Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


1 aprile 2010

SULL'EDILIZIA POPOLARE

Ettore Maria Mazzola

Il recente post di Pietro Pagliardini sul questo blog, stimola diversi spunti di riflessione.
In base alla cultura prodotta nell’arco degli ultimi anni, specie in base a come ci sono state raccontate le cose, siamo portati a credere che sia vero che l’unico modo di produrre edilizia popolare sia quello promosso a partire dalla Legge 167.
Durante la presentazione del mio libro ad Arezzo, come ricordava Pietro Pagliardini, è nato un interessante dibattito con l’ex direttore dell’IACP locale. Quest’ultimo sosteneva che gli unici successi in termini di edilizia popolare del XX secolo si devono ai piani INA Casa e GESCAL.
In realtà il tecnico probabilmente ignorava – forse per l’insegnamento ricevuto e il luogo in cui ha esercitato – assolutamente in buona fede, quanto di meglio fosse stato prodotto, in materia di edilizia popolare, precedente a quegli esempi.


L’Italia, partita parecchio in ritardo rispetto ad altre nazioni che avevano affrontato i problemi dell’industrializzazione prima di lei, in breve riuscì a mettersi al passo, e forse addirittura a superare molti di quei Paesi.
Se analizzassimo la storia degli albori dell’edilizia popolare in Italia, all’indomani della legge Luzzatti che istituì nel 1903 l’Istituto per le Case Popolari, ci accorgeremmo che in breve tempo, grazie anche alle capacità critiche degli studiosi locali (architetti/ingegneri, sociologi, economisti, specialisti di etiologia, ecc,) si seppero riconoscere, e prevenire, i limiti delle “Città Giardino”, generando un sistema di Città Giardino all’italiana, molto più valido dei monotoni modelli anglosassoni che in quel periodo venivano presi ad esempio ovunque.

Gustavo Giovannoni, e il suo gruppo di colleghi dell’Associazione Artistica Cultori di Architettura, viaggiarono al fine di studiare, liberi da pregiudizi, gli aspetti positivi e quelli negativi del nuovo modello di città teorizzato e messo in pratica da personaggi come Owen e Unwin, e vi riconobbero gli aspetti da prendere in considerazione, come quelli da evitare. La conoscenza di alcuni articoli contenuti nel Codice Urbanistico dell’Ufficio Municipale del Lavoro di Roma, ci fa scoprire cose molto interessanti, per esempio il fatto che fosse noto, già da quell’epoca, che gli utenti di una città non sono tutti uguali tra loro: vi sono persone che non possono curare un giardino, altre che, anche potendolo fare, non lo farebbero mai, poi ci sono gli anziani che non possono fare gli stessi spostamenti delle persone giovani (peraltro destinate anch’esse ad invecchiare), le famiglie numerose e quelle no, gli individui singoli che vivono da soli, quelli che possono permettersi un mezzo di trasporto e quelli sprovvisti, ecc. Insomma una vera e propria città, fatta di individui singoli, ognuno con le proprie esigenze, non un contesto urbano concepito come un sistema omogeneo, ed elaborato a tavolino per un utente identico. Giusto per non dilungarmi, mi fa piacere ricordare alcuni tra i punti interessanti:
• sulla necessità di variare i profili stradali: «[…] Il difetto capitale di alcuni sobborghi giardino di Londra […] sta nell’aspetto monotono che presentano le file interminabili di centinaia di casette tutte dello stesso tipo che sembrano uscite da uno stampo. Costruzioni di identico numero di ambienti possono avere un aspetto esterno ben diverso» (1) ;
• sulla necessità di evitare i cloni e di riferirsi, sempre, ai luoghi in cui si interviene «[…] Perché l’insieme della città-giardino riesca realmente estetico occorre che le costruzioni siano dello stile adatto al paese. Nessun peggiore risultato di quando lo spirito di imitazione porta a costruire tipi esotici nati per rispondere ad esigenze ben diverse da quelle locali. Ogni regione ha il suo tipo di costruzione […]» (2);
• sul ruolo sociale dell’Urbanistica: «[…] se può facilitare la fusione tra le classi, la società le sarà debitrice della risoluzione di un compito importante»(3).

Quest’ultimo punto, in particolare, risulta meritorio di essere sottolineato: dopo la disastrosa esperienza dei primi edifici costruiti a Roma per la classe operaia da parte di speculatori (banchieri, nobili e membri del clero) disinteressati alle condizioni di vita degli abitanti – esperienza che portò a dei fenomeni di violenza simili a quelli vissuti nelle banlieues francesi nel 2006 – si svilupparono una serie di studi mirati a comprendere le ragioni di tanto malcontento, studi necessari a concepire un nuovo modo di progettare la città.
Grazie allo studio proto-sociologico condotto da Domenico Orano nel quartiere Testaccio (1905-10), ed alla conseguente creazione del Comitato per il Miglioramento Economico e Morale di Testaccio – comitato che, oltre al sociologo ed agli artigiani esperti di costruzioni, raggruppava persone di qualsiasi estrazione culturale e sociale, di qualsiasi credo religioso, ecc. – si ottenne, con i due nuclei progettati da Giulio Magni e Quadrio Pirani (traducendo in architettura i suggerimenti del Comitato), un drastico miglioramento delle condizioni di vita dei residenti che, per la prima volta, vennero a riconoscersi come “appartenenti” a quel luogo. La memoria di questo cambiamento è storicamente impressa nella parole lasciateci dal Presidente dell’Istituto Romano Case Popolari, Malgadi che, nel suo testo del 1918 intitolato “il nuovo gruppo di case al Testaccio” affermava: "Parlare di arte in tema di case popolari può sembrare per lo meno esagerato; ma non si può certo negare l’utilità di cercare nella decorazione della casa popolare, sia pure con la semplicità imposta dalla ragione economica, il raggiungimento di un qualche effetto che la faccia apparire, anche agli occhi del modesto operaio, qualche cosa di diverso dalla vecchia ed opprimente casa che egli abitava […] Una casa popolare che, insieme ad una buona distribuzione degli appartamenti unisca un bello aspetto esteriore, è preferita ad un’altra […] e dove questo vi è si nota una maggior cura da parte degli inquilini nella buona tenuta del loro alloggio e in tutto ciò che è comune con gli alloggi del medesimo quartiere […] Una casa che piace si tiene con maggiore riguardo, ciò vuol dire che esercita anche una funzione educativa in chi la abita".

Nasceva così lo slogan dell’Istituto per le Case Popolari: LA CASA SANA ED EDUCATRICE.
L’istituto, finché gli venne consentito di svilupparsi, (con una mano al portafogli e l’altra agli studi filantropici), produsse gli ultimi esempi di città vivibile, una serie di luoghi dove la gente è tutt’oggi orgogliosa di vivere, quartieri e case dove, quando i reco con i miei studenti per far lezione, c’è sempre qualcuno che viene mostrarsi orgogliosamente, oppure ad offrirci qualcosa, o ad invitarci addirittura ad entrare per vedere quanto dignitosa sia la sua casa o il suo giardino. Purtroppo, le leggi fasciste a partire dall’istituzione dei Governatorati, che tolsero qualsiasi autonomia e possibilità di ricerca all’Istituto, posero la pietra tombale su una delle migliori istituzioni che, affiancata dalla Unione Edilizia Nazionale, aveva generato l’ultima architettura degna di essere menzionata nella storia del Novecento.
Non si tratta solo di dover riconoscere il ruolo estetico di quell’architettura, ma anche quello economico atto a ridurre la disoccupazione e sviluppare l’economia locale. Non posso dilungarmi in questa sede, né intendo ripetere quanto ho avuto modo di raccontare nel mio ultimo libro “La Città Sostenibile è Possibile”, (Gangemi Editore 2010), ma le norme per la collettività, prodotte prima delle leggi per gli interessi personali emanate in periodo fascista per favorire l’imprenditoria privata e smantellare il cooperativismo messo su in Italia da Montemartini, Colajanni ed altri, sono lì ad aspettare di essere riscoperte. Quelle norme, e quelle istituzioni, non necessitano di essere reinventate per migliorare la città di domani, vanno semmai rispolverate e messe al fianco dei moderni sistemi quali il Project Financing, i Contratti di Quartiere, i Patti Territoriali, ecc.

Non ci vuole molto ad accorgersi che, l’illuminata norma che vietava zone esclusivamente destinate alla classe operaia, in nome dell’integrazione sociale, sia cosa buona e giusta, se a questo aspetto filantropico - pedagogico affianchiamo la strategia costruttiva dell’ICP, che arrivò ad operare come un’azienda che costruiva per conto terzi alloggi destinati alla vendita o all’affitto per i dipendenti del pubblico impiego, allora ci accorgeremmo che sarebbe possibile ridurre, se non addirittura eliminare, i costi per la realizzazione degli alloggi popolari, che potrebbero essere appartamenti sparsi qua e là e che, grazie al senso di appartenenza ed all’istinto imitativo dell’essere umano, farebbero sentire più nobili gli affittuari meno fortunati, migliorandone l’integrazione sociale e il comportamento … […] Una casa popolare che, insieme ad una buona distribuzione degli appartamenti unisca un bello aspetto esteriore, è preferita ad un’altra […] e dove questo vi è si nota una maggior cura da parte degli inquilini nella buona tenuta del loro alloggio e in tutto ciò che è comune con gli alloggi del medesimo quartiere […] Una casa che piace si tiene con maggiore riguardo, ciò vuol dire che esercita anche una funzione educativa in chi la abita.

Ma questo non significherebbe migliorare solo le condizioni di vita delle classi disagiate – e questo era stato studiato attentamente – questo infatti aiuterebbe anche a svolgere un ruolo di calmiere sul prezzo delle costruzioni e dei terreni: gli alloggi costruiti dall’ente statale potrebbero essere messi sul mercato al pari delle frumentationes dell’antica Roma!
Inoltre, l’Architettura di cui parlo, e che ho ampiamente documentato nel mio ultimo libro, è costruita con materiali durevoli, e infatti, a cento anni di distanza dalla costruzione, non è mai stata oggetto di restauri, ed oggi viene venduta come edilizia di lusso. Tutto ciò non è stato accidentale. Pirani infatti, nella relazione che accompagnava i progetti per Testaccio, scrisse: «l’esperimento fatto in Roma nella costruzione di casette isolate, è più che sufficiente a stabilire che quelle non riescono a buon mercato e non possono quindi considerarsi come vere case popolari. Riteniamo peraltro che, ammesso il principio di fabbricare case a più piani, non si debba necessariamente far delle caserme o degli alveari, ma si possa invece, alternando i diversi corpi di fabbrica in diverse altezze, adottando avancorpi e rientranze, ottenere oltre che un movimento di linee che giova all’estetica, anche un gioco d’aria e di luce sulle aree interne destinate a cortili, sufficiente a diminuire se non ad eliminare, l’impressione della caserma o dell’alveare umano ... i nostri cortili non sono aree chiuse tra i corpi di fabbrica su cui prospettano i soli locali di servizio, ma sono come una continuazione delle pubbliche strade: danno accesso a tutte le scale che disimpegnano i diversi appartamenti e contengono piccoli edifici speciali adibiti ai servizi comuni (asilo, bagni, ecc.)», e poi aggiunse, «non solo la casa ”bella all’esterno e pulita all’interno” contribuisce all’elevazione delle classi che la abitano, ma che un giusto impiego di materiali durevoli, quali i laterizi e le maioliche, porta ad una diminuzione nel tempo delle spese di manutenzione degli edifici, soprattutto quando si tratti di edifici a più piani riuniti in un isolato o in un quartiere urbano».


Ebbene, considerato che l’edilizia popolare si costruisce con le tasse di tutti noi, imparare da questi esempi, che il tempo ha ampiamente testato e dimostrato validi, significherebbe ridurre le tasse di tutti i cittadini.
Alla luce di tutto ciò, risulta davvero triste pensare che ancora oggi, nonostante il disastroso insuccesso dei quartieri Corviale di Roma, Zen di Palermo, Vele di Napoli, Gallaratese di Milano, ecc., gli architetti (la gente comune la pensa molto diversamente) continuino a sostenere che quelle mostruosità non siano da condannare … gli architetti sostengono che, se quegli interventi non hanno funzionato è solo colpa degli italiani … ignorando che anche l’Unitè d’habitation di Le Corbusier a Marsiglia è stata un fallimento dove per anni la gente si è rifiutata di vivere.
Quello che poi si ignora del tutto sono i costi di costruzione ed i tempi di realizzazione dell’edilizia popolare pre e post bellica, cosa che ho ampiamente documentato nel libro. Quello che non è noto, o che si finge di non sapere, è l’intenzionalità di fare esperimenti su delle cavie umane adottata da alcuni architetti come Mario Fiorentino, l’autore di Corviale. Egli, con grande orgoglio auto-celebrativo, disse del mostro che aveva concepito e realizzato: «ci sono due modi di fare Architettura ... o forse ce n’è solo uno ... c’è quello semplice e pacato dell’utilizzazione degli schemi super testati che l’edilizia pubblica in Italia – e non considero solo quella romana – ha più o meno accettato. E poi c’è quello sperimentale, che è il metodo a cui l’esperienza di Corviale appartiene. Io ricorderò sempre come Ridolfi, che è stato il mio vero maestro, sempre mi diceva: “quando progetti per un cliente (e l’edilizia pubblica è un cliente come un qualsiasi altro privato), senza rivelarglielo tu devi sempre sperimentare” perché, in effetti, queste sono esattamente le opportunità nelle quali gli esperimenti possono essere fatti!»

I danni sociali di Corviale fanno sì che queste frasi non meritino commenti!

Note:
1) Ufficio Municipale del Lavoro di Roma, il problema Edilizio, Ed. Centenari, Roma 1920
2) Ufficio Municipale del Lavoro di Roma, op. cit.
3) Ufficio Municipale del Lavoro di Roma, op. cit.

Il progetto della foto in testa è di Quadrio Pirani per il quartiere San Saba, 1924

La foto del quartiere Gallaretese è tratta da Google Earth

2 commenti:

ettore maria ha detto...

Caro Pietro,

grazie per aver pubblicato il mio post. Voglio scusarmi con i lettori per alcuni errori di battitura dovuti alla foga con cui ho scritto e inviato il pezzo senza rileggerlo; mi sembra quindi doveroso fare una errata corrige circa l'autore della Legge che istituì l'ICP: si chiamava LUZZATTI e non Luttazzi come ho scritto.
Buona Pasqua a tutti voi
Ettore

Pietro Pagliardini ha detto...

E io ho provveduto alla correzione.
Chissà se chi ha letto il refuso avrà pensato al bravo musicista o al comico! Io ho pensato al grande Lelio. Ma forse dipende dall'età.
Ciao
Pietro

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