Francesco Finotto è l’autore di La città aperta, Marsilio, 2001, che pone l’Ottocento al centro dei suoi interessi come il secolo in cui si pongono le basi dell’urbanistica moderna. I brani riportati nel post illustrano e commentano la teoria dell’urbanista tedesco K. Henrici (1842-1927).
FRANCESCO FINOTTO
Il pittoresco come bello relativo
Henrici non riteneva accettabile il sentimento di impotenza, la sfiducia nei confronti del pittoresco: certo ad incollar facciate pittoresche sulle piatte strade moderne, oppure ad accumular facili arredi sulle strade si otteneva solo un ridicolo ammasso di ornamenti. Il pittoresco inteso come accentauzione dei contrasti, parcellizzazione delle forme, vivacità dei contorni era solo una ricetta, che spiegava ben poco. Ma non c’era ragione per continuare ad imitare l’arte italiana o quella francese nella disposizione degli spazi urbani: bisognava riprendere la pura, antica arte tedesca, con il cuore, il sentimento e la pratica. Il pittoresco non sarebbe più stato inattuale se divantava nazionale. Se invece di utilizzare il sistema moderno di costruire le città, che appiattiva le diversità, si fosse fatto ricorso alla tradizione storica. Valorizzata in tutti i modi la diversità dei luoghi: ci si aspetta di vedere in Italia e Grecia qualcosa di diverso che in Germania; in montagna qualcosa di differente rispetto alla pianura.
Il pittoresco non è l’accumulo casuale dei detriti della storia, né il mero effetto dell’azione del tempo. In realtà il pittoresco non è altro che il bello relativo. Non quello ideale, che si può evocare con la pittura o la scultura, arti prive di scopo immediato, autosufficienti, che valgono per sé. Il pittoresco è il lato piacevole dell’architettura, che commuove il popolo e suscita l’amore per la patria.
L’arte di costruire la città, o di fare i piani urbanistici, non consiste infatti nella produzione di un oggetto in se stesso compiuto. L’impianto di una città è un oggetto di uso comune: “La completa corrispondenza allo scopo rende ogni oggetto di uso comune anche bello, e la bellezza pienamente adeguata allo scopo è il fine del’arte di costruire la città” (1). Il pianificatore deve conoscere i mezzi e i modi per determinare gli effetti di bellezza, deve possedere le capacità di prevedere gli effetti spaziali del suo piano.
Bisognava allora andare avanti nel tentativo di mettere in piedi una grammatica della visione che rendesse accettabile il volto della città moderna; continuare lo sforzo di oggettivare rapporti, regole, dimensioni, armonie in un mondo dove la modernità stava frantumando tutti gli spazi: annientando le differenze visibili, sterminando gli oggetti, disintegrando i contesti, dando per scontata una cultura della visione oggettiva, che prescindesse dalla commutazione di tutti i significati.
Si passa allora dalla meccanica dell’emozione degli architetti illuministi alla retorica della visione dei teorici tedeschi: dall’eloquenza degli spazi infiniti alla dialettica degli spazi chiusi. Ormai non si tratta più di impressionare, comunicare sensazioni, suscitare timore, sorpresa o entusiasmo: si deve solo poter vedere. Tutti gli oggetti sembrano più piccoli quando ci si allontana (2). Le prospettive interminabili, con il monumento trattato come point de vue, così care ala poetica del sublime, diventano noiose. Buone solo per lo sguardo miope che si accontenta di facili impressioni………
Bisogna andare oltre alla teoria della successione delle piazze. Concepire la strada stessa come una successione di fondali, che frantumano la prospettiva illimitata: che articolano le masse, imprimono ritmo, variano la luminosità, graudano luci e colore.
La razionalità delle strade concave
Ma come fare per non cadere nell’occasionale, nell’arbitrario? Che cosa garantisce la razionalità del disassamento stradale? Semplicemente la teoria dell’incrocio.
Nelle città storiche gli isolati arrivano agli incroci con gli angoli retti, e compensano il disassamento delle strade mediante la piegatura dei lati. In questo modo il mancato parallelismo delle strade viene assorbito nei cortili, negli spazi interni, non produce deformazione negli edifici. Nei lotti ciò che conta è l’angolo retto e la forma allungata della figura. In questo modo si facilita la suddivisione dello spazio e la costruzione degli edifici. Infatti, sia l’angolo acuto sia quello obliquo creano numerose difficoltà costruttive: non sono graditi in architettura. Inoltre la figura allungata garantisce maggior superficie, più fronte stradale, e quindi minori costi d’urbanizzazione, con lo stesso numero di angoli.
Come la teoria del’archetipo spaziale garantisce a Sitte un fondamento di razionalità nell’analisi delle piazze così la nuova teoria dell’incrocio consente a Henrici di dimostrare la razionalità delle strade curve e rendere evidente l’irrazionalità di quelle rettilinee. L’isolato tradizionale, prodotto dalla successione di singole case a schiera, pur incorporando notevoli asimmetrie non abbandona mai la regola aurea dell’angolo retto. L’isolato moderno, prodotto dall’intersezione tra il rettifilo e la strada diagonale, diventa un mero residuo triangolare. É pertanto irrazionale un allineamento che per garantire il rettifilo taglia glia gli angoli e produce isolati triangolari,. Inservibili in architettura; è razionale invece l’allineamento che tiene fermi gli angoli retti e muove i lati, alternando concavità a convessità. In fondo fino a quando l’allineamento è stato inteso come servitù è sempre prevalsa la scala architettonica: gli arretramenti o avanzamenti imposti agli edifici non cancellavano la sinuosità dei percorsi. Quando è comparsa la teoria dell’allineamento come ricostruzione per isolati, allora si è imposto il rettifilo illimitato. Questa è la ragione fondamentale per cui Henrici si schiera contro l’Umlelung, contro la ricostruzione per zone, inutile scorciatoia che altera i caratteri pittoreschi del tessuto urbano.
La città per parti
Anche per Henrici il disegno dei piani d’espansione inizia con la collocazione dei nuclei monumentali, come per Delay. La città infatti doveva essere suddivisa in parti, ognuna dotata di autonomia e caratterizzata da un addensamento di edifici monumentali, dislocati intorno a piazze. Tuttavia il loro collegamento non doveva essere attuato mediante il tracciamento dei rettifili, ma attraverso la dislocazione di un tessuto stradale differenziato, ramificato, che riproducesse il corso dei grandi fiumi, dove le correnti non procedevano mai nei due sensi; che aderisse ai luoghi, rispettasse gli invisibili limiti delle proprietà, per dar modo di costruire direttamente o di vendere a chi voleva costruire per sé.
Inoltre non bisognava esagerare con gli alberi lungo le strade: condivideva con Sitte l’idea che la bellezza delle strade dipendesse dall’effetto architettonico: era sbagliato fare di ogni strada un’allée, di ogni piazza un giardino. Gli alberi infatti nascondono le facciate, impediscono la percezione unitaria dello spazio, Andvano utilizzati con parsimonia, nei luoghi appropriati, solo lungo certi tratti stradali, e nei giardini interni agli isolati.
Così come andava utilizzato con molta parsimonia il Bauwich, l’obbligo di distanziare tra di loro gli edifici, dal momento che interrompendo la linea di fuga, segmentando lo spazio, si distruggeva la continuità della vista prospettica. L’edilizia chiusa infatti non era meno igienica di quella aperta. Come aveva dimostrato ampiamente Nussbaum: le correnti d’aria hanno una forma ad onda e penetrano in ogni spazio sufficientemente ampio, dunque l’edilizia isolata non gode di nessun vantaggio in termini di ricambio d’aria rispetto a quella chiusa. Casomai nei distacchi s’infiltra più facilmente la polvere della strada. L’edificazione retrostante poteva essere impedita semplicemente indicando dei limiti di massimo inviluppo all’interno degli isolati, in modo da riservare uan certa quantità di spazio ai giardini privati. E come aveva mostrato Retting l’edilizia aperta non era più economica di quella chiusa, ma i risultati estetici erano sicuramente disastrosi. Dunque un conto era promuovere quartieri di ville in periferia per le classi benestanti, e un altro cercare di esportare in tutte le città un sistema costruttivo tipico di altre regioni, imporre attraverso la zonizzazione tipologica un’artificiosa ed ingiusta bassa densità.
Quanto al traffico bisognava evitare gli incroci tra strade principali, risolverli mediante piazze o spazi allungati; le strade secondarie potevano solo sfociare in quelle principali, mai attraversarle.
Henrici dunque si rivela il San Paolo dell’arte di costruire la città. Trasforma il messaggio di Sitte infondendogli una nuova carica. Rivendica la superiorità dell’arte sulla tecnica: nonostante che la scienza del traffico, l’economia politica, la legislazione e l’igiene abbiano stabilito nuove condizioni spetta all’arte far da guida, prendere in mano il timone dei tempi nuovi. Non soltanto i nuclei monumentali , che davano identità a ciascuna parte della città, potevano essere costruiti sulla base della nuova retorica degli spazi chiusi, ma anche le loro connessioni, le strade, dovevano essere tracciate utilizzando io medesimo principio: l’architettura stradale doveva essere concepita come arte di concepire lo spazio, riconoscendo al principio della concavità altrettanta importanza che a quello della convessità nella costruzione delle forme plastiche.
Lo spazio, la luce, i colori sono i materiali fondamentali di quest’arte nobile, che si nutre di sottili trasgressioni, muove le masse, arretra i corpi, innalza le fronti; che davanti all’universalità della modernizzazione afferma l’individualità della storia e del sito di ogni città. Il pittoresco resta il valore guida, ma spogliato dalla patina superficiale, dallo splendore delle guglie e pinnacoli: è un pittoresco strutturale, asciutto, quasi scarnificato nella composizione dei volumi, dotato di un’intima razionalità costruttiva. Henrici mostra così, al di sotto della veste pittoresca, una propensione per lo spazio, per la regola compositiva, che rifiuta l’arricchimento superficiale, considera l’arredo, il decoro una soluzione di ripiego, minore, falsa…..
Note:
1) Woran ist zu denken bei Aufstellung eines Stadtischen Bebauungnsplanes, p.166
2) Beitrage zur praktischen Asthetik in Stadtebau, p.22
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