Con straordinario tempismo, Angelo Gueli mi ha inviato questo testo, su un "falso". Lo ringrazio.
Il testo è già stato pubblicato sul numero 24 del Giugno 2009 - anno VII di "OPERE rivista toscana di architettura".
LO STRANO CASO DEL PORTICATO DELLO SPEDALE DI SANTA MARIA NUOVA A FIRENZE
Ovvero come costruire tanto e bene anche da morti e sepolti
di Angelo Gueli
Accade di tanto in tanto che gli architetti continuino ad essere prolifici anche dall’aldilà: quello qui raccontato sembra proprio essere uno di questi casi. La faccenda sta messa così: Bernardo Buontalenti, dopo aver esercitato tanto e bene la sua professione a Firenze e dintorni, nel giugno del 1608 passa a miglior vita e fin qui niente di strano; ad eccezione di qualche presidente del consiglio destinato a vita eterna, prima o poi a tutti toccherà varcare quella soglia. Ma sta di fatto che nel febbraio del 1612, ben quattro anni dopo la sua morte, fu iniziata la costruzione del porticato “buontalentiano” dello Spedale di Santa Maria Nuova a Firenze, della cui vista tutti possiamo godere ancora oggi. L’affare però si fa più intricato per l’attribuzione, tutta da verificare, del progetto. Non uno straccio d’indizio d’incarico, non un disegno, non un cenno sui documenti d’archivio fino ad oggi è mai stato ritrovato. Ma tant’è, a dire di coloro che approfonditamente se ne sono occupati, l’attribuzione è certa, ed il disegno originario è di Bernardo Buontalenti(1).
Ecco quindi che nel 1612 Bernardo, da morto e sepolto, inizia una fabbrica che porterà a termine ben trecentocinquanta anni dopo.
Andiamo per gradi: a quell’epoca lo Spedale non era dotato di una facciata, così, seguendo l’idea buontalentiana, Giulio Parigi il Vecchio, amico e discepolo di Bernardo, si occupò di seguire i lavori di costruzione dei primi sei archi della porzione centrale del loggiato.
A cinquanta anni di distanza, nel 1661, si ricominciò a costruire realizzando altri sei moduli, completando così la facciata centrale. A quel punto anche il povero Giulio, al quale probabilmente dovrebbero essere riconosciuti molti più meriti in relazione alla realizzazione di quest’opera, aveva già da tempo abbandonato questa terra. Ancora quaranta anni appresso, tra il 1707 e il 1710, fu costruito il braccio destro del porticato. Infine, dopo un “fermo cantiere” lungo più di due secoli, fra il 1959 e il 1960 Nello Bemporad per la parte architettonica e Enzo Vannucci per la parte strutturale si occuparono della realizzazione dell’ultima porzione del porticato.
Di questa fabbrica e della storia fin qui raccontata, due mi sembrano i punti più interessanti da mettere a fuoco: da una parte il rapporto mediato dell’edificio con il suo progettista e, di conseguenza, l’inevitabile accusa di “falso antico” che l’ultima porzione di costruzione si porta appresso e dall’altro il ruolo di “restauratore” di Nello Bemporad.
Le riflessioni che possono essere fatte su questi temi sono molteplici e nessuna è indolore, in special modo quando, come in questo caso, i termini del problema finiscono inevitabilmente per dover affrontare il rapporto tra il vero e il falso, e in architettura questo territorio è molto più paludato che nelle altre arti.
Tempo addietro, durante l’ultima giornata del convegno “L’identità dell’architettura italiana”, Roberto Maestro intervenendo invitava Guido Ceronetti a fare una riflessione su vero e falso.
Con una risposta tanto fulminante quanto piena di risvolti, Ceronetti argomentava che: “…forse sarebbe meglio interrogarsi sulle categorie del bello e del brutto…”(2).
Un’affermazione di questo genere è tanto più pregnante quanto più nell’ultimo secolo è stato sentito come centrale il tema dell’autenticità in architettura. In chiara contrapposizione con il pensiero dominante, Cerronetti nella sua risposta non sembra dare alcun peso alla questione stilistica quanto invece sembra dare importanza al lato umano dell’architettura.
Con queste parole che mi frullavano per la testa e la macchina fotografica al collo sono andato in piazza di Santa Maria Nuova per fare le foto del porticato che accompagnano questo articolo. Per sfizio ho cominciato a chiedere in giro cosa sapessero del loggiato quelli che in zona ci vivono. Un paio di anziani ricordavano, qualcuno aveva sentito dire, la maggior parte nemmeno sospettava che si trattasse di un edificio completato così recentemente. Nessuno però ha mostrato segni di fastidio nei confronti della facciata Bemporadiana, cosa che, mi vergogno un po’ a dirlo, non è successa per il prospetto Michelucciano visibile attraverso le due arcate. Mi guardo bene dal ripetere i commenti fatti dai passanti che, tutti indistintamente, erano ignari del carico e della pregnanza culturale ed estetica che ci hanno insegnato ad attribuire alle opere del maestro; ma questa è un'altra storia.(3)
Pur sapendo che nessuno dei quattro lotti temporali nei quali fu realizzato il portico vide il Buontalenti come protagonista, a pochi verrebbe in testa di dire che il portico è tutto un falso. Sarà forse per il primato che noi progettisti diamo al progetto, che esso sia realmente del Buontalenti o di qualcun altro poco importa (alla base c’è un progetto e bello per giunta), sarà forse perché il portico è ormai plurisecolare, l’edificio nella sua interezza è comunque percepito come “autentico”.
Pur non volendo inoltrarmi troppo nello spinoso campo dell’autenticità, che in architettura è eccezionalmente più complesso di quanto non lo sia per le altre arti, penso che, visto l’argomento, sia importante descrivere quale sia in generale il sentire comune rispetto a questi temi. Per fare un esempio, a nessuno verrebbe in mente di dire che i dipinti di Annigoni sono dei falsi perchè il loro tratto è leonardesco, e pertanto la distanza temporale tra Annigoni e Leonardo da Vinci non è percepita in pittura come incolmabile e la vicinanza stilistica tra i due artisti è comunque ritenuta lecita, però allo stesso tempo una copia identica di un’opera pittorica che non dichiari esplicitamente di essere copia viene giustamente identificata come un falso. In architettura ciò che è valido per le altre arti visive viene ribaltato. È opinione comune che se un edificio viene replicato (San Pietro in mezzo al deserto africano, la Sfinge a Las Vegas) è irrimediabilmente kitsch e non semplicemente una copia come per le altre arti, se viene realizzato con uno stile non più alla moda allora è clamorosamente falso, per questo caso non è più valido l’assunto testé riportato per la pittura e questa volta la distanza fra lo stile in voga e il precedente è ritenuta incolmabile.(4)
Ma se, come nel caso del porticato buontalentiano o del ponte di Santa Trinita o della torre dei Georgofili, si copia alla lettera l’originale, allora la qualifica di falso più che valida per le altre arti assume dei contorni più sfumati, ovvero la copia pedissequa del dove era e come era o del dove doveva essere e come avrebbe dovuto essere non costituisce reato di falso, come nelle altre arti visive, o plagio, come in musica e scrittura, ma si trasforma cedendo il posto ad una sorta di legittimità a scartamento ridotto.
Sorvolando il valore simbolico delle ricostruzioni, che ha inevitabilmente durata generazionale (le giuste reazioni ai bombardamenti mafiosi e nazisti nei casi ricordati), resta la costruzione di edifici che dopo essere stati ri-costruiti partecipano al disegno corale delle nostre città e Firenze è un caso come un altro, anche se particolarmente bello.
Il completamento del loggiato di Santa Maria Nuova dovrebbe far riflettere sulla validità di interventi che, all’interno di contesti storicizzati, tengano conto anche di linguaggi architettonici non più di moda, che in qualche modo consentano alle città storiche di mantenere la loro coralità e identità, cosa che attraverso la maggior parte dell’architettura contemporanea obiettivamente non accade. Con ciò non intendo dire che all’interno di tessuti storici si debba intervenire esclusivamente utilizzando linguaggi architettonici del passato, ma che questi dovrebbero essere legittimamente presi in considerazione al pari dei linguaggi più comunemente sentiti come contemporanei. La lezione che viene dal completamento del loggiato di Santa Maria Nuova, al di là delle intenzioni più propriamente restauratici del suo autore, sta nel provare, senza ombra di dubbio, la legittimità di progettazioni che usino linguaggi architettonici con matrici temporali e riferimenti progettuali non recenti.
In un suo articolo del 1961(5), Bemporad, parlando del loggiato appena completato, sostenne: “Lo scopo è quello di realizzare un’unità urbanistica che l’artista concepì completa e che solo gli eventi non consentirono di realizzare tale fino ad allora”.
Ed ancora “…accettai volentieri l’incarico di completare il porticato… anche se ho sempre negata la validità dei restauri di integrazione in senso generale; nel caso particolare ritenevo invece (…) che è un dovere preciso di dare completezza ad un organismo impostato su ferree leggi di simmetria…”.
Le immagini di progetto qui proposte sono quelle che lo studio Bemporad presentò all’amministrazione pubblica alla fine degli anni 50 dello scorso secolo, al fine di ottenere le necessarie autorizzazioni. Anche attraverso queste belle rappresentazioni grafiche, Bemporad espresse una logica di restauro ampliato al reintegro, riuscendo in questo modo a rendere compiuta un’opera che meritava di essere ultimata.(6)
A soli cinquanta anni dalla realizzazione dell’ultima porzione del loggiato, un’operazione “restauratrice” come quella illustrata, a causa dei lacci burocratici e del falso moralismo imperversante che non riconosce parità di dignità a disegni in stile, oggi sarebbe difficilmente realizzabile e, visto il ruolo di questo edificio nel ridisegno della piazza, personalmente vedo in queste posizioni un’enorme limitazione a quell’ininterrotto flusso di perfezionamento che è fisiologico nelle nostre città storiche.
Nota al termine: vagando nel ciberspazio, su Wikipedia, alla voce Ospedale di Santa Maria Nuova campeggia, unica, una fotografia del porticato, ma solo della porzione realizzata da Nello Bemporad. Che questo sia un lapsus volontario o meno, la sostanza non cambia: il portico è autentico perché viene percepito come tale.
Note
1)A questo proposito si veda Lo spedale di S. Maria Nuova e la costruzione del loggiato di Bernardo Buontalenti ora completata dalla Cassa di Risparmio di Firenze a cura di Guido Pampaloni Cassa di Risparmio – FIRENZE – 1961che approfonditamente disquisisce sul motivo della certa attribuzione al Buontalenti, mentre per una più completa visione del contesto operativo del Buontalenti si veda Amelio Fara, Bernardo Buontalenti Electa 1995 , Milano.
2)Terza giornata del convegno “Identità dell’architettura Italiana”, Firenze 13-14-15 Novembre 2008.
3) Lungi da me voler dare valenza statistica a queste quattro chiacchiere fatte nel mezzo di strada, esse possono essere solo spunto di riflessione.
4)Nei paesi anglosassoni, dove è ancora radicata l’abitudine di costruire in stile, ben distinte sono le fazioni pro e contro l’architettura classicista e tradizionalista, pro e contro l’architettura di derivazione modernista. E nessuno ha paura degli “ismi” poiché lo stile, con il classico pragmatismo anglosassone, è comunque considerato come una caratteristica intrinseca della pratica architettonica. Pur nello scontro di pensiero, nel continuo e ininterrotto reciproco dileggio che contraddistingue la critica di entrambe le parti esiste di fatto un mutuo riconoscimento di legittimità culturale.
5)In Architetti d’Oggi anno 1961 n.1 Nello Bemporad “Piazza Santa Maria Nuova completamento del Porticato”
6)Gli originali sono conservati presso l’archivio comunale di Firenze.
Didascalie Immagini
1 Il braccio del porticato realizzato nel 1959 da Nello Bemporad.
2 Il braccio del porticato realizzato nel 1710.
3 Nello Bemporad Vs Giulio Parigi.
4 Scorcio della piazza oggi.
5 L’edificio demolito per far posto al nuovo braccio del porticato (prospetto sulla piazza).
6 L’edificio demolito per far posto al nuovo braccio del porticato (prospetto su via Bufalini).
7/8/9/10 Elaborati progettuali per la realizzazione dl nuovo braccio (Arch. Nello Bemporad, depositati presso gli archivi comunali).
11 Vista settecentesca della piazza di S. Maria Nuova.
39 commenti:
Sull’annosa questione del vero e del falso, se l’Architettura stia nel progetto o stia nell’oggetto, faccio una proposta “indecente” per stimolare una discussione in proposito.
Premessa: S. Andrea a Mantova fu iniziata a costruire, su progetto dell’Alberti, dopo la morte di costui, ma non per questo viene considerata un falso, se no si dovrebbe parlare di falso ogni volta che il direttore dei lavori è diverso dal progettista.
Supponiamo che addirittura, per finire un’opera dopo la morte del progettista non si abbia a disposizione solo il progetto, ma addirittura l’oggetto, nel senso che la parte mancante sia assolutamente simmetrica con l’esistente e possa quindi essere costruita in maniera filologicamente perfetta, utilizzando anche gli stessi materiali.
Proposta indecente: se noi “terminassimo” il San Biagio di Montepulciano costruendo la torre destra mancante, simmetrica a quella esistente, PUR NEL FORTISSSIMO SFASAMENTO TEMPORALE, faremmo un’operazione filologicamente ancor più corretta del S. Andrea dell’Alberti, perché partiremmo non dal progetto, ma dal manufatto esistente, costruito, quello sì, proprio dal Sangallo in persona, presente in cantiere.
E’ aperta la discussione su quanto debba essere lo sfasamento temporale perché, anche nella totale correttezza filologica, si possa parlare di falso.
Giulio Rupi
Giulio Rupi, se permetti porrei la faccenda in altri termini e mi chiederei se sia corretto circoscrivere il problema del falso al puro sfasamento temporale. Voglio dire, se viene terminato un edificio di cui esistono precisi progetti e materiali dell’epoca perfettamente idonei, forse non si può parlare di falso in termini strettamente esecutivi, ma si può certamente parlare di falso ideologico, che e ben più grave.
Se costruisco un palazzetto rinascimentale con materiali e documenti del rinascimento, può essere che io prosegua, un po’ alla lunga, un progetto dell’epoca, ma certamente falsifico tutto quello con cui si mette in relazione, da sempre, l’architettura, falsifico lo spirito del progetto, le relazioni con il contesto (oggi mutato) che l’architetto di allora ha attentamente intessuto, falsifico la funzione (oggi viviamo ed abitiamo in modo sensibilmente diverso), falsifico le soluzioni tecnologiche (oggi non possiamo rinunciare al riscaldamento, alle auto ecc.).
La non falsificazione richiederebbe abitanti in crinolina, servizi igienici all’aperto, camini a legna, strade acciottolate e quant’altro, perché un progetto è condizionato anche da questo, non è solo stile, capitelli e archetti.
Quindi, formale o concettuale, sempre di falso si tratterebbe.
Personalmente, poi, sono ancora più radicale, per certi edifici incompiuti imporrei il divieto di compimento, senza entrare nel merito dello sfalso temporale, perché finirli sarebbe un po’ come armarsi di martello e scalpello e pretendere di portare a termine la pietà Rondanini, senza capire che il non finito ne costituisce il fascino.
E’ il caso della Sagrada Famiglia di Barcelona, cantiere perpetuo, ancora oggi brulicante di gru e di ponteggi che denunciano una indefessa volontà di compiutezza. C’è il cantiere, c’è la pietra, ci sono le splendide tavole grafiche sulle quali Gaudì a speso la vita, eppure credo che chiunque, entrando, colga il significato tragico e profondo di quella incompiutezza e si auguri che quella chiesa non venga finita mai, che una teca di cristallo cali su quelle rovine moderne e destini all’eternità uno straordinario “rudere del futuro”.
Ciao
Vilma
Per Wilma.
Anzitutto, notevole la nuova categoria del "Falso ideologico"! Sentiamo la mancanza, in Architettura, di una qualche terminologia da codice penale.
Comunque nessuno dei casi citati è conforme al mio quesito sul San Biagio.
Non si può per esempio sostenere che finirla con la costruzione del campanile destro sia fare qualcosa di non contestualizzato come costruire ex novo un palazzetto rinascimentale (a proposito se, a proposito di quel palazzetto, esalti "la relazione dell'opera con il contesto dell'epoca" come la mettiamo con la relazione tra un manufatto "fortemente moderno" relazionato a un contesto antico?).
Per quanto riguarda poi il cattivissimo riferimento alla pietà Rondanini, non credo che il Sangallo avesse intenzionalmente interrotto la costruzione del campanile destro.
Ma veniamo al dunque: se, come dici, "SONO ANCORA PIU' RADICALE etc. etc." devi essere consequenziale e sostenere che:
- Il Campanile di San Marco non lo si doveva ricostruire.
- Il ponte dell'Ammannati non lo si doveva ricostruire.
- Il ponte del Palladio a Bassano non lo si doveva ricostruire.
- Il (così "coerente"!)Centro storico di Siena fa schifo perché per un terzo è stato rifatto "in stile" da quei deficienti dell'800.
- La Fenice non la si doveva ricostruire così.
- Il Centro Storico di Dresda non lo si doveva ricostruire così.
etc.
etc.
etc.
etc.
etc.
Hai mai letto "Recuperare la bellezza" di Paolo Marconi, Ed. Skira?
Saluti, Giulio Rupi.
Dal dizionario giuridico ( e non dal codice penale):
“Si ha falso ideologico in ogni caso in cui il documento, non contraffatto né alterato, contiene dichiarazioni menzognere”: nel falso ideologico dunque, è lo stesso autore del documento ad attestare fatti non rispondenti al vero.
Se mi passi l’iperbole, un architetto che costruisce un palazzetto rinascimentale spacciandolo per corretta architettura contemporanea attesta una menzogna.
Un manufatto “fortemente moderno” può essere, purtroppo, non relazionato a contesti antichi, non ho difficoltà ad ammettere che spesso succede. Ma succede anche che Calatrava, per esempio, piazzi un ponte modernissimo, discutibile per tanti versi, ma ottimamente inserito nel contesto antico, così come che Hans Hollein realizzi a Vienna in Piazza Santo Stefano un emozionante faccia a faccia tra un modernissimo presente ed un antico passato riflesso come un puzzle nelle pareti a specchio di un edificio contemporaneo (scusa Pietro).
Quella sulla pietà di Michelangelo era una battuta, neanche tanto cattiva.
Di una cosa sono certa, che “La Fenice non la si doveva ricostruire così.”
Circa il resto, dobbiamo ammettere che non sapremo mai che aspetto avrebbero oggi i luoghi se non si fosse ricostruito tutto com’era dov’era, per chi non ha visto direttamente la distruzione, oggi è come se nulla fosse accaduto, come se quei luoghi fossero rimasti tali e quali dall’epoca della loro costruzione: i giovani crederanno che l’Italia sia sempre stata un giardino incantato dove il tempo è sospeso e che la guerra, i bombardamenti e le case rase al suolo siano una patetica invenzione dei loro nonni.
Lettura consigliata:
Marc Augé "Rovine e macerie. Il senso del tempo", Editore Bollati Boringhieri, 2004
Ciao, alla prossima
Vilma (con la V semplice)
Perdonata, perdonata, Wilma, pardon Vilma. Avrei scommesso che sarebbe arrivata la giusta precisazione, anche perché conosco il tema: anche con mia mamma era la stessa cosa.
Venendo al tema: capisco cosa intendi quando dici che ricostruendo tutto com'era e dov'era, dopo una guerra, un terremoto, una catastrofe insomma, si rischia di perdere la memoria. Ma pensa te se le nostre città fossero una sedimentazione di "catastrofi"! Sarebbero un immenso rudere, una città dei morti. Piuttosto si costruisce un mausoleo, un monumento "bello" a ricordo di un evento brutto.
Alla stazione di Bologna quel segno lasciato a ricordo della strage io non l'avrei lasciato: non comunica niente a chi non lo sa o non ricorda, è solo uno squarcio sul muro. Una targa per me era sufficiente. Non con il brutto si onorano i morti, ma con il bello.
Io, ad esempio, mi sarei aspettato che gli americani volessero ricostruire le torri gemelle com'erano e dov'erano, e invece...
Ma si vede che anche gli americani non sono più gli stessi.
Ciao
Pietro
una che per fortuna l'hanno finita: saint pierre de firminy di le corbusier, un capolavoro...
una che porterei a termine: il chiostro di san pietro in montorio del bramante
una finta-antica che taglierei a pezzi e venderei agli americani dato che l'han fatta
una che restaurerei com'era e dov'era: la facciata verso il giardino di palazzo te a mantova (se si riesce)
una che se potessi finirei: la facciata di san pietro a roma
un'altra che spererei di veder finita: cimitero di aldo rossi a modena
una che taglierei in diagonale con una lama in corten e ci infilerei il sistema delle risalite: la macchina da scrivere (altare della patria)
una che ricostruirei com'era e dov'era: l'arena di nimes con tutte le superfetazioni e così pure tutte le superfetazioni che gli idioti dell'800 hanno demolito con le loro idiotissime idee che il monumento va isolato...
una che per fortuna non aveva le soprintendenze tra i piedi: museo di castelvecchio a verona
una che per fortuna hanno tolto anche se gran parte dei cittadini ('sti plebei ignorantoni!) voleva salvare: il giardino temporaneo di einsemann nel bel mezzo del giardino del museo di castelvecchio (anche se se la cavava bene pure il giardino di einsemann).
una che ne demolirei un pezzettino e chiamerei koolhas ad intervenirci: poundboury (così finalmente sembra un vero centro storico con le annesse polemiche anti-moderne che ne scaturirebbero)
una che raddrizzerei perchè troppo relativista: la casa inclinata del giardino di bomarzo.
una che pagherei per veder demolita: la casa del mio vicino... mi ha chiuso la vista verso il monte pasubio.
robert
wow, ci si accusa di passatismo, di revivalismo, di incapacità di aggiornarci, di non essere al passo coi tempi, ecc. ma leggendo gli ultimi post di Vilma e Robert sembra di essere tornati all'epoca di Brandi. Non sarebbe il caso di aggiornarsi? Magari leggendo i 64 saggi contenuti nel libro "The Venice Charter Revisited - Modernism, Conservation and Tradition in the 21st Century" curato da Matthew Hardy, Cambridge Scholar Publishing 2008, ISBN (10): 1847186882, ISBN (13): 9781847186881.
E' interessante leggere nel testo di Robert quali sarebbero a suo avviso le cose da completare, da demolire e manomettere ... è un deja vu che mi proietta alle lezioni ideologiche dei miei professori a "La Sapienza", l'unica cosa che mi mancava era il raddrizzamento della casetta di Bomarzo e, ovviamente, la casa del vicino, probabilmente su quest'ultima avrà pure ragione, quindi potrei appoggiare la sua petizione.
Ettore
Il metodo suggerito da Robert è ideale, valutare caso per caso se conservare o radere al suolo, se conservare i resti e integrare con aggiunte contemporanee, se conservare tutto e ricostruire com'era .....
Ma si arriverebbe al solito nodo: a chi delegare la decisione, il potere di scelta? A una commissione di esperti, al voto popolare, al responso medianico di una seduta spiritica con l'autore?
Eppure la via intermedia c'è, si può affrontare il rapporto col passato senza sudditanze, senza preconcetti, senza timori del nuovo, con la consapevolezza che ogni epoca, anche la nostra, ha qualcosa da dire ed è giusto che lo dica.
Basta guardare ciò che ha fatto a Genova, nella seconda metà del '900, Franco Albini, che ho avuto la fortuna di avere come docente al Politecnico di Milano.
Lui, modernista convinto, lombardo doc, ha saputo mettersi in sintonia con una città tradizionalmente conservatrice, con la sua asciutta essenzialità, con il rigore spartano delle sue architetture storiche trasformando, restaurando, integrando a quell'antico patrimonio culturale interventi moderni e innovatori, molti dei quali sono diventati progetti pilota per le future generazioni di architetti: Palazzo Rosso, Palazzo Bianco, antesignano della moderna museografia, il Museo del tesoro della Cattedrale di San Lorenzo, il Museo dei Chiostri di Sant'Agostino e molte altre realizzazioni anche urbanistiche coniugano il rispetto per il passato, che ha radici in una assimilata cultura umanistica, con il coraggio di confrontarsi con esso da uomo del suo tempo.
Vilma
Enzo Vannucci, che eseguì la progettazione strutturale della nuova ala dello Spedale, realizzò una struttura in cemento armato. Alcuni disegni delle strutture sono consultabili sul citato “Architetti Oggi” del 1961. Il fatto che la struttura sia in cemento armato non cambia la sostanza di una virgola, poichè la sostanza, forse è bene ricordarlo, sono gli edifici, e gli architetti progettano e fanno eseguire (quando ne hanno la fortuna) edifici. E’ nel rapporto che gli edifici intessono con gli esseri umani che stà il senso del nostro lavoro, quindi che questo sia in muratura portante con i conci scalpellati a mano o tenuto su con gli spilli e l’attac non fa alcuna differenza, il fulcro della questione sta nel rapporto dell’edificio con la vita urbana che lo circonda.
Vilma, credo che la mummificazione dell’architettura, ovvero la trasformazione di essa in evento museale, decreta inevitabilmente la morte dell’architettura stessa. Provo a fare un esempio: un monumento funebre (faccio questo esempio perché è uno dei “temi” che più avvicina l’architettura all’arte figurativa. Arte figurativa che ha funzioni di tipo contemplativo, e non tecnologico/prestazionali come deve avere per sua natura l’architettura), per esempio la piramide Cestia o la tomba del fornaio Eurisace, nate per celebrare dei defunti, con il volatilizzarsi delle ceneri che in essi erano custodite a mio parere non perdono la loro profonda valenza di architettura perché perpetrano ancora oggi il motivo della loro esistenza (il ricordo dei defunti), viceversa la trasformazione del campanile di Berlino in “monolite” simbolico lo sradica dal rapporto tecnologico/prestazionale che comunque un evento architettonico deve avere e lo catapulta nel mondo onirico/sentimentale dell’arte figurativa, ma a questo punto stiamo parlando d’atro non più di architettura ma di altro, del tutto accettabile e culturalmente lecito ma di altro rispetto all’architettura.
E’ sicuramente un mio problema, ma per quanto mi sforzi proprio non riesco a capire cosa significhi falso attribuendolo ad un edificio.
Una banconota può essere falsa perchè pretende di avere un valore economico che non ha (cioè, per le monete più serie non corrisponde ad un determinato valore in oro depositato presso una banca), anche un quadro può essere definito falso per lo stesso motivo, ovvero per il valore economico che dolosamente gli viene attribuito.
continua..
...
A casa mia ho una bella copia della Santa Cecilia di Waterhouse, posta lateralmente al mio letto, quasi tutte le sere prima di spegnere la luce gli dedico qualche secondo. Quale fosse il profondo ed ultimo motivo per cui Waterhouse dipinse quell’opera probabilmente nessuno lo saprà mai, ma io so benissimo quale enorme piacere mi danno quei pochi istanti la sera. Quella copia perpetra il motivo dell’esistenza del quadro originale, il cui valore pecuniario è enormemente maggiore della bella copia in mio possesso, ma la cui capacità emozionale (ovvero il motivo profondo per cui l’arte stessa esiste) non credo che si discosti tanto da quella della copia in mio possesso.
A questo scopo mi sembra giusto ricordare che dopo Keith Haring il discorso sull’autenticità dell’arte dovrebbe essere ampiamente superato, tutta la vita artistica di K.H. è stata dedicata a dimostrare come la copia identica delle sue opere (vendute come gadget nei negozi da lui stesso promossi) avessero di fatto lo stesso valore emozionale degli originali.
Ricordo che qualche anno fa, dal furbo quale è sempre stato, Alessandro Mendini venne a Firenze e chiamò a se tutti i giovani venditori ambulanti che vendevano “false” borsette Louis Vuitton e le “autentico” apponendo la sua firma, facendo schizzare alle stelle il valore di quei “falsi”. A mio parere, una borsetta è una borsetta non è falsa o vera è una borsetta punto e basta. Però il mercato decreta che una sia pagata 5 o 600 €uro e l’altra 20 €uro, in ultima analisi è il mercato decide ciò che e vero o cio che è falso.
Quindi per mezzo di un’operazione dolosa, attraverso la falsificazione si ottiene un illecito guadagno, ovvero la copia identica spacciata per originale fa ottenere ai falsari un guadagno economico che non spetta loro, ma che spetterebbe al legittimo ideatore della borsetta, del dipinto o della banconota.
Ma quale è il guadagno che illecitamente ottiene un progettista utilizzando un linguaggio architettonico anzichè un altro?
La distinzione tra vero e falso affonda le sue radici “culturali” esclusivamente su dei presupporti economici. Il diritto d’autore esiste solo perché da esso vengono tratti guadagni economici, nulla di male intendiamoci, ma riconosciamo che è quello della capitalizzazione economica delle idee il fondamento della distinzione tra vero e falso; problematica, che è bene ricordare, esiste solo nel pensiero occidentale e che era assolutamente sconosciuta al resto del modo.
continua ...
...
Quindi per finire: un edificio costruito in cartone è falso poiché non è utilizzabile, un edificio realizzato in mollica di pane, pronto a sbriciolarsi sotto il peso di un uccellino che lo viene a becchettare è falso poiché non fa il suo lavoro di edificio. Ma un’architettura per sua intima essenza non può essere falsa poichè esiste per dare delle prestazioni ( e nelle prestazioni inserisco a pieno titolo le prestazioni estetiche), la menzonnia sta negli occhi di chi guarda, che giudica gli edifici a seconda della loro paternità ed età e non dal loro rapporto con la vita umana ed urbana.
Altro punto sarebbe quello di intendersi su cosa si intende per “architettura del passato” personalmente quando dico questa frase riferendomi ad edifici esistenti intendo esclusivamente dire “architettura realizzata nel passato”, poiché è ovvio che se è ancora utilizzabile è un’architettura del presente, ed in quanto tale è assolutamente contemporanea. Ed è qui che sta uno dei noccioli del sentimento che guida quelli che un tempo si chiamavano “architettori” ovvero il senzo di immanenza che l’opera di architettura porta in se, la sua atemporalità, il suo essere transgenerazionale. Approfondire il tema della quarta dimensione significa affrontare il tema cruciale dell’esistenza stessa dell’architettura.
In fondo( per celia) propongo che per entrare in tutte le recenti realizzazioni di Libeskind o Zaza lo si possa fare solo se dotati di brache calate sotto il sedere e ciuffo EMO a mascherare la faccia, visto che in giacca e cravatta o tailleur nessuno di noi sarebbe appropriato al luogo, perchè ormai non più “up to date”.
Ciao
Angelo
che casino con questi 4096 caratteri ;-o
Vilma, se la situazione fosse come tu la descrivi, potresti avere qualche ragione. Ma la situazione non è quella, non tutti gli architetti sono Franco Albini. Ci sono 140.000 architetti in circolazione, 140.000 pistole cariche che sparano a caso.
Ognuno o quasi di questi architetti crede di essere un fenomeno, un artista, uno che ha il dovere-diritto di lasciare il segno. Le mie esperienze nelle commissioni edilizie ed urbanistiche mi dicono che è così. Architetti, che si spacciano, o forse lo sono, per conosciuti che non sanno disegnare nemmeno una scala senza che nel pianerottolo intermedio non si batta la testa sul solaio di sopra; architetti decisamente non famosi che disegnano tetti in prospetto la cui linea di gronda è a punta, come se il tetto fosse immateriale e senza spessore. Non sono casi limite, sono aasi frequenti.
Ho fatto quattro commissioni d'esame di stato e, credimi, un disastro.
Quelle pistole vanno scaricate, Vilma, perchè non esiste una base mediamente accettabile che si accontenti di fare la sua onesta professione senza grilli per la testa. Tutti hanno grilli per la testa, geometri compresi.
Quello della scala dove si batte la testa (un classico) ha fatto il progetto di una cantina di vini di una certa importanza, e ha voluto lasciare nelle colline del cortonese il suo segno con un misero padiglioncino di tipo finlandese o giapponese o architettese intraversato sulla collina, con i soliti tristissimi pilastrini storti alla Toyo Ito (si scrive così?) che mettono malinconia a vederli tanto sono ridicoli e abusati, anche perché non sostengono quasi niente (per fortuna), con il solito rivestimento di doghe di legno e ampie vetrate; insomma il solito repertorio da rendering.
Questo non l'abbiamo potuto fermare, perchè il progetto era già approvato e forse costruito e si trattava di una variantina!
Prima si torna alle regole e poi sarà ammessa la trasgressione a chi se la può permettere!
Dirai: ma che devi essere te a deciderlo? certo che no, voglio dire che prima è necessario ristabilire che l'architettura è una cosa seria, creare le basi comuni per dare un buon prodotto rispettoso dei luoghi e poi si vedrà: quelli bravi potranno emergere. Ma non si può partire dall'assunto che tutti gli architetti sono bravi perchè laureati: davvero non è così.
Ciao
Pietro
Bella questione. Il fatto è che il "modernismo", così come il "passatismo" sono due facce della medaglia dello storicismo.
Cioè, è solo con una mentalità storicista che può porsi il problema del "falso". Perchè, se un edificio c'è, è comunque vero. Infatti, anche un edificio che viene costruito "com'era dov'era" è una testimonianza storica in sè.
E d'altro canto, quanti pezzi degli edifici autentici, quanta pelle (intonachi, superfici), quante membra (orditura dei tetti), non è più quella originale?
Questo è particolarmente evidente nei templi lignei giapponesi: materialmente, non c'è nulla dell'originale; ma poichè la sostituzione è avvenuta gradualmente nel corpo, li sentiamo come autentici.
Del resto, le stesse cellule del nostro corpo in un anno sono tutte diverse. E per ciò saremmo "altri uomini"? O "falsi", poichè le nostre cellule non sono più quelle "originali"?
E tuttavia, il nostro corpo comunque cambia.
Lo storicismo pretende di fermare il tempo: e il modernismo pretende - essendo un risvolto dello storicismo - che le cose cambino la loro essenza, supponendo che esse rimangano uguali.
In realtà, non sono mai uguali, nemmeno quando sembrano le stesse. Ogni cosa, anche le pietre degli uomini, nascono, vivono, e presto o tardi moriranno.
Una coscienza metafisica mostra la fallacia dello storicismo: sia quello modernista che quello passatista.
Angelo, dire che “la mummificazione dell’architettura, ovvero la trasformazione di essa in evento museale, decreta inevitabilmente la morte dell’architettura stessa.” è un’affermazione generica, proprio quello che, come ho già detto commentando Robert, non si dovrebbe fare.
So bene, e mi scuso per l’autocitazione (http://www.artonweb.it/architettura/articolo11.htm) che l’Italia è il paese al mondo con la più alta percentuale di musei per abitante, con inutili musei delle colture contadine, del pane e persino del gelato, ma quando parlo di Genova intendo parlare della situazione a Genova, città che conosco bene per esserci nata e vissuta.
Prima di Albini, Genova disperdeva il suo notevole patrimonio artistico ricoverandolo in sedi polverose, locali bui e inadatti, ammassando in ammuffite cantine straordinarie collezioni di dipinti fiamminghi, tenendo in vita molti assurdi musei navali, musei del mare ecc.
L’asse storico di via Garibaldi (pochi anni fa nuovamente interessato da ottimi interventi di restauro) ha preso vita grazie agli interventi di Albini, grazie a lui la nuova facoltà di Architettura ha avuto una sede storica prestigiosa e il Duomo gotico è oggi frequentato e visitabile come una galleria d’arte.
Non condivido la tua separazione tra arte e architettura, poiché credo che oggi, e di più domani, l’interdisciplinarità sia fondamentale per vivere in un mondo globale e per capire l’uomo nella sua interezza (nella sua ‘esseità’, direbbe Mario Costa), quindi non entro neanche nel merito.
Così come mi sembra semplicistico dire che “La distinzione tra vero e falso affonda le sue radici “culturali” esclusivamente su dei presupporti economici”, ma anche qui mi astengo, non c’è spazio per affrontare una discussione profonda su questi temi.
Più che da Keith Haring, direi che il discorso sul valore dell’autenticità dell’opera sia stato aperto da Andy Warhol, o se vogliamo, prima della Pop art , da Duchamp e poi teorizzato da Walter Benjamin, comunque tutti costoro hanno parlato di arte visiva, quindi non dovrebbero interessarti più di tanto, dato che l’architettura, dici, è un’altra cosa (come la metti quando dici “nelle prestazioni inserisco a pieno titolo le prestazioni estetiche”, non è che sconfini un po’ troppo nell’onirico/sentimentale?)
Sono d’accordo sul fatto che un’architettura resti attuale finché è utilizzabile ( anche Albini era d’accordo, evidentemente, altrimenti avrebbe proposto di demolire Palazzo Rosso), altro discorso è restaurare secondo l’antico un edificio che magari non si sa a cosa servirà (anche se in Italia se ne può fare sempre un museo), peggio ancora costruire ex-novo un edificio in stile chissàquale.
E basta girare per le nostre città per capire che gli utenti “brache calate sotto il sedere e ciuffo EMO” sono la stragrande maggioranza, può essere che più a buon diritto di noi (senz’altro di me, che sono un’anziana signora) siano i destinatari dell’architettura contemporanea.
Mi rendo conto della difficoltà della disputa e dei possibili fraintendimenti in dialoghi a distanza su argomenti così complessi, comunque discutere non fa mai male.
Vilma
Ps: adoro Brandi, non so che farci, “ognuno ha il diritto al proprio cattivo gusto”, direbbe Robert, e alle sue private perversioni.
Perfetto il lunghissimo Post di "Ritorno alla città!
Anvh'io ho in soggiorno (fregandomene delle critiche di kitch degli amici snob) la testa di cavallo di Fidia, rubata dai fregi del Partenone (una copia si trova al British, ed è ugualmente bella) e me la osservo sempre con grande piacere.
Il vero e il falso sono soprattutto categorie ECONOMICHE!
E qui si deve introdurre il tema copnseguente della riproducibilità delle creazioni umane.
All'estremo della riproducibilità stanno le opere dello spirito.
L'"Infinito" di Leopardi lo apprezzo anche se lo leggo in edizione economica e non nel manoscritto originale. Non sto leggendo un falso.
Il teorema di Pitagora sarebbe valido anche se Pitagora non fosse mai esistito, se lo applico al posto di Pitagora non commetto un falso.
Il manoscritto dell'"Infinito" ha un valore grande, ma solo da un punto di vista ECONOMICO (antiquariale), non come opera d'arte in sé.
All'altro estremo, quello della non riproducibilità, personalmente io metterei il balletto, la danza, in cui l'autore dell'opera è l'opera d'arte stessa.
Il TAGLIO DI FONTANA è una opera dello spirito, è una operazione CONCETTUALE (la rottura delle due dimensioni della tela etc. etc. etc.).
Se prendo una tela e ci faccio un taglio, esprimo lo stesso concetto, è come se applicassi il teorema di Pitagora o leggessi l'"Infinito", ma la mia tela non vale niente, mentre la tela di Fontana ha un grandissimo valore ECONOMICO (Antiquariale)non come opera d'arte in se ma perché l'ha fatta lui per primo, l'ha inventata lui.
In questa scala l'Architettura a che punto sta?
Se l'Architettura sta tutta nel progetto è riproducibile e non si commettono "falsi" utilizzando qualsiasi tipo di "stile": si realizzano opere che possiamo giudicare belle o brutte solo entrando nel merito.
Un abete in Toscana, tra cipressi e pini non è un "falso": ci sta male! Una pagoda cinese nel Chianti non è un falso, è una vista sgradevole per chiunque.
Bisognerebbe riuscire a entrare nel merito senza farsi bloccare da questa parola "FALSO" utilizzata in termini non economici ma ideologici (Vilma: è il vero "falso ideologico"! Utilizzare ideologicamente la parola "falso"!).
Se noi riuscissimo a entrare nel merito delle questioni e delle visioni senza poter utilizzare ideologicamente quella parola, non so cosa resterebbe, per esempio, della pensilina di Isozaki agli Uffizi.
Giulio Rupi
avevo preparato un intervento che per fortuna non ho inviato; G.Rupi ha scritto, molto meglio, gran parte delle cose che avevo prodotto, incluso il riferimento ai tagli di Fontana.
Concordo appieno sulla necessità di distinguere l'aspetto "ideazione-fantasia-genio-originalità" dal lato"economico-commerciale".
Il valore economico della tela forata da Fontana è molto più alta di quello dell'oggetto identico che posso creare io, perchè nel mondo esistono milioni di persone disposte a sborsare una cifra, che il sistema della domanda e dell'offerta garantisce (?) equo.
Il taglio fatto da me, come la falsa testa del cavallo del partenone, nessuno è disposto a pagarlo più di pochi euro.
Riguardo al lavoro dell'architetto, si potrebbe estremizzare il ragionamento, per giungere a dire che, nel caso di opere originali (qualunque cosa ciò significhi) hanno il valore che dà loro il mercato; nel caso dello spedale di S.M.N. invece, nulla sarebbe dovuto a chi, trecento anni dopo, completa l'opera seguendo il progetto originale. O meglio, l'onorario equo sarebbe quello che copre le spese vive, materiale cantiere eccetera, e l'impiego di tempo.
Conscio di essermi alienato le simpatie degli architetti contemporanei presenti,
sarei quasi tentato di non firmarmi....
Tutto ciò che si costruisce diventa pubblico, di tutti.
Non c'è niente di male a riscriverlo, copiarlo ... utilizzarlo in fine.
Rientra tra i comportamenti della "comunicazione" ; perche non è l'individuo ma la collettività il "soggetto parlante",il depositario del linguaggio, dei vocaboli e della sintassi.
Più facile che appaia falso, di conseguenza, ciò che dall'individuo proviene come segreto guastatore di regole e sistemi.
Per essere compresi, "dialogare", è inevitabile parlare il linguaggio degli interlocutori per detestabili e discutibili che siano.
Il codice (...purtroppo o per fortuna...) non ce lo scegliamo noi.
A nessuno, neppure ai Re, al momento dell'ingresso nel mondo, fu chiesto quali fossero le preferenze.
Penso siano talmente tante le contraddizioni della nostra vista che sia concretamente impossibile stabilire parametri per intervenire e stabilire cosa sia vero cosa no. L’inganno, purtroppo, è all’origine della classicità e l’anelito alla onestà e alla verità ce lo portiamo dietro dal gotico in poi, volenti o nolenti con queste due scuole dobbiamo confrontarci. La prima sposta l’attenzione sulle regole, la loro ripetizione e sedimentazione pur essendo finzione già all’origine. La seconda sposta tutta l’attenzione sull’onestà strutturale. Alla base di entrambe c’è il confronto con la tecnica. Tecnica che sino al ‘700 era molto banale: sistema trilitico, arco e muro monostrato. L’architettura del ‘900 ha posto il problema di confrontarsi con due queste due scuole e con una tecnica radicalmente mutata: reticolari e lo “star su per forma”, materiali come acciaio e cls che permettono sbalzi e forme inedite, muri non più monostrato ma pluristrato. Ogni strato ha la sua funzione: isolamento, tamponamento, acustica, di sacrificio… il funzionalismo scorre nelle vene dell’edificio non nelle vene dell’architetto. La ricerca di verità sta nel confronto con questi tre parti non con l’economia o quant’altro… essendo parti fondanti dell’architettura stessa. Confrontarsi con essi è fare e ragionare con l’architettura e i propri strumenti. Mies voleva essere classico e gotico, dà vita alla galleria di Berlino, tipologia: un tempio; struttura: gotica (vetro che tampona e sostegni puntuali in acciaio); però fa un “gioco”: toglie il sostegno proprio sull’angolo a sancire la definitiva appartenza al mondo dello sbalzo e non più del trilite. Questo è il ‘900, un secolo che si è confrontato con gli elementi basilari e fondativi dell’architettura e ne ha sondato talmente tanto le implicazioni da rendere persino inabitabili certe costruzioni. Il ‘900 non è solo Mies ma è anche Loss, Tessenow, Plecnick, architetti perfettamente coscienti che sorpassare il limite dell’abitabilità significa andare contro un’altro dei principi fondativi dell’architettura: dare riparo, protezione e riconoscibilità all’uomo. A 60/70 anni di distanza cosa resta? il continuo confronto con le due scuole e la tecnica, in mezzo un cinquantennio che non va dimenticato in quanto ha ragionato e mostrato possibilità e limiti del confronto coi proprio strumenti. È col confronto con esso e coi due filoni che ho citato che si può capire molte delle architetture degli ultimi cinquant’anni. Se si vuole cercare il rapporto con la verità bisogna trovarlo lì, negli stessi strumenti dell’architettura, non in altri elementi che con l’architettura non hanno nulla a che vedere. A questo punto c’è il problema dello “stile”, cosa mi può permettere di essere classicista piuttosto gotico oppure modernista? Nulla, all’apparenza nulla… ma una cosa è sicura, saltare a piè pari il confronto con gli elementi fondativi e ridurre tutto a un “basta che stia bene”, “la borsetta è comunque una borsetta”, comunque un tetto che mi ripari c’è ed è già abbastanza per esser architettura non può bastare. Ragion per cui il confronto con il linguaggio dovrebbe passare attraverso questa consapevolezza: noi non siamo solo decoro appiccicato, siamo anche tecnica e siamo anche la relazione che stabiliamo con essa (siamo praticamente figli anche del gotico).
Ecco quindi le figure di uno Stirling: non è più possibile la sintesi, non è più possibile l’unitarietà del tutto, non è più possibile l’intellettualismo di pochi e quindi che sia cacofonia: elementi popolari e comprensibili assieme ad elementi colti, cita tutto e il contrario, gotico, classico, moderno (tutti sullo stesso piano e citabili). Oppure all’altro estremo un Grassi: non posso più citare, non posso più generare stile, allora l’architettura diviene “lingua morta” e, inserendosi all’interno del filone classico, si attiene alla semplice “costruzione logica” dell’architettura. L’architettura è anche ragionare sui propri strumenti e il restauro, nel momento in cui decide per il “dov’era e com’era” è già progetto, è operazione intellettuale, non spontanea né “autentica”, è filtrata dalla nostra razionalità, è già di per sé “inautentica” come lo sono tutti i progetti pertanto, se è già progetto, non può pensare di essere “vero” e scientifico a prescindere perché pensa di aver dato risposta alle sue personali e soggettive domande, deve mettersi a giocare con le verità. Ho come l’impressione che a certi tipi di neo-tradizionalismi sfugga la consapevolezza di appartenere ad un tempo, ad un epoca, ad un luogo (l’occidente che non è il Giappone), ad una tecnica e quindi, di conseguenza, di non avere responsabilità non tanto verso la verità che non esiste ma verso il gioco della verità e delle possibili verità. Fingono che nulla sia successo, fingono che l’onestà in architettura non esista. Appunto: fingono. Fingono di non avere dover dare risposte alle responsabilità che l’architettura ha verso il proprio stato di crisi derivato dalla perdita del centro. Invece lo “spirito gotico” e la tecnica contemporanea esistono eccome, fanno capolino da qualsiasi poro. Dovrebbero quindi porsi il problema di giocare con le verità. Uno può anche dire: a me non interessa, un riparo, un po’ di stile cercato tra i cataloghi che la storia fornisce e l’edificio è fatto, d’accordo, può farlo… ma finge di tralasciare metà della storia dell’architettura e totalmente gli ultimi due secoli. Purtroppo l’architettura non è una stampa appesa alla parete della propria camera e nemmeno un “che stia bene” e basta. Il diritto al proprio gusto è un conto il diritto all’inconsapevolezza degli strumenti che si stanno usando è appannaggio solo del committente, non dell’architetto.
L’unica verità che attualmente esiste è il giocare con le possibili verità, rimettendole in gioco continuamente, non fingendo che nulla sia successo perché si cade nella buca del falso e questo non lo dico mica io… l’aveva messo letteralmente in gioco qualche secolo fa Giulio Romano quando faceva cadere le metope, elemento appartenente alla verità dell’epoca, dalle trabeazioni.
Robert
Giulio, cambierei la tua affermazione “Il vero e il falso sono soprattutto categorie ECONOMICHE!” in “Il vero e la copia sono soprattutto categorie ECONOMICHE!”
Una copia diventa un falso nel momento in cui la voglio spacciare per vera (Walter Benjamin non ha sproloquiato a caso).
La copia ha il merito di far godere della bellezza di un’opera larghe masse di fruitori alle quali, prima dell’epoca della riproducibilità dell’opera d’arte, era precluso l’accesso alla cultura, e si differenzia dall’autentico per non avere relazione diretta né con l’autore né con l’epoca né con un contesto legittimante (esposizione, museo ecc.): ma vero e autentico non sono la stessa cosa, e “Il falso non si oppone al vero, ma all’autentico”
Questo concetto è stato fino ad oggi determinante nell’ambito dell’autenticazione e dell’expertising per ciò che riguarda le opere d’arte visiva, se trasferiamo queste considerazioni all’architettura possiamo affermare che riprodurre anche in parte un palazzo rinascimentale vuol dire farne una copia, una ‘vera’ copia se , come dice biz, , quando “un edificio c'è, è comunque vero”.
Ma non è autentico e quindi è falso.
Se il concetto può assumere significati sfumati nell’edificazione ex novo, ha contorni più precisi nel restauro, dove tutto ciò che viene ripristinato com’era dov’era, indistinguibile quindi da ciò che è rimasto integro nel tempo, non essendo autentico (e volendolo sembrare) è falso.
Voglio riportare un illuminante parere che rispecchia mirabilmente ciò che intendo, emesso in occasione del restauro della Fenice:
“ […..]La mia opinione è che in una ricostruzione l'ideale sarebbe mettere insieme gli elementi di continuità storica con una innovazione che sia evidente e creativa, che porti il segno della discontinuità, del trauma subito. Occorre, entro certi limiti, accettare la storia con i suoi irreparabili eventi: è insensato immaginare di fermare il tempo riportando una cosa che è stata cancellata per incuria o per dolo al suo immutato e antico splendore. Le ferite devono lasciare la loro cicatrice: anche le opere d'arte devono portare i segni della storia, devono inglobare le cesure, le discontinuità, inserirle nella continuità. Perché è nella differenza, nell'elemento innovativo che sporge rispetto all'originale distrutto che si mantiene la memoria viva di una comunità.” (Remo Bodei su La Repubblica del 22.10.03)
E’ ciò che andrebbe fatto specie in Italia, “[….]La forza della Vecchia Europa è infatti la stratificazione. La nostra è una cultura ben diversa da quella orientale, che ricostruisce in copia, o da quella americana, che azzera …..." (Mario Botta, idem)
Mi sembra perfetto.
Vilma
Se c'è una conquista tecnica dell'umanità è prorio il banalissimo sitema costruttivo introdotto dai Romani. Tant'è che sta su da 2.000(...dicasi "duemila"...) anni in condizioni di manutenzione assente o precaria. Gli sbalzi in muratura non sono da meno: basta andare ad Ostia per rendersene conto. Ostia; porto romano; abbandonato per più di 1500 anni. Basterebbe una ripulita, tetto ed infissi nuovi ( non in alluminio o legno lamellare ) ed...oplà ! Abbianmo ancora la nostra casa per i prossimo duemila anni.
Chi può garantire altrettanto ?
Dal punto di vista economico un investimanto di grande successo ampiamente ammortizzato negli anni.
Argilla dalla terra, calce cotta a legna e paglia dai campi limitrofi, pozzolana dei vulcani, tanto buon senso alla portata di tutti: anche del più distratto e frettoloso degli appaltatori.
La ricetta del successo è sempre semplice.
Non altrettanto si può dire dei materiali e dei sistemi costruttivi d'oggi. I tamponamenti si staccano, inesorabilmente, dai telai, subendo le deformazioni plastiche di materiali innovativi.
Le materie prime estratte in Angola finiscono in Cina e poi ritornano in Europa, subendo lo stesso iter di biscotti e patatine fritte, con grande spreco di risorse.
Ma solo finchè potremo permettercelo.
Non abbiamo nuove "forme" è vero. Non possiamo forzare la natura mettendo il pesante sopra ed il leggero sotto, non possiamo realizzare edifici a forma di nuvola di gas e questo effettivamente è un limite, preoccupante però solo per alcune categorie di persone alcuni giorni della settimana: diciamo dal lunedì al venerdì ma non il sabato e la domenica quando le stesse si trasferiscono, con grande soddisfazione, in luoghi banali sperduti nei borghi e nelle campagna.
Per Memmo54.
"C'è un quadro di Klee che si chiama Angelus Novus. Vi è rappresentato un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui ha fisso lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L'angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove a noi appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e riconnettere i frantumi. Ma una tempesta soffia dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che l'angelo non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui egli volge le spalle, mentre davanti a lui il cumulo delle rovine sale verso il cielo. Ciò che noi chiamiamo progresso è questa tempesta." (Walter Benjamin, Tesi di filosofia della storia, 1939)
Vilma
Sono rimasto troppo indietro, per cause varie, per poter affrontare tutti gli argomenti che questo post di Angelo ha sollevato. E forse è bene così, visto che la discussione è animata e civilissima, ed io in genere tendo a dividere.
Solo una cosa a robert, che ha fatto un vero e argomentato post.
Ai tradizionalisti non è sfuggito niente ma proprio niente di quello che tu dici. Solo che non considerano quella modernità troppo moderna e soprattutto non la considerano troppo utile e congeniale all'uomo.
La butto giù dura (avevo avvertito che era meglio stessi zitto): alle avanguardie non piaceva ciò che c'era prima, a noi non piace ciò che c'è ora. Come minimo siamo pari.
Per il resto sottoscrivo l'ultimo commento di memmo54: sembra strano, ma è tutto vero. Tra l'altro la tecnica e il suo bisogno di rispondere a esigenze tanto diverse è arrivata ad un punto tale che la risposta da dare ad una esigenze nega l'altra. Esempio: La protezione acustica non va affatto d'accordo con la sismica, dato che se si ancorano i tamponamenti alle strutture in c.a. il rumore si trasmette, se non si ancorano può accadere che il tamponamento si stacca, se va bene si lesiona. Non è problema astratto ma concretissimo che si presenta ogni giorno in studio e in cantiere.
Il ferro richiede tamponamenti leggeri, ma la leggerezza non va d'accordo con l'acustica e l'isolamento. Il legno va bene in montagna e comunque ha il difetto, non trascurabile, che va troppo d'accordo con il fuoco, e i funghi, e gli insetti.
Dunque siamo gotici, ma solo in uno schema astratto, dato che il gotico ha sì le nervature ma non è che i tamponamenti siano di vetro! Almeno dalle nostre parti, dato che il gotico è nordico e, per quanto ci si sforzi di chiamarlo stile globale, dal nord al sud cambia completamente, perché c'era una spontanea aderenza alla cultura e ai materiali dei luoghi. Quindi poco globale, molto locale, al massimo glocal.
A maggior ragione questo vale per ricostruire ciò che c'era e non c'è più. Perchè dovremmo applicare a ciò che funzionava benissimo un sistema alquanto incoerente anche da solo?
Sotto il profilo tipologico poi va anche peggio. La libertà distributiva, cavallo di battaglia di LC e ormai patrimonio comune, purtroppo, è un disastro totale sotto il profilo tecnologico, specie nella sovrapposizione di alloggi diversi. L'ideale è invece avere alloggi uguali incolonnati.
Ma allora tanto vale seguire il discorso di memmo54, cioè muratura portante: isolamento termo-acustico, costi ridotti, sicurezza sismica, impianti in colonna, sostenibilità ambientale vera. Nessuna contraddizione o incongruenza. Qual è la modernità vera?
Pietro
Per Vilma. Chiariamoci il concetto di falso. Per me il mio cavallo di Fidia in salotto non è un falso, ma una copia. Ma anche il campanile di San Marco a grandezza naturale a Las Vegas è una copia,no è precisamente un falso. diventerebbe un falso se ci mandassero i turisti facendoli credere di essere a Venezia.
Ma passiamo a quello che ci interessa di più, non le copie false o non false, ma il nuovo progetto.
In quest’ambito il termine falso, che contiene in sé tutta una carica negativa, penso che lo si possa anche così individuare: è falso (e kitch) tutto quello che è “in stile”.
Sono queste due paroline “in stile” che incombono dietro tutte le nostre dissertazioni.
Essere in stile è il “male assoluto” e per definizione vuol dire anche essere falso (e kitch).
Lo pensavo anch’io nelle mia giovinezza, essendomi abbeverato a decenni di quella cultura, ma poi, con una lunga e faticosa autocritica conseguente al mio lavoro, mi sono convinto che essere in stile talvolta è meglio che essere “attuali” e che bisogna togliersi dal cervello cotesta opposizione concettuale a causa dei pessimi risultati planetari conseguenti.
Allora, per esempio, la “Casa Bianca” e il "Campidoglio" di Washington, come sono? A me sembrano “in stile”, ma non mi sembrano assolutamente ne kitch né falsi. Si può solo dire che sono belli o che sono brutti, ma senza dietro nessuna posizione ideologica sull'"attuale" o sul "falso".
Pensaci, saluti, Giulio Rupi
"mi sono convinto che essere in stile talvolta è meglio che essere “attuali” e che bisogna togliersi dal cervello cotesta opposizione concettuale a causa dei pessimi risultati planetari conseguenti."
quali sarebbero i pessimi risultati conseguiti? quelle chilometriche teorie di casette tutte più o meno simili.. tutte più o meno in stile... che solitamente chiamano sprawl...che hanno invaso il territorio americano e anche in buona parte il nostro?
robert
Giulio, ci ho pensato.
Be', insomma, fare qualcosa in stile (rinascimentale, barocco, gotico ecc.), quadro, scultura o edificio che sia, vuol dire necessariamente realizzare qualcosa di non autentico, quindi di falso. Ma anche il moderno può essere falsificato, anzi con maggior facilità, è assai più facile copiare un taglio di Fontana che un quadro di Caravaggio, quindi il "male assoluto" può avere molte facce e molte età.
Ma nelle mie intenzioni l'idea di falso è più astratta, è quello che ti ha scandalizzato perché l'ho definito 'falso ideologico': ciò deriva dalla mia concezione etica dell'architettura, dove 'etica', secondo la più stretta derivazione etimologica, compendia tutto ciò che riguarda il comportamento umano in rapporto all’idea che si ha del bene e del male così come questi due termini antitetici vengono definiti ed accettati nel codice di regolamentazione dei rapporti comuni in una data epoca.
Probabilmente ogni architetto è conscio del significato etico del suo operare se opera nella società del suo tempo ed in qualche modo ne esprime esigenze, costumi, usi, abitudini ecc.
Un'architettura etica, secondo il mio e non solo il mio parere, è anche bella, "Giacché l'estetica è la madre dell'etica. Le categorie di buono e cattivo sono, in primo luogo e soprattutto, categorie estetiche che precedono le categorie del bene e del male..."(Iosif Brodskij ). Mentre l’architettura ‘brutta’ , non etica, è quella che si sottrae al suo ruolo civico di esprimere l'ethos del suo tempo, che ignora il contesto storico-culturale, gli usi ed i costumi, il livello tecnologico della comunità nella quale si colloca.
Tutto ciò si potrebbe dire dell'architettura 'in stile', falsa perché non autentica, e brutta perché non etica (a parte i risvolti nostagico-romantici puramente emotivi).
"Allora, per esempio, la “Casa Bianca” e il "Campidoglio" di Washington, come sono?": sono brutti, non perché sono in stile, ma perché, essendo in stile, esprimono l'etica di un periodo storico (palladiano!) che non appartiene al popolo americano, il quale, volendosi dotare di radici inesistenti per conferire una storicità allo sviluppo non solo architettonico della sua cultura, ha fatto un salto cronologico "tra la capanna indiana e gli splendori europei" facendo proprio il linguaggio di un architetto italiano.
Palladio non c'entrava niente con l'America e gli americani, l'hanno scelto per il solo fatto che
nel 1716, con le navi dei coloni britannici, sono giunti oltre oceano "I quattro libri dell'architettura", freschi di traduzione in inglese.
Se il Mayflower avesse portato fin lì che ne so, i testi del Vasari, avremmo un campidoglio in stile rinascimentale.
Altrettanto brutto.
Ciao
Vilma
Lettura consigliata:
Christian Norberg - Schulz
"L'Architettura del nuovo mondo"
Tradizione e sviluppo nell'Architettura americana.
Officina edizioni,1988.
E il neo - classico dell'800?
E il neo - gotico ?
Tutto falso, un secolo di falsi?
Un secolo falso!
Da quale preciso momento del novecento costruire una palazzina liberty a Praga è diventato costruire non un autentico ma un falso?
Giulio Rupi.
L’800 è il secolo della Storia (con la esse maiuscola). È il secolo in cui si crede che la Storia dica la verità, mediante la Storia io possiedo la realtà. Ovviamente anche in architettura la Storia fa il suo ingresso. Io, architetto che sa la Storia, posso dominare linguaggi diversi. Pure la pagode cinesi in quel secolo fanno ingresso in non modica quantità nei parchi urbani europei, ma non da meno il neoegizio, il neoromanico, il neorinascimentale… praticamente è il secolo dei neo. Probabilmente è il primo secolo in cui l’Occidente, invece di inventare uno stile consono al proprio tempo si mette a pescare di tutto e di più dal passato. Con la presunzione, ovviamente, di saper leggere e scrivere in una quantità impressionante di linguaggi aiutati dalla Signora Storia. È il primo secolo, dopo la Roma conquistatrice di Atene che si mette a scopiazzare i Greci pur non capendone nulla (ci vollero 2-3 secoli prima di produrre qualcosa di autenticamente romano), che l’Occidente invece di inventare qualcosa di nuovo decide di scopiazzare il vecchio. È un secolo di deja vu… Ah no, c’erano pure i rinascimentali… però, fortuna loro, non avevano la Storia tra i piedi e scopiazzarono come meglio credettero inventando così uno stile che non c’entrava nulla con gli Antichi (anche se loro lo pensavano). Sì, insomma, la novità, l’innovazione, la ricerca fa parte della nostra natura di europei. E quindi? Quindi dopo un secolo di “minestroni riscaldati” ci fu prima l’Art Nouveau che si ruppe le scatole di scopiazzare e inventò un nuovo linguaggio e poi il Movimento Moderno e le avanguardie che ne avevano talmente le scatole le b…. piene che fecero quel che fecero.
È come se l’800 sia stato una sorta di parentesi, una sorta di distrazione nell’uso del linguaggio. Per secoli abbiamo generato nuovi, semi-nuovi e nuovissimi linguaggi, fatto ricerche, cercato nuove strade e invece, l’800, s’è messo in testa di scopiazzare a tutto spiano.
E poi? Poi c’è tutta la critica al Movimento Moderno per riportare un po’ di storia (stavolta con la s minuscola) nell’architettura, un po’ di tradizione, un po’ di contesto… Uhm… ‘petta… no… il contesto è un concetto nuovo di zecca della seconda metà del 900 (sempre innovativi siamo, che ci vuoi fare). Oggi? Beh, oggi, per certi versi siamo un po’ neo-ottocenteschi: un po’ di tutto, un po’ di neotradizionalismo, un po’ di neoavanguardismo, un po’ di modernismo manierato, un po’… un po’… un po’… Il tutto condito, ovviamente, con la storia? Macchè, è l’IO che dà le coordinate! E ovviamente, se uno vuole, può farsi la villa neopalladiana o modern-minimal o organic-wrightiana. Insomma, se si vuol essere neo-ottocenteschi bisogna pure accettare le pagode cinesi, anche nel Chianti.
Robert
PS: strano che abbiate questo amore per un secolo in fondo in fondo così “relativista”.
Direi di sì, Giulio, un secolo di falsi, come sintetizza efficacemente Robert.
Perché qualcosa di nuovo ed autonomo si strutturi bisogna aspettare Frank Lloyd Wright, che con un moto d'orgoglio e di intelligenza tira le orecchie ai suoi colleghi scopiazzatori e lancia la sua dichiarazione di indipendenza dell'architettura americana: " [....] Di fronte a voi europei io sono veramente un emissario della terra, che predica il sale di una nuova vita. Io vi invito ad essere un po' meno autocoscientemente educati e conservatori, a essere più liberamente ragionevoli [.....] ", così scrive Wright, che chiede "indipendenza dal classicismo, nuovo e vecchio, e da ogni atteggiamento di devozione ai cosiddetti classici" (For the Cause of Architecture", The Architectural Record, 1914), prendendo una posizione categorica ed integralista a favore di un'architettura nuova, legata al proprio ambito culturale, territoriale e sociale, la sua architettura organica, che esprime "una società organica", la società americana moderna.
E'questa la vera risposta al Liberty europeo, anche lui fantasiosamente scopiazzato nell'Art Decò, versione americana di un Liberty rivisitato alla luce del sorgente funzionalismo della scuola di Chicago e del primato tecnologico di una nazione ricca e giovane.
Quando ha smesso di scopiazzare, l'America ci ha dato il decostruttivismo. C'è chi lo acclama e c'è chi dice che si stava meglio quando si stava peggio, ma questa è un'altra storia.
Vilma
Con rammarico non riesco più a trovare il tempo per intervenire.
Ne approfitto per salutare i lobotomizzati Vilma e Robert poiché grazie ai loro interventi questo blog parla di architettura e non di presunte teorie ‘universali’ dell’architettura.
Saluti,
Salvatore D’Agostino
P.S.: Una curiosità, qual è il periodo storico che la teoria antichista (italiana), cristallizza come verbo?
Che i contributi di Vilma e Robert siano apprezzabili non v'è dubbio, che non parlino di teorie invece qualche dubbio ce l'avrei.
Forse le apprezzi di più, e su questo non ho niente da obiettare, ma i temi sono esattamente speculari a quelli di cui si parla qui.
Saluti
Pietro
Si racconta che Picasso diceva che l'arte è quella menzogna che ci consente di scoprire la verità. (raccontato in F as Fake di Orson Welles, che parla appunto del "falso" artistico; al che non si sa se è proprio vero che lo diceva Picasso o non sia un'altra brillante vera menzogna di Welles).
Sono d'accordo con questa massima, che sia di Picasso o di Welles.
Tutta la questione del "falso" architettonico, così com'è stata impostata dalle concezioni moderne del secolo scorso, nega contro ogni evidenza che l'architettura sia, anche, una rappresentazione, una forma retorica; in sostanza una arte : che, nel suo fingere, nel suo "essere una menzogna", ci aiuti a scoprire la verità.
Rispetto alla discussione, direi che Robert si sbaglia nel vedere nell'800 un secolo che ha scopiazzato.
In realtà, l'800 è stato il secolo più rivoluzionario della storia, in tutti i campi, compreso quello delle costruzioni. Il 900 non è stato che un "fall out", una conseguenza, delle cose dell'800. Quei due secoli hanno una continuità fortissima, ma quello davvero rivoluzionario è stato l'ottocento.
Biz, io mi riferivo solamente al linguaggio. Per il resto l’800 è stato veramente una rivoluzione come dici tu. Per il linguaggio pure, se si ritiene rivoluzionario che uno decida di scegliere qualsiasi “stile” e usarlo come meglio crede, quindi la libertà totale è iniziata lì… però l’orgia formalistica che ne è scaturita durante l’800 ha provocato la crisi di rigetto della prima metà 900.
È stata inventata anche la paesaggistica, uno dei fondatori è Olmsted, personaggio geniale: "ambientalista" e progettista, il sistema di parchi pensato per alcune città è stato rivoluzionario. Progettò però anche dei bei "suburbi" in stile precursori della famigerata città-giardino e dello sprawl attuale. Ma, quando mi avvicino al linguaggio che egli usava, non posso fare a meno di avere la sensazione di una “scopiazzatura”, un pittoresco più o meno elegante lontano dai parchi paesaggisti inglesi a cui vorrebbe assomigliare. Dentro i parchi pittoreschi dell’800 ci trovi di tutto: piante esotiche, stili di qualsiasi genere e pure i finti ruderi… ebbene sì, anche il neo-rudere è riuscito ad inventare l’800. Penso che qualsiasi architetto (di qualsiasi tendenza) inorridisca nel fingere un rudere, non così nell’800 e non così per i committenti che, non so da voi ma qui è così, chiedono il finto intonaco cadente e sotto ci trovi i finti mattoni appiccicati e sotto il vero muro in ordinario laterizio forato. E quindi? Il finto intonaco cadente e la finta rovina sono veri o falsi? Seguendo la logica di chi ritiene che la finta Venezia losangeliana sia più vera di quella vera si potrebbe di dire di sì (1). Il finto intonaco cadente è più vero del vero intonaco che non esiste più nei nostri centri storici… a ‘sto punto pure gli outlet padani in stile finto centro storico sono più veri dei veri centri storici. Pure i castelli restaurati, stile disneyland, da Viollet-Le-Duc sono diventati più veri perché per molti versi corrispondono all’idea che molti hanno castello medievale: un luogo fiabesco pieno di principesse, linde, profumate e appena docciate, da salvare e principi alti, belli, biondi, con i denti splendenti e senza nemmeno una carie.
Dall’800 è andato a quel paese non solo il contesto, pure l’intera architettura e la gente che ci vive dentro. Olè.
Robert
(1) Venezia vera finge di essere un parco tematico, tenta di adeguarsi all’idea che di lei hanno i turisti e invece è città, in declino… ma è città. La finta Venezia è un parco tematico dichiarato, non finge di esser città, corrisponde all’idea che gli americani hanno di Venezia vera, pertanto è vera. Un bel libro sul tema applicato all’Inghilterra: “England England” di Julian Barnes (consigliatomi dal mio ex-relatore di laurea, della serie: io frequentavo gente lobotomizzata :-)
A ben guardare, Robert, l'ottocento scopiazza pure il neo-rudere, da Giovan Battista Piranesi (1720-1778), che si firmava "Gio. Batta Piranesi architetto veneziano", critico, studioso, teorico dell'architettura, assertore della matrice etrusca e non greca dell'arte romana, che nella sua appassionata indagine del passato scopre il tema "funzionale" nell'architettura romana.
Piranesi inventa ed interpreta in modo del tutto originale il tema delle rovine, lontano dalla nobile contemplazione classicista, entro una complessa ed ambigua costruzione scenica (giardini improbabili come i parchi pittoreschi dell' '800), in prospettive innaturalmente dilatate: l'approccio alla definizione spaziale, alla struttura dei piani, anticipa, per certi versi, addirittura la ricerca pre-cubista ( Cezanne) o anche certi atteggiamenti del Surrealismo per il significato psicologico, simbolico ed onirico delle ambientazioni.
Siamo in pieno '700, l'ottocento scopiazza, altre che se scopiazza .....
Vilma
Robert, mi pare che si debbano distinguere almeno due fasi, all'interno di un processo unico. Il processo unico è la industrializzazione edilizia e dei processi di costruzione della città, sempre più privatizzati e verticistici dunque.
La prima fase è la scissione fra la costruzione e l'ornamento (non più sentito come un fatto necessario, intrinseco e connaturato, ma posticcio, decorativo, applicato, ecc.)
L'eclettismo stilistico fa parte di questa mentalità; la seconda fase è il tentativo di far reggere un linguaggio architettonico nuovo e senza ornamento, una accettazione e "lassez faire" all'industria e i suoi migliori stilisti e a seguire i loro emuli o aspiranti tali, sull'habitat umano.
La seconda fase si sviluppa soprattutto nel '900, e non ottiene se non sporadici successi, per molte ragioni.
I successi sono però garantiti dal fatto che comunque, il "contesto" entro cui entravano le novità era essenzialmente stabile e antico.
Quel che è certo è che noi oggi sentiamo che entrambe gli atteggiamenti siano inadeguati e, in modo diverso, menzogneri (e anche il "moderno" è uno "stile", in un certo senso arbitrario quanto lo "stile neoegizio". Chiunque abbia provato a fare un progetto lo sa).
Ed è anche certo che gli spazi della città pre-moderna sono quelli che sentiamo comunque migliori, veri, belli; laddove quelli prodotti dalla industrializzazione edilizia sono nel migliore dei casi piacevoli "non luoghi" un po' di plastica, nel peggiore "junk spaces". (fatte salve alcune eccezioni, che tuttavia "non fanno sistema").
Sarà lo spessore del tempo, sarà che la costruzione artigianale era più umana, più viva, più collettiva, sarà quel che sarà, ma è così.
Dunque, dobbiamo, se non vogliamo essere davvero falsi, accettare questa verità. E' una verità, non ci sono storie e ideologie che tengano.
Concludo: se quella è una verità, allora dobbiamo progettare tenendo conto di questo. Il che non vuol dire progettare "in stile '800", ma semplicemente tenere conto di questa verità. E quindi, buttare nel cesso Le Corbusier e tutta la schiera di pseudo architetti stilisti del padrone che continuano a cucinare, riveduta e corretta, tutta la sua indigesta minestra, facendo finta che si tratti di grandi novità, solo perché sono ancora più indigeste.
Gli architetti proprio come gli uomini (….incredibile a dirsi !…) nascono modernisti o tradizionalisti. Gli ultimi sentono che tipi, ordini e generi sono realtà; i primi semplici generalizzazioni. Per questi il linguaggio è un approssimativo ma intrigante gioco di simboli, per quelli la mappa dell’universo. I tradizionalisti sanno che l’universo costruito è, in qualche modo, un cosmo, un ordine necessario; tale ordine per il modernista può essere un errore od una inganno della conoscenza parziale.
Gli uni credono che l’architettura sia un prodotto dell’individuo, del singolo che “inventa” grazie alla propria formazione culturale, al proprio gusto ed alla propria visione della realtà: un fatto mentale, esclusivamente del soggetto che coinvolge o meno il contesto. In quest’ambito può assumere valore ciò che esiste ed è attribuibile ad un altro “io”: un altro “universo”, parallelo forse, ma non il proprio. Il fatto esiste, in fine, soprattutto“dentro” di se.
Gli altri privilegiano quello che s’è storicamente determinato; frutto di una lunga, paziente, oscura quasi sempre, evoluzione di modi ed espressioni anche lontanissimi nel tempo, ma mai così distanti da essere incomprensibili ed inattuali. Ammettono il contributo del singolo ma solo in un quadro più generale. E potrebbero anche immaginare la storia dell’architettura senza un Michelangelo (…non tutti i paesi hanno visto nascere ed operare personaggi siffatti… ) ma non senza l’ambiente minuto che l’ha generato e che reputano altrettanto, se non più, importante.
Per gli uni l’artefice è unico ed irripetibile e solo a lui è ascrivibile l’oggetto : per gli altri è molteplice ed perchè tutti gli uomini sono, in fine, “un uomo” solo.
Nessuno veda nelle righe che precedono spregio o censura. Uno scrupolo etico, non un’incapacità speculativa, impedisce al modernista di operare con astrazioni.
Da questa irriducibile separazione, a mio avviso, originano le concezioni antitetiche di vero e di falso .
Mi permetto di chiedere a memmo54 l'autorizzazione a fare del suo commento un post, senza aggiungere o togliere niente, solo correggendo un errore di battitura, tanto è riuscito a sintetizzare le caratteristiche dei due "generi" così diversi.
Il nome può rimanere anonimo e non ci sono problemi.
In caso di rifiuto non ci sono problemi ugualmente.
Però mi farebbe piacere.
Saluti
Pietro
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