONALISTI

Questo post è la riproposizione di un commento al post precedente, che tratta del falso storico.
Ma a me sembra che viva di vita propria e lo ripropongo.
memmo54 mi ha autorizzato e lo ringrazio.
Mi scuso per l'ovvietà del titolo, ma non volevo rischiare di dare interpretazioni sbagliate.

MODERNISTI E TRADIZIONALISTI
di memmo54

Gli architetti proprio come gli uomini (….incredibile a dirsi!…) nascono modernisti o tradizionalisti.
Gli ultimi sentono che tipi, ordini e generi sono realtà; i primi semplici generalizzazioni. Per questi il linguaggio è un approssimativo ma intrigante gioco di simboli, per quelli la mappa dell’universo.

I tradizionalisti sanno che l’universo costruito è, in qualche modo, un cosmo, un ordine necessario; tale ordine per il modernista può essere un errore o un inganno della conoscenza parziale.

Gli uni credono che l’architettura sia un prodotto dell’individuo, del singolo che “inventa” grazie alla propria formazione culturale, al proprio gusto ed alla propria visione della realtà: un fatto mentale, esclusivamente del soggetto che coinvolge o meno il contesto. In quest’ambito può assumere valore ciò che esiste ed è attribuibile ad un altro “io”: un altro “universo”, parallelo forse, ma non il proprio. Il fatto esiste, infine, soprattutto“dentro” di sé.
Gli altri privilegiano quello che s’è storicamente determinato; frutto di una lunga, paziente, oscura quasi sempre, evoluzione di modi ed espressioni anche lontanissimi nel tempo, ma mai così distanti da essere incomprensibili ed inattuali. Ammettono il contributo del singolo ma solo in un quadro più generale. E potrebbero anche immaginare la storia dell’architettura senza un Michelangelo (…non tutti i paesi hanno visto nascere ed operare personaggi siffatti… ) ma non senza l’ambiente minuto che l’ha generato e che reputano altrettanto, se non più, importante.

Per gli uni l’artefice è unico ed irripetibile e solo a lui è ascrivibile l’oggetto; per gli altri è molteplice perché tutti gli uomini sono, in fine, “un uomo” solo.
Nessuno veda nelle righe che precedono spregio o censura. Uno scrupolo etico, non un’incapacità speculativa, impedisce al modernista di operare con astrazioni.
Da questa irriducibile separazione, a mio avviso, originano le concezioni antitetiche di vero e di falso .

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19 febbraio 2010

LO STRANO CASO DEL PORTICATO DELLO SPEDALE DI SANTA MARIA NUOVA A FIRENZE

Con straordinario tempismo, Angelo Gueli mi ha inviato questo testo, su un "falso". Lo ringrazio.
Il testo è già stato pubblicato sul numero 24 del Giugno 2009 - anno VII di "OPERE rivista toscana di architettura".


LO STRANO CASO DEL PORTICATO DELLO SPEDALE DI SANTA MARIA NUOVA A FIRENZE
Ovvero come costruire tanto e bene anche da morti e sepolti
di Angelo Gueli

Accade di tanto in tanto che gli architetti continuino ad essere prolifici anche dall’aldilà: quello qui raccontato sembra proprio essere uno di questi casi. La faccenda sta messa così: Bernardo Buontalenti, dopo aver esercitato tanto e bene la sua professione a Firenze e dintorni, nel giugno del 1608 passa a miglior vita e fin qui niente di strano; ad eccezione di qualche presidente del consiglio destinato a vita eterna, prima o poi a tutti toccherà varcare quella soglia. Ma sta di fatto che nel febbraio del 1612, ben quattro anni dopo la sua morte, fu iniziata la costruzione del porticato “buontalentiano” dello Spedale di Santa Maria Nuova a Firenze, della cui vista tutti possiamo godere ancora oggi. L’affare però si fa più intricato per l’attribuzione, tutta da verificare, del progetto. Non uno straccio d’indizio d’incarico, non un disegno, non un cenno sui documenti d’archivio fino ad oggi è mai stato ritrovato. Ma tant’è, a dire di coloro che approfonditamente se ne sono occupati, l’attribuzione è certa, ed il disegno originario è di Bernardo Buontalenti(1).


Ecco quindi che nel 1612 Bernardo, da morto e sepolto, inizia una fabbrica che porterà a termine ben trecentocinquanta anni dopo.
Andiamo per gradi: a quell’epoca lo Spedale non era dotato di una facciata, così, seguendo l’idea buontalentiana, Giulio Parigi il Vecchio, amico e discepolo di Bernardo, si occupò di seguire i lavori di costruzione dei primi sei archi della porzione centrale del loggiato.
A cinquanta anni di distanza, nel 1661, si ricominciò a costruire realizzando altri sei moduli, completando così la facciata centrale. A quel punto anche il povero Giulio, al quale probabilmente dovrebbero essere riconosciuti molti più meriti in relazione alla realizzazione di quest’opera, aveva già da tempo abbandonato questa terra. Ancora quaranta anni appresso, tra il 1707 e il 1710, fu costruito il braccio destro del porticato. Infine, dopo un “fermo cantiere” lungo più di due secoli, fra il 1959 e il 1960 Nello Bemporad per la parte architettonica e Enzo Vannucci per la parte strutturale si occuparono della realizzazione dell’ultima porzione del porticato.

Di questa fabbrica e della storia fin qui raccontata, due mi sembrano i punti più interessanti da mettere a fuoco: da una parte il rapporto mediato dell’edificio con il suo progettista e, di conseguenza, l’inevitabile accusa di “falso antico” che l’ultima porzione di costruzione si porta appresso e dall’altro il ruolo di “restauratore” di Nello Bemporad.

Le riflessioni che possono essere fatte su questi temi sono molteplici e nessuna è indolore, in special modo quando, come in questo caso, i termini del problema finiscono inevitabilmente per dover affrontare il rapporto tra il vero e il falso, e in architettura questo territorio è molto più paludato che nelle altre arti.

Tempo addietro, durante l’ultima giornata del convegno “L’identità dell’architettura italiana”, Roberto Maestro intervenendo invitava Guido Ceronetti a fare una riflessione su vero e falso.
Con una risposta tanto fulminante quanto piena di risvolti, Ceronetti argomentava che: “…forse sarebbe meglio interrogarsi sulle categorie del bello e del brutto…”(2).
Un’affermazione di questo genere è tanto più pregnante quanto più nell’ultimo secolo è stato sentito come centrale il tema dell’autenticità in architettura. In chiara contrapposizione con il pensiero dominante, Cerronetti nella sua risposta non sembra dare alcun peso alla questione stilistica quanto invece sembra dare importanza al lato umano dell’architettura.

Con queste parole che mi frullavano per la testa e la macchina fotografica al collo sono andato in piazza di Santa Maria Nuova per fare le foto del porticato che accompagnano questo articolo. Per sfizio ho cominciato a chiedere in giro cosa sapessero del loggiato quelli che in zona ci vivono. Un paio di anziani ricordavano, qualcuno aveva sentito dire, la maggior parte nemmeno sospettava che si trattasse di un edificio completato così recentemente. Nessuno però ha mostrato segni di fastidio nei confronti della facciata Bemporadiana, cosa che, mi vergogno un po’ a dirlo, non è successa per il prospetto Michelucciano visibile attraverso le due arcate. Mi guardo bene dal ripetere i commenti fatti dai passanti che, tutti indistintamente, erano ignari del carico e della pregnanza culturale ed estetica che ci hanno insegnato ad attribuire alle opere del maestro; ma questa è un'altra storia.(3)

Pur sapendo che nessuno dei quattro lotti temporali nei quali fu realizzato il portico vide il Buontalenti come protagonista, a pochi verrebbe in testa di dire che il portico è tutto un falso. Sarà forse per il primato che noi progettisti diamo al progetto, che esso sia realmente del Buontalenti o di qualcun altro poco importa (alla base c’è un progetto e bello per giunta), sarà forse perché il portico è ormai plurisecolare, l’edificio nella sua interezza è comunque percepito come “autentico”.
Pur non volendo inoltrarmi troppo nello spinoso campo dell’autenticità, che in architettura è eccezionalmente più complesso di quanto non lo sia per le altre arti, penso che, visto l’argomento, sia importante descrivere quale sia in generale il sentire comune rispetto a questi temi. Per fare un esempio, a nessuno verrebbe in mente di dire che i dipinti di Annigoni sono dei falsi perchè il loro tratto è leonardesco, e pertanto la distanza temporale tra Annigoni e Leonardo da Vinci non è percepita in pittura come incolmabile e la vicinanza stilistica tra i due artisti è comunque ritenuta lecita, però allo stesso tempo una copia identica di un’opera pittorica che non dichiari esplicitamente di essere copia viene giustamente identificata come un falso. In architettura ciò che è valido per le altre arti visive viene ribaltato. È opinione comune che se un edificio viene replicato (San Pietro in mezzo al deserto africano, la Sfinge a Las Vegas) è irrimediabilmente kitsch e non semplicemente una copia come per le altre arti, se viene realizzato con uno stile non più alla moda allora è clamorosamente falso, per questo caso non è più valido l’assunto testé riportato per la pittura e questa volta la distanza fra lo stile in voga e il precedente è ritenuta incolmabile.(4)
Ma se, come nel caso del porticato buontalentiano o del ponte di Santa Trinita o della torre dei Georgofili, si copia alla lettera l’originale, allora la qualifica di falso più che valida per le altre arti assume dei contorni più sfumati, ovvero la copia pedissequa del dove era e come era o del dove doveva essere e come avrebbe dovuto essere non costituisce reato di falso, come nelle altre arti visive, o plagio, come in musica e scrittura, ma si trasforma cedendo il posto ad una sorta di legittimità a scartamento ridotto.

Sorvolando il valore simbolico delle ricostruzioni, che ha inevitabilmente durata generazionale (le giuste reazioni ai bombardamenti mafiosi e nazisti nei casi ricordati), resta la costruzione di edifici che dopo essere stati ri-costruiti partecipano al disegno corale delle nostre città e Firenze è un caso come un altro, anche se particolarmente bello.

Il completamento del loggiato di Santa Maria Nuova dovrebbe far riflettere sulla validità di interventi che, all’interno di contesti storicizzati, tengano conto anche di linguaggi architettonici non più di moda, che in qualche modo consentano alle città storiche di mantenere la loro coralità e identità, cosa che attraverso la maggior parte dell’architettura contemporanea obiettivamente non accade. Con ciò non intendo dire che all’interno di tessuti storici si debba intervenire esclusivamente utilizzando linguaggi architettonici del passato, ma che questi dovrebbero essere legittimamente presi in considerazione al pari dei linguaggi più comunemente sentiti come contemporanei. La lezione che viene dal completamento del loggiato di Santa Maria Nuova, al di là delle intenzioni più propriamente restauratici del suo autore, sta nel provare, senza ombra di dubbio, la legittimità di progettazioni che usino linguaggi architettonici con matrici temporali e riferimenti progettuali non recenti.

In un suo articolo del 1961(5), Bemporad, parlando del loggiato appena completato, sostenne: “Lo scopo è quello di realizzare un’unità urbanistica che l’artista concepì completa e che solo gli eventi non consentirono di realizzare tale fino ad allora”.
Ed ancora “…accettai volentieri l’incarico di completare il porticato… anche se ho sempre negata la validità dei restauri di integrazione in senso generale; nel caso particolare ritenevo invece (…) che è un dovere preciso di dare completezza ad un organismo impostato su ferree leggi di simmetria…”.

Le immagini di progetto qui proposte sono quelle che lo studio Bemporad presentò all’amministrazione pubblica alla fine degli anni 50 dello scorso secolo, al fine di ottenere le necessarie autorizzazioni. Anche attraverso queste belle rappresentazioni grafiche, Bemporad espresse una logica di restauro ampliato al reintegro, riuscendo in questo modo a rendere compiuta un’opera che meritava di essere ultimata.(6)
A soli cinquanta anni dalla realizzazione dell’ultima porzione del loggiato, un’operazione “restauratrice” come quella illustrata, a causa dei lacci burocratici e del falso moralismo imperversante che non riconosce parità di dignità a disegni in stile, oggi sarebbe difficilmente realizzabile e, visto il ruolo di questo edificio nel ridisegno della piazza, personalmente vedo in queste posizioni un’enorme limitazione a quell’ininterrotto flusso di perfezionamento che è fisiologico nelle nostre città storiche.

Nota al termine: vagando nel ciberspazio, su Wikipedia, alla voce Ospedale di Santa Maria Nuova campeggia, unica, una fotografia del porticato, ma solo della porzione realizzata da Nello Bemporad. Che questo sia un lapsus volontario o meno, la sostanza non cambia: il portico è autentico perché viene percepito come tale.


Note
1)A questo proposito si veda Lo spedale di S. Maria Nuova e la costruzione del loggiato di Bernardo Buontalenti ora completata dalla Cassa di Risparmio di Firenze a cura di Guido Pampaloni Cassa di Risparmio – FIRENZE – 1961che approfonditamente disquisisce sul motivo della certa attribuzione al Buontalenti, mentre per una più completa visione del contesto operativo del Buontalenti si veda Amelio Fara, Bernardo Buontalenti Electa 1995 , Milano.
2)Terza giornata del convegno “Identità dell’architettura Italiana”, Firenze 13-14-15 Novembre 2008.
3) Lungi da me voler dare valenza statistica a queste quattro chiacchiere fatte nel mezzo di strada, esse possono essere solo spunto di riflessione.
4)Nei paesi anglosassoni, dove è ancora radicata l’abitudine di costruire in stile, ben distinte sono le fazioni pro e contro l’architettura classicista e tradizionalista, pro e contro l’architettura di derivazione modernista. E nessuno ha paura degli “ismi” poiché lo stile, con il classico pragmatismo anglosassone, è comunque considerato come una caratteristica intrinseca della pratica architettonica. Pur nello scontro di pensiero, nel continuo e ininterrotto reciproco dileggio che contraddistingue la critica di entrambe le parti esiste di fatto un mutuo riconoscimento di legittimità culturale.
5)In Architetti d’Oggi anno 1961 n.1 Nello Bemporad “Piazza Santa Maria Nuova completamento del Porticato”
6)Gli originali sono conservati presso l’archivio comunale di Firenze.

Didascalie Immagini
1 Il braccio del porticato realizzato nel 1959 da Nello Bemporad.
2 Il braccio del porticato realizzato nel 1710.
3 Nello Bemporad Vs Giulio Parigi.
4 Scorcio della piazza oggi.
5 L’edificio demolito per far posto al nuovo braccio del porticato (prospetto sulla piazza).
6 L’edificio demolito per far posto al nuovo braccio del porticato (prospetto su via Bufalini).
7/8/9/10 Elaborati progettuali per la realizzazione dl nuovo braccio (Arch. Nello Bemporad, depositati presso gli archivi comunali).
11 Vista settecentesca della piazza di S. Maria Nuova.


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