Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


7 novembre 2010

PERCHE' IL CROLLO DI POMPEI

Dopo il crollo di Pompei, un giustamente indignato Presidente della Repubblica ha chiesto spiegazioni urgenti: «Quello che è accaduto a Pompei dobbiamo, tutti, sentirlo come una vergogna per l'Italia» ha dichiarato il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, commentando il crollo nell'area archeologica. «E chi ha da dare delle spiegazioni - ha aggiunto - non si sottragga al dovere di darle al più presto e senza ipocrisie». (dal Corriere della Sera).

Il professore E.M. Mazzola ha mandato a me e ad altri questa mail che spiega le autentiche e non contingenti ragioni del crollo, ed io la posto perché possa contribuire a fare un po' di chiarezza. Il Presidente non la leggerà certamente, ma se per una fortuita e insondabile casualità anche parte del suo contenuto potesse giungergli in qualche modo, sarebbe un bel contributo di chiarezza, dopo le banalità del teatrino della politica e delle soprintendenze lette sui giornali di oggi e di ieri.

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Carissimi,
non vi nascondo che mi sento triste come se stessi scrivendo un messaggio di condoglianze.
Dopo il crollo della chiesa delle Anime Sante di L'Aquila, speravo che fosse chiaro oramai a tutti che il cemento armato non va d'accordo con le murature antiche ... sembrava che lo avevessero capito anche le soprintendenze. Nessuno ha mai smentito ciò che ebbi modo di scrivere 3 giorni dopo il sisma abruzzese.
Oggi siamo qui a dibattere se scrivere e come ... ma non vorrei che alla fine si scrivesse qualcosa che faccia sembrare che sia stato fatto solo per rivendicare il nome del "Gruppo Salìngaros" piuttosto che per rimpiangere un bene inestimabile che è andato perduto "grazie" all'ignoranza umana.
Abbiamo persone che ci amministrano, le quali preferiscono investire i nostri soldi per costruire il Maxxi (120.000.000 di Euro) e comprare una collezione di "opere d'arte" (60.000.000 di Euro) per dare un senso al "museo" di Zaha, pur sapendo che i nostri soldi dovremmo investirli per tutelare i monumenti che dovrebbero darci da campare con il turismo.

E' venuto giù l'intonaco di una volta del Colosseo ed abbiamo scoperto che non avevamo i soldi per fare i lavori necessari ... anche "grazie" allo spreco di denaro per costruire (ed arredare) il Maxxi e il Macro; è venuta giù una parte della Domus Aurea, ed oggi la casa dei gladiatori, ma continuiamo a pensare a costruire una serie di edifici inutili concepiti per la società dello spettacolo, fondata sulla moda passeggera. Perché dobbiamo consentire ancora tutto questo?
Il cemento è un pessimo materiale, chi lo ha inventato non poteva conoscere i suoi effetti collaterali nel medio-lungo termine, tuttavia la Carta di Atene del '31 impose il suo utilizzo, e quello dei materiali sperimentali nel restauro dei monumenti ... si dicevano utili perché più resistenti e perché consentivano di riconoscere l'antico dal nuovo.
Oggi però, a distanza di tanti anni, tutti conoscono, specie nelle soprintendenze, ciò che il cemento armato ha provocato ai templi di Selinunte e di Agrigento, a Piazza Armerina, e via discorrendo, sicchè viene da sorridere - ma in realtà dovremmo piangere - leggendo che l'ex sovrintendente Guzzo abbia dichiarato che il crollo simile verificatosi a gennaio avrebbe dovuto imporre un monitoraggio!
Non un monitoraggio, bensì una sostituzione di tutti i restauri in c.a., avrebbe dovuto farsi sin da quando si è scoperto che quel maledetto materiale non ha nulla in comune con le strutture antiche, e che semmai le distrugge.
Il prof. Marconi racconta sempre della sua esperienza Pompeiana con la triste vicenda della Casa delle Nozze d'Argento ove l'impluvium venne a subire una sorte simile a quella dell'edificio odierno, grazie all'ottusità della sovrintendenza che si rifiutò di far realizzare (con soldi stranieri per giunta) la sostituzione della struttura in c.a. realizzata negli anni '50 con una nuova struttura in legno ... motivo del diniego? Sarebbe stato un falso storico!
Spesso le tragedie lasciano un profondo dolore, ma altrettanto spesso il sacrificio di qualcuno porta beneficio ai posteri. Mi auguro che quest'ennesimo scempio causato dall'idiozia umana serva da monito affinchè si possa finalmente vietare per legge l'uso del calcestruzzo armato, e ci aiuti a dimenticare per sempre l'ottusità del "falso storico".
Se non si fosse intervenuti per sostituire con travi in legno le travi in c.a. che negli anni '50 sostituirono quelle originarie della volta a carena palladiana, probabilmente tra un paio di anni avremmo dovuto rimpiangere per sempre la Basilica di Vicenza. Anche in questo caso dobbiamo dire grazie alla saggezza di Paolo Marconi che è stato consulente per questo restauro che consentirà ai posteri di godere della vista del simbolo di Vicenza.
Occorre rivedere di sana pianta l'insegnamento distorito che si è fatto negli ultimi 70 anni nella facoltà di architettura e di ingegneria, solo così sarà possibile garantirci una riformazione dei professionisti che dovrebbero sovrintendere ai beni culturali.
Per far questo sarà necessario non abbassare mai la guardia e premere affinché i media influenzino il corpo docente, ancora ottusamente ancorato ai dettami di Brandi e Pane per il restauro e di LeCorbusier e Bardi per l'architettura e l'urbanistica. L'avvento del Modernismo potè essere possibile anche e soprattutto grazie al bombardamento mediatico di riviste come La Casa Bella, Quadrante, Moderne Bauformen, L'Esprite Nouveau ecc. che, facendo il lavaggio del cervello alla classe docente dell'epoca, consentirono la messa al bando degli architetti tradizionali, da Frigerio a Brasini.
Sicchè oggi, 70 anni e passa di pessima gestione ideologica del nostro patrimonio, fanno sì che si debba invertire la rotta, ritornando ad operare come il buon senso aveva fatto in passato, costruendo e ricostruendo con gli stessi materiali e le stesse tecniche utilizzati dai costruttori originari degli edifici che necessitano interventi di restauro. Quella saggezza costruttiva e di restauro ci ha consentito di godere della fruizione di queste bellezze che il mondo ci invidia, non è più ammissibile che l'egoismo ideologico di una minoranza di tecnici, storici e critici possa continuare a distruggere il nostro patrimonio imponendo la lettura del nuovo e dell'antico.
Si rifletta inoltre sul fatto che quando si parla di restauro, se si va a leggere il dizionario o anche la legge 457, non si parla ci "conservazione" del bene, ma di ripristino dello stesso! Nelle soprintendenze si conosce solo l'idea di conservare (male), mai quella di "rimessa in vita" che il termine restauro prevederebbe.

Ettore Maria Mazzola

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31 ottobre 2010

RIGENERARE LE PERIFERIE URBANE

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22 ottobre 2010

DALLA PERIFERIA SUBURBANA ALLA ECO-CITTÀ GIARDINO



AVOE
A VISION OF EUROPE
Università degli Studi di Ferrara
Facoltà di Ingegneria Via Saragat 1.

Seminario sulla Trasformazione delle Periferie in Eco-Città Giardino Casi di Studio Europei e Statunitensi
DALLA PERIFERIA SUBURBANA ALLA ECO-CITTÀ GIARDINO.

RICOSTRUIRE CORVIALE: 500 MILIONI DI EURO DI GUADAGNO PER L’ENTE PUBBLICO, 300 MILIONI PER IL PRIVATO E HOUSING SOCIALE PER 6500 PERSONE. RILANCIO DELL’ECONOMIA ITALIANA IN 4 ANNI

Due progetti di abbattimento dell’ecomostro e ricostruzione del Nuovo Corviale di Roma, pronti e completi di piano di fattibilità, presentati oggi all’Università di Ferrara, facoltà di Ingegneria. Nel corso dell’evento DALLA PERIFERIA SUBURBANA ALLA ECO CITTÀ GIARDINO (organizzato da AVOE, Università di Ferrara e Gruppo Salìngaros), i progetti degli architetti Ettore M. Mazzola e Gabriele Tagliaventi offrono una prospettiva innovativa all’economia nazionale e accendono il dibattito politico, alla presenza di vari amministratori pubblici.

I progetti (una piccola ecocittà giardino da 20000 abitanti nel progetto di Tagliaventi e un borgo tradizionale ispirato a S. Saba da 8500 abitanti quello di Mazzola), sono stati presentati con un solido corredo di dati numerici accuratamente documentati che dimostrano non solo la fattibilità economica ma la redditività altissima per le casse dell’ente pubblico e dei privati coinvolti nell’operazione, oltre alla possibilità di assegnare gratuitamente dei nuovi alloggi ai legittimi assegnatari dell’edilizia popolare.

Questo può essere l’inizio di una nuova politica urbanistica italiana, con allacci al mutuo sociale, e alla funzione di azienda dell’ATER” ha dichiarato l’on. Teodoro Buontempo, assessore alla casa della Regione Lazio. Gli fa eco Stefano Serafini, direttore della Società Internazionale di Biourbanistica: “Realizzare questo progetto pilota avvierebbe la soluzione del problema delle periferie italiane, restituirebbe attrattiva, vivibilità e dignità politica al nostro Paese”. “Su questa linea si sta muovendo anche il Comune di San Lazzaro di Savena”, dice l’assessore all’urbanistica di Bologna Leonardo Schippa.

In sintesi questi i dati secondo le due ipotesi di fattibilità economica proposte, da realizzarsi in 4 anni:
- Spesa abbattimento Corviale, 9 milioni di euro;
- Realizzazione di alloggi per nuovi residenti (tra 2000 e 13000), con ricavo tra 50 e 300 milioni di euro;
- Realizzazione di spazi commerciali con ricavo 180 milioni di euro;
- Profitto complessivo del pubblico da 250 a 520 milioni;
- Profitto complessivo dei privati coinvolti da 100 a 300 milioni di euro;
- Realizzazione autofinanziata di housing sociale per 6500 abitanti autofinanziata;
- Realizzazione autofinanziata di un parco, servizi pubblici e attività socializzanti;
- Sviluppo dell’occupazione e dell’artigianato edile della piccola e media imprenditoria locale, con ricadute positive nel settore del restauro del patrimonio architettonico.

A Vision of Europe
Gruppo Salingaros
International Society of Biourbanism
Laboratorio Civicarch Università di Ferrara

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15 ottobre 2010

GREGOTTI VUOLE SALVARE LE VELE DI SCAMPIA!

Leggo nel Riformista che Vittorio Gregotti vuole salvare le vele di Scampia. Dopo il sovrintendente che le vuole vincolare adesso abbiamo il grande architetto che afferma che devono essere completate e “messe sotto tutela”.
Quello del completamento è un refrain che oltre che vecchio e auto-assolutorio, comincia a diventare alquanto malinconico ma il “mettere sotto tutela” l’edilizia sociale pubblica è proprio nuova, almeno per me.
Cosa intenderà Gregotti? Farla piantonare dalla polizia? Oppure mettere insieme squadre di manutentori appositamente costituite allo scopo, a spese nostre naturalmente? Oppure una squadra di manutentori insieme a squadre di assistenti sociali e mediatori culturali? Chissà!
Ad essere sincero mi sembra molto più preoccupante il soprintendente che non l’architetto Gregotti, in cui leggo più una inconscia (o conscia) auto-difesa per interposto progetto, essendo anche lo Zen oggetto di critiche analoghe a quella di Scampia e di qualche sacrosanta proposta di demolizione.

A questo proposito ricordo una lamentela di qualche anno fa in cui si diceva che in Italia non si demolisce mai niente! Non mi riferisco a Gregotti del quale non saprei dire, ma a coloro, ed erano tanti, che lamentavano un certo immobilismo della cultura urbanistica italiana. Naturalmente, ma è davvero un ricordo senza nomi, ci si riferiva all’edilizia privata; quella certamente scadente, talvolta anche abusiva, abusi di necessità il più delle volte senza per questo voler esaltare l’illegalità come un valore, sicuramente anonima quanto ad autore. Però erano case, in cui la gente viveva, spesso frutto di lavoro e di fatiche. Erano case come Scampia (oddio, più che case queste chiamiamole riparo), come Corviale, come Zen, come Laurentino. Perché quelle si volevano demolire e queste no? Cosa hanno in comune questi formicai? Molte cose, ma due in particolare: l’essere pubblici e l’avere un padre con nome e cognome. Le altre erano orfane.

Per costruire il Laurentino leggo che sono state completamente “demolite” le case abusive precedenti. Come fossero quelle case e come fosse l’insediamento nel suo complesso non lo so. Però so che guardando alcune borgate romane, in cui l’edilizia spontanea, nel senso ex-abusiva perché condonata, è sovente intervallata da edilizia progettata e ci si rende facilmente conto che è molto più semplice integrare la prima in un disegno urbanistico che le consenta di diventare città, piuttosto che la seconda, fatta di segni forti dal disegno astratto e scollegato da ogni riferimento al territorio o alla viabilità. Non esiste alcuna possibilità di comprendere questi oggetti dalle dimensioni considerevoli e dalle forme bizzarre in un disegno urbano ragionevole.
Come non esiste alcuna possibilità che un progetto come le vele di Scampia possa diventare accettabile.

Ma i segni forti non devono essere demoliti, quelli anonimi e deboli e recuperabili alla trama urbana sì.
Vorrei fare un’ipotesi per assurdo per sapere quale sarebbe il giudizio dell’architetto Gregotti e di tutti coloro che difendono progetti come questo: mettiamo che le Vele, o il Corviale o analoghi, non fossero case popolari, ma alberghi o residence in qualche località balneare di grande popolarità. Mettiamo pure che fossero mantenute, per ovvi motivi, in buono stato di manutenzione. La domanda è: sarebbero lodate e difese a spada tratta con la stessa forza o piuttosto, in caso di minaccia di demolizione, i nostri non gioirebbero considerandola una conquista di civiltà e una vittoria sulla bieca speculazione?

La domanda è retorica perché la risposta è certa. Se è vero, e sappiamo essere vero, significa che dietro questa difesa non esistono motivazioni oggettive o merito in relazione al progetto, ovviamente, ma una scelta puramente ideologica di difendere se stessi e la propria storia. E’ una scelta di tipo puramente concettuale, perché non conta il prodotto in sè ma conta il contesto storico, politico, culturale in cui il progetto è maturato, è stato progettato ed eseguito, conta l’idea stessa che ha prodotto quel progetto. Conta la storia personale dell’architetto che l’ha progettato e quella collettiva del periodo in cui è nato.
Ad essere sinceri a me della storia personale degli architetti che hanno progettato quella roba lì non interessa proprio niente e certamente non interessa a chi è costretto a viverci.

Per questo motivo chi accusa coloro che ne vogliono la demolizione di scelta puramente ideologica in parte sbagliano ma in parte hanno ragione.
Sbagliano perché quegli stessi edifici, collocati in situazioni ambientali, storiche e culturali completamente diverse sarebbero considerati, giustamente, degli errori architettonici e umani colossali privi di qualsiasi qualità e, dato che non esiste possibilità di un loro miglioramento, l’unica soluzione sarebbe demolirli.
Hanno ragione perché quelli non sono, relativamente agli autori, tanto edifici quanto concretizzazioni di un’idea mostruosa, cioè simboli, e l’unico modo per abbattere quell'idea è abbattere gli edifici stessi. Demoliti quelli, e sostituiti con edifici civili, potrà restare la malinconia e il rimpianto solo per un ristrettissimo gruppo di persone. Ma sarebbe un fatto personale di scarso interesse pubblico.
Non posso credere, mi rifiuto di credere che Gregotti, che ha i suoi meriti, che sa cos’è e come si fa un progetto (l’importante è che non ce lo spieghi) possa ritenere le Vele di Scampia edifici da salvaguardare.
Architetto Gregotti, se le immagini dunque al mare, ad esempio sulla sputtanatissima costa spagnola accanto a centinaia di altri edifici simili, e si faccia un esame di coscienza. Nessuno chiede abiure, ma nemmeno irragionevoli e improbabili difese.

Pietro Pagliardini

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14 ottobre 2010

STRADE- 8°: LÉON KRIER

É la volta di Lèon Krier con due brani tratti da altrettanti suoi libri: Architettura. Scelta e fatalità, Laterza, 1995 e L'armonia architettonica degli insediamenti, LEF, 1995.
Personaggio carismatico per la forza e la tenacia delle sue idee, rispettato anche dai suoi avversari, negli ultimi ha ottenuto molti riconoscimenti e molti successi. In Italia, invece, e non è un caso, trova ostacoli insormontabili all'approvazione dei suoi progetti.
Nei due brani che seguono è assolutamente singolare il fatto che Krier consideri le auto come parte integrante del paesaggio urbano e prescriva precise regole per parcheggi e mobilità, tentando di rendere possibile una civile convivenza tra auto e pedoni. Tentativo difficile ma, secondo me giusto e coraggioso.

LÉON KRIER
Architettura. Scelta o fatalità
Laterza, 1995

....- Bisognerebbe evitare, se è possibile, di spianare le colline, colmare le valli, addolcire le pendenze. Gli elementi distintivi di un sito devono, al contrario, essere valorizzati; il disegno della pianta e del profilo urbano deve mettere in rilievo le specificità del luogo.
- Le strade senza uscita, i sensi unici, dovrebbero essere evitati a ogni costo, salvo per situazioni topografiche eccezionali: promontori, penisole, ecc.

Le forme degli spazi urbani
La forma della città e degli spazi pubblici non può essere l'oggetto di sperimentazioni personali. Gli spazi pubblici possono costruirsi solo sotto forma di strade (spazi lineari) e di piazze (spazi nodali). Gli spazi pubblici, che siano proporzionali alle dimensioni di una grande metropoli o che posseggano l'intimità di uno spazio locale, devono in ogni caso offrire un carattere permanente e familiare, poiché le loro dimensioni e proporzioni si fondano su una cultura millenaria di strade e di piazze. Un'insufficiente quantità e di spazi pubblici è una falsa economia, ma un'eccessiva quantità è un falso lusso.
Gli spazi pubblici non dovrebbero occupare, nel loro insieme, più del 35% e meno del 25% della superficie totale di un quartiere.
Gli spazi pubblici sono articolati in strade, piazze, cortili, passaggi.
I houlevards, i viali, le grandi piazze, i recinti, i giardini pubblici, gli spazi pubblici, i campi per le fiere, i campi da golf, non si trovano all'interno dei quartieri urbani, ma ne costituiscono i chiari limiti.
- La superficie degli isolati diminuisce verso il centro e aumenta verso il perimetro di un quartiere.
- Il limite di un'agglomerazione deve, in genere, essere una passeggiata collegata ai sentieri e alle piste, consentendo così passeggiate circolari nella campagna circostante senza dover usare le strade e l'automobile.

Traffico e spazi pubblici
- Il traffico più intenso non deve attraversare i quartieri, ma essere tangente a questi e alle circoscrizioni; deve essere canalizzato sui grandi boulevards, sui viali, sui parkways, che ne costituiscono i limiti fisici.
- Gli spostamenti veicolari e pedonali richiedono spazi a scale e geometrie differenziate.
- Il controllo della velocità dei veicoli non deve essere regolato unicamente dalla segnaletica (gobbe, coppe rotatorie, semafori, guard-rail, ecc...), ma anche articolando il carattere civile e urbano delle strade e delle piazze mediante la loro pavimentazione, il verde, le luci, l'arredo, l'architettura, la configurazione geometrica, ecc...
- Gli spazi pubblici all'interno del quartiere (le piazze così come le strade) devono presentare un elevato grado di intimità urbana. Gli edifici simbolici devono occupare i luoghi privilegiati, i punti di convergenza delle prospettive urbane. Le differenze di scala, di materiali e di volumi devono essere giustificate dal tipo e dallo statuto civico degli edifici e non devono dipendere unicamente dal capriccio dell'architetto o del proprietario.
- La piazza centrale è riservata ai pedoni.
- Alcune parti della strada principale saranno chiuse al traffico solo per alcune ore.
Il parcheggio degli autoveicoli, parallelo al marciapiede, è raccomandato almeno su di un lato nella maggior parte delle strade.
- I viali pedonali stretti passeranno attraverso gli isolati e saranno collegati tra loro in modo da creare un tessuto coerente all'interno del quartiere, non intralciato dal traffico.
I parcheggi sotterranei devono essere incoraggiati al di sotto degli isolati centrali. I parcheggi multipiani saranno piccoli e dispersi; non avranno fron¬ti su strada o saranno .mascherati da un edificio di 5 metri di profondità contenente uffici o ateliers.
Il parcheggio a corte sarà riservato agli isolati periferici del quartiere.

Zonizzazione policentrica delle funzioni
Le funzioni saranno disposte a scacchiera. Le funzioni residenziali e altre saranno congiuntamente distribuite in ogni isolato, per parcella o per piano. Lungo la strada principale e sulla piazza centrale, le funzioni commerciali saranno situate esclusivamente al piano terra; non saranno permesse al di so¬pra del piano ammezzato e al di sotto del piano terra.
Le piccole e medie imprese e altre funzioni non residenziali e non inqui¬nanti vanno localizzate all'interno del quartiere....

LÉON KRIER
L'armonia architettonica degli insediamenti
LEF, Libreria Editrice Fiorentina, 2009

Io propongo di introdurre i termini di classico e vernacolare in urbanistica e nella progettazione urbana per dare un nome alle diverse geometrie della rete urbana geografica, degli spazi pubblici e della disposizione degli edifici. E’ noto che Le Corbusier contrastò la geometria a meandro della “strada dell’asino” con la rettilineità Euclidea della “strada dell’uomo”. Allo stesso modo, la lingua francese distingue fra “insiemi spontanei” e “insiemi ordinati”. Proprio come se ciò che è spontaneo fosse un fattore di disordine: e che, al contrario, la retta e la squadra appartenessero assolutamente ad una categoria superiore, fossero la razionalità stessa.
Gli insiemi spontanei non sono più “medioevali” di quanto i piani a griglia di ferro siano “moderni”. L’andamento curvilineo non è necessariamente Romantico e quello rettangolare non è automaticamente razionale e privo di arte. L’uso consapevole dei modi dell’architettura vernacolare e classica e la loro combinazione con adeguate geometri di rete, ci permette di creare nuovi insediamenti che competono con i migliori insiemi del passato.
L’armonia architettonica degli insediamenti” concettualizza l’analisi e la manipolazione delle realtà architettoniche e urbane che fino ad adesso sono considerate il sottoprodotto di contingenze socio-politiche piuttosto che una consapevole volontà estetica.


Quadro 2

I tre quadri (esempi storici; prospettive urbane; piani urbani) illustrano le nove possibili combinazioni dell’urbanistica e dell’architettura vernacolare-classica. In realtà, raramente si incontrano esempi puri ma quasi sempre combinazioni delle nove categorie. L’ultimo quadro aiuta a meglio comprendere ed apprezzare i luoghi storici; essi consentono anche di progettare in maniera più consapevole gli ingredienti della grande scala urbana o dei complessi edilizi, armonizzano i nuovi edifici con le posizioni esistenti. In base alle circostanze ci sono giustificazioni razionali  per progettare brevi meandri o aperte vedute rettilinee.
Quadro 2
Ciò che è egualmente certo è che queste richiedono forme architettoniche estremamente differenti. Potete giudicare meglio le varie combinazioni, i dosaggi e l’armonizzazione visitando i luoghi storici e lasciar decidere alle vostre sensazioni. La “qualità del dosaggio” schedata illustra il mio personale impulso e la mia esperienza. Io trovo che generalmente gli spazi pubblici dotati di regolarità geometrica e di parallelismi richiedono un alto grado di ordine architettonico. In generale, l’architettura modesta non è appropriata agli spazi dotati di grande formalità.....

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JANE JACOBS: STRADE
UNA LEZIONE DI URBANISTICA
MORE ETHICS OR MORE AESTHETICS?
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10 ottobre 2010

VIOTTOLI - 15°: WILLIAM VON STRADEN

4 LUGLIO 2025
Viottoli 15°, William Von Straden


E’ interessantissimo il passo del trattato del Von Straden in cui si fa assertore convinto della necessità del viottolo e della sua pregnanza urbanistica. Sentite cosa dice a proposito del viottolo: “Una città è tutta nei suoi viottoli. Il viottolo è il segno della città, il suo significato intimo e più vero. Cosa c’è nella città al di là del viottolo?

In Von Straden che ha scritto questo trattato nel 1843, c’è già la contestazione della città lecorbuseriana, il presagio della crisi.
Per lui la città si esprime nel viottolo: le piazze, i punti nodali, i viali, i vialetti, le prospettive, tutto si risolve nel viottolo.
E’ un’intuizione che fa pensare...

3 Commenti
Ettore Maria ha detto...
Caro Piero, come sempre hai colto in maniera magistrale in questo tuo bellissimo Post l’essenza dello spazio e il significato della città.
Proprio ieri ho condotto i miei studenti per i viottoli dell’agro romano e si sono tutti esaltati per l’esperienza pregnante di quelle strutture viarie.
Ti manderò quanto prima i loro bellissimi schizzi.
Grande! Come sempre! Complimenti.
A presto, Ettore

Pietro Pagliardini ha detto...
Caro Ettore, mi fa piacere che tu abbia colto il significato, il grande valore del viottolo.
Pensa che nella mia città c’è un tale Architetto, l’estensore del regolamento urbanistico, che ha regolamentato i viottoli uno per uno, suddividendoli in 9 categorie diverse a seconda del fondo viottolare, dei raggi di curvatura etc. e prescrivendo per ogni tipo di viottolo le percorrenze e la cadenza del passeggio.
Gli manderò gli schizzi dei tuoi studenti!
Pietro

Anonimo ha detto...
Viottoli?
Walter Forst Whithmahnn ha scritto su questo tema pagine memorabili di grande poesia, dove l’essere umano si trascende, dove la realtà si apre a nuove esperienze:
Viottolo, viottolo, viottolo!
Ti percorro, ti rincorro, ti traverso...
Nel viottolo mi perdo e di lì più non ritorno...

Vilma

P.S.: Questo testo è chiaramente uno scherzo, e un regalo di compleanno, perpetrato da Giulio Rupi ai danni miei e di un paio di "clienti" e che io ho riproposto tal quale, in attesa di avere il suo permesso a farlo, che do per scontato arriverà. Ogni tanto vale la pena prendersi e prendere in giro.

Speriamo che Ettore e Vilma, se mai avessero più voglia di lasciare un altro commento, non si inibiscano pensando: "...ma adesso quello mi rifà il verso e quell'altro dopo lo pubblica pure!".
Non potrà accadere più: i sessanta anni arrivano una volta sola.
Pietro

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3 ottobre 2010

STRADE - 7°: FRANCESCO FINOTTO SU KARL HENRICI

Francesco Finotto è l’autore di La città aperta, Marsilio, 2001, che pone l’Ottocento al centro dei suoi interessi come il secolo in cui si pongono le basi dell’urbanistica moderna. I brani riportati nel post illustrano e commentano la teoria dell’urbanista tedesco K. Henrici (1842-1927).


FRANCESCO FINOTTO


Il pittoresco come bello relativo
Henrici non riteneva accettabile il sentimento di impotenza, la sfiducia nei confronti del pittoresco: certo ad incollar facciate pittoresche sulle piatte strade moderne, oppure ad accumular facili arredi sulle strade si otteneva solo un ridicolo ammasso di ornamenti. Il pittoresco inteso come accentauzione dei contrasti, parcellizzazione delle forme, vivacità dei contorni era solo una ricetta, che spiegava ben poco. Ma non c’era ragione per continuare ad imitare l’arte italiana o quella francese nella disposizione degli spazi urbani: bisognava riprendere la pura, antica arte tedesca, con il cuore, il sentimento e la pratica. Il pittoresco non sarebbe più stato inattuale se divantava nazionale. Se invece di utilizzare il sistema moderno di costruire le città, che appiattiva le diversità, si fosse fatto ricorso alla tradizione storica. Valorizzata in tutti i modi la diversità dei luoghi: ci si aspetta di vedere in Italia e Grecia qualcosa di diverso che in Germania; in montagna qualcosa di differente rispetto alla pianura.

Il pittoresco non è l’accumulo casuale dei detriti della storia, né il mero effetto dell’azione del tempo. In realtà il pittoresco non è altro che il bello relativo. Non quello ideale, che si può evocare con la pittura o la scultura, arti prive di scopo immediato, autosufficienti, che valgono per sé. Il pittoresco è il lato piacevole dell’architettura, che commuove il popolo e suscita l’amore per la patria.
L’arte di costruire la città, o di fare i piani urbanistici, non consiste infatti nella produzione di un oggetto in se stesso compiuto. L’impianto di una città è un oggetto di uso comune: “La completa corrispondenza allo scopo rende ogni oggetto di uso comune anche bello, e la bellezza pienamente adeguata allo scopo è il fine del’arte di costruire la città” (1). Il pianificatore deve conoscere i mezzi e i modi per determinare gli effetti di bellezza, deve possedere le capacità di prevedere gli effetti spaziali del suo piano.
Bisognava allora andare avanti nel tentativo di mettere in piedi una grammatica della visione che rendesse accettabile il volto della città moderna; continuare lo sforzo di oggettivare rapporti, regole, dimensioni, armonie in un mondo dove la modernità stava frantumando tutti gli spazi: annientando le differenze visibili, sterminando gli oggetti, disintegrando i contesti, dando per scontata una cultura della visione oggettiva, che prescindesse dalla commutazione di tutti i significati.
Si passa allora dalla meccanica dell’emozione degli architetti illuministi alla retorica della visione dei teorici tedeschi: dall’eloquenza degli spazi infiniti alla dialettica degli spazi chiusi. Ormai non si tratta più di impressionare, comunicare sensazioni, suscitare timore, sorpresa o entusiasmo: si deve solo poter vedere. Tutti gli oggetti sembrano più piccoli quando ci si allontana (2). Le prospettive interminabili, con il monumento trattato come point de vue, così care ala poetica del sublime, diventano noiose. Buone solo per lo sguardo miope che si accontenta di facili impressioni………
Bisogna andare oltre alla teoria della successione delle piazze. Concepire la strada stessa come una successione di fondali, che frantumano la prospettiva illimitata: che articolano le masse, imprimono ritmo, variano la luminosità, graudano luci e colore.

La razionalità delle strade concave
Ma come fare per non cadere nell’occasionale, nell’arbitrario? Che cosa garantisce la razionalità del disassamento stradale? Semplicemente la teoria dell’incrocio.
Nelle città storiche gli isolati arrivano agli incroci con gli angoli retti, e compensano il disassamento delle strade mediante la piegatura dei lati. In questo modo il mancato parallelismo delle strade viene assorbito nei cortili, negli spazi interni, non produce deformazione negli edifici. Nei lotti ciò che conta è l’angolo retto e la forma allungata della figura. In questo modo si facilita la suddivisione dello spazio e la costruzione degli edifici. Infatti, sia l’angolo acuto sia quello obliquo creano numerose difficoltà costruttive: non sono graditi in architettura. Inoltre la figura allungata garantisce maggior superficie, più fronte stradale, e quindi minori costi d’urbanizzazione, con lo stesso numero di angoli.

Come la teoria del’archetipo spaziale garantisce a Sitte un fondamento di razionalità nell’analisi delle piazze così la nuova teoria dell’incrocio consente a Henrici di dimostrare la razionalità delle strade curve e rendere evidente l’irrazionalità di quelle rettilinee. L’isolato tradizionale, prodotto dalla successione di singole case a schiera, pur incorporando notevoli asimmetrie non abbandona mai la regola aurea dell’angolo retto. L’isolato moderno, prodotto dall’intersezione tra il rettifilo e la strada diagonale, diventa un mero residuo triangolare. É pertanto irrazionale un allineamento che per garantire il rettifilo taglia glia gli angoli e produce isolati triangolari,. Inservibili in architettura; è razionale invece l’allineamento che tiene fermi gli angoli retti e muove i lati, alternando concavità a convessità. In fondo fino a quando l’allineamento è stato inteso come servitù è sempre prevalsa la scala architettonica: gli arretramenti o avanzamenti imposti agli edifici non cancellavano la sinuosità dei percorsi. Quando è comparsa la teoria dell’allineamento come ricostruzione per isolati, allora si è imposto il rettifilo illimitato. Questa è la ragione fondamentale per cui Henrici si schiera contro l’Umlelung, contro la ricostruzione per zone, inutile scorciatoia che altera i caratteri pittoreschi del tessuto urbano.

La città per parti
Anche per Henrici il disegno dei piani d’espansione inizia con la collocazione dei nuclei monumentali, come per Delay. La città infatti doveva essere suddivisa in parti, ognuna dotata di autonomia e caratterizzata da un addensamento di edifici monumentali, dislocati intorno a piazze. Tuttavia il loro collegamento non doveva essere attuato mediante il tracciamento dei rettifili, ma attraverso la dislocazione di un tessuto stradale differenziato, ramificato, che riproducesse il corso dei grandi fiumi, dove le correnti non procedevano mai nei due sensi; che aderisse ai luoghi, rispettasse gli invisibili limiti delle proprietà, per dar modo di costruire direttamente o di vendere a chi voleva costruire per sé.

Inoltre non bisognava esagerare con gli alberi lungo le strade: condivideva con Sitte l’idea che la bellezza delle strade dipendesse dall’effetto architettonico: era sbagliato fare di ogni strada un’allée, di ogni piazza un giardino. Gli alberi infatti nascondono le facciate, impediscono la percezione unitaria dello spazio, Andvano utilizzati con parsimonia, nei luoghi appropriati, solo lungo certi tratti stradali, e nei giardini interni agli isolati.
Così come andava utilizzato con molta parsimonia il Bauwich, l’obbligo di distanziare tra di loro gli edifici, dal momento che interrompendo la linea di fuga, segmentando lo spazio, si distruggeva la continuità della vista prospettica. L’edilizia chiusa infatti non era meno igienica di quella aperta. Come aveva dimostrato ampiamente Nussbaum: le correnti d’aria hanno una forma ad onda e penetrano in ogni spazio sufficientemente ampio, dunque l’edilizia isolata non gode di nessun vantaggio in termini di ricambio d’aria rispetto a quella chiusa. Casomai nei distacchi s’infiltra più facilmente la polvere della strada. L’edificazione retrostante poteva essere impedita semplicemente indicando dei limiti di massimo inviluppo all’interno degli isolati, in modo da riservare uan certa quantità di spazio ai giardini privati. E come aveva mostrato Retting l’edilizia aperta non era più economica di quella chiusa, ma i risultati estetici erano sicuramente disastrosi. Dunque un conto era promuovere quartieri di ville in periferia per le classi benestanti, e un altro cercare di esportare in tutte le città un sistema costruttivo tipico di altre regioni, imporre attraverso la zonizzazione tipologica un’artificiosa ed ingiusta bassa densità.
Quanto al traffico bisognava evitare gli incroci tra strade principali, risolverli mediante piazze o spazi allungati; le strade secondarie potevano solo sfociare in quelle principali, mai attraversarle.

Henrici dunque si rivela il San Paolo dell’arte di costruire la città. Trasforma il messaggio di Sitte infondendogli una nuova carica. Rivendica la superiorità dell’arte sulla tecnica: nonostante che la scienza del traffico, l’economia politica, la legislazione e l’igiene abbiano stabilito nuove condizioni spetta all’arte far da guida, prendere in mano il timone dei tempi nuovi. Non soltanto i nuclei monumentali , che davano identità a ciascuna parte della città, potevano essere costruiti sulla base della nuova retorica degli spazi chiusi, ma anche le loro connessioni, le strade, dovevano essere tracciate utilizzando io medesimo principio: l’architettura stradale doveva essere concepita come arte di concepire lo spazio, riconoscendo al principio della concavità altrettanta importanza che a quello della convessità nella costruzione delle forme plastiche.

Lo spazio, la luce, i colori sono i materiali fondamentali di quest’arte nobile, che si nutre di sottili trasgressioni, muove le masse, arretra i corpi, innalza le fronti; che davanti all’universalità della modernizzazione afferma l’individualità della storia e del sito di ogni città. Il pittoresco resta il valore guida, ma spogliato dalla patina superficiale, dallo splendore delle guglie e pinnacoli: è un pittoresco strutturale, asciutto, quasi scarnificato nella composizione dei volumi, dotato di un’intima razionalità costruttiva. Henrici mostra così, al di sotto della veste pittoresca, una propensione per lo spazio, per la regola compositiva, che rifiuta l’arricchimento superficiale, considera l’arredo, il decoro una soluzione di ripiego, minore, falsa…..

Note:
1) Woran ist zu denken bei Aufstellung eines Stadtischen Bebauungnsplanes, p.166
2) Beitrage zur praktischen Asthetik in Stadtebau, p.22


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26 settembre 2010

STRADE - 6°: KEVIN LYNCH

E' la volta di Kevin Lynch e il suo L'immagine della città, Marsilio, 1960.
Il capitolo di seguito riportato è il risultato di una serie interviste fatte in diverse città americane, in cui a cittadini comuni venivano poste domande per comprendere i meccanismi che producono la percezione della città. Pragmatismo e impronta scientifica pervadono tutto il testo, e la parte che segue non fa eccezione, ed è straordinario osservare quanti punti di vicinanza vi siano con autori molto diversi tra loro: Gianfranco Caniggia e Nikos Salìngaros prima di tutti, di cui seguiranno i post.
Altrettanto significativo è rileggere il post di Ettore Maria Mazzola per verificarne affinità e differenze.
Del libro in inglese, che è ormai un classico, esiste la pubblicazione di ampi stralci su Google libri.



KEVIN LYNCH (1918-1984)


Marsilio, 1960


Il disegno dei percorsi
Elevare la figurabilità dell’ambiente urbano significa facilitare la sua identificazione visiva e la sua strutturazione. Gli elementi precedentemente isolati – percorsi, margini, riferimenti, nodi e regioni – sono i blocchi di costruzione nel processo di edificare strutture ferme e differenziate alla scala urbana. Quali suggerimenti possiamo trarre dal materiale precedente sulle caratteristiche che tali elementi potrebbero avere in un ambiente veramente figurabile?

Il percorsi, la trama di linee di movimento abituale o potenziale attraverso il complesso urbano, sono lo strumento più potente per ordinare l’insieme. Le linee chiave dovrebbero possedere qualche attributo singolare, che le individua rispetto ai canali circostanti: una concentrazione di qualche uso o attività special sui loro lati, una qualità spaziale caratteristica, una particolare grana di pavimentazione o di facciata, uno specifico schema di illuminazione, un complesso unico di colori e rumori, un dettaglio tipico o un sistema di alberature. Washington Street può essere conosciuta per l’intensità dei suoi commerci e per il suo spazio e feritoia, Commonwealth Avenue, per la sua fila centrale di alberi allineati.
Questi attributi dovrebbero venir impiegati in modo da conferire continuità al percorso. Se uno o più di essi è coerentemente adoperato in tutta la lunghezza, allora il percorso può essere figurato come un elemento continuo, unificato. Può trattarsi di una alberatura a viale, di un colore o di una grana singolare nella pavimentazione, o della classica continuità delle facciate marginali. La regolarità può essere ritmica, una ripetizione di spazi aperti, monumenti o negozi d’angolo. La stessa concentrazione di traffico abituale lungo un percorso, come avviene con una linea di trasporti pubblici, rinforzerà questa immagine familiare e continua.
Questo conduce a quella che potremmo chiamare una gerarchia visiva delle strade e delle vie, analoga alla consueta raccomandazione di una gerarchia funzionale: un’individuazione sensibile dei canali chiave, e la loro unificazione come elementi percettivi continui. Questo è il telaio per l’immagine urbana.
La linea di movimento dovrebbe possedere chiarezza nella direzione. Il meccanismo guida del cervello umano è sconcertato da una lunga successione di svolte o da curve graduali che alla fine producono cambiamenti direzionali di maggiore entità. Le svolte continue delle calli veneziane o delle strade di uno dei romantici piani dell’Olmsted, o la curvatura graduale di Atlantic Avenue a Boston, confondono subito osservatori che non siano già smaliziati. Un percorso diritto ha naturalmente una chiara direzione , ma lo stesso può dirsi di uno che ha svolte ben definite, prossime ai 90°, o di un’altra che abbia molti lievi ondeggiamenti, ma che non perda mai la sua direzione fondamentale.
Gli osservatori sembrano conferire ai percorsi un senso di collimazione o di irreversibilità direzionale e sembrano identificare una strada attraverso la destinazione cui essa è orientata. In effetti una strada è percepita come una cosa che va verso qualcosa. Il percorso dovrebbe sostenere percettivamente questa sensazione attraverso dei punti terminali forti, e attraverso un gradiente o una differenziazione direzionale, in modo da ottenere un senso di progressione e da diversificare le opposte direzioni. Un gradiente comune è quello della pendenza del terreno, che di solito è riflesso nelle indicazione date al passante di andar “su” o “giù” per la strada. Ma ve ne sono molti altri. Un progressivo infittirsi di insegne, negozi o pedoni può contrassegnare l’avvicinamento di un nodo commerciale; può anche esistere un gradiente nel colore o nella densità dell’alberatura; un accorciarsi della lunghezza degli isolati o una strozzatura dello spazio possono segnalare la prossimità del centro cittadino. Pure le asimmetrie possono venire impiegate. Può darsi che uno possa procedere “tenendo il parco sulla sinistra”, o “muovendo verso la cupola dorata”. Si possono usare frecce segnaletiche, o tutte le superfici disposte in una determinata direzione potrebbero avere colori convenzionali. Tutti questi artifizi fanno del percorso un elemento orientato, al quale altri possono venir riferiti. Non vi è alcun pericolo di commettere un errore di direzione.
Se le posizioni lungo il percorso possono venir differenziate in qualche modo misurabile, la linea sarà allora non soltanto orientata, ma anche modulata. La normale numerazione anagrafica è una tecnica siffatta. Un sistema meno astratto è quello di contrassegnare un punto identificabile lungo la linea cosicché altri luoghi possono venir pensati come “prima” e “dopo”. Parecchi punti di controllo migliorano la definizione. Oppure un attributo, (come l’ampiezza del corridoio) può avere una modulazione di gradiente a saggio variabile, cosicché la stessa variazione assume una forma misurabile. In tal modo uno potrebbe dire che un certo osto è “giusto prima che la strada si restringa assai rapidamente” o “sul fianco della collina prima della salita finale”. Chi si muove può sentire non soltanto “sto procedendo nella direzione giusta”, ma anche “vi sono quasi arrivato”. Quando il tragitto contiene una simile serie di eventi distinti, il raggiungimento ed il sorpasso di un obiettivo intermedio dopo l’altro, l’itinerario stesso acquista significato e diviene in se stesso un’esperienza.
Gli osservatori sono colpiti persino nella memoria, da una evidente qualità “cinestetica” di un percorso, dal senso di movimento nel suo sviluppo: svolte, salite, discese. Ciò è particolarmente vero quando il percorso è compiuto a velocità elevata. Una grande curva in discesa, che avvicina il centro di una città, può produrre una immagine indimenticabile. Sensazioni tattili ed inerziali partecipano in questa percezione d movimento, ma la visone sembra essere predominante. Lungo il percorso possono esser disposti oggetti per acuire la parallassi o prospettiva del movimento, o può essere reso visibile in precedenza il futuro andamento del percorso. La conformazione dinamica della linea di movimento potrà conferire ad essa identità e produrre nel tempo una esperienza continuativa.
Ogni esposizione visiva del percorso o del suo obiettivo, ne rafforza l’immagine. Ciò può essere fatto da un grande ponte, un grande viale assiale, un profilo concavo o la silhouette lontana della destinazione finale. La presenza del percorso può essere resa evidente da grandi riferimenti situati lungo di esso o da altri indizi. La vitale linea di circolazione diviene palpabile ai nostri occhi, e può divenire il simbolo di una fondamentale attività urbana. Di converso, se il percorso rivela al viaggiatore la presenza di altri elementi della città, l’esperienza può venire acuita: se esso li penetra o li tocca tangenzialmente, se offre indizi e simboli di ciò che viene sorpassato. Una linea sotterranea, ad esempio, anziché essere seppellita viva, potrebbe improvvisamente attraversare la stessa zona dei negozi, o la sua stazione potrebbe improvvisamente richiamare nella forma la natura della città che sta sopra. Il percorso potrebbe essere conformato in modo da rendere evidente ai sensi il tragitto medesimo: corsie divise, rampe e spirali consentirebbero al traffico di indulgere nelal contemplazione di se stesso. Queste sono tutte tecniche per arricchire l’ambito visivo del viaggiatore.
Di regola una città è strutturata secondo un organizzato sistema di percorsi. In questo sistema il punto strategico è l’incrocio, il luogo di connessione e di decisione per chi è in movimento. Se questo può essere chiaramente visualizzato, se l’incrocio produce di per se stesso una immagine vivida, e se la giacitura di due percorsi l’uno rispetto all’altro è chiaramente espressa, in tal caso l’osservatore può costruire una struttura soddisfacente ……
Una congiunzione di più di due percorsi è normalmente difficile da concepire. Una struttura di percorsi deve avere una certa semplicità di forma per produrre un’immagine chiara. La semplicità è richiesta in senso topologico piuttosto che geometrico, sicché un incrocio regolare, ma ad angoli approssimativamente retti, è preferibile ad un trivio rigorosamente disegnato. Esempi di simili semplici strutture sono sistemi paralleli o a fuso; croci ad una, a due e a tre sbarre; rettangoli; o pochi assi riuniti insieme.
I percorsi possono venire anche figurati, non come lo schema specifico di certi elementi singoli, ma piuttosto come una rete, che, senza identificarne specialmente alcuno, spiega le relazioni tipiche tra tutti i percorsi del sistema. Questa condizione presuppone una trama che abbia qualche coerenza, sia essa di direzione, di interrelazione topologica, o di interspazi. Una scacchiera pura, combina le tre, ma invarianza direzionale o topologica possono di per se stesse risultare piuttosto efficaci. L’immagine si precisa se tutti i percorsi che corrono in un unico senso topologico, o secondo una stessa direttrice geografica, sono visibilmente differenziati dagli altri. A ciò si deve l’efficace distinzione tra le streets e le avenues di Manhattan. Colori, alberatura, o particolari possono servire egualmente bene. Nomenclatura, gradienti di ampiezza, di topografia, o di dettagli, differenziazione in seno alla trama possono tutti dare alla griglia un senso progressivo e persino un senso modulare.
Vi è un ultimo modo di organizzare un percorso o un sistema di percorsi, che acquisterà importanza crescente in un mondo di grandi distanze e velocità. Con analogia musicale, esso potrebbe essere dichiarato “melodico”. Gli eventi e le caratteristiche lungo un percorso – riferimenti, variazioni di spazio, sensazioni dinamiche – potrebbero essere organizzati come una linea melodica, percepita e figurata come una forma di cui si fa l’esperienza in un congruo intervallo di tempo. Poiché l’immagine sarebbe quella di una melodia completa, anziché di una serie di punti separati, quell’immagine potrebbe presumibilmente essere più estesa, e tuttavia meno esigente. La forma potrebbe essere la classica sequenza introduzione-sviluppo-culmine-conclusione, o potrebbe assumere aspetti più raffinati, come quelle che evitano la conclusione finale. L’arrivo a San Francisco attraverso la baia suggerisce questo tipo di organizzazione melodica. La tecnica offre un ricco campo di applicazione e sperimentazione del disegno.


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19 settembre 2010

SEQUENZE URBANE: UN ESEMPIO CONCRETO



Le immagini qui sopra mi sono state inviate dal Prof. E.M. Mazzola, sono disegni di sequenze urbane realizzate da alcuni suoi studenti della Notre Dame School of Architecture Rome Studies, utilizzate sia come rilievo che per il progetto.
Gli autori dei disegni sono, nell'ordine dall'alto verso il basso: Joshua Eckert, Kalinda Brown e Christal Olin .
Mi spiace per la notevole riduzione di qualità che ho dovuto effettuare, me ne scuso con i tre autori e ringrazio Ettore per la sua gentilezza.
Il post che segue è una divagazione, molto lieve, sul tema “sequenze urbane” proposto da Mazzola nel post precedente, a cui necessariamente rimando per una migliore comprensione dell’argomento.

*****
Domenica mattina, in città poca gente fino alle undici: giovani padri che portano a spasso figli piccoli, rari anziani, qualche single, per forza e non per scelta, uscito di casa per sfuggire la solitudine, alcuni turisti. Anche qualche architetto (siamo così tanti che statisticamente ne trovi sempre qualcuno).
Mi fermo a chiacchiera con uno che conosco. Niente di impegnativo, argomenti da giorno di festa, l'inevitabile mugugno, cosa fai oggi, poco più. Al momento di salutarci la classica domanda: dove vai? Non è curiosità, in genere, ma una formula di saluto rituale, come how do you do. Gli dico che sto andando al cimitero a piedi
Si meraviglia moltissimo, non della meta ma dell'andarci a piedi.
Gli faccio presente che non è poi così lontano come sembra, la città dei morti è sul versante opposto della collina, la zona meno abitata della città e quindi l'idea è che sia proprio da tutta un'altra parte.
Non l'ho convinto e credo pensi che io sia un gran camminatore. Purtroppo non è così. Approfitto della domenica mattina per recuperare quel deficit di passi mancati durante la settimana.
Salgo lungo il Corso Italia, la strada dello struscio serale, il salotto di Arezzo lungo quasi un chilometro, la più importante della città, quella che proviene dalla Val di Chiana e, superata la sella di Olmo, procede diritta per tre chilometri e mezzo, entra in città, anzi origina e ordina la città, e sale lassù fino alla sommità della collina, fino al Duomo.
A metà circa del Corso svolto a destra, lungo la via Garibaldi, già via Sacra, la strada dei conventi e delle Chiese. Al centro dell’incrocio il solito pakistano che vende palloncini. Mica è stupido lui, lo sa dov’è che la gente passa, lo sa dove sono i nodi urbani. Non va a vendere in una strada con il niente intorno. I commerci ci sono laddove c’è gente, e la gente va dove ci sono commerci. In quell'angolo è incredibilmente ancora possibile trovarvi qualche contadino che vende i frutti della stagione: funghi, mazzi di agretti, castagne. Almeno fino a che qualche norma europea non impedirà per legge ciò che già è naturalmente in crisi.
Entro in piazza Sant’Agostino che non è una vera piazza, ma uno slargo in salita, molto allungato e frammentato in spazi diversi tenuti insieme dalla Chiesa di Sant’Agostino, posta in alto, punto di vista su cui converge lo sguardo. Davanti alla Chiesa l’ampio e allungato sacrato, di forma trapezoidale, sopraelevato rispetto a tutto il resto della piazza, racchiuso sui tre lati da un muro – il quarto è la Chiesa. Un progetto sciagurato in corso di esecuzione ha deciso che l’unico spazio unitario e pianeggiante che c’era in questa anomala piazza - una grande terrazza sulla piazza stessa - dovesse essere interrotto da scale poste ad angolo tra la base minore del trapezio e uno dei lati. Il progettista ha visto evidentemente molti disegni di progetti con le immancabili scale piene di giovani felici e sorridenti e così ha trasformato un’immagine grafica in un progetto urbano, ottenendo però il risultato di distruggere lo spazio. Sono i danni delle riviste e soprattutto l’incapacità di leggere, non le riviste ma la città: si prende un adesivo che piace e lo si attacca in pianta; peccato che poi si trasformi in pietra.


La qualità degli edifici intorno, salvo la Chiesa, il convento e poco altro, è scadente, ma la piazza è la più viva della città: sede del mercato rionale, conserva il carattere popolare che ha ereditato dall’essere stata luogo di lavoro, di posta per le carrozze, di vasche per le lavandaie.
Proseguo a lato della Chiesa e, sempre in salita, mi immetto in via della Minerva, una sinuosa strada degli anni '30, che mi porta in Piazza Crucifera. Uno sguardo dall’alto alle mura a strapiombo, dalle quali sono appena uscito e che in quel lato sono di notevole altezza. Ai piedi di queste uno spazio sterrato detto “Il Gioco del Pallone”, dove una volta si giocava ad una specie di pelota.
Proseguo in Borgo Santa Croce, una bella strada extra-moenia, stretta e lievemente flessuosa, a seguire una curva di livello, con edifici abbastanza poveri, salvo qualche eccezione. Arrivo alla Chiesa di Santa Croce. Qui finisce la città antica e mi immetto in un viale che sale verso la Fortezza e il Cimitero. Un tratto diritto di circa duecento metri, in salita, e sono arrivato.
Ho controllato su Google earth, in tutto ho percorso 1250 metri circa, in circa 20 minuti. E’ tanto, è poco? Dipende.
Quei 1250 metri non pesano, anzi, sono un piacere. Il percorso che compio è un susseguirsi di quadri diversi, di sequenze urbane, come ha spiegato bene E.M.Mazzola nel post precedente, a cui rimando.

Gli stessi 1250 percorsi in un quartiere sub-urbano sarebbero stati una fatica, o meglio, una noia. L’incentivo a prendere l’auto è evidente. Con la stessa distanza si può andare dalla fine della città compatta ad un “vicino” supermercato o fare una visita ad un amico nel quartiere PEEP Tortaia.
Ma per farlo si deve percorrere una lunga strada (parallela al Corso) ma progettata per le auto: rare case ai margini e tra loro staccate, una somma di episodi. Si deve attraversare la tangenziale, ambiente ostile per il pedone, si continua a camminare nel vuoto e quei tratti di strada lunghi e monotoni appaiono distanze incolmabili. Infine si arriva al supermercato, progettato come una Chiesa, al centro di una piazza che però è un parcheggio, al centro di un quartiere PEEP.
Lo schematismo del percorso, disegnato con tratto minimalista e la mancanza di stimoli rendono il cammino faticoso e l’ambiente sfavorevole alle passeggiate. Sono del tutto assenti le sequenze urbane, prima di tutto perché è assente la città.
Come si può affrontare con leggerezza una camminata in una strada come questa, dove la meta è ben oltre ciò che si vede al fondo di questa foto?
La distanza e la durata degli spostamenti pedonali è certamente importante nel progetto della città, ma da sola non è condizione sufficiente a garantire una città user-friendly; questi quartieri hanno tenuto conto del raggio di influenza della scuola e dei servizi in genere, cioè degli standard, eppure il risultato è assolutamente insoddisfacente. La logica della quantità, il funzionalismo e la zonizzazione hanno fatto evaporare la città sostituendola con aggregati edilizi inadatti alla vita e alla convivenza umana. Sono stati costruiti molti edifici ma manca ciò che li tiene insieme per farne una città.
Un pensiero rozzo e schematico si è sostituito alla raffinatezza e alla complessità della città antica.
La razionalità da sola ha fallito il suo scopo e la fatica di abitare in città si è sostituita alla naturalezza di viverla.

Non appaia irriverente o troppo riduttivo utilizzare la suggestione del discorso di Benedetto XVI alla Westminster Hall, sostituendovi la parola “religione” con “tradizione”:
Senza il correttivo fornito dalla “tradizione” (religione nel testo originale), infatti, anche la ragione può cadere preda di distorsioni, come avviene quando essa è manipolata dall'ideologia, o applicata in un modo parziale, che non tiene conto pienamente della dignità della persona umana".

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16 settembre 2010

STRADE 5°: ETTORE MARIA MAZZOLA

Questo quinto post della serie strade prevede, sempre a causa della lunghezza, un unico autore il Prof. Arch. Ettore Maria Mazzola, University of Notre Dame School of Architecture Rome Studies Program. E' un testo appositamente rielaborato dall'introduzione al corso di analisi della città che ha tenuto nel 2007 per il Graduate Program della Notre Dame e tutto dedicato a Roma.
Di questo impegno ringrazio l'amico Mazzola.

ETTORE MARIA MAZZOLA
Leggere la città esistente per disegnare quella futura

Volendo sottolineare ciò che colpisce un pedone nel suo passeggio per le strade di un centro storico, forse non c’è miglior descrizione di quella lasciataci da Plinio Marconi «[…] più che del dettaglio di ciascun edificio in sé, conta l’architettura d’insieme delle strade, assai varie e pittoresche nel casuale comporsi di tanti elementi disparati – crocicchi, androni, sottopassaggi angusti, l’improvviso alzarsi e scorciare di muraglie, i balconi fioriti, le loggette, le altane»(1).
Diversamente, lo studio di una qualsiasi realtà “urbana” prodotta nel corso del XX secolo dimostra che, in nome di una ossessione per la presunta “razionalità”, tutto ciò che aveva sovrinteso – intenzionalmente o no – allo sviluppo armonico delle città, contribuendo alla creazione del carattere dei luoghi e dell’orgoglio “campanilista” dei cittadini, è stato totalmente ignorato da chi teorizzava di voler realizzare una “città funzionale” alle esigenze umane: il modello tradizionale di città (LA CITTÀ COMPATTA), è stato rimpiazzato da quello modernista (LA CITTÀ DISPERSA), basato sulle folli imposizioni contenute nella Ville Radieuse di Le Corbusier(2).

Contrariamente alla nostra tendenza imitativa del modello disperso (SPRAWL) di pianificare le città, James Howard Kunstler – autore di The Geography of Nowhere (1993), The City in Mind (2001) e The Long Emergency (2005) – in un intervista del 2006 tuonò contro i limiti di quel modello: «assenza di spazi pubblici decenti; estrema separazione degli usi; svantaggi per bambini e anziani che non guidano, ecc.» facendo notare come: «La disposizione abitativa meno naturale e normativa è l’espansione selvaggia, nata negli Stati Uniti, che cominciarono il ventesimo secolo con delle grasse riserve di petrolio in casa. Oggi dipendiamo disperatamente per più di metà del petrolio che utilizziamo da nazioni che ci odiano. L’epoca dell’espansione a macchia d’olio come alternativa credibile è agli sgoccioli[…]».
Se i dati scientifici riportati in The Long Emergency corrispondono alla realtà – nessuno fino ad oggi è stato in grado di confutarli – ritengo che sia più che legittimo da parte nostra operare un processo di ri-compattamento delle città del XXI secolo, e per far questo non c’è miglior lezione che quella dell’analisi del tessuto urbano. La comprensione del sistema delle strade, delle piazze, della commistione di funzioni, della varietà edilizia, e di tutto ciò che rende piacevole gli spazi urbanizzati, può infatti risultare di grande aiuto per rivedere il modo in cui i quartieri più recenti sono stati pianificati.

Quella che segue è una breve descrizione del tessuto urbano della Capitale, in una passeggiata ideale che dal centro si muove verso la periferia. Le sensazioni che si susseguono lungo le strade di questo percorso ci consentono di riconoscere almeno quattro diverse città:

1. pre-ottocentesca, (o storica): è caratterizzata da un tessuto compatto, apparentemente irregolare, ma dotato di una sua logica razionale, all’interno del quale si riconoscono una serie di sistemi e sottosistemi (sequenze urbane) fatti di strade, vie, vicoli, piazze, piazzette, slarghi; qui, la commistione delle funzioni è la regola, l’edilizia “nobile” è accostata a quella “minore” in un armonioso rapporto biunivoco, dove la res publica si mescola meravigliosamente alla res privata generando la civitas, l’andamento delle strade, eccettuati alcuni assi rettilinei (l’antica via del Corso, o gli assi del Piano Sistino), presenta delle lievi – o pronunciate – curvature che, anche nel caso di stretti vicoli, garantiscono la possibilità di godere della vista delle facciate degli edifici, i principali dei quali, spesso, risultano collocati in modo da svolgere il ruolo di traguardo visivo, evidenziando come quelli che alle nostre menti razionali moderne possono sembrare degli spazi casuali, nella realtà siano stati razionalmente calcolati dagli autori. La “passeggiata” evidenzia anche come possano esserci tanti modi di giungere in una piazza e, nella quasi totalità dei casi, non v’è mai un asse allineato al centro della facciata dell’edificio principale, sembra essersi privilegiata sempre la visione di scorcio, molto più stimolante di quella ovvia della prospettiva centrale tanto cara all’urbanistica post-illuminista; la vista di scorcio, tra l’altro, consente all’edificio di poter esser inquadrato provenendo da diverse direzioni. Esempio emblematico è la Piazza della Rotonda, dove ben 6 strade convergono sul Pantheon, ma nessuna risulta in asse con esso;




Roma, l’area di Piazza della Rotonda

2. post unitaria: qui, il tessuto edilizio è organizzato per griglie ortogonali, le cui maglie urbane – a causa del sistema speculativo che le ha generate – risultano mal collegate, sia col centro che tra loro. Questa è la Nuova Capitale costruita in spregio alla vecchia Roma – basti pensare che i monotoni quartieri umbertini, d’impostazione Beaux-Arts, vennero definiti “di rimprovero e insegnamento” nei confronti della vecchia Roma (3). Nella Roma post-unitaria, le strade risultano quindi rigidamente dritte, le piazze assumono dimensioni enormi, proporzionate a quelli che sono gli assi stradali nel disegno planimetrico, ma non di certo alla scala umana, le cortine edilizie lungo le strade divengono monotone, poiché le facciate tendono a coincidere con l’isolato, perdendo il ritmo e la varietà presente nel centro storico. Tuttavia, l’architettura risulta ancora ricca e a tratti piacevole, le strade continuano a risultare vitali, grazie alla commistione di funzioni ed alla presenza di diverse attività commerciali lungo i marciapiedi, ma il passeggio diviene meno interessante. Questa Roma, avendo perso l’effetto sorpresa, le viste di scorcio e i traguardi visivi in grado di attrarre e reorientare il pedone, in nome dell’ordine e dell’uniformità, ha reso la passeggiata noiosa, benché ancora possibile;




Roma, l’area di Piazza Vittorio Emanuele

3. pre-modernista, caratterizzata da un tessuto ormai organizzato secondo i principi della maglia regolare, dove i grandi assi di matrice ottocentesca la fanno da padrona; la larghezza delle strade ha perso di vista il giusto rapporto con l’altezza degli edifici, e per ritrovare il senso contenimento urbano le strade fanno ricorso alla costante presenza di alberature lungo i marciapiedi, portando i fronti edilizi a non aver più alcun valore di riferimento. All’interno di questa “Roma” diviene difficile ritrovare una gerarchia spaziale tra le strade. La Roma pre-modernista è però l’ultima che, almeno a livello architettonico, cerca di mantenere un rapporto diretto con la città storica. In alcuni quartieri, nonostante la perdita del rapporto larghezza strade-altezza degli edifici, e nonostante la monotonia delle visuali – che sembrano modellate più per un veloce transito veicolare che non per un lento e piacevole passeggio – gli edifici sono ancora concepiti per avere delle funzioni diverse al pianterreno, garantendo quella “sicurezza” rassicurante per i pedoni, che di lì a poco si è andata perdendo.




Roma, l’area di Piazza Mazzini

4. Modernista, in realtà questa definizione è attribuibile al solo “quartiere” dell’EUR, in cui è chiara la logica d’insieme, ed in cui è chiaro l’intento di essere un qualcosa nato a scopo dimostrativo e temporaneo, ma che poi è rimasto lì per sempre. Qui, volendo, una gerarchia tra le strade è riscontrabile, tuttavia questa gerarchia risulta indipendente dall’idea di scala umana: la larghezza dell’asse portante di tutto il complesso, via Cristoforo Colombo, con i suoi 100 metri, risulta immensamente più larga dell’altezza degli edifici. Via Cristoforo Colombo è una strada disegnata per le auto, e nessun essere umano sano di mente penserebbe mai di mettersi a passeggiare al centro della carreggiata, nel vano tentativo di godere dei presunti “riferimenti visivi” (tali solo nel progetto); questi elementi risultano talmente distanti tra loro, e talmente privi di “cornici edificate”, da dissolversi nell’aria. Non è un caso se l’EUR, dimensionato per l’automobile, risulta esser stato completato – dopo la caduta del Fascismo – con l’apporto economico dalla FIAT. La lettura delle strade di questo “quartiere” dimostra senz’altro una sua coerenza nel carattere degli edifici Razionalisti, tuttavia si tratta di un modello di città ben distante dalle esigenze umane, che sembra uscire da un quadro metafisico di De Chirico, dove gli spazi sembrano concepiti al solo scopo di generare l’agorafobia.


Roma, l’area dell’EUR

Esisterebbero almeno altre due Roma da descrivere, quella “palazzinara”, edificata tra gli anni ’50 e i primi ’60, e peggio di questa, quella derivante dal Piano del ’62 e dai successivi Piani di Edilizia Economica e Popolare, ma l’unica lezione che da esse si può apprendere è che si tratta di modelli urbani da non ripetersi mai più!
Riassumendo, la lettura del tessuto dei differenti quartieri, ci aiuta a comprendere i vantaggi, e/o i limiti, delle diverse città all’interno del perimetro comunale, suggerendoci varie soluzioni per riorganizzare quelle zone in cui risulta difficile riconoscere l’esistenza di un progetto urbano.
L’analisi delle strade di un centro storico, ci mostra l’importanza di aspetti quali l’“effetto sorpresa”, i riferimenti visivi, il ritmo scadenzato dal susseguirsi di piazze, piazzette e slarghi, la varietà dei prospetti che si susseguono lungo i fronti stradali, il senso di unitarietà priva di uniformità, ecc.: le reti che mettono in relazione questi elementi, possono definirsi SEQUENZE URBANE.
Queste SEQUENZE possono suddividersi gerarchicamente in sequenze urbane principali – quelle lungo le quali si snodano le strade e le piazze principali – e sequenze urbane secondarie – quelle lungo le quali si articolano i percorsi pedonali secondari con piazzette più umili o corti.

Ambedue questi tipi di SEQUENZE URBANE utilizzano gli spazi pubblici come cerniere per attrarre e re-orientare chi cammina. L’esistenza di queste SEQUENZE ci spiega il perché le piazze del centro funzionino decisamente meglio di quelle “moderne”: le seconde infatti, costantemente sovradi-mensionate e concepite come fini a se stesse – quindi non appartenenti ad un sistema complesso – non esercitano sul pedone lo stesso piacevole effetto accogliente di quelle centrali e, conseguen-temente, non riescono a generare vita all’interno dell’intero quartiere.
Queste sequenze rendono la città piacevole … la possibilità di poter scegliere tra diverse connessioni pedonali, invita la gente a passeggiare attraverso il centro, allontanando la necessità dell’automobile … gli effetti positivi della città pedonale sono troppo ovvi per doverli descrivere.

Alla luce di quanto sopra, appare dunque chiara la necessità di riaffermare il valore della continuità tra case, strade e piazze, ovvero tra i luoghi deputati agli aspetti privati della vita di ogni giorno e quelli destinati ad un ambito di relazioni allargate: i nuovi quartieri (ma anche la riqualificazione di quelli esistenti) dovrebbero intendersi come degli spazi compositi in cui le case, e/o gli edifici speciali, sono solo un elemento della composizione urbanistica, importante ma non sufficiente a soddisfare le necessità di incontro e relazioni sociali! Come infatti ha acutamente evidenziato il sociologo americano Richard Sennet (4), la “griglia ortogonale urbana” rappresenta «la prima manifestazione di una forma particolarmente moderna di repressione che nega il valore degli altri e dei luoghi specificatamente addetti alla costruzione della banalità quotidiana».

NOTE
1) Plinio Marconi, saggio intitolato L'Architettura rustica nell'isola di Capri, in "Le Madie", pubblicazione mensile d'Arti Paesane, n° 2, Dicembre 1923, pag. 22
2 «le città saranno parte della campagna; io vivrò a 30 miglia dal mio ufficio, in una direzione, sotto alberi di pino; la mia segretaria vivrà anch’essa a 30 miglia dall’ufficio, ma in direzione opposta e sotto altri alberi di pino. Noi avremo la nostra automobile. Dobbiamo usarla fino a stancarla, consumando strada, superfici e ingranaggi, consumando olio e benzina. Tutto ciò che serve per una grande mole di lavoro ... sufficiente per tutti.»
3) Giovanni Faldella, Roma Borghese, Roma, 1882
4) Richard Sennet, American cities: the grid plan and th protestant ethic, International Social Scieca Journal; XLII, 3, 1990


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13 settembre 2010

PADIGLIONE LANGONE

Su Il Foglio del 26 agosto 2010, Camillo Langone ha stilato una lista ragionata di architetti che costituiscono il Padiglione Langone (dice lui) di una Biennale con un padiglione solo (aggiungo io). Ci sono in questa rassegna nomi noti alla quasi generalità degli architetti, e nomi noti prevalentemente a chi apprezza l’architettura della tradizione.
Questo Padiglione è la dimostrazione che si potrebbe organizzare una Biennale non monotematica, modaiola e partigiana eppure con architetture diverse tra loro, almeno nel linguaggio. Naturalmente non sarebbe la Biennale, ma altro. Non potendo riportare tutto l’articolo e non volendo menomare il testo di Langone dedicato a ciascun architetto, sono costretto ad una scelta. Ho seguito il criterio di mantenere la diversità.
Non ho compreso Andrea Pacciani, Matteo Thun e Paolo Zermani.
Alcune brevi considerazioni:
Riporto alcune foto di chiese di Mauro Andreini e consiglio di guardare nel suo sito anche gli acquerelli. Di Pier Carlo Bontempi riporto la Place de Toscace, mentre di Bruno Minardi non riporto alcuna foto perché le immagini del suo blog hanno il copyright.

MAURO ANDREINI
"I nostri nemici non sono gli atei, ma chi privatizza la fede" disse don Giussani, quindi i nostri nemici sono la Cei e le curie che da decenni commissionano chiese irriconoscibili con campanili inesistenti o non percepibili come tali perché simili a tralicci, ripetitori, ciminiere... Dopo lunghe ricerche ho verificato che in Italia su 140.000 iscritti all'Albo (avete letto bene: centoquarantamila) esiste solo un architetto che costruisce chiese che sembrano chiese e campanili che sembrano campanili (sebbene non abbastanza alti).
Sono andato a trovarlo a Montale, diocesi di Pistoia, e ho conosciuto un uomo religioso e quindi umile, quasi disinteressato all'apparire da rasentare lo snobismo. "Io sono un architetto regionale". Ma non è certo una diminutio, in un tempo di architetti internazionali tutti uguali. "Io non voglio asso¬lutamente inventare nulla". Anche questo è un merito, come capisce chiunque abbia letto il Ratzinger di "Introduzione allo spirito della liturgia": "Nelle moderne teorie artistiche si intende con creatività una forma nichilistica di creazione, in un mondo privo di senso, sviluppatosi per un'evoluzione cieca". Andreini, il cui mondo di senso è pieno, mi spiega il suo modo di progettare edifici di culto: "Vorrei avvicinarmi alla semplicità del disegno di un bambino che per disegnare una chiesa impiega urta capanna e un campanile, una piazzetta e una casina accanto".

Mauro Andreini: Chiesa e Centro comunitario - Mirabella

Non ho ancora detto che tutte le chiese costruite da questo fantastico toscano (seguace di Ambrogio Lorenzetti e metafisico però di un metafisico collodiano, non dechirichiano) sono protestanti. Ebbene sì. Eretiche. Perché i vescovi cattolici l'unico architetto italiano che disegna campanili mica lo fanno lavorare.
Mauro Andreini: Chiesa e Centro comunitario - Firenze

PIER CARLO BONTEMPI
Un viale di pioppi cipressini e due pilastri nella campagna come una visione, due pilastri di mattoni appena eretti che sarebbero (mi dicono il committente Franco Maria Ricci e l'architetto Pier Carlo Bontempi) due prove di materiale eppure (me lo dico da solo) sono nientemeno che il Paesaggio Italiano, convivenza talmente armoniosa fra natura e cultura da generare poesia. Non vorrei fare troppo lo svenevole e anziché quest'immagine lirica, rarefatta, espongo un capolavoro di civile concretezza: la Place de Toscane, un'intera piazza (compresa di palazzi) progettata e costruita da Bontempi a Marne-la-Vallée, importante "città nuova" dell'Isola di Francia a pochi chilometri da Parigi.
Il suo ovale riprende dichiaratamente la lucchese Piazza del Mercato che Guido Ceronetti definì "spazio ideale" dove "vivere felici, al riparo, nel cavo di mano di un archetipo".
Place e Piazza meritano un'ulteriore citazione, stavolta di Mircea Eliade: "La nostalgia del Paradiso è il desiderio di trovarsi, sempre e senza sforzo, nel cuore del mondo, della realtà". Bontempi ovvero del paradiso possibile, a portata di mano, non dell'ideologica utopia. Non ha senso desiderare oltre: se siete ricchi o se siete potenti che cosa aspettate a commissionare qualcosa all'artefice dell'abitare senza sforzo, della riconciliazione tra cuori e muri? Le meraviglie che realizza specialmente oltralpe sono documentate nella mostra dedicata ai "New Palladians" che da Londra ha girato mezzo mondo ma non l'Italia, a riprova che gli italiani odiano loro stessi e che Palladio non se lo meritano.
Ammiratele nel libro omonimo acquistabile su Amazon dove sono raccolte opere di oltre quaranta architetti tradizionalisti, tutti meritevoli di plauso: ma solo Bontempi è così sereno.

Pier Carlo Bontempi: Place di Toscane - Marne-la-Vallèe

BRUNO MINARDI
Io non mi stupisco che il turismo balneare italiano sia in declino e che la gente si aggiri per Riccione con la domanda di Bruce Chatwin stampata sul viso: "Che ci faccio qui?". Io mi stupisco che il turismo balneare italiano esista ancora.
Com'è possibile che qualcuno si riduca a passare e vacanze a Sottomarina, Lido Adriano, San Benedetto del Tronto? Bisogna essere sprofondati in una drammatica mancanza di alternative, altrimenti sai le fughe. L'epicentro della crisi è la riviera romagnola che può affascinare a vent'anni (ma se hai vent'anni ti puoi alterare meglio a Mykonos e Ibiza).
Per ridare un minimo di credibilità a Rimini come meta turistica bisognerebbe cominciare col tirar giù gli alberghi di viale Vespucci e farli ricostruire da Bruno Minardi più piccoli, più belli e soprattutto più vicini all'idea dell'albergo di mare (al momento rendono piuttosto l'idea del condominio di Buccinasco).
L'architetto di Ravenna è l'unico architetto balneare italiano, bisogna sfruttarne l'eclettismo. Nella sua produzione, che deve molto ad Aldo Rossi pur confrontandosi col vernacolare, ho individuato almeno tre sottostili: sottostile baltico (tetti spioventi), sottostile adriatico (persiane bianche), sottostile balearico-pugliese (pietra a secco).
Qui mostro un esempio di sottostile adriatico che può aiutare a ritrovare il fascino perduto di Romagna. Oggi nell'arte figurativa c'è un grande maestro di eleganze vacanziere; Jack Vettriano. Le ville che Minardi immerge nelle pinete ravennati sono gli unici set contemporanei che l'Italia possa offrire al pittore scozzese, nel tempo in cui gli architetti da Biennale continuano a produrre sfondi per Botto e Bruno.

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