Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


15 febbraio 2013

NOVITA'

Pietro Pagliardini

Ieri al TG il garrulo Mollica, nei rituali servizi da San Remo, esaltava la “novità” di una canzone, non so quale. Quel poco di canzoni che ho sentito mi hanno fatto dormire, però pare siano portatrici di “novità”.
Novità, modernità, contemporaneità, creatività, innovazione, questi tag passano nei media e nella cultura diffusa come valori assoluti, esclusivi e indipendenti da ogni ulteriore attributo di qualità e di merito per ogni ambito in cui si esprime l’attività umana. La canzone è una novità e tanto basta a definirla una buona canzone. Ovviamente è anche contemporanea, e non potrebbe essere diversamente dato che è stata creata in questi giorni, e anche questo basta a renderla degna di nota. Però deve essere anche moderna, che non è proprio uguale a contemporanea. Infatti contemporanea ha un significato meno durevole, più di moda ma più soggetta al logorio del tempo, mentre moderna fissa definitivamente il carattere di positività in un arco temporale più vasto, un’epoca direi, e la consegna definitivamente all’olimpo delle cose da ricordare e da esporre al MOMA. Come si faccia ad esporre una canzone al MOMA non saprei dire, però credo che qualcuno ne sarebbe capace, se non l'ha già fatto. Se una canzone o un’opera è moderna, diventa icona di un’epoca, quella della modernità ovviamente.

Parlo di canzoni come semplice incidente di percorso ma il ragionamento vale per qualsiasi altra opera. Anche per l’architettura. Qui le novità si sprecano da decenni ma al momento attuale hanno raggiunto un ritmo veramente incalzante, da mozzare il fiato. I futuristi, poveretti, non reggerebbero il passo.

Le novità migliori sono quelle che viaggiano con la tecnologia. Zaha Hadid, grazie a Patrik Shumacher, fa due schizzi di autostrade che si incrociano, si sovrappongono, si allineano, arriva Shumacher e con il sapiente uso del software dà loro forma nello spazio virtuale. Il tutto passa poi a qualche disgraziato di ingegnere che deve ingegnerizzarlo per farne qualcosa che assomigli ad un edificio, che magari non serve a niente ma che comunque deve, ahimè, contenere persone in carne ed ossa senza cadere loro addosso. E’ decisamente una novità, su questo non si possono nutrire dubbi di sorta. Sarebbe l'architettura a prescindere.

Prima c’era, ormai sembra superato, quell’altro, Gehry, che nasce come scultore. Poi ha capito che tutto sommato scultura e architettura sono quasi la stessa cosa, solo che questa, oltre ad essere vuota dentro per farci entrare le solite persone, è molto più grande e costa molto di più e allora ha cominciato ad accartocciare dei fogli. Con una telecamera riprende da vicino i vari scorci creati dalla casualità delle pieghe e, con un processo decisamente più complicato e più artigianale (d’altronde siamo ai primordi, è pioneristico), sempre al computer, restituisce il modello cartaceo, arricchendolo e modificandolo per dargli una forma se non compiuta, che sarebbe esagerato dire, almeno più coerente. Tutto sommato l’impegno e lo studio, dal punto di vista plastico e compositivo è superiore. Superiore a quello di Hadid. Anche questa è stata una novità, a questo punto direi archiviata, certamente contemporanea quando è stata fatta e forse anche moderna. Non è andata al MOMA, perché non sapevano come infilarcela, ma è stata immortalata in un film di un famoso regista. E poi è andata a finire in diverse parti del mondo, con diversa fortuna e qualche problema di infiltrazioni d’acqua (certo nelle sculture questo problema non si poneva) ma l’apoteosi è stata Bilbao. Almeno per noi europei, soprattutto italiani. A Bilbao però non sembra vi siano problemi di acqua.

Quell’altro, decisamente in disarmo, ha fatto un ponte a Venezia in acciaio e vetro. E’ certamente una novità, e che novità. Camminare sull’acqua come Gesù nel lago di Tiberiade! Se non è una novità questa! L’altra novità è quella che sul vetro si scivola, specie quando piove e se non piove, a Venezia, quando non tira vento di tramontana c’è l’umidità che è come se piovesse e anche peggio perché uno non se lo aspetta. E allora si scivola anche quando non piove. E anche questa è una novità. E poi c’è l’altra novità, che se il ponte ad arco è spingente, vuol dire che spinge là dove appoggia e allora le spalle del ponte tendono ad allontanarsi l’una dall’altra e bisogna fare in modo che invece questo non avvenga. Questo fatto, in verità, tanto nuovo non è. Lo sapevano già gli antichi, che il vetro lo usavano poco, ma che se c’era un arco spingente rimediavano con un contrafforte. Ora Calatrava avrà pensato che le spalle avrebbero retto la spinta ma si vede che non devono avere retto se si muovono. La sfortuna ci sta nella novità.
Ma la sfortuna è anche delle casse pubbliche che pare abbiano sborsato 3 milioni di euro per la scivolosità e non so quanti per la spinta. Anche per la compagnia assicurativa del Comune deve essere stata una novità. Una novità un po’ dispendiosa, riconosciamolo, ma pur sempre una novità.

Adesso c’è l’ultima novità, almeno fino a qualche giorno fa che nel frattempo è capace ne abbiano trovata un’altra. E’alla portata di molti architetti e questo fa prevedere, crisi permettendo, che potrebbero esserci moltissimi prodotti nuovi. Si parla del laser-scanner. Si crea una forma con qualsiasi materiale duttile e modellabile - e qui si esercita anche la creatività nella scelta dello stesso - la macchinetta lo “legge” e crea una nuvola di punti che, trattata al computer, restituisce un modello 3D bello e precotto. Cartocci di carta, pongo, plastilina, creta, lamiere tagliate e sagomate, stoffa, reti di acciaio, quello che si vuole. A quel punto, trovato il cliente giusto, non resta anche qui che passarlo agli ingegneri per la ingegnerizzazione. Tutti gli architetti potranno sentirsi Gehry, Hadid, Calatrava no perché lui è più tradizionale nel metodo, a parte il vetro che però non credo riuserà un’altra volta, per i ponti almeno.

A questo punto come non osservare che, a dispetto di chi afferma che la modernità è caratterizzata dalla frammentazione, decostruzione, individualismo, disordine, caos addirittura, siamo in vero tornati all’unità dell’arte e fra le arti! Musica, architettura, scultura, tutte unite dall’essere novità.
E il merito, la qualità dell’opera? Non conta, un dettaglio superato. D’altronde la novità è un concetto e l’arte moderna e contemporanea è concettuale. Questa però non è una novità, ma un discorso piuttosto vecchio.


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27 gennaio 2013

RIGENERAZIONE URBANA: MODELLI ASSURDI E MODELLI VIRTUOSI

di Ettore Maria Mazzola

In questi giorni è circolata la notizia (Matt Robinson su Daily Mail del 24 gennaio 2013) che in Gran Bretagna, una megastruttura residenziale (2700 alloggi) – erroneamente definita “torri” – realizzata tra il 1967 e il ’79 sta per essere “rasa al suolo e sostituita con un quartiere di case a schiera tradizionali, per ridurre la criminalità e migliorare gli standard di vita dei più poveri nella società britannica”.
La scelta non è stata, come qualche malizioso potrebbe accusare, basata sull’ideologia, oppure sulla visione “nostalgica” del Principe Carlo, bensì è stata suggerita da un lungo studio dei ricercatori di “Think-tank Policy Exchange” che ha dimostrato le seguenti cose:
1. La concentrazione di esseri umani all’interno di palazzoni multipiano esclusivamente residenziali tende ad aumentare la criminalità, facendo sì che queste strutture e quartieri divengano “no-go zone” (luoghi da evitare);
2. Chi vive in queste strutture ha maggiori probabilità di soffrire gravemente di stress, problemi di salute mentale; inoltre, tra queste persone, si registra un’impennata dei divorzi;
3. Considerato invece che vive in quartieri tradizionali di case a schiera è meno esposto a queste patologie e/o dinamiche, la sostituzione di certe realtà con quartieri di tradizionali di questo tipo può migliorare drasticamente le condizioni dei residenti.


Lo studio ha fatto emergere il desiderio dei cittadini, i quali hanno concordemente ammesso di “voler vivere in case realizzate sul modello di quelle costruite per secoli in tutto il Regno Unito, non solo per combattere la criminalità, ma anche per ridurre lo stress e salvare il proprio matrimonio!
Lo studio riporta come, nonostante l’evidenza di certi dati allarmanti, tutt’oggi oltre 140 mila famiglie inglesi vivano in realtà spersonalizzanti multipiano.
Il rapporto porta gli autori a suggerire che non solo questo quartiere degradato, ma tutti i quartieri similari realizzati nel Regno Unito negli ultimi 70 anni, essendo divenuti “no-go zones” debbano essere sostituiti al più presto!
In base ai dati del rapporto, è stato stimato che, nella sola Londra, potrebbero realizzarsi 260.000 nuove case nei prossimi 7 anni sostituendo i “grattacieli” e “casermoni” esistenti.
Boys Smith va oltre, ed elenca le problematiche relative ad un certo tipo di edilizia, auspicando che la si smetta di compiere gli errori del recente passato, ricominciando a “costruire strade lungo le quali la gente vorrebbe vivere per evitare di rendere la vita delle persone miserabile”.
Da alcuni anni, effettivamente, in Inghilterra si sta procedendo con interventi di questo genere, per esempio a partire dal 1997 come primo discorso da Primo Ministro, Tony Blair visitò un quartiere degradato proponendo la sua sostituzione con qualcosa di più umano e rispettoso dei residenti, e oggi quel quartiere è oggetto di un intervento di Rigenerazione Urbana di 1,5 mld di Sterline!
Stiamo parlando di dimostrazioni di civiltà, stiamo parlando di persone che, al di là dell’ideologia, riescono ancora a mettere in primo piano le esigenze della collettività.
Ma perché in Inghilterra certe cose avvengono, mentre da noi in Italia si viene condannati solo se si osi proporre qualcosa di simile?
Forse è il Regno Unito ad essere un Paese speciale? Forse perché lì c’è la monarchia e, conseguentemente, si è in grado di fare programmi a lunga scadenza cui i politici locali “a tempo determinato” debbono uniformarsi indipendentemente dal colore dei loro predecessori?
Non credo.
Infatti, se ci avviciniamo all’Italia, possiamo documentare il caso della Francia, dove a seguito dei fenomeni rivoluzionari delle banlieuses, lo Stato ha approvato e messo in pratica una legge che ha consentito di investire 60 mld di Euro per la sostituzione edilizia di quartieri degradati e degradanti, ma la cosa era già in atto da prima se, basti pensare al “fenomeno” di Plessis Robinson … fenomeno del quale in Italia, specie tra gli architetti e docenti di architettura, ci si guarda bene dal parlare!
Da noi è difficile che certe iniziative possano mai avvenire, probabilmente per ragioni di ignoranza, o forse per un assurdo e ingiustificato complesso di inferiorità culturale verso quei Paesi più votati al modernismo estremo, o anche e soprattutto per un vergognoso servilismo nei confronti di alcuni mostri sacri italiani.
Tutto ciò porta la stragrande maggioranza degli architetti italiani comportarsi in maniera ottusa, accusando di passatismo nostalgico, populismo, qualunquismo e quant’altro chi osi proporre certe cose.
Si rifletta però sul fatto che, proprio coloro i quali accusano di “passatismo” i sostenitori della sostituzione di quartieri degradati con esempi di urbanistica tradizionale, si comportano come i peggiori fondamentalisti-iperprotezionisti quando si tratti di dover buttare giù delle brutture del genere che, a loro dire, rappresenterebbero degli importanti "segni" o "memorie" storiche del tempo in cui sono sorti … costoro sono perfino arrivati a chiedere di porre un vincolo artistico sulle Vele di Scampia e il Corviale di Roma!.
E' ovvia la ragione, e l'ho già scritta tempo fa: gli architetti, per la maggior parte i "grandi luminari" 60-70enni, identificandosi con gli edifici che hanno realizzato, non accetterebbero mai di vedersi privare di un pezzo di se stessi … sarebbe come farsi amputare un braccio o qualcos'altro, sicché combattono anche con argomentazioni patetiche, qualsivoglia demolizione del "moderno" ... hai visto mai che prima o poi possa toccare ad un proprio edificio?
Costoro, piuttosto che pensare alla presunta importanza dell’appartenenza di un edificio al suo progettista, avrebbero dovuto – e dovrebbero – pensare a come concepire edifici che stimolino il senso di appartenenza dei cittadini a quel luogo, ma significherebbe mettere da parte la propria autoreferenzialità!
Così, in queste ultime settimane, abbiamo tristemente assistito alla patetica celebrazione, in vari modi, di personaggi come Pietro Barucci (autore di mostruosità come Tor Bella Monaca, Torrevecchia, Laurentino ’38, Quartaccio) e Michele Valori (co-progettista del Corviale con Mario Fiorentino) , personaggi che si sono resi responsabili di alcune delle più disumane progettazioni dello scorso secolo, e il prossimo 7 febbraio assisteremo alla celebrazione di un altro personaggio che ha fatto il bello e cattivo tempo dell’architettura e dell’urbanistica italiana, dirigendo Casabella e costruendo abomini come lo ZEN di Palermo: Vittorio Gregotti, il quale riceverà la sua passerella in occasione di una manifestazione organizzata presso l’Accademia di San Luca dedicata alle “Rigenerazioni Urbane in Italia”. Durante questa manifestazione verrà presentato il progetto di “rigenerazione del quartiere Acilia Madonnetta a Roma” … per chi non lo conoscesse, si tratta di un surrogato del suo ZEN di Palermo!
Ma come è possibile che in Italia si continuino a cantare le lodi di certi personaggi?
Lo ZEN è probabilmente il peggior esempio di progettazione di Case Popolari Italiano, primato tristemente condiviso con le Vele di Scampia di Franz Di Salvo, altro personaggio al quale è stato recentemente dato un tributo su alcuni blog!
Servilismo? Sudditanza psicologica nei confronti di personaggi (quelli in vita) ancora influenti per mettere una buona parola per diventare famosi? Davvero una cosa indegna!
Inutile dire che, in occasione della manifestazione dedicata a Gregotti ed alle “Rigenerazioni Urbane”, non è stato minimamente ipotizzato di presentare quei progetti di Rigenerazione elaborati da coloro i quali hanno per primi portato avanti questo discorso in Italia, professionisti che hanno elaborato progetti che dimostrano non solo come risulti possibile fare architettura e urbanistica a dimensione umana, ma che la cosa possa farsi in maniera totalmente pubblica, e a costo zero, rifocillando, piuttosto che dissanguando le finanze pubbliche, generando altresì centinaia e centinaia di posti di lavoro, migliorando fattivamente l’esistenza di tantissimi individui; i loro studi hanno inoltre dimostrato come certi progetti porterebbero delle ricadute economiche positive sull’intera collettività, anche grazie all’eliminazione di quelle problematiche elencate dallo studio inglese.
A tal proposito vorrei fare un paio di progetti che ho sviluppato di recente, non solo per spiegare come potrebbero funzionare, ma perché non vorrei recitare la parte di colui che critica gli altri senza mostrare delle alternative.
Nel caso di Corviale a Roma, se si procedesse alla sostituzione dell’abominevole complesso residenziale attuale, non solo si potrebbero insediare circa 2000 abitanti in più, per favorire l’integrazione sociale, ma si potrebbero portare una serie di attività quali una scuola materna ed elementare, una scuola media, una scuola superiore, alcune strutture sportive, una chiesa, un Municipio, un Comando dei VV.UU., un Cinema-Teatro, un Centro Culturale con Biblioteca di quartiere, un Edificio Postale, una Loggia per il Mercato, circa 58500 mq di negozi al piano terra degli edifici della spina centrale, circa 30000 mq di laboratori artigianali lungo le strade a margine, nonché un enorme parco di quartiere, inoltre l’intero quartiere e il parco risulterebbero dotati di numerose aree per il gioco dei bambini e per il tempo libero e le attività degli anziani; tutto questo potrebbe addirittura realizzarsi restituendo al territorio circa 12 ettari di terreno e, alla fine dei conti, semplicemente applicando dei prezzi calmierati e non facendo speculazione, potrebbero restare nelle casse dell’ATER circa 413 mln di euro da reinvestire per risanare altri quartieri degradati!
Stessa cosa è emersa dalla progettazione per la rigenerazione urbana del quartiere ZEN di Palermo, dove gli abitanti potrebbero crescere di 5125 unità, si potrebbe creare un enorme parco cittadino, all’interno del quale sorgerebbero anche due grandi centri polisportivi per un totale di 122750 mq, collegati a 360° da un percorso per jogging e pista ciclabile, una Clinica specializzata di 67573 mc, una Stazione di Polizia, un Comando dei Carabinieri, un Municipio, un Comando dei VV.UU., un Ufficio Postale, una Scuola Materna ed Elementare dotata Centro Sportivo da mettere a disposizione dei residenti, una Scuola Media dotata Centro Sportivo da mettere a disposizione dei residenti, una Scuola Superiore dotata Centro Sportivo da mettere a disposizione dei residenti, una Loggia per il Mercato, la nuova Chiesa di San Filippo Neri, con canonica, oratorio e centro sportivo per i ragazzi del quartiere, un Centro Culturale, un Cinema-Teatro. L’intero quartiere e il parco risulterebbero dotati di numerose aree per il gioco dei bambini e per il tempo libero e le attività degli anziani.
Anche in questo caso, le principali strade verrebbero animate da 45679 mq di negozi mentre, lungo le strade secondarie, potrebbero sorgere 46861 mq di laboratori artigianali, ogni appartamento sarebbe inoltre dotato di box auto privato, ovviamente il progetto ha previsto il rispetto della normativa in materia di parcheggi pubblici, così come anche quello per il Corviale.
Questi progetti non sono frutto di fantasticherie, né si ha la presunzione di sostenere di aver inventato il sistema di sviluppo per illuminazione divina, né tantomeno si tratta di un’imitazione dei sistemi New Urbanism o quant’altro proveniente dall’estero: si tratta semplicemente di progetti per i quali è stato ipotizzato di riutilizzare norme e strumenti in vigore in Italia finché il fascismo non decise di impedirli: certe norme e strumenti basati sul buon senso riuscirono a risanare le finanze del Comune di Roma ormai in bancarotta, quelle norme e strumenti generarono migliaia di posti di lavoro e contribuirono ad eliminare del tutto fenomeni violenti pari a quelli delle banlieuses francesi del 2005.
Perché allora non riprenderli a modello?
La crisi ci ha ormai messi in ginocchio, e i nostri edifici, così come quelli inglesi di cui allo spunto iniziale, necessitano di essere sostituiti, non solo per le ragioni di sicurezza e salute pubblica riportati nello studio inglese, ma anche perché, come denunciato dalla Commissione Europea per l’Ambiente – a causa della pessima qualità dell’architettura costruita negli ultimi 70 anni in Europa – l’incidenza in termini di fabbisogno energetico dell’edilizia industriale attuale è pari al 36%, (a fronte del 31% dell’industria e del 31% del trasporto), mentre le emissioni di CO2 dell’edilizia sono pari al 34,5 % (a fronte del 32,5% dell’industria e del 30,5% del trasporto).
Dalle stesse stime risulta che l’intero settore edilizio è responsabile del 50% dell’energia consumata a livello Europeo, di cui il 36% è imputabile al fabbisogno energetico in fase d'uso degli edifici, mentre circa il 14% è causato dal settore industriale legato all’edilizia.
Oltre a ciò va considerato che gli edifici comportano un notevole consumo di materiali ed energia sia in fase costruttiva che durante il loro uso e la loro dismissione: il settore edilizio consuma circa il 40% dei materiali utilizzati ogni anno dall’economia mondiale e produce circa il 35% delle emissioni complessive di gas serra, senza contare i consumi di acqua e di territorio, nonché la produzione di scarti e rifiuti dovuti alla demolizione.
La logica suggerirebbe quindi, al pari del Regno Unito e della Francia, di rivedere l’intero patrimonio immobiliare realizzato nell’arco dell’ultimo secolo, piuttosto che proseguire imperterriti nella produzione di edifici energivori e inquinanti … a conti fatti, una revisione del genere potrebbe risanare le esangui casse statali e, di conseguenza, potrebbero ridursi drasticamente gli sperperi di denaro pubblico e le tasse dei cittadini. Cosa stiamo aspettando?

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13 gennaio 2013

IL NUOVO MANIFESTO DELL'ARCHITETTURA 2013

di Ettore Maria Mazzola

Il 6 gennaio u.s., la vecchina sulla scopa ha portato un regalo a tutti gli architetti internauti, una bozza di quello che vorrebbe essere il Manifesto per l’Architettura elaborato dalle menti eccelse ed innovative dell’Associazione Italiana di Architettura e Critica … un’associazione che prevede appunto il connubio indissolubile tra architetti e critici, connubio necessario per poter essere o meno inclusi nel “cerchio della fiducia” di questa bistrattata professione.
Certo che, per come vanno le cose a livello professionale, ma anche economico e ambientale, un Manifesto che si prenda cura di come dovrebbe svolgersi questa professione, specie alla luce del background culturale dell’Italia, dovrebbe essere quanto meno auspicabile, del resto si parla di un settore che potrebbe risollevare le sorti di un Paese devastato dalle politiche economiche della globalizzazione.
La necessità del cambiamento del resto è evidente a chiunque risulti in grado si rendersi conto del fatto che, da quando è stato esplicitamente imposto di guardare ovunque, tranne che alla nostra gloriosa tradizione, la produzione edilizia italiana, e i problemi socio-economici, abbiano subito un drastico peggioramento.

E allora, agli occhi di chi è stufo oltre settant’anni di follie utopiche in materia architettonico-urbanistica, risulta chiaro che, piuttosto che continuare ad affannarci nell’imitazione di folli ricerche futuristiche alla base delle problematiche sociali, economiche ed ambientali che attanagliano il pianeta, risulterebbe più che logico provare a ripartire da dove avevamo smesso.
… Ma sarebbe chiedere troppo, sarebbe come voler chiedere alla Monsanto di rimettere in discussione i pesticidi e le modifiche genetiche dei campi di mais, sarebbe come chiedere ai fondamentalisti religiosi di provarsi ad aprire al dialogo interreligioso con i presunti nemici.
Ecco quindi che il “nuovoManifesto per l’Architettura proposto da Luigi Prestinenza-Puglisi, coadiuvato da Anna Baldini, Diego Barbarelli, Roberta Melasecca, Giulia Mura, Marco Sambo e Zaira Magliozzi, si viene a configurare non solo come la conferma – se mai ce ne fosse stato il bisogno – dello status-quo della materia architettonica, ma sembra addirittura voler essere una patetica riproposizione, a 98 anni di distanza, di quelle assurde teorie già contenute nel Manifesto dell'Architettura Futurista di Sant'Elia … ma con un’aggravante: Antonio Sant'Elia aveva dalla sua parte un periodo storico e artistico molto particolare, e non aveva alcuna idea dei drammatici effetti collaterali prodotti dalle sue folli idee reazionarie. Quindi, sebbene condannabile, il Manifesto del '14 possiede una miriade di attenuanti. Il nuovo Manifesto invece – forse a causa della miopia di LPP & co. nel guardasi alle spalle (sarebbe da “passatisti”), o vuoi perché come tutti i "guru" pensa di poter derivare le proprie conoscenze da se stesso (in base alla "necessità di azzerare la storia") – non può trovare alcuna clemenza da parte della corte, poiché si tratta di una pianificazione lucida e intenzionale di manipolazione della realtà mirante a rafforzare il ruolo dei critici (lui in questo caso), rispetto agli architetti: se stai con me sei “IN”, se non condividi sei “OUT”!

Giustamente, nel post precedente di Pietro Pagliardini su De-Architectura, egli ha, con grande acume, fatto un giustissimo raffronto con Socrate, scusandosi "in contumacia" con l'ateniese. Nel suo testo, Pagliardini ha giustissimamente detto: «se ci trovassimo nell’antica Atene a dover votare su di lui, scriverei il suo nome sul coccio per decretarne l’ostracismo, non territoriale ma dal consesso della critica, con la motivazione di “corruzione di giovani architetti”».

Si noti che tempo addietro, tra FB e i vari blog in giro nella rete, LPP e diversi suoi sostenitori e/o emuli, hanno organizzato svariate iniziative tese a rafforzare, o a dare un senso, al ruolo dei critici di architettura nel XXI secolo.
… Verrebbe da pensare che, se c’è poco lavoro per gli architetti, figuriamoci per i critici, e allora sì che bisogna inventare qualcosa di nuovo, qualcosa che rafforzi il ruolo dei secondi rendendo i primi dipendenti da quelli … il potere mediatico è fondamentale!

Del resto per come vanno le cose di questi tempi in Italia – dove a causa di un generalizzato atteggiamento intellettualoide si vive in un contesto dove una presunta e autoproclamata élite colta ha il diritto di parlare, mentre la massa incolta ha il dovere di accettare passivamente – questo programma rischia di avere un discreto margine di successo … ma la cosa non è assolutamente una novità come si vuol far credere.

Come infatti ho avuto modo di scrivere nel mio Architettura e Urbanistica – Istruzioni per l’Uso(1):

Le università si sono comportate esattamente come una la congregazione la quale, al pari delle peggiori sette religiose, sotto l’ispirazione di una presunta intelligenza superiore, emette una dottrina ritenuta immutabile e procede, per raccogliere aderenti, per iniziazione: l’insegnamento distorto che è stato esercitato negli ultimi settant’anni, è stato mirato alla sottomissione delle intelligenze ad una dottrina, in vista di un risultato concepito in anticipo che non si chiama MODERNITÀ ma MODERNISMO!
[…]
Vista l’analogia storica, e per meglio comprendere quello che accade in determinate situazioni, parafraserò, attualizzandolo, quanto ebbe acutamente modo di osservare nelle sue “Conversations sur l’Architecture” Eugène Viollet-Le-Duc(2) all’epoca in cui fu vittima dell’ostracismo da parte del sistema Beaux-Arts.
L’influenza esclusiva che può assumere una congregazione irresponsabile nei riguardi di un potere esecutivo responsabile è talmente grande da rischiare di non poter essere controllata: cosa può opporre un’amministrazione non competente all’opinione di un’università o un ordine professionale che lo Stato stesso (poiché è lo Stato che li sostiene) considera del tutto competente? Come ammettere che un’amministrazione che non è artista, si accinga ad assumersi le responsabilità di affidare, per esempio, la costruzione di un monumento pubblico a un uomo che rifiuta un corpo che si ritiene si recluti nell’élite degli artisti? […].
Per i grandi incarichi, comunque, dovendo rispondere a delle Normative di trasparenza e non potendola fare proprio […], l’amministrazione trova più semplice, e meno compromettente, ripararsi dietro l’opinione dell’organo colto (commissione giudicatrice decisa dall’Ordine degli Architetti o da chicchessia che, comunque, sarà composta come al solito dagli adepti della “setta” e mai dalla gente comune che dovrà vivere ciò che le si costruisce), che però non è responsabile e non è minimamente tenuto, nei confronti del pubblico, a rendere conto dei reali motivi che lo fanno agire, e ben si guarda dal rivelarlo, se lo farà argomenterà le sue decisioni con le tipiche frasi arcane miranti a far sentire il popolo come una massa di sudditi ignoranti per i quali lo Stato “buono” produce. Si capisce che in tali condizioni, in un’amministrazione che “non se ne intende” di speciali questioni d’arte, gli affari della lobby vadano alla grande. Così queste amministrazioni si trovano ben presto completamente alla mercé dei capi della congregazione e circondate dai suoi aderenti, impiegati ad ogni livello. Questi ultimi divengono tanto più numerosi e sottomessi allo spirito del corpo, quanto più sentono che la sua influenza si accresce e che il suo potere si rinsalda in tutti i servizi dei lavori pubblici. Poiché tali servizi ormai intendono esprimere una sola opinione su tutto, e visto che tutti gli “oppositori del regime” sono stati costretti a tirarsi fuori dalla mischia, credono in perfetta buona fede di essere nel giusto … fino al momento in cui, per un caso fortuito, si assiste ad un brusco risveglio. È solo a questo punto che questa responsabilità – che l’amministrazione credeva potesse accollare al corpo protetto – viene invece a ricadergli addosso come un macigno, a questo punto il corpo irresponsabile se ne lava le mani. Così facendo, si suppone, l’istituzione statale dovrebbe divenire per lo Stato imbarazzante, tuttavia inizia un tira e molla di scaricabarile finché, col tempo, ci si dimentica e si ricomincia come se niente fosse stato!
La forma dittatoriale silente che caratterizza l’ambiente dell’Architettura di oggi è assolutamente inimmaginabile alla gente che vive – o sopravvive – nelle città: gli architetti e gli studenti di Architettura si trovano in una situazione particolare a dir poco vergognosa: ripudiare le proprie idee, qualora tali opinioni e tali idee non siano ammesse dal Corpo protetto dallo Stato, o essere condannati a una specie di ostracismo se mantengono le loro idee e le loro opinioni personali. […].
È esattamente come nella riflessione di Giulio Magni a proposito dell’impostazione Beaux-Arts del suo tempo: «[…] colui che deve lavorare si trova nel bivio difficilissimo, se cioè fare come la ragione lo guida o come il generalizzato sentimento gli impone … affrontare l’impopolarità è certo un eroismo! […]».
Si rifletta sul fatto che un qualsiasi corpo (in questo caso gli Ordini Professionali) sottomesso a una dottrina, (in questo caso la Teoria Modernista imperversante nelle Facoltà di Architettura), che dipende dallo Stato tramite un legame qualsiasi, tenderà sempre a servirsi fatalmente dello Stato per far trionfare la propria dottrina! Quando a questo si aggiungono le riviste specializzate – su cui ovviamente scrivono i grandi luminari dell’Architettura e i loro emuli – che bombardano in maniera monotona e dittatoriale i lettori con architetture astruse – la frittata è fatta.
Chi si ribella a questo circolo vergognoso viene immediatamente annientato da chi comanda abusando della sua posizione protetta e privilegiata. Gli studenti, e/o i giovani architetti che provano ad emanciparsi imparano subito, a loro spese, cosa costi. Se non seguono la strada uniforme tracciata dal cameratismo, si trovano le porte chiuse; se non cozzano contro un’ostilità dichiarata, vengono condannati dalla cospirazione del silenzio: se lo studente prova a divergere dall’idea del docente non passa, o passa a stento, e dopo lunghe sofferenze, l’esame progettuale; se un giovane architetto ha la fortuna di realizzare, o semplicemente progettare un intervento tradizionale, nessuna rivista lo prende in considerazione.

Ora quindi, con questo nuovo Manifesto, ci troviamo davanti ad un documento non solo assurdo, ma per alcuni versi pericoloso a causa del contenuto di alcune delle sue 12 tesi.
Per esempio la Quinta Tesi, la cui pericolosità è già insita nel suo nome: Bisogno di utopia: … ma non sono bastate le follie del secolo trascorso per comprendere che sarebbe meglio stare con i piedi per terra?
O la Sesta Tesi, intitolata Liberare, dove si inneggia al bisogno di libertà superando il mito della produttività e dell’efficienza economica a tutti i costi.
Oppure la settima, che si intitola Sconfiggere l’ossessione del controllo … come dire, niente regole, siamo architetti!!
L’ottava poi, intitolata Il paesaggio si costruisce, arriva a decidere che, “così come un albero può, come il cemento, diventare un materiale da costruzione, il cemento può, come un albero, diventare un frammento di paesaggio” … dunque viva l’ambiente!
La più impressionante è però la nona tesi, definita Ecologie, dove si arriva all’assurdo per eccellenza: qui gli autori, scopiazzando in maniera ancora più folle le elucubrazioni visionarie e consumistiche della Ville Radieuse e del Manifesto dell’Architettura Futurista, arrivano ad affermare che

!!! «La vita è produzione e consumo di energia. Non ha senso risparmiarla» !!!

Andando avanti, ovviamente, non può mancare l’attacco alla tutela del patrimonio, sicché la Decima Tesi, dal titolo Recuperare e trasformare, si spinge alla necessita di demistificare le ideologie del recupero a tutti i costi e del falso storico e pensare che attraverso il nuovo e la competizione tra le migliori idee si possa migliorare l’esistente. Occorre puntare alla stratificazione degli interventi considerando anche le nostre come tracce del susseguirsi delle epoche.
È chiaro che con questa tesi, a parte l’inesistenza della “novità”, si voglia rafforzare l’idea del “famolo strano, famolo contemporaneo”, senza punto porsi il problema del rischio di perdere per sempre quel patrimonio che il mondo ci invidia e che dovrebbe darci da campare, sicché la l’undicesima tesi, intitolata Innovare, non fa che rafforzare quella precedente, scimmiottando la Carta del Restauro di Atene del 1931:

«Bisogna perseguire l’innovazione e la sperimentazione, come fonti di continue sorprese e aperture concettuali».

Appare quindi paradossale che, a conclusione del Manifesto, LPP presenti quello che lui definisce “testo di accompagno”, un documento che inizia con le parole “Varcare la soglia del buon senso”, il paradosso risiede nel fatto che, dati i contenuti, se mai questo Manifesto dovesse prender piede, tutti coloro i quali svolgono la professione di architetti, di urbanisti e di restauratori basandosi sulle ferree regole del buon senso e della disciplina professionale, risulterebbero banditi!
Ma è chiaro l’intento del documento, in questo primo scorcio di secolo, dove gli sforzi degli architetti sensibili alle tradizioni hanno fatto emergere dall’oscurità la loro presenza suscitando l’interesse del pubblico, c’è il timore che la gente sana di mente possa fare un confronto e discernere il bene dal male, e allora è necessario operare nuovamente un lavaggio del cervello che ricordi come la storia vada, necessariamente, periodicamente riazzerata … hai visto mai che gli architetti “ignoranti per vocazione” debbano rimettersi sui banchi a studiare per poter continuare a fare la professione?


Note:
1) E. M. Mazzola, Architettura e Urbanistica, Istruzioni per l’uso – Architecture and Town Planning, Operating Instructions, (prefazione di Léon Krier) Gangemi Edizioni, Roma 2006
2) Per la traduzione italiana: Conversazioni sull’Architettura – Edizioni Jaca Book S.p.A. op. cit.

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12 gennaio 2013

LE GRANDI SPERANZE PER L'ANNO NUOVO DI LPP

Pietro Pagliardini

Con la leggerezza necessaria a non prendere troppo sul serio l’inizio di un nuovo anno, che può anche essere un periodo simbolicamente importante per la speranze di ciascuno di noi ma che collettivamente diventa l’operazione mediaticamente più retorica e ripetitiva tra le molte che ci tormentano lungo le varie tappe di ciascun anno, mi accingo al commento di una proposta di inizio anno.

Mi riferisco al Manifesto per l’Architettura, addirittura, di Luigi Prestinenza Puglisi con la sua AIAC. Ho già scritto altre volte di provare molta simpatia per la persona perchè è intelligente, spiritoso, garbato e sempre dialogante. Poi ha quel dolcissimo , beffardo e blasè accento catanese, a me caro per vecchie consuetudini familiari, che riesce a sfumare i contrasti più forti. Inoltre anche le iniziali contano, e potersi riferire ad una persona semplicemente chiamandola LPP, beh, è una qualità impagabile e da fare invidia a chiunque.

Ma ciò detto, se ci trovassimo nell’antica Atene a dover votare su di lui, scriverei il suo nome sul coccio per decretarne l’ostracismo, non territoriale ma dal consesso della critica, con la motivazione di “corruzione di giovani architetti”.
Non nel senso in cui venne decretato per Socrate, per carità, anche perché qualche differenza tra LPP e l’ateniese oggettivamente esiste, e non me ne vorrà di certo per questo confronto, ma perché ritengo che egli blandisca i giovani inducendoli al facile peccato dell’orgoglio, convincendoli che siano la creatività e la innovazione le chiavi per diventare bravi architetti. E a scorrere le dodici tesi del Manifesto ve ne sono di ragioni per poterlo affermare. Vediamole (per il testo delle tesi rimando al link):


1)Recuperare il grado zero.
Già, senza entrare nel merito, come si può recuperare ciò che non esiste? Perché il grado zero è il Nulla che ha prodotto il Nulla di oggi. Quindi il Nulla non è recuperabile perché non esiste, per definizione, ma dal punto di vista di chi lo propone, esiste già, ossia è vecchio. Nella migliore delle ipotesi è una visione….nostalgica e conservatrice dello status quo.

2)Contenuti-linguaggio
Trovare nuovi linguaggi è l’esatto contrario della prima tesi, cioè azzerare il linguaggio. Francamente non capisco.

3)La critica
Problema irrilevante questo su cosa debba essere la critica perché interessa solo quindici persone. Siamo nell’autoreferenzialità non molto diversa da quella, criticatissima,dei politici che si parlano addosso.

4)Contro le derive del disegno
Scritta com’è lascia il tempo che trova ma, se la critica “prefigura prospettive”, LPP non può tacere che il parametricismo di Hadid (con tutto il suo seguito di cloni e imitatori) è la sola essenza di quell’architettura e quindi il nostro dovrebbe stroncarle tutte senza se e senza ma. Non mi sembra che lo faccia.

5)Bisogno di utopie
Abbiamo già dato ed è stato un fallimento, in architettura, in urbanistica, in politica e nella società in genere. Almeno tre generazioni di giovani ci sono caduti: già non trovano lavoro, non continuiamo a prenderli in giro anche con questa fuga dalla realtà.

6)Liberare
E qui siamo alla teorizzazione dell’astrattezza pura, allo svincolo cioè dell’architettura dalla sua realtà che è la prefigurazione dello spazio entro cui abita, agisce e vive l’uomo, come individuo e come parte della società, da cui non può essere disgiunto.

7)Sconfiggere l’ossessione del controllo
Sorvolo perché non l’ho capita. Come nuovo linguaggio si comincia male.

8)Il paesaggio si costruisce
Questa mi sembra il regno dell’ambiguità: c’è del vero e del falso insieme. Insomma viola il principio di non contraddizione ma soprattutto è in assoluta controtendenza rispetto all’unica concreta e ragionevole novità di questo periodo, vale a dire la netta separazione tra città e campagna, la riscoperta dei limiti unita al blocco dell’espansione – e possibilmente alla contrazione - della città nel territorio agricolo. Il tutto in nome, sempre, della libera espressione architettonica, questo feticcio che ci portiamo dietro da quasi un secolo.

9)Ecologie
Come sopra quanto ad ambiguità.

10)Recuperare e trasformare
Avrebbe potuto essere intitolata questa tesi come “L’ossessione del falso storico”. Non nel senso che se ne stiano facendo troppi, ma nel senso che non si fanno e si deve continuare a non farli. Non mi metterò certo a contestare ancora una volta questo tabù, questo pregiudizio, questo ostacolo mentale a valutare il mondo reale, mi limito a dire che d’ora in poi chiamerò quelli che altri chiamano “falso storico” come “vero attuale”.

11)Innovare
Vedi risposta a tesi 9

12)Pensare a una nuova geografia e definire il livello di intelligenza
Non esiste alcuna interazione apprezzabile tra le reti di comunicazione e la rete urbana. Esiste solo, o meglio esisterebbe se venisse applicata dovrebbe esistere, una analogia tra i principi che devono guidare il disegno e la costruzione della rete urbana e quelli delle reti di comunicazione: accessibilità, permeabilità, interazioni, nodi e connessioni, ottenuti mediante la costruzione della strada tradizionale, le connessioni, e le piazze (e non solo) come luoghi nodali. L’esatto opposto di quanto si sta facendo da decenni, un indistinto non-disegno urbano, un quadro astratto svincolato dal territorio, privo di connessioni, caratterizzato da specializzazione per aree non comunicanti tra loro, da strade nel vuoto, da vuoti che accolgono oggetti sparsi fuori da ogni relazione con l’intorno e con gli altri edifici, cui corrisponde il vuoto sociale, la destrutturazione delle relazioni umane. La non-città, la periferia, il suburbio. Cercare una interazione tra le reti di comunicazione e la città, immaginando che le prime debbano o possano modificare la seconda è un errore e una esercitazione intellettuale, buona solo a utilizzare ogni tre per due e a sproposito il termine smart-city.

Conclusioni
LPP ha decisamente fiuto e intelligenza e ha scelto il momento opportuno per proporre un Manifesto. Sa che non c’è più niente in giro, nel suo giro, degno di appartenere alla categoria architettura e in verità anche di edilizia. Sa che c’è una ripetitività assoluta, una moltiplicazioni di cloni uguali a se stessi, impostati su tre o quattro filoni figli delle genialate di alcune famose ma ormai imbolsite e sterili archistar e quindi cerca un nuovo target, un nuovo ordine. Non credo riuscirà a trovarlo basandosi sulle Tesi, perché propone le stesse cose di adesso, sostanzialmente. Sarebbe come ripetere la stessa tappa del giro. Siamo arrivati al paradosso della copia esatta di progetti di archistar, cioè dei veri attuali di modelli contemporanei.

Se invece allargasse il suo orizzonte, se riuscisse a Liberare (Tesi n°6) la mente da pregiudizi, forse potrebbe vedere che il mondo è grande, che esistono soluzioni meno appariscenti e più ecologiche (Tesi n°9), molte opportunità di Recuperare e trasformare (Tesi n° 10) per concentrare la città riempiendo i vuoti al suo interno, ridando forma alla città con la definizione dei limiti e liberando spazio alla campagna, più possibilità di Innovare (Tesi n° 11) tornando a costruzioni più tradizionali, ormai abbandonate da decenni e quindi realmente nuove.
Questo non accadrà quasi certamente, ma LPP continuerà ugualmente a rimanermi simpatico, anche se alla prima occasione saprei fare un uso giusto del mio coccio.

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4 gennaio 2013

SCUSI PER RICCIONE? SEGUA LE INDICAZIONI PER I CARAIBI!

di Ettore Maria Mazzola

A chi in Italia si preoccupava di porre un freno al consumo di territorio si potrà finalmente rispondere di dormire sonni tranquilli … il genio italiano ha trovato una soluzione “sostenibile”, anzi “green”: realizzare un atollo davanti a Riccione!

Chissà cosa avrà pensato Domenico Finiguerra – il sindaco anticemento di Cassinetta di Lugagnano, nonché leader carismatico del movimento “Stop al Consumo di Territorio” –leggendo, le parole di Cristian Amatori – capo di gabinetto del sindaco di Riccione – il quale ha affermato: «L'intento è integrare e ampliare l'offerta turistica di Riccione senza togliere nulla al patrimonio esistente sulla costa, che ha ormai raggiunto la saturazione».

… Ma che ambientalista!

La notizia è rimbalzata qualche giorno fa sul web, subito dopo che i progettisti dell’Università di Ferrara (ma non farebbero meglio a pensare alla ricostruzione post-terremoto?) e il capo di gabinetto del sindaco di Riccione hanno indetto una conferenza stampa che dava l’annuncio della prossima colonizzazione del Mare Adriatico con un atollo di un chilometro di diametro, dove ci saranno un porto (con terminal per le navi da crociera in viaggio tra Venezia, Grecia e Croazia) degli hotel, dei residence, centri di ricerca in tema di green economy (!!!), parchi, negozi: il tutto, per una popolazione di circa 3 mila persone e con possibilità di balneazione assolutamente inedite, dato che la profondità del mare, a quella distanza dalla costa, è di 12 metri.

Sarebbe utile capire cosa studieranno quei “centri di ricerca in tema di green economy” … forse varrebbe la pena che facessero degli studi che gli facciano comprendere come certi progetti, oltre a risultare deleteri in termini ambientali (green), lo sono anche in materia economica (economy).

Mi chiedo dove possa essere finita l’etica di certi docenti, professionisti e politici emiliani i quali, nonostante la crisi, e nonostante il dramma delle popolazioni terremotate e delle aziende impossibilitate a riavviare le proprie attività, pensano a lanciare proclami di costruzioni di atolli 3 a miglia dalla costa miranti al puro edonismo.

La cosa che più disturba di questa storia è la ipocrisia con la quale certi personaggi abusino di termini come “green”, “sostenibile” e “rispetto del patrimonio della costa” per perseguire i propri intenti speculativi e antiecologici.

Purtroppo, il marciume della società dello spettacolo fa sì che non occorra che tra le parole e i fatti possa esserci una corrispondenza, la cosa importante è dire delle frasi ad effetto, mostrandosi pubblicamente mentre si sostiene il proprio interesse alla tutela dell’ambiente … è quasi certo che nessuno andrà mai a verificare fino in fondo se si sia detta la verità, e se mai qualche scandalo verrà fuori, esso verrà presto dimenticato e sostituito da un’altra discussione e poi, se dei danni – economici o ambientali che siano – ne scaturiranno, saranno gli altri, ovvero noi tutti, a pagarli.

Certe notizie fanno davvero riflettere sul fatto che certi “architetti bio”, e la stragrande maggioranza delle aziende produttrici di materiali “bio” per l’edilizia, meriterebbero multe o condanne come quella datata 26 novembre 2012 emessa dal garante dell’antitrust nei confronti di alcune aziende multinazionali produttrici di alimenti a causa delle “false promesse salutiste” raccontate nei loro ingannevoli spot pubblicitari.

Una dichiarazione inquietante del capo di gabinetto del sindaco apre uno scenario preoccupante: «Superato il primo attimo di sconcerto e viste le carte, l'approccio è stato, non solo collaborativo, ma entusiastico. Da allora, con l'avvento del governo Monti, l'idea ha cominciato a marciare».

L’inquietudine è legittima! … L’operazione infatti, lascia supporre che si tratti dell’ennesima iniziativa tanto cara alla lobby bancaria che tiene sotto scacco il pianeta, quella lobby è infatti interessata a questo genere di investimenti che, con i loro costi folli, incentivano l’indebitamento pubblico e/o privato, arricchendosi mentre il resto del mondo impoverisce.

In ogni modo, se mai qualcuno avesse potuto immaginare che la cosa potesse avere un minimo di interesse economico locale, creando posti di lavoro e dando da lavorare alle imprese locali, questo qualcuno potrà subito ricredersi ascoltando le parole del Sindaco di Riccione Pironi: «la cifra pazzesca verrà reperita sotto l'ombrello del project financing: Abbiamo già ricevuto l'interessamento di imprenditori sauditi e di alcuni fondi d'investimento inglesi e olandesi».

Ma questa colonizzazione del mare italiano è italiana? È saudita? O è inglese ed olandese? Ergo, chi ne beneficerà?

Tanto per rammentare cosa nascondano certe operazioni, e vista l’analogia, ricordo che lo scorso 13 gennaio, il Corriere della Sera aveva pubblicato un articolo molto interessante che titolava: “la frenesia cinese da grattacielo è sintomo del crac in arrivo – studio inglese: le bancarotte precedute dai boom edilizi”.

Qualcuno potrebbe sminuire quell’articolo attribuendolo a Cassandra – sebbene le argomentazioni risultino inconfutabili – quindi torna utile riferirci ad un caso conclamato: il clamoroso crac tailandese del 1997 generato dalla realizzazione di opere ipertrofiche che avrebbero dovuto “modernizzare” quel Paese.

Qualche anno fa infatti, mentre si stava pensando di realizzare in quel Paese opere similari, venne pubblicata, come monito agli smemorati, questa vignetta satirica rappresentante il Sathorn Unique Tower, edificio-fallimentare simbolo della presunta modernizzazione.
Detto ciò, si ritiene del tutto superfluo rammentare a questi signori i numeri del fallimento commerciale (e ambientale) del modello cui si sono ispirati: Dubai!

C’è un ultimo punto da tenere in considerazione, punto che forse è all’origine dell’iniziativa: l’ASSENZA DI UNA NORMATIVA SPECIFICA SULL’ARGOMENTO … una vera furbata!!

Luca Emanueli, il progettista dell’iniziativa, nonché direttore del Centro di Ricerca sui Sistemi Costieri presso il Dipartimento di Architettura dell'Università di Ferrara, ha infatti candidamente affermato che per questa estensione territoriale, trattandosi di un progetto senza precedenti, si sono dovute esplorare nuove strade sotto il profilo urbanistico e legislativo …
Come dire, per evitare ogni possibile ostacolo normativo a tutela del paesaggio, ed evitare le rotture di quei rompiscatole degli ambientalisti italiani, creiamo un caso che nessuno potrà mai bloccare in nessun tribunale!

I colonizzatori stranieri ringrazieranno doppiamente: un pezzo d’Italia servitogli su di un piatto d’argento, con la possibilità di arricchirsi, nel nostro territorio, togliendo clienti al turismo della riviera romagnola!

Già possiamo immaginare la campagna pubblicitaria degli alberghi stranieri sull’atollo: vi offriamo gli stessi divertimenti della riviera romagnola, ma il nostro mare è più pulito e senza alghe!

Il simpaticissimo signor Amatori ride e ci dice che, almeno «per ora non c'è traccia di comitati anti-atollo … Ma forse perché il progetto non è ancora ufficiale!»

Che dire, davvero uno splendido esempio di attaccamento alla propria terra … e al proprio mare!

Romagnoli, svegliatevi, prima che i vostri alberghi si svuotino a beneficio dei coloni, difendete il vostro mare … che è anche il nostro!


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23 dicembre 2012

BUON NATALE A.....

A tutti i lettori di questo blog
a chi commenta
a chi non commenta per motivi suoi
a chi manda contributi
a chi non li manda perchè non li vuole mandare
a chi è d'accordo con me
a chi non è d'accordo con me e lo dichiara
a chi  non è d'accordo e se ne frega di dichiararlo
ai modernisti educati
ai modernisti moderatamente educati
anche a quelli maleducati perchè a Natale bisogna essere buoni
agli architetti che vivono un brutto momento
a molti dei quali augurerei di passarlo in tempi normali ma non in questo
ai giovani architetti per legge naturale presuntuosi
ai giovani architetti presuntuosi a causa dei loro Maestri
a tutti gli amici
ai miei familiari praticamente ignari dell'esistenza di questo blog
Auguro Buon Natale
Pietro Pagliardini

Andrea della Robbia: Natività - Basilica di San Francesco- La Verna, Chiusi della Verna  (AR)


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19 dicembre 2012

SULLA PRESUNTA "RIQUALIFICAZIONE ARCHITETTONICA E ARTISTICA"- PIAZZA VERDI A LA SPEZIA

Sulla presunta "Riqualificazione Architettonica e Artistica" Piazza Verdi a La Spezia
di
Ettore Maria Mazzola



Premessa

Nello sconfinato patrimonio artistico italiano non v’è manifestazione artistica che non risulti passata in rassegna. Dalle opere rupestri dei popoli preistorici a quelle delle popolazioni italiche preromane, dall’impressionante mole di opere lasciateci dai romani fino alle manifestazioni futuriste, il nostro Paese vanta un patrimonio che nessun altro luogo del pianeta può avvicinare!

… Ciò nonostante, un certo genere di artisti e architetti suppone che il nostro patrimonio necessiti di una riqualificazione!

Il motivo di questa supposizione risiede nel disastro accademico post bellico che, specie a partire dai primissimi anni ’60, ha portato l’insegnamento a divenire profondamente ideologico … nonostante le promesse libertarie, ergo profondamente ignorante. Ecco quindi che la storia, laddove sia stata insegnata, risulta esser stata vergognosamente manipolata a tutto vantaggio di una presunta élite colta che ha gradualmente acquistato un potere infinito in materia decisionale. In questo contesto, la gente comune è dunque stata costretta a subire ciò che quell’élite le imponeva dall’alto (o dal basso … fate un po’ voi) delle proprie conoscenze!

Tutto ciò ha gradualmente generato tre categorie di persone: 1) coloro i quali restano spaesati ma accettano passivamente; 2) coloro i quali – per snobismo – per non sentirsi estromessi da quell’élite, fingono di comprendere ciò che non ha alcun significato; 3) quelli che si ribellano a questi soprusi unendosi in comitati di quartiere, e/o in associazioni a difesa del patrimonio artistico e ambientale, scendendo in piazza per manifestare contro le violenze che si intendono infliggere al territorio.

Rendering del progetto per Piazza Verdi a La Spezia. Artista: Daniel Buren _ Architetti: Arch. Giannantonio Vannetti (Capogruppo) con Arch. Christian Baglioni, Arch. Elena Ciappi, Arch. Claudio Dini, Arch. Franca Cecilia Franchi. Collaboratore: Emiliano Lascialfari

Volendo dare una definizione a queste tre categorie potremmo definire la prima quella degli abulici i quali – con il loro immobilismo – consentono all’élite di fare i propri sporchi interessi; la seconda categoria è invece quella degli intellettualoidi che fingono di intendere ciò che non ha alcun significato; l’ultima è invece quella degli intellettualii quali, per ovvie ragioni culturali, rifiutano che una presunta élite, arrogante ed ignorante, possa sfregiare a proprio piacimento il patrimonio.

C’è da dire che molti architetti, specie quelli più giovani, agisce in totale buona fede! Essi infatti, si sono formati in Facoltà Universitarie dove l’omogeneità dei corsi ha praticato una sorta di lobotomia che impedisce loro di poter divergere dalla “cultura egemone”.

Per meglio comprendere il significato di questo concetto è utile, per analogia, rileggere un breve passaggio della lettera scritta nel 1885 da Giulio Magni a Raimondo D’Aronco: «[…] colui che deve lavorare si trova nel bivio difficilissimo se cioè fare come la ragione lo guida o come il generalizzato sentimento gli impone […] affrontare l’impopolarità è certo un eroismo e chi si sente forte nella battaglia da combattere, scenda in campo con quel coraggio che dà la sicurezza della vittoria. E noi giovani che coltiviamo questo ideale nella nostra mente, dobbiamo difenderlo e sostenerlo con tutte le nostre forze, studiando alacremente con la ferrea volontà di riuscire!»

… Peccato quindi che i giovani di oggi non abbiano alcuna voglia di combattere. A differenza dei tempi di Magni e D’Aronco infatti, la nostra società è permeata dal consumismo a tutti i livelli, sicché anche l’arte e l’architettura vengono intenzionalmente confusi con manufatti usa e getta che non richiedono alcuno sforzo intellettuale (anche se poi ci si costruisce intorno una spiegazione, pseudo-intellettuale, atta a far credere che sia bella e sostenibile un’opera orrenda e insostenibile). Niente regole, siamo artisti contemporanei! Se non ci capite non è colpa nostra … siete ignoranti!

In un clima del genere, va da sé che chi ami confrontarsi con le regole classiche e col rispetto dei luoghi dia fastidio e debba essere condannato al silenzio per evitare che la gente comune possa fare un confronto. Ma la gente comune è stufa di queste battaglie ideologiche!

L’intervento di La Spezia

La Spezia può, senza ombra di dubbio, definirsi una capitale dell’Italia Liberty e Decò, una splendida realtà dove gli ultimi grandi episodi dell’arte e dell’architettura che possano annoverarsi nei libri di storia hanno generato un incantevole unicum italiano. In questo unicum sorge anche la Piazza Verdi, un luogo che, a causa delle trasformazioni del 1933, risulta difficile poter ancora definire “piazza”. Tuttavia, data la forza del carattere, unitario ma non uniforme, degli edifici che la definiscono, è senz’altro un luogo che possiamo ritenere abbondantemente “qualificato”.

Di qui lo stupore, e la rabbia, dei tanti cittadini spezzini che hanno appreso della prossima realizzazione di un intervento di "Riqualificazione Architettonica e Artistica".

L’ipocrisia delle parole che hanno accompagnato il progetto, parole che meritano di essere discusse con la cittadinanza per comprenderne la veridicità, non ha fatto altro che ingigantire il senso di rifiuto da parte della cittadinanza rispetto a quest’opera inutile quanto brutta.

Sebbene nel testo si parli di “ridurre drasticamente il carico del traffico veicolare urbano” (unico argomento condivisibile), guardando il progetto si comprende che la “piazza” verrebbe a configurarsi come una lunga isola delimitata dal traffico veicolare: quantunque si possa supporre una limitazione al solo transito del trasporto pubblico, ci si troverebbe comunque davanti ad un’esplanade più che a una piazza, che non presenta alcuna protezione totale dai veicoli su almeno uno dei suoi lati; una spianata che non presenta alcun senso di contenimento dello spazio stesso, ovvero priva del senso ultimo della piazza italiana. Il progetto, più che ad una piazza italiana è assimilabile a quegli orribili spazi sconfinati che gli americani chiamano “plaza”.

La Spezia - due immagini storiche che ritraggono il Teatro Politeama di Pontremoli demolito nel 1933 quando fu realizzato l’edificio postale di Mazzoni. Il teatro, facendo da sfondo all’asse di via Chiodo, creava uno spazio concluso che definiva la piazza

Prima della demolizione del Politeama, teatro che faceva da fondale a via Chiodo, e nonostante le dimensioni della strada, lo spazio veniva a configurarsi come una piazza ottocentesca italiana, risultando perfettamente coerente con l’urbanistica e l’architettura del periodo. Perché quindi ignorare aprioristicamente il passato?

I progettisti, piuttosto che trincerarsi nella loro visione, personale e distorta, della modernità, e affermare di voler dare a quel luogo una “definizione di ordine spaziale non monumentale ma ludica”, oppure di sottolineare che “nella nuova immagine del progetto non vi è nostalgia del passato ma fiducia nel tempo che avanza rinnovandosi”, avrebbero potuto riflettere sul codice genetico delle piazze italiane … il che non equivale ad essere nostalgici del passato – se mai questo fosse un problema – ma realizzare uno spazio decoroso per quel luogo e riconoscibile come piazza!

La piazza dovrebbe essere un luogo accogliente e protetto, un luogo coerente con l’intorno, dove viene ad instaurarsi un rapporto privilegiato di relazione tra lo spazio aperto e uno o più edifici emergenti lungo il suo perimetro.

La decisione di non rispettare l’ordine spaziale esistente, creandone uno nuovo “ludico” (ove 14 discutibili portali verdi e rossi – all’interno dei quali ci saranno dei nebulizzatori d’acqua – e vasche allagate intransitabili se non con sistemi di guado), trasformerà questo simbolico luogo spezzino in un pessimo esempio di kitsch, degno dei peggiori outlet che infestano l’Italia … e menomale che i progettisti avevano voluto ribadire di non voler scadere nella falsificazione storica e nella “nostalgia”! Ma cos’è più falso?

Piuttosto che temere di essere “nostalgici”, i progettisti avrebbero potuto immaginare come rendere maggiormente fruibile e sicuro lo spazio pedonale, magari limitando lo stesso volume di traffico veicolare che intendono mantenere lungo il lato mare, proteggendo quindi la piazza lungo il lato dell’ufficio postale mazzoniano; soprattutto, se avessero studiato meglio lo spazio dotato di fondale prima del 1933, avrebbero potuto trovare l’ispirazione (non nostalgica) per comprendere come oggi risulti indispensabile frazionare quello spazio a monte e a valle, creando degli episodi costruiti che facciano da quinta scenica – ovviamente aperta per mantenere l’importanza dell’asse strutturante di via Chiodo/via Vittorio Veneto – alle tre piazze, delimitate dalle vie Niccolò Tommaseo, Pietro Micca e XX Settembre, tre piazze che risulterebbero relazionate agli edifici prospettanti su di esse.

La verità è che, nella totale incapacità di dialogare con il passato, certi progettisti preferiscono intraprendere delle battaglie – perse in partenza, agli occhi della stragrande maggioranza della gente – nelle quali giustificano, in maniera poco credibile, delle opere fini a se stesse come opere di “riqualificazione”. Nel caso in oggetto, la giustificazione vedrebbe La Spezia come “la rappresentazione di una profonda aspirazione alla modernità” … Ma la modernità è ben altra cosa che non il modernismo! … non è che questa aspirazione risulti solo appannaggio dei progettisti?

Nell’infinita serie di punti discutibili di questo progetto, c’è la scelta di coinvolgere Daniel Buren, un “artista” già resosi responsabile di numerosi scempi in giro per il mondo, primo tra tutti l’abominevole serie di rocchi di colonne scanalate bianche e nere, disposti nel cortile d’onore del Palais Royale di Parigi, un’opera orrenda che nessun parigino sano di mente ha mai compreso, né amato; una sorta di pista con paracarri per svolgere una gimkana con i go-kart all’interno di un luogo splendido della Ville Lumière. … Ma che in Italia non avevamo artisti disponibili?
Parigi – Il cortile d’onore del Palais Royale ormai inutilizzabile grazie all’orribile e costosa installazione di Daniel Buren

In pratica, come già accaduto per il Palais Royale, l’operato di questo artista, coadiuvato dagli esterofili progettisti nostrani, porterà Piazza Verdi a non essere più fruibile dagli esseri umani, perché ridotta ad una spianata utile solo alla mostra dei 14 portali – 7 prima e 7 dopo la “piazza scavata” davanti all’edificio postale.

Nella Piazza, i progettisti dicono di voler realizzare una “interpretazione dell’assenza come segno morbido scavato per un teatro centrale” … è arduo comprendere il senso di questa frase, ma è facilissimo capire due cose: 1) i progettisti non conoscono la differenza tra un teatro e un anfiteatro, visto che quello che propongono è un ambiente rettangolare gradonato su tutto il perimetro, ovvero non assimilabile né al primo, né al secondo, e che semmai potrebbe avvicinarsi all’idea di quest’ultimo; 2) un disabile non potrà mai più pensare di potersi avvicinare al centro dell’ambiente, a meno cha non intenda sfracellarsi cadendo dalle gradonate!

… Ma una “piazza” non dovrebbe essere accessibile a tutti?? … E dire che i progettisti hanno perfino affermato che “nel nostro progetto l’arte è intesa come utile, cioè non come pura immagine ma come strumento di realizzazione di spazi fruibili e contemporanei in grado di creare nuove percezioni e riconnessioni ambientali”.

Peccato che il progetto risulti esattamente l’opposto delle loro stesse parole! Ma, si sa, tra i progettisti autoreferenziali non c’è alcun bisogno che tra le parole e i fatti esista una corrispondenza, l’essenziale è poter dire di aver detto certe cose. Del resto loro, in quanto appartenenti all’élite colta, sono i depositari del motto cogito ergo sum, tutti gli altri devono solo assistere al loro essere!

Sempre in materia di mistificazione della realtà, un’ultima annotazione risulta indispensabile. Sebbene infatti sarebbe utile far notare l’assurda affermazione che vedrebbe la nuova Piazza Verdi possedere una “scala tagliata sull’uomo, i cui intenti sono quelli di ricreare un luogo stimolante e di cui riappropriarsi per l’abitare”, è preferibile soffermarci sull’assurda ed ipocrita sostenibilità del progetto.

Nel capitolo intitolato “Comfort Ambientale E Sostenibilità” i progettisti affermano: “Non si dà un progetto di uso se non si realizza allo stesso tempo un livello adeguato di comfort ambientale. L’uso degli elementi naturali: tappeti erbosi, specchi d’acqua e nuove alberature per l’aumento dell’ombreggiatura, contribuiscono al miglioramento del microclima estivo locale secondo i principi della bioclimatica applicata agli spazi esterni. Altri criteri di sostenibilità applicabili sono: - il risparmio idrico attraverso l’uso delle superfici pavimentate per la raccolta e il riuso delle acque piovane per le fontane e l’irrigazione del verde; - l’uso di materiali naturali e locali per le pavimentazioni; - il controllo dell’inquinamento luminoso e l’uso di fonti a basso consumo (led incassati nel pavimento); - progetto sonoro e riduzione dell’inquinamento acustico; - uso di tecniche attive per il raffrescamento estivo (nebulizzatori inseriti nel percorso d’arte)” … Tutto qui? Un po’ pochino per definire il progetto sostenibile!

Come potete comprendere, anche in questo caso, non v’è alcun motivo per cui tra le parole e i fatti debba esserci alcuna corrispondenza … del resto quello della “sostenibilità” è l’argomento più abusato tra i progettisti di oggi. Per un “depositario del verbo” (l’architetto dell’élite colta), ovvero uno abilitato a dire le cose in quanto appartenente alla categoria di “quelli che sanno”, basta usare un termine per farsi bello e fingersi rispettoso. Quando il tempo dimostrerà il fallimento del progetto sotto tutti i profili, come abbiamo visto con altre progettazioni ideologiche in giro per il Paese, la responsabilità non sarà mai del progettista, ma di chi ha realizzato l’opera, oppure degli abitanti ignoranti che non ne comprendono il significato, oppure dell’Italia più in generale!

Ciò di cui non ci si capacita è l’atteggiamento della classe politica … sull’ottusità intellettualoide delle Soprintendenze che danneggiano il patrimonio storico consentendo e incentivando le cosiddette “contaminazioni” siamo ormai rassegnati.

C’è da chiedersi infatti come possa un sindaco, che dovrebbe mirare al più ampio consenso di pubblico, consentire che una sparuta minoranza di persone, senza alcuna cultura ed amore per la città da lui amministrata, possa violentarla a proprio piacimento strafregandosene del malcontento generale.

Eppure anche in Italia, finalmente, sarebbe necessario che per i progetti urbanistici venisse adottato il processo partecipativo con la cittadinanza tutta: dov’è quindi il rispetto della vox populi nel caso di Piazza Verdi?

E non si venga a dire che c’è stata una regolare commissione che ha aggiudicato il vincitore di un concorso, perché i concorsi, chi fa questo mestiere lo sa bene, sono una truffa-culturale gestita dalla presunta élite colta che se li fa e se li canta in nome dell’ideologia egemone.

Oggi come oggi la gente è stufa dei soprusi di questa casta! Se si vuol dare credibilità e consenso ad un progetto del genere, che si faccia una esposizione pubblica di ogni genere di progetto per quel luogo, creando una commissione esaminatrice che rappresenti le volontà popolari, e non solo e soltanto quelle degli architetti e artisti (o presunti tali) … solo allora si potrà vedere chi risulterà il reale vincitore! È sarà con grande sorpresa di tutti scoprire che nessun comitato anti-progetto nascerà più dal nulla.

Italia Nostra, facendosi portavoce del malcontento tra gli spezzini, ha scritto al sindaco invitandolo a comprendere le ragioni del movimento anti-progetto, l’augurio è che il Primo Cittadino si ricordi di essere il Sindaco di tutti i cittadini.

Speriamo quindi che il Sindaco faccia sapere ai suoi cittadini a quale delle tre categorie elencate precedente ritiene di appartenere: Signor Sindaco, Lei è un abulico, un intellettualoide, o un intellettuale?

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9 dicembre 2012

MARIO FAZIO: PASSATO E FUTURO DELLE CITTA'

Il processo di trasformazione del Bel Paese è avvenuto e sta avvenendo in modo sostanzialmente autoritario. Architetti, ingegneri, geometri, progettano su ordinazione di amministratori pubblici e di privati proprietari di aree da sfruttare; i progetti vengono approvati in stanze più o meno segrete. Al cittadino, considerato un “utente” al quale non si devono troppe spiegazioni, non resta che brontolare. Ma la colpa è anche sua se accetta che le decisioni restino nelle mani di pochi.
Dal canto loro gli amministratori comunali non sembrano avvertire il dovere di illustrare piani e progetti in modo documentato e comprensibile, per stimolare la partecipazione democratica (sottolineo l’uso della parola, contro le tentazioni della deriva rinunciataria).

L’esposizione al pubblico di un piano regolatore è una presa in giro: tavole costellate di segni enigmatici, zone a colori diversi. Spesso l’interesse si riduce ad accertare se il proprio terreno sarà edificabile. Manca inoltre nella stragrande maggioranza dei cittadini la conoscenza della storia della città, indispensabile per valutare il rapporto delle nuove costruzioni con quelle del passato. Quanto alle architetture, alle scelte delle forme, il cittadino si sente disarmato e intimidito.


Eppure strutture e forme urbane sono gli stampi in cui si solidificano le vite degli uomini. La città brutta e disgregata è incubatrice di violenza, di conflitti, di sofferenze non valutabili soltanto dal traffico caotico e dagli inquinamenti. La collettività paga prezzi altissimi per il naufragio urbanistico.

Il circuito “autoreferenziale

Sull’architettura contemporanea si è diffusa un’opinione così negativa da provocare una  crescente rivalutazione del passato. Non perché il moderno sia considerato un disvalore in assoluto ma perché i valori della modernità restano soffocati quando gli edifici non riescono a comunicare, quando non rispondono alle esigenze umane.Però gli architetti e i critici di professione ne parlano quasi esclusivamente all’interno di un circuito chiuso. Quello delle riviste, delle mostre, delle Università, dei saggi che in certi casi sembrano “elucubrazioni di architettura verbale” come diceva Giancarlo De Carlo vent’anni fa denunciando il distacco dell’architettura dalla dimensione umana e affermando l’esigenza di “renderla comprensibile, utilizzabile da tutti per generare gioia e identità”.

Gli architetti di fama e quelli che inseguono la fama progettano pensando ai critici e i critici scrivono per gli architetti, usando il linguaggio della critica artistica, come se il progetto di un nuovo quartiere fosse una composizione astratta da appendere a una parete oppure il tema di un gioco intellettualistico. Ma nell’architettura destinata a durare generazioni, condizionando la vita di milioni di esseri umani, l’autore non può appagarsi di concetti e di poetiche personali, imponendo agli “utenti” senza voce stilemi canonizzati con la benedizione di critici e cattedratici. Tangentopoli e l’abusivismo non sono al’origine di ogni male urbano: pesano anche le responsabilità di chi progettava e di chi insegnava a progettare. Soltanto il 4% del costruito porterebbe la firma di un architetto. Il 96% sarebbe dovuto ad altri, prevalentemente geometri. Ma le grandi opere, i quartieri mostruosi, furono progettati da architetti. E per disegnare villette e palazzine i geometri hanno avuto maestri gli architetti, nelle scuole come nella professione.


Questo brano è tratta da Mario Fazio, Passato e futuro della città, Einaudi.
Un libro del 2000 di Fazio, giornalista de La Stampa, scomparso nel 2004. Un libro acquistato ieri al prezzo di L.24.000. Si, ancora c'è stampato il vecchio conio, segno che non vi sono state ristampe dall'introduzione dell'euro. Non ne conosco le ragioni, ma potrei immaginare che l'essere stato Fazio Presidente di Italia Nostra abbia costituito un freno all'acquisto da parte di coloro che vedono questa associazione come un elemento di conservazione. Il libro è invece di qualità, scritto da un giornalista molto documentato che certamente risente, in positivo, della sua esperienza in Italia Nostra e che si pone rispetto al problema città con un atteggiamento molto più avanzato e con maggiore sensibilità di quanto non sappiano fare molti urbanisti e architetti. Si pone il problema del livello decisionale dei cittadini sulle scelte urbane e denuncia l'autoreferenzialità della cultura urbanistica e della casta accademica. Lui stesso fa un richiamo al Tom Wolfe di Maledetti Architetti, ma riferendosi più alla città che all'architettura.
Denuncia il circuito vizioso architetti-critica-Università, anche se a distanza di 12 anni questo si è spostato dal mondo delle riviste, ormai marginali, alla rete, in nulla però cambiando il metodo, semmai essendo peggiorato.
C'è una parte, che ancora non ho letto, espressamente dedicata alle stelle dell'architettura e al fenomeno, ormai sgonfiato, del così detto "effetto Bilbao".

C'è poi la previsione di una città trasformata dal mondo digitale e da Internet, con alcune previsioni azzeccate ed altre meno, in cui si intravvedono i primi germi della smart city, il nuovo fenomeno che si annuncia come una nuova illusione di risoluzione dei problemi urbani.

Propongo alcuni brani di questa "profezia", tenendo conto conto che 12 anni in questo campo sono un secolo e che facebook, ad esempio, è nato nel 2004:

Se la città del “Capitalism rampant” è preoccupante, quello della “città dei bit” non è oggetto di pura curiosità. La rivoluzione elettronica porterà cambiamenti epocali nel modo di lavorare, di comunicare, di abitare, come nei comportamenti sociali. I seguaci della nuova fede, fondata sull’avvento di un mondo dominato dalla telematica, profetizzano ambienti digitali, città virtuali, rapporti umani in cui il software prevale sulla fisicità e il dialogo interpersonale avviene via cavo o via satellite. La “bitsfera” e il “cyberspazio” si sovrappongono alla biosfera e ai paesaggi naturali. L’area informatica cambierà la geografia; sarà sempre meno importante trovarsi in un dato luogo alla data ora. Sarà possibile persino la trasmissione dello spazio steso, secondo i profeti dell’era elettronica.
Non ci saranno più le code per raggiungere il posto di lavoro, essi dicono, perché si lavorerà a casa di fronte a un computer. I siti Internet sostituiranno le piazze, i caffè, i punti di ritrovo. Non si andrà più a scuola, a teatro, in chiesa, in banca, al mercato: tutto a casa con rappresentazioni virtuali non affidate alle sole immagini sullo schermo ma anche a sensazioni trasmesse al cervello da impulsi comandati da un tasto……
Le case dovranno essere ristrutturate, per dotare ogni abitante di una piccola nicchia elettronica da cui fare la spesa, seguire le lezioni, lavorare nell’ufficio virtuale, farsi curare con la telemedicina, nuotare nel mare scelto premendo un tasto. E si potrebbe continuare.

Gli stessi profeti ella nuova era si domandano quali siano i fini della rivoluzione annunciata, quali i pericoli per la società civile e l’umanità intera, chi potrebbe e chi dovrebbe controllare il tutto. Quel che sta avvenendo con la diffusione di Internet preoccupa non soltanto i pantofolai e e i moralisti d’occasione. La perdita di funzioni della città, sostituiti da luoghi virtuali, è una minaccia gravissima per le civiltà maturate nei secoli all’interno degli organismi urbani. Non meno grave del pericolo di un “ordine mondiale” a carattere tecnologico. Il presidente della Ecole Spéciale d’Architecture di Parigi, Paul Virilio, intravvede questo ordine mondiale nelle forme di un “nuovo fascismo tecnico e futurista che alla democrazia reale, fondata sull’incontro di individui nell’agorà (piazza, teatro, stadio ecc) sostituisce la democrazia virtuale staccata dalla presenza umana. La democrazia automatica, fatta di tecnica e di pura immagine, con sbocco totalitario”. Come negli incubi di Orwell….
Ancora Paul Virilio, intelligentemente, invita a organizzare la resistenza non perché contrario alle nuove tecnologie ma perché contrario alla virtualizzazione totale che renderebbe irreali le persone, le città, l’eredità storica, con la conseguente morte della cultura e della società. Un mondo privo di specificità locali dove tutto diventa noto in forma virtuale, ridurrebbe l’esistente a oggetto di contemplazione sullo schermo; il patrimonio culturale verrebbe condensato in un catalogo elettronico e omogeneizzato come i cibi della catena MacDonalds.

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29 novembre 2012

VISITA AL MAXXI: FALCOR CONTRO IL NULLA

di Pietro Pagliardini

Oggi ho visitato il MAXXI di Roma. La visita non era finalizzata al Tempio in se stesso, che era solo il contenitore in cui si svolgeva un convegno sulla nostra professione. Certo, pensare che la sede in cui si discute di crisi, parola diventata ormai sinonimo di professione, è costata se non ricordo male 120 milioni di euro, 12.000 euro a metro quadro, senza “opere d’arte”, suona a dir poco grottesco se non sinistro.
Arriviamo in taxi sotto un mezzo nubifragio. Non vedo l’edificio all'esterno, ne intravedo solo la sagoma.
Di corsa verso l’ingresso, accolti da una installazione di paglia o rafia marroncina, di gusto Malindi, che per forma e pendagli mi evoca Falcor, quell’essere parlante e volante del film “La storia infinita”. Non posso non osservare, per ovvi motivi meteorologici, che quella sembrerebbe una sorta di provvisoria (?) pensilina di ingresso la quale però non para quando piove e rilascia acqua quando non piove (verificato successivamente) e, con tutti quei volumi aerei che costituirebbero se non altro un buon riparo, proprio sopra l’ingresso c’è sadicamente un ampio vuoto che lo espone alle intemperie. Entriamo con gli ombrelli praticamente aperti. Mi rendo conto dopo che, senza Falcor, al solito l’ingresso non è troppo diverso dalle altre vetrate vicine. Guai a prevedere un minimo di gerarchia che non necessiti di altri segni per capire quale sia il volto dell’edificio.


La sveglia anticipata e il viaggio in treno, breve sulla carta, ma in ritardo, fa saltare i miei bioritmi e, grazie anche alla burrasca, non sono particolarmente vigile. Vedo che l’ambiente è bianco e grigio chiaro, qualche strisciata nera. La percezione dello spazio mi lascia totalmente indifferente.

Andiamo alla registrazione, un’isola bianca collocata opportunamente davanti all’ingresso (è già qualcosa). Il banco è curvilineo con contorsioni varie, forme arrotondate replicanti di un’altra installazione della Hadid che ha girato diverse città tra cui la mia. Il gioco delle curve è noiosamente lo stesso, cambia il materiale. Seguo l’indicazione del guardaroba e qui è tutto bianco-ospedale. Il banco di consegna ha il piano orizzontale che si inclina verso il pubblico e si arrotonda; penso: anti-infortunistico? Ne ricavo una sensazione alquanto sgradevole e spiazzante perché a casa mia, come in quella di molti altri, i piani dei tavoli sono orizzontali. Dal guardaroba, correttamente, si accede direttamente alla toilette. E' una toilette come un’altra, cosa vuoi aspettarti da una toilette, ma nel box wc c’è la genialatina: il wc è in acciaio ma con le forme di un vaso Richard-Ginori anni ’50. Mi intristisce un po’, anche se svolge la sua funzione come un qualsiasi altro vaso. C’è utilitas e forse firmitas ma manca decisamente di venustas.

Espletati tutti i consueti e necessari adempimenti, in attesa dell’inizio del convegno, torno nella hall. E’ lì ad un passo e comincio ad osservare. La lettura dello spazio è abbastanza semplice, nonostante gli arzigogoli delle scale e della copertura. Mi meraviglio del fatto che, in uno spazio dominato dalla ricerca di una esagerata e impudica fluidità, vi sia una certa corrispondenza tra le immagini viste a iosa e la realtà e manchi del tutto l’emozione della scoperta.
Ma non era Bruno Zevi a dire che la complessità dello spazio si può valutare solo nella terza e quarta dimensione, cioè entrandoci e scorrendoci dentro con il corpo, e la rappresentazione grafica e fotografica è solo un simulacro dello spazio reale? E su questo ci ha costruito tutta una retorica spaziale basata su aspetti di carattere sostanzialmente letterario, senza cioè una vera sostanza, quale la interazione tra spazio e uomo, ma che ha prodotto fiumi di architettura scombiccherata e priva di ogni codice condiviso che non sia l’assoluta libertà di farla come a ognuno pare meglio. Talchè ognuno potesse sentirsi artista. Ecco, in questo caso mi sembra che sia esattamente il contrario: l’originale è quasi deludente rispetto alle fotografie e le aspettative sono superiori alla realtà. Il che è tutto dire.

La sensazione prevalente è di indifferenza, interrotta solo dal fatto che, tutto sommato, lo spazio mi appare angusto, specie volgendo lo sguardo verso l’alto. Il ricordo corre a ben altra fluidità, quella del Guggenheim di New York, e all’emozione provata osservando a naso all’insù verso la cupola, con la spirale che scorre continua verso quella. Quella doppia fila di scale e ballatoi invece, ancorchè poste ad un’altezza ragguardevole - fatto constatabile dall’unica unità di misura possibile, cioè i visitatori - mi appaiono insignificanti, aldilà delle varie trovate delle scale con trave-parapetto nero e le luci sotto i pianerottoli.

La parete in cemento armato faccia a vista di fronte all’ingresso che fa da sfondo all’isola della reception è, tanto per cambiare, sinuosa, ma credo che le curve avrebbero potuto essere anche diverse senza per questo cambiare molto. Nel complesso mi sembra tutto molto manierista e stucchevole in questa ossessiva ricerca del curvo, del fluido, del continuum, unita al minimalismo dei colori e dei pochi arredi, che si risolve, almeno nella hall - solo quella io ho vista - in uno spazio allungato con giustapposte scale contorte. Messa in scena di gratuiti virtuosismi privi di qualità.

Entro nella sala convegni semi-illuminata. Qui non ci sono trovate particolari ed anzi le pareti laterali che convergono sulla parete di fondo, finalmente piana, lo fanno con una curva di raccordo che ben serve a convogliare l’attenzione verso il palco. Le sedute sono di ottimo design ed hanno la spalliera continua, quasi senza soluzione di continuità tra una seduta e l’altra. Solo sedendo ci si rende subito conto che il design rigoroso le rende scomode perchè l’angolo tra seduta e spalliera è quasi ortogonale. Ironia dell sorte, manca una curva proprio dove serve: all'altezza lombare.

Non ho visitato nient’altro perché il convegno è andato oltre il tempo previsto e il treno e lo sciopero incombente non aspettavano di assecondare le nostre curiosità, che peraltro non erano esagerate.
All’’uscita, finita la pioggia battente, noto che per terra, davanti a Falcor, c’è un cartello che credevo indicasse titolo e nome dell’autore; invece c’è scritto “Si prega di non salire sull’opera e di non fumare nell’area circostante”. Per l’appunto avevo la sigaretta accesa e avevo appena detto al mio collega che avrebbe potuto prendere fuoco facilmente. Ma di certo non mi sarebbe venuto in mente di salirci.

A parte questo dettaglio incendiario, mi hanno lasciato interdetto quelle file di pilastrini in acciaio, con una di esse rigorosamente inclinata come da copione, che tanto pilastrini poi non sono, in quanto di diametro non inferiore a quaranta centimetri, ma che appaiono del tutto esili e inadeguati in rapporto alla incombente massa di scatole allungate in cemento armato che sostengono. Non c’è ironia ma non c’è nemmeno alcun rapporto tra elementi verticali e orizzontali; c’è una insignificante e scorretta relazione che dichiara con tutta evidenza l'abisso che esiste tra un plastico, o un’immagine realizzata con software parametrico, e la realtà della costruzione. Quei pilastrini sono una risposta necessaria, ma irrisolta architettonicamente, alla forza di gravità che, ahimè, vale anche per Zaha Hadid.
E’ un’architettura che si vorrebbe svincolata dalla materia, e quindi non sarebbe architettura se l’esperimento fosse riuscito, ma è una brutta architettura proprio perché non è riuscito. Non sono quei pilastrini, gli stessi che sostengono molti volumi della fiera di Rho di Fuksas, il quale è stato molto più abile nell’integrarli in una sorta di navicelle spaziali o mostri d’acciaio,e che comunque ha utilizzato lo stesso linguaggio, almeno nei materiali: acciaio in verticale e acciaio in orizzontale. Essere costretto a sollevare Fuksas per abbassare la Hadid già mi turba, ma lo considero un espediente retorico, un termine di paragone tra due entità della medesima classe, tra due archistar.

Il treno non aspetta e, dopo uno sguardo all’arcinota testa di ET che allunga la sua testa fuori dalla copertura, dobbiamo scappare. Senza rimpianti. Questa architettura da regno del Nulla difficilmente sarà vinta con l’aiuto di un Falcor infiammabile.

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15 novembre 2012

SMART CITIES, CANGIANTI E SFUGGENTI

Pietro Pagliardini

Se ponessimo la domanda: “Cos’è una smart city?” a soggetti diversi, esigendo una risposta sintetica, probabilmente avremmo risposte generiche e sicuramente diverse tra loro in base alla specifica preparazione di ognuno: l’informatico risponderebbe che è l’applicazione della Information technology alla vita di tutti i giorni, l’architetto direbbe che serve a migliorare la fruizione della città, il politico direbbe bla, bla, bla, l’industriale che aumenta la competitività, l’ambientalista che controlla e ottimizza le risorse energetiche e ambientali, e così via.
Pur essendoci dietro questa definizione molta concretezza economica e tecnologica, non si tratta cioè di una dei tanti vuoti ed effimeri slogan della società dell’informazione, tuttavia l’uso indiscriminato e pervasivo che se ne fa rischia di ridurlo a slogan, parola d’ordine e fuorviante, in specie per gli architetti e per le aspettative che in essa potrebbero riporre.
E’ quella parola city a confondere le acque, con il desiderio di riempire di cose diverse lo stesso contenitore. Se la dovessi tradurre in italiano, non direi “città intelligente” ma “società intelligente”, perché di questo effettivamente si tratta, e nell’ambito della società ci sta anche la città. Rientrano nella categoria smart city progetti per la tracciabilità dei cibi, il packaging che faccia risparmiare involucri, la logistica, la domotica, e poi l’informatizzazione scolastica, i controlli in agricoltura e negli incendi boschivi, il monitoraggio e l’ottimizzazione dei consumi energetici, la mobilità urbana, la realtà aumentata, i rapporti tra cittadini e la pubblica amministrazione, il clouding, la sanità, il sostegno agli anziani, e molti altri ancora.



Quanti di questi temi riguardano propriamente la città e di conseguenza architetti e urbanisti? In un certo senso tutti, ma solo per il fatto che ogni attività umana si svolge nello spazio fisico, città o territorio che sia. E forse proprio per questo è stato scelto city, per offrire la concretezza di un luogo fisico a tanta diversità di contenuti. Società è forse termine troppo vasto che si presta ad equivoci di tipo politico-sociologico.

Restando alle tematiche propriamente urbane, il rischio è che si tenda ad attribuire alla smart city proprietà salvifiche che essa non può avere e che gli urbanisti vengano attirati nella sfera più strettamente ingegneristica della ICT (Information & Communication Techcnology) come risolutrice dei mali delle nostre città.
Favorire e semplificare l’accesso al flusso di informazioni da parte dei cittadini è una esigenza importante e non più eludibile. Sono i cittadini stessi a pretenderlo. Prendiamo il caso più noto, quello di Santander, in Spagna, dal Corriere della Sera:

Come si capisce dall’articolo, l’approccio è quello di creare un cervello urbano globale, che tenga sotto controllo in tempo reale qualsiasi evento avvenga, i cui recettori e utilizzatori siano in buona parte i cittadini stessi. Tralasciando le possibili conseguenze negative che potrebbero verificarsi con migliaia di persone che mandano informazioni, molte delle quali è ipotizzabili sbagliate o ridondanti o volutamente false, è chiaro che vi sono due obiettivi: rendere più sicura la vita e più partecipi i cittadini stessi alla vita della loro città.

Ma, e questa è la trappola per gli urbanisti, siamo nel campo del software, del più impalbabile e generico, l’informazione, per cui è necessario sapere se un evento avviene, ne siamo subito informati, ma poco o nulla si può fare per evitare quell’evento, mentre si può fare in modo di attenuarne alcune sue conseguenze negative.
L’informazione insomma, sembra essere un valore in sé, a prescindere. Un po’ come quando si sente in TV: il livello del fiume è salito di 6 metri, ma è sotto controllo. Controllo di che? Se deve esondare esonda. Ma uno sta tranquillo. Informazione anestetica.

Un  esempio sulla città: c’è un ingorgo di traffico, chiunque si organizza per non peggiorare la situazione. Ma il problema è: perché si è creato quell’ingorgo di traffico? Il caso che ci interessa non è l’evento eccezionale, ma quello ordinario, vale a dire una città impostata sugli spostamenti in auto, con poche strade di grande scorrimento che lambiscono zone monofunzionali le quali si riempiono e si svuotano tutte insieme a determinate ore del giorno. E’ un po’ come le piogge di questi giorni che creano inondazioni ed effetti violenti: una urbanizzazione esagerata che ha interrotto i flussi naturali di scorrimento delle acque, incrementati dall’abbandono e dall’incuria dei mille fossi e canali di scolo che distribuiscono le acque in una rete idraulica continua e capillare nel territorio e che, in occasione di precipitazione violente (corrispondenti a quelle ore di punta del traffico urbano), riversa tutta l’acqua in pochi canali che, per quanto capienti, non possono assorbirla tutta. Le auto in un ingorgo si fermano, l’acqua esonda.

Dunque la prima regola, prima del controllo, del monitoraggio e della comunicazione dei dati, consiste nell’essere smart  la città stessa nella sua parte hardware, cioè nella sua configurazione fisica e spaziale. Come la rete idraulica deve essere diffusa e gerarchizzata, così la città deve essere strutturata con una rete di strade gerarchizzate e che offrano il massimo delle alternative possibili, talchè il blocco di una di esse, per qualsiasi evento, sia assorbito senza traumi dalle altre. E qui l’ICT entra in gioco con la sua carica informativa che attenua ulteriormente i danni e gli inconvenienti.

Il rischio insomma è che l’idea di smart city si traduca in un surrogato dell’urbanistica, in una pezza a pessime città, e faccia, ancora una volta, allontanare l’obiettivo primario, cioè la sua forma. Architetti e urbanisti dovrebbero forse concentrarsi sulla città e lasciare il software ad altri, utilizzandolo semmai al pari della tecnologia che si utilizza negli edifici, senza per questo impostare gli edifici in funzione della tecnologia stessa o, peggio, progettare edifici  il cui unico valore sia quello tecnologico: la domatica può aiutare in casa, ma è destinata a rapida obsolescenza, mentre la casa resta e deve essere progettata per durare più a lungo possibile. E se qualcuno pensa il contrario, non si azzardi più a pronunciare la parola sostenibilità



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