Io Donna del 28 giugno, magazine del Corriere della Sera. Giornalista: Lia Ferrari.
Argomento: Biennale di Venezia.
Titolo: Architetti, rifiutatevi di costruire.
Diffido subito di questo titolo perché chiedere ad un architetto di rifiutarsi di costruire è come "chiedere" a un drogato di smettere di farsi, parole al vento. Non credo esista architetto, qualunque mestiere faccia per scelta o necessità, designer o pubblicitario, informatico o artista, che in fondo in fondo non desideri mettere un mattone sopra l’altro, figuriamoci uno che di mestiere fa proprio questo. Vedremo.
Vado avanti nell’articolo. Viene presentato il Direttore della Biennale, una faccia simpatica, architetto, di nome Aaron Betsky, per me un perfetto sconosciuto, ma questo non vuol dire.
Mi si presenta subito bene perche è stato criticato da Gregotti che ha parlato di "consolazioni puramente seduttive intorno allo stato delle cose": vuoi vedere che oltre che simpatico è anche bravo! In effetti alla giornalista che gli domanda se lui ce l’ha con l’architettura risponde di no e dice che “l’errore è confondere l’architettura con gli edifici, che ne sono solo la più evidente materializzazione”.
Il mio cervello ha il grave difetto di voler anticipare le risposte in base alle mie aspettative, e allora immagino che voglia andare oltre il singolo edificio, oltre l’architettura-oggetto che ci viene propinata oggi, che si interessi alla città, al contesto in cui l’edificio è inserito e questo argomento mi piace, sento che dirà qualcosa di interessante. Comincia a parlare di spreco di risorse, disciplina critica, usare il territorio senza distruggerlo, e passi, rifugi senza costruzioni come il giardino in cui viene intervistato, e passi ancora e la prima risposta finisce con “per questo ho invitato in Biennale solo architetti sperimentali”.
Fine dell’illusione. Architetti sperimentali: cosa vuoi sperimentare, torna all’antico e vedrai che trovi il nuovo.
Seconda domanda: Ma al di fuori della Biennale (ecco, è meglio), cosa possono fare oggi per noi gli architetti? Bella domanda davvero, vediamo come se la cava.
“A volte non fare. Rifiutarsi di costruire” - questa, come dicevo, è un po’ forte, e prosegue – “Mi viene in mente un progettista che in Belgio aveva firmato un contratto di 20mila euro per la risistemazione di una piazza. Dopo un anno di interviste, fotografie e studi, ha concluso che nessuna costruzione avrebbe migliorato lo status quo. Bastava la manutenzione. Così ha detto: bene, io ho fatto il mio lavoro, datemi i ventimila euro. Ed è stato pagato”.
Salto di soddisfazione dalla sedia, questo ha capito tutto, l’architetto belga intendo, ma anche Betsky! C’ha messo un anno per capirlo ma c’è arrivato: ha lavorato alle indagini, ha capito che less is more, ha giustamente riscosso (in Italia avrebbero denunciato lui e gli amministratori), non ha fatto danni, non ha messo pensiline, fontane improbabili, panchine, padiglioncini, lampioni di design, giardinetti, pavimentazioni da show-room e se ne è andato.
Bravo, bravo, bravo! Ma come faccio a dire che è bravo se non conosco la piazza e nemmeno la città? Lo dico perché lo so, perché il 99% delle piazze e degli spazi pubblici hanno solo bisogno di manutenzione, e invece gli amministratori vogliono lasciare il segno e riempire di tutto per far vedere che esistono e trovano sempre qualche architetto che vince un concorso il cui vero tema è sempre e comunque l’horror vacui.
Questo Betsky è forte, c’ha un’idea forte (gli architetti sperimentali saranno un incidente di percorso), è capace che ci sarà qualche novità in Biennale.
Giro pagina. Le domande restano pertinenti, la giornalista è competente ma le risposte sembrano date da un'altra persona. Avrà mica ragione Gregotti? Parla di un grande tubo che messo in laguna aspira l’acqua e ne esce il caffè, poi dice di un visitatore messo in gondola e intorno gli fanno vedere prima Venezia, quella vera, poi Venice di Las Vegas, poi quella di Macao, e il visitatore si confonde e scambia il vero dal falso e così fa la figura dell’imbecille. Ma che trovata!
Dopo altre amenità del genere alla domanda: Tra i suoi invitati c’è anche Zaha Hadid, autrice di uno dei tre controversi grattacieli all’ex Fiera di Milano, risponde: “Alla Biennale rivedremo la sua vena sperimentale (rieccola, perché fino ad ora la Hadid era accademica, evidentemente). Ha immaginato un fiore di loto che schiudendosi diventa abitazione”. Ma la Hadid è irakena mica giapponese e la domanda era sul grattacielo non sulla botanica.
L’intervista si conclude con l’affermazione che anche Palladio e Leon Battista Alberti erano archistar (questa è buona davvero), non senza avere annunciato anche la novità dell’happening con un uomo nudo.
Ci sarebbe da fare molta ironia ancora ma la conclusione è che Gregotti aveva davvero ragione e l’architettura non ha più veramente niente da dire essendo ormai solo un fenomeno economico-mediatico da magazine dei quotidiani, come il gossip, il turismo colto, la moda, le spa, l’ultimo cellulare, il calcio (questo non lo dice Gregotti, lo dico io).
Non si intravvede un minimo di coerenza logica tra l’architetto belga e la Zaha Hadid, tra il superamento dell’architettura-oggetto e il tubo che fa il caffè con l’acqua della laguna. Non c’è filo conduttore che non sia quello del sensazionalismo, della pura comunicazione.
Si dirà: è un magazine che entra in molte famiglie, che si trova dal dentista e dal barbiere, che sfogliano grandi e piccini, operai e professionisti, architetti e mogli di costruttori, non è mica una rivista seria! Proprio per questo dovrebbe essere più attenta, perché divulga informazione e fa cultura pop ma diffonde idee confuse fatte per confondere.
Anche al Festival del cinema di Venezia ci sono le star, le interviste, le curiosità mondane ma, alla fine, il film c’è, brutto o bello, il film si vede e si deve anche vendere: qui manca l’oggetto, l’architettura.
In questo senso lo slogan del Congresso Mondiale degli Architetti di Torino, Transmitting Architecture è, da un lato, coerente con lo stato dell’architettura attuale, cioè pura comunicazione senza sostanza, dall’altro già superato dalla realtà: fare un congresso per “comunicare” l’architettura, quando ormai questa è solo pura comunicazione mediatica, sia nel progetto che è costantemente alla ricerca di novità, esattamente come un qualsiasi prodotto commerciale, sia nel mezzo per trasmettere il messaggio, cioè magazine, riviste, spot TV in cui questi prodotti appaiono come sfondo.
L’architettura che appare dalla comunicazione assolve alla stessa funzione del gossip sui giocatori di calcio in cui uomini e donne si identificano nei rispettivi ruoli del giocatore e della velina e sognano di vivere come loro: non faccio moralismo, ognuno ha diritto di aspirare a ciò che vuole, ma l’importante è saperlo e gli architetti dovrebbero sapere che quel tipo di architettura vive solo se è presente in un foto patinata, solo grazie a quella ha qualche possibilità di essere accettata da un cliente.
In questo senso frequentare architettura all’università è come partecipare ad una selezione di un qualsiasi reality show in cui migliaia di aspiranti si impegnano come pazzi per realizzare il sogno della loro vita: apparire.
L’architettura, cioè il fine, non ha più alcuna importanza, ed è l’architetto, cioè il mezzo, a prevalere.
Questo è l’esito naturale del Movimento moderno e dello stile internazionale che avendo fatto tabula rasa di qualsiasi canone hanno messo al centro la sperimentazione e la ricerca del nuovo; è stata distrutta la disciplina ed è emerso lo show.
Chissà se sarà mai possibile una Biennale che metta al centro l’architettura classica italiana, antica e moderna!
P.S. A POST GIA' FINITO E PUBBLICATO LEGGO SU REPUBBLICA CHE, SU PROPOSTA DI BETSKY, E' STATO ASSEGNATO IL LEONE D'ORO A GEHRY, CON LA SEGUENTE MOTIVAZIONE: "Ha trasformato l' architettura moderna, l' ha liberata dai confini della "scatola" e dai limiti delle comuni pratiche costruttive". Oddio, le scatole, per romperle le ha rotte davvero.
Come ho potuto pensare bene, solo per un attimo, di questo Betsky!
29 giugno 2008
L'ARCHITETTURA DEI MAGAZINES
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3 commenti:
Guardate al vero. All'essenza. ai monti, ai fiumi. non a cubi di cemento con pretese di vivibilità. L'uomo non ha che la sua essenza animale. Il resto è carta straccia. buona a crollare al prossimo terremoto. e se non a quello tra trent'anni o cinquanta o cento o duecento. Guardare al vero.al V E R O. vitt dantuono
basta cemento, dai! La riflessione è giusta, se non ti piace che lo dice proponine un altro
Ma non credo che dica: basta cemento. Mi sembra che oltre l'architettura significhi, nelle intenzioni di Betsky, qualcos'altro. Purtroppo non so cosa. E non sono il solo a non averlo capito, visto le critiche poche lusinghiere dei più.
Saluti
Pietro
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