Pietro Pagliardini
Questo articolo scritto per il periodico dell'Ordine è del 2002 e vi sono alcune previsioni sulla Cina ormai largamente superate dai fatti. Almeno su questo avevo visto giusto.
Vado al ristorante tipico aretino e ordino il polpettone. Mi propongono un piatto con due fettine sottili coperte da una salsa color senape. Mi predispongo, con curiosità, ad una versione più tradizionale del polpettone di mia mamma. Assaggio e un intenso sapore di spezie mi aggredisce il palato. Domando al cameriere: è cumino, una pianta particolarmente aromatica, molto più adatta a cibi nord africani che aretini. La chiamano fusion cioè mescolanza di sapori di diverse cucine.
E’ un esempio di globalizzazione culinaria? Baricco avrebbe risposto: forse sì, forse no. Io, più grossolanamente rispondo sì, lo è.
Si tendono a confondere sapori, gusti, abitudini consolidate con alimenti uguali in ogni parte del mondo. Oggi, ad esempio, è molto trendy il sushi: senza sushi sei out (globalizzazione della lingua).
D’altronde la Coca Cola è apprezzata da un secolo e non è certo di origine toscana, dunque vada per il sushi.
Ma cosa c’entra la cucina con l’architettura?
Poco, in verità, se non fosse che entrambe sono forme, diverse, di manifestazione della cultura di un popolo. E allora potremmo azzardare a dire che il corrispondente del sushi in architettura è il palazzo di acciaio e vetro: c’è a Tokyo? lo voglio anch’io. Con una non piccola differenza: il sushi viene “digerito” in poche ore, lo smaltimento del palazzo, per quanto mal costruito, è comunque più tardivo.
E’ difficile per un architetto non esperto di economia parlare di globalizzazione, perché è chiaro che di fenomeno economico, prima di tutto, si tratta. E’ l’economia che cambia realmente la vita degli uomini, che rende il pianeta un enorme mercato senza frontiere, che ci permette di comprare capi griffati o prodotti di uso comune con marchio italiano ma tutti rigorosamente Made in China. In una qualsiasi città europea si progetta un oggetto, da una qualche banca americana arrivano i soldi, in Cina si produce, nel mondo intero si vende.
Vi è chi in questo metodo vede, con qualche ragione, un pericolo, una minaccia alla democrazia, una perdita del controllo politico dei processi decisionali; vi è chi, viceversa, crede che dopo lo sfruttamento della mano d’opera a basso costo, i cinesi impareranno a fare da soli, troveranno i capitali, produrranno e venderanno nel mondo, miglioreranno il loro tenore di vita, diventeranno produttori e consumatori. Personalmente propendo per la seconda visione ma conta niente ciò che io penso, perché la globalizzazione è un fenomeno che difficilmente può essere fermato, non dico da me, ma da uno stato intero o da più stati. E’ un processo inarrestabile per ora: speriamo che abbiano ragione quelli che la pensano come me e che sia una buona cosa per l’umanità.
Ciò che invece non è certamente una buona cosa, ma che può, questa sì, essere parzialmente dominata, è la sua ricaduta culturale.
La circolazione delle idee, anche di quelle no-global, è il grandissimo merito della globalizzazione ma più le idee circolano e più c’è il rischio che si confondano (la fusion, appunto). Quello che dovrebbe essere scambio tra culture diverse, a causa dell’enorme velocità del processo tende a semplificarsi e a diventare cultura unica.
E in architettura? Alcuni esempi di globalizzazione:
1) le opere dei vari architetti dello star-system che, ovunque, ripropongono il loro cliché, il loro marchio, con l’unico scopo di promuovere sé stessi infischiandosene della unicità dei luoghi a loro affidati (Botta, ad es., riempie mezza Europa di cilindri);
2) le opere di tutti noi quando ci “ispiriamo” alle stars;
3) il movimento moderno che ha imposto uno stile uguale in ogni dove (international style, non a caso), senza rispetto per la diversità dei luoghi, dei popoli che li abitano, delle comunità locali
4) i grandi interventi immobiliari uguali a Londra come a NY o a Hong Kong.
Pochi “stili” sono stati così globalizzanti come quelli del XX secolo. Si prenda ad esempio il Duomo di Arezzo: gotico, sì, ma asciutto, scarno, rigoroso, puro creatore di spazio quasi privo di ornamento, maschio, povero forse, essenziale come il carattere degli aretini. Lo si confronti con il Duomo di Milano: anch’esso è gotico, splendido, ma quale somiglianza se non negli archi, nei pilastri a fascio, nella verticalità, nella concezione dello spazio? Sarebbe concepibile un Duomo di Milano, in piccolo, ad Arezzo? Impossibile, non c’era l’architetto star che lasciava il marchio; ogni comunità adattava lo stile al proprio carattere.
L’unica difesa possibile dalla globalizzazione, dalla omologazione, dalla fusion sta nel valorizzare la cultura dei luoghi e nella tradizione.
In questo ognuno di noi ha la sua responsabilità e può contribuire a cambiare un po’ le cose, anche perché ai nostri clienti piace molto di più la casa legata alla tradizione piuttosto che la villa americana acciaio e vetro e, dato che lavoriamo per loro, non vedo perché non accontentarli.
Non vi alcunché di provinciale in questa scelta anzi è vero il contrario: quanto è irritante l’atteggiamento di qualche collega che, di ritorno da un viaggio all’estero, vorrebbe trasferire, sic et simpliciter, ciò che ha visto nel nostro territorio!
Nessun rifiuto della modernità in sé stessa ma delle forme attraverso cui la modernità si manifesta in altri paesi sì, eccome!
Nessun rifiuto dell’innesto di architetti “di fuori” nella nostra realtà ma a condizione che non ci venga propinato un prodotto preconfezionato altrove.
Riassumendo tutto in uno slogan direi:
sì alla globalizzazione dell’economia, no alla omologazione delle idee.
6 aprile 2008
POLPETTONE AL CUMINO
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2 commenti:
Lettura consigliata: "La globalizzazione del nulla", di George Ritzer.
Saluti
vilma
Grazie per il consiglio. Mi procurerò il libro senz'altro.
Piero
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