Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


1 novembre 2008

LE SCELTE DI PIANO

Pietro Pagliardini

L’architetto prende la sua matita. Appoggia i gomiti sopra la tavola cartografica principale coperta da un foglio di spolvero fissato ai quattro angoli con strisce di adesivo.

E’ ormai in possesso di tutti o quasi gli elementi necessari: le numerose indagini conoscitive, gli indirizzi programmatici della Giunta, le proteste e le richieste dell’opposizione, le aspettative delle circoscrizioni, la mappa dei vincoli; ha camminato in lungo e in largo per la città e le frazioni, ha incontrato le varie associazioni e gli ordini professionali; ha mandato a memoria i nomi di strade e quartieri, ha valutato e analizzato i punti critici della viabilità e del traffico; ha interiorizzato la geografia dei luoghi; pur provenendo da un'altra città, o forse proprio per questo, ha colto aspetti di questa di cui i residenti stessi non si erano mai resi conto, vivendoli in maniera non consapevole; ha incontrato migliaia di cittadini nelle rituali e numerose riunioni notturne, ognuno con le sue esigenze grandi o piccole, spontanee o calcolate in vista di un possibile ritorno economico; ha imparato a diffidare della disponibilità alla collaborazione offerta da architetti, geometri , ingegneri, imprenditori, commercianti, tutti pronti a dare un disinteressato contributo culturale nel supremo interesse della città e del territorio, ma pronti anche a diventare i suoi peggiori avversari; sa di poter contare sull’appoggio dell’assessore, del sindaco e di una buona parte della giunta, ma sa anche che è un appoggio instabile e che, alla prima, seria difficoltà, potrebbe vacillare fortemente. Soprattutto ha cercato di capire la città, il suo territorio e le relazioni che intercorrono tra l’una e l’altro, ha letto la trama viaria principale e ha ben presente i segni delle infrastrutture principali presenti, ha classificato le varie parti della città secondo categorie di tipo temporale, tipologico, sociale, funzionale e di qualità del tessuto.

Adesso è il momento della verità: esistono, è vero, una seri di appunti, di schizzi buttati giù al ritorno da qualche sopralluogo, nel corso di una discussione con i suoi collaboratori oppure un sabato sera a casa dopo una cena con amici, ma ora bisogna cominciare sul serio. Dopo l’analisi e la lettura è venuto il momento della sintesi e della scrittura. All’inizio saranno pochi segni essenziali ma utili a tracciare le linee guida principali che via via andranno precisandosi, in base alle prime reazioni e alle verifiche di feed-back che egli stesso farà.

Questo è il momento della scelta, è il momento che appartiene solo a lui, al progettista del piano, all’architetto, e nella quale si dovrà depositare non solo la sua esperienza, la sua capacità di lettura e di ricomposizione di questa in un quadro coerente ma, soprattutto, il suo bagaglio culturale, la sua formazione di architetto acquisita durante il periodo più importante, quello degli studi, che informerà di sè di tutto il percorso professionale, e quello acquisito nel tempo, dal confronto con la realtà, dallo scambio con gli altri e dai nuovi studi.

Questo è il momento che darà il carattere a tutto il piano che, nel lungo tempo a seguire prima della conclusione, potrà migliorare o peggiorare ma sempre nella falsariga di questa scelta, che adesso dipende esclusivamente da lui.

Tante possono essere le scelte possibili, moltissime le varianti, ma tutte sono riconducibili, almeno nella situazione odierna, a due sole, come si conviene nelle scelte fondamentali:

1) Quella perseguita fino ad oggi nella maggior parte di casi e che prevede una città fatta di frammenti, organizzata per parti diverse, ognuna con una determinata destinazione prevalente o unica, quindi con un criterio di omogeneità al loro interno, la cui rappresentazione grafica può essere riassunta in campiture di segno diverso collegate tra loro da elementi lineari; in questo modello geometrico gli elementi di polarità sono dati dalle funzioni e non sono la risultante diretta del disegno ma da scelte di tipo funzionale. E’ il piano dei retini che simbolicamente può essere riassunto con due tavole di questo tipo: una planimetria astratta come questa: e una legenda come questa:
2) Quella che ha come tratto caratteristico la continuità del tessuto data dalla rete viaria gerarchizzata che crea polarità in determinati punti di incontro tra le strade principali, che ripete questo tema anche per le strade di minor importanza e in cui le funzioni pubbliche o di interesse pubblico si collocano in determinati luoghi come conseguenza diretta del disegno; la rappresentazione grafica di questo modello è una rete (le strade) nei cui vuoti si collocano, in funzione del disegno stesso, il costruito (gli isolati) o gli spazi aperti (piazze, verde). E’ il piano delle connessioni che può essere rappresentato simbolicamente con due tavole di questo tipo: una planimetria figurata come questa e norme di attuazione come queste:
Ho fatto questo tentativo di astrazione di due diversi modelli urbani semplificandolo in forma geometrica per cercare, una volta tanto, di non essere troppo fazioso, per non farmi portare dalle mie stesse parole ad un giudizio preventivo, che c’è, ovviamente, ma che può restare per un attimo sospeso nella valutazione quanto più possibile oggettiva dei fatti.
E’ chiaro che è una sintesi e una semplificazione, perché entrambe i piani dovranno avere, per la complessità e il numero delle verifiche richieste dalle varie leggi, tavole tematiche del tutto analoghe.

Le domande da porsi sono le seguenti: la scelta dell’uno o dell’altro sistema, che ha grandissime conseguenze sulla forma della città, dipende forse da altri soggetti oltre al suo progettista? Quale può essere l’influenza esercitata dalla “società” nel suo complesso nel decidere tra l’uno o l’altro? Quali i soggetti interessati a gradire l’uno piuttosto che l’altro? C’è qualche soggetto capace di condizionare e direi costringere il progettista seduto su quel tavolo a optare per l’una o per l’altra?

Provo a dare qualche risposta.

La prima, la più importante credo sia il tipo di “cultura” che il progettista ha assimilato nel corso della sua vita studentesca e professionale. Questa, a mio avviso, è quella determinante perché se è vero che la cultura è scelta individuale, è anche vero che l’uomo non può totalmente astrarsi dalla società e dalle interazioni che essa comporta. Quindi molte sono le circostanze che influenzano ognuno di noi e il nostro modo di pensare: dal clima culturale che respiriamo in famiglia, a quello a scuola, dalle nostre letture alla TV, dai nostri docenti universitari agli amici che frequentiamo, dalla nostra fede religiosa o dal nostro agnosticismo. Nessuno può affermare, ragionevolmente, di non subire ascendenti e di essere perciò totalmente autonomo nella formazione del proprio bagaglio culturale.
Ma tutto ciò dimostra, non smentisce, che la scelta individuale del progettista è fondamentale: e infatti difficilmente un architetto culturalmente orientato alla scelta numero 1 potrebbe accettare, né sarebbe capace, di impostare il piano secondo la scelta n° 2, e viceversa.

Vediamo allora quali possono essere le aspettative della città e delle sue componenti rispetto alla scelta del modello.
Prima di tutto sono fermamente convinto che la componente economica di un piano sia determinante e dunque i più influenti, direttamente o indirettamente, sono gli imprenditori, gli operatori del settore, i privati interessati alla valorizzazione delle loro aree; insomma le varie lobbies. A questi poco interessa, in linea generale, il disegno urbano, quanto “l’indice fondiario”, cioè il metro cubo per metro quadrato di terreno. Soddisfatto quello il problema è risolto. Entrambe i modelli possono soddisfare la richiesta.

C’è poi la componente politica cui, volendo essere benevoli, sta a cuore l’interesse generale e il consenso e che, generalmente, trova risposte più in termini quantitativi che qualitativi, a prescindere dal tipo di disegno del piano.

Parliamo di noi architetti e degli altri “tecnici” interessati. Vigono per questi, prima di tutto, le stesse condizioni del progettista, per cui ognuno ha le proprie convinzioni, e la vera discriminante avviene al momento della redazione delle norme tecniche nelle quali il nesso tra l’aspetto culturale e quello economico è più diretto e immediato. Se le norme consistono di numeri associate ad elaborazioni pseudo-giuridiche che poi lasciano spazio alle più svariate interpretazioni e quindi alla “libertà d’espressione” del progettista (e a ricavare più metri cubi per metro quadro) non c’è problema per i più. Se invece le norme sono del genere tipologico e morfologico, cioè se fissano “regole” progettuali e costruttive piuttosto precise, in funzione di un certo risultato da ottenere, allora nasce il problema. L’influenza di questa categoria professionale può essere consistente per la capacità di influenza che ha nei confronti delle altre, precedenti categorie.

Siamo dunque al punto iniziale: sono gli architetti i soggetti che più di altri influenzano la forma della città, almeno nella fase iniziale del piano (dopo, nella gestione, vi sono altre complesse dinamiche che sarebbe troppo lungo affrontare in questo post).
Quando si parla di scelte urbanistiche,

- a chi propone un ritorno ad un disegno più vicino a quello della città storica in cui la strada con i suoi fronti stradali continui si sostituisce alla strada che lambisce lotti con al centro edifici isolati,
- a chi auspica quartieri con pluralità di funzioni e non la zonizzazione selvaggia,
- a chi è convinto che occorre fare piani con la matita che traccino il disegno degli isolati con norme edilizie di tipo qualitativo piuttosto che norme edilizie quantitative che richiedono la calcolatrice per fare il progetto,
- a questi architetti ritenuti romantici, nostalgici, polverosi, un po’ snob e fuori del tempo
viene risposto che la città è tale perché è la diretta conseguenza della società aperta e tecnologica, cui è inutile e ingenuo opporsi, ed anche filosoficamente sbagliato perché è la struttura a generare la sovrastruttura e non viceversa. 
Io dico invece che, pur essendoci una buona parte di verità in questa obiezione, esiste anche la possibilità, senza andare in contrasto e in conflitto con le esigenze della società, che sono appunto di tipo economico, di scegliere la soluzione 2, la soluzione della strada che genera la città, della pedonalità, della pluralità delle funzioni e questa scelta dipende, in buona parte, dall’architetto, come è dimostrato dal fenomeno del New Urbanism che in accordo assoluto con i gruppi economici, ha costruito e sta costruendo intere città negli stati del sud degli USA. 

Questa scelta è il frutto maturo di una società che è e rimane ricca, anche con la crisi in corso, e che può sostituire ad una crescita impetuosa, incontrollata e basata esclusivamente sull’automobile un modello che sia invece “sostenibile” non solo nei confronti delle risorse naturali ma soprattutto nei confronti dell’uomo che sta al vertice della natura. Ho visto di recente sul bel blog Bovisiani un piano di Rem Koolhaas per un’area milanese: mi domando se sarebbe stato possibile al posto di quel progetto farne uno diverso, del genere di questo:

e mi rispondo di sì perché questo è stato realizzato quasi completamente: Master Plan di Novoli di Lèon Krier, progetti architettonici di vari architetti di fama.

Il nostro architetto è ancora con i gomiti sul tavolo e la matita in mano.
Deve superare l’horror vacui del foglio bianco e cominciare.
Non ha scampo, sia che propenda per un modello o per l’altro sa che dovrà affrontare proteste, richieste, pressioni, blandizie.
Tanto varrebbe fare la scelta migliore ma.... lui preferisce la prima.


Nota: Le norme e le legende rappresentate in foto non hanno alcuna relazione con i piani presentati, essendo solo un esempio di metodo e non la descrizione di piani specifici. Il disegno che rappresenta il tipo di piano n° 2 è di Lèon Krier.

Il piano nella foto iniziale è Onontaga County, USA di Duany, Plater-Zyberk & Company

4 commenti:

Caralbas ha detto...

Parlando, come sempre, da un punto di vista che non è quello dell’architetto, la mia esperienza è che il progettista non può fare a meno di vedere le soluzioni possibili fra quelle che la sua cultura, tecnica e umana, gli suggerisce.
Le limitazioni che l’ambito gli pone riducono le possibilità ma sempre all’interno di quanto sopra; per assurdo si potrebbe arrivare al punto in cui non gli rimane nessuna soluzione. In questo caso appare un altro tipo di scelta: accettare soluzioni che non approva o rifiutare il lavoro.
In questo noto persone “ricche” e “povere”, ricche di animo che preferiscono la coerenza al guadagno o ricche di soldi che possono permettersi di fare quello che vogliono anche fosse solo per orgoglio invece che coerenza; vale l’inverso per le povere.
Dalla piena libertà alla massima limitazione c’è poi l’infinita sfumatura delle situazioni reali.
Vale lo stesso anche per gli architetti?

Pietro Pagliardini ha detto...

Non idealizziamo troppo quella che altro non è che una professione, cioè un lavoro intellettuale in cui ognuno deve mettere il meglio di sé per conseguire un interesse pubblico ma anche, non facciamo gli ipocriti, un interesse privato, professionale ed economico. Certo che ogni mestiere ha una sua etica, ce l'ha anche l'artigiano, l'operaio, l'avvocato, l'impiegato, superato il cui limite si rischia di vendere l'anima. Però, insisto, non esageriamo: di schifezze ce ne chiedono tante ma non lavoriamo mica per la camorra (o almeno lo crediamo)! Ti dirò che la ricerca dell'equilibrio tra ciò che chiede il cliente e ciò che si ritiene giusto e corretto fare è una condizione costante della professione ed ha anche un suo fascino. D'altronde, il cittadino che vuole pagare meno tasse possibile non incalza il proprio commercialista a fare di tutto per conseguire quel risultato?
Conosco qualche architetto che ha rinunciato a qualche lavoro perché contrario ai suoi principi, però qualche volta è stato più un atto di superbia, di sconfinato egocentrismo, piuttosto che di moralità.
Non ti avrò soddisfatto ma io rifuggo alquanto i facili moralismi e mi baso su questa frase che tu conosci certamente meglio di me: "Chi è senza peccato scagli la prima pietra".

Saluti
Piero

Anonimo ha detto...

Ho letto il suo articolo con una certa enfasi. Probabilmente il fatto che io sia soltanto uno studente d’Architettura ha contribuito a suscitare in me l’amore incondizionato per una disciplina che ho sempre creduto libera da compromessi. Ovviamente si tratta di una “illusione bianca”, mi si passi il termine. Certo è che il rapporto committente-architetto è sempre un’incognita: il professionista ha il dovere deontologico di “istruire” chi si siede al tavolino con un paio di fotografie e tanti soldini esigendo una architettura unilaterale, talvolta umiliata dal puro e semplice gusto. E’ in questo preciso istante che la “cultura”, l’animo intellettuale, hanno un peso preponderante sulla faccenda. E’ una questione di persuasioni: più conosci, più fai crescere, più l’Architettura matura e si evolve. Certo è una questione di punti di vista, in fondo ognuno ha una sua idea di Architettura ed una sua idea del mestiere, come vediamo quotidianamente.

D’altronde trovo che (permettendomi di criticare le parole di Bauman da Lei citate di recente) gli architetti abbiano il potere di cambiare la società proprio perché progettano per essa. E’ un punto di vista molto diverso, ma allo stesso tempo più sperimentabile. L’architetto non è né solo uno strumento, né solo una mente. E’ entrambe le cose.

I miei complimenti per il sito ricco di contenuti.
Saluti

Alessandro Russo

Pietro Pagliardini ha detto...

La ringrazio prima di tutto. Io, come molti altri, ma soprattutto io, spreco un sacco di parole e talvolta in questo spreco si accentua ciò che si vuol dimostrare, più che cercare ciò che è vero.
Lei, commentando questo post, lo ha legato all'ultimo in cui sintetizzo un'intervista a Bauman e in parte potrebbe sembrare che tra i due post ci sia una certa contraddizione. In realtà, almeno nelle mie intenzioni, non è così. In sostanza io credo che, in questo momento (forse non è una verità assoluta perciò dico "in questo momento") sia importante riportare la disciplina urbanistica alle sue origini, visto che adesso è allo sbando totale, come del resto l'architettura. Io accentuo la responsabilità del progettista in genere e gli assegno quasi una tensione etica che consiste nell'umiltà, nel saper leggere e decidere.
Anch'io, come Bauman, non credo che l'architetto possa cambiare la società. Può però peggiorala e parecchio, come stanno facendo oggi molti architetti: le archistar, come simboli di punta, ma anche le migliaia di architetti sconosciuti come me che, in buona o cattiva fede fanno (facciamo) del loro meglio per fare danni con la loro fantasia e creatività e riempiendo così la città e il territorio di architetture assurde e sbagliate che non ci fanno più riconoscere a casa nostra.
Quando giudico gli altri devo tirarmi fuori dal gioco, ma anch'io sono in gioco, ovviamente.
Lei è ancora studente, io non sono in grado di darle alcun consiglio se non quello di mantenere la tensione e l'attenzione che dimostra in queste righe per l'architettura e un atteggiamento per cui, dopo che avrà finito un progetto, si fermi un attimo prima di consegnarlo e pensi: ma l'ho fatto solo per me o anche per gli altri?
saluti
Pietro

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