Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


31 maggio 2011

STANDARD, CITTA' E MOBILITA'

Prendo spunto da un commento di Giulio Paolo Calcaprina ad un post sul blog amate l'architettura in cui, molto opportunamente, afferma: “ … a lungo termine dovremmo rifondare anche il modo di pensare l’urbanistica trovando un criterio qualitativo alternativo agli standard urbanistici, che personalmente ritengo siano una delle maggiori cause della “disumanità” delle nostre periferie”. Tutto giusto, a parte quel “a lungo termine”. Io credo che sia necessario e possibile farlo “a breve termine” e cominciare subito.
Sul fatto che la cultura urbanistica basata sulla quantità abbia prodotto danni sono assolutamente d'accordo. Va detto, però, che stabilire minimi di verde, parcheggi, ecc. in un periodo di pieno boom economico ed edilizio e, in moltissimi casi, in assenza totale di piani, in specie al sud, visto storicamente è del tutto comprensibile. L'elemento dannoso non sta nell’avere imposto un minimo quantitativo per certe dotazioni ritenute indispensabili, dato che nel momento in cui l’urbanistica diventa disciplina è anche normale che abbia una sua “tecnica” e quindi un suo corpus di leggi con alcuni requisiti minimi omogenei.
Piuttosto il danno risiede nella logica puramente quantitativa assorbita dalla cultura urbanistica e dalla politica, che ha portato alla progettazione di quartieri dotati di ampi standard ma con pessime condizioni di vita e del tutto privi delle qualità urbane minime necessarie.


La lotta per il diritto alla casa degli anni ’70 è stata giocata infatti in chiave quantitativa e politica, come strumento per creare consenso presso certe fasce sociali, dandole in cambio case di qualità scadente in periferie di qualità ancora peggiore. Inutile ripetere il numero e il tipo di leggi prodotte in quella fase storico-politica. E’ stato allora che si è consolidato il blocco tra intellighenzia urbanistica e mondo accademico da una parte e politica dall’altro, intorno al sistema di pensiero del movimento moderno. Quell’idea e quel blocco sono stati vincenti e solo adesso, forse, si comincia a sfaldare a vantaggio, mi auguro, di una visione urbana più consapevole della storia e della grande tradizione urbana europea ed italiana.
Resta però l’onda lunga di quel periodo e lo si può verificare quotidianamente nei piani regolatori ancora basati sulla zonizzazione, sulla rigida distribuzione delle funzioni, sulla burocratizzazione selvaggia in quel voler decidere tutto per tutti, sulla mancanza di conoscenza di ogni corretta geometria urbana che sia capace di innescare il processo che rende vitale un insediamento umano, sulla assenza di un disegno urbano che non sia di pura geometria astratta, sulla prevalenza dell’urbanistica ad oggetti seminati senza relazione alcuna con lo spazio pubblico se non con strada per le auto, piuttosto che sulla continuità delle sequenze urbane e della forte relazione tra edifici e spazio urbano pubblico.

E' la logica che sta alla base della legge urbanistica 1150, e soprattutto dei successivi decreti con la divisione in zone omogenee, che deve essere eliminata, con il ritorno alla strada come elemento generatore della città, con la commistione delle funzioni, quindi con zone disomogenee, con la zonizzazione verticale, cioè attività al piano terra, e sopra residenze o uffici indistintamente. Insomma è il ritorno alla città tradizionale, l'unica in grado di garantire una vita urbana soddisfacente, l'integrazione sociale, la molteplicità, la prossimità, la permeabilità e l’accessibilità della città, la libera scelta del cittadino.

Unica variante rispetto alla città tradizionale europea, su cui esistono punti di vista diversi e su cui vanno ricercate soluzioni che forse avrebbero potuto essere già state trovate e testate se non ci fosse stata la cesura dovuta alla caparbia tirannia culturale di 60 anni di movimento moderno, è quello della presenza dell’auto, che esiste, fa parte della nostra vita e non può essere rimossa confinandola ideologicamente in un ghetto, pena un nuovo, ulteriore fallimento. E credo non sia utile ventilare lo spettro della fine delle risorse energetiche naturali (ricordo il Club di Roma che decretò l’esaurimento del petrolio alla fine dello scorso millennio, e non pare che la profezia si sia avverata, dato che gli alti costi sono determinati da condizioni geopolitiche) quanto la necessità di ridurre fortemente i consumi per motivi di inquinamento, di alti costi dovuti all’espansione del mercato globale, di sostenibilità ambientale nel lungo periodo e non semplicisticamente a breve, piuttosto che alimentare toni apocalittici da day after.

Preferisco di gran lunga affidarmi al principio di precauzione che alle profezie di sventure prossime future, sempre regolarmente smentite e che alla fine del percorso, manifestano sempre l’imposizione forzosa di uno stile di vita e la nascita dell'“uomo nuovo”.
Io credo che la mobilità individuale, come la comunicazione individuale (internet, cellulari, ecc) sia una conquista di libertà cui nessuno è realmente disposto a rinunciare e che non può e non deve essere eliminata per decreto. Certo vanno trovate limitazioni, va incrementata ove possibile la mobilità pubblica o collettiva (e questo è possibile solo in città compatte, non in conurbazioni disperse), ma niente può sostituire "l’appeal" e la libertà di montare nel proprio mezzo e andare dove si vuole.

Quindi il disegno della città tradizionale dovrà tenere conto di questo fatto e non trascurarlo, perché se fosse anche possibile risolverlo nell'ambito di un singolo insediamento in qualsiasi modo, anche con il divieto assoluto, il problema si sposterebbe in ambito urbano, dato che la città è un organismo unitario le cui parti interagiscono tra loro, per cui quello che accade in una zona ha ripercussioni sull’altra. La città deve essere policentrica ma non potrà essere una semplice somma di villaggi perché avrà comunque una gerarchia di livello superiore, e una somma di quartieri senza traffico d'auto al proprio interno produce, sotto il profilo della mobilità, lo stesso effetto della zonizzazione, vale a dire la necessità di autostrade urbane che collegano i vari centri e su queste si concentrerà in maniera abnorme tutto il traffico della città, così che quello che è uscito dalla porta rientrerebbe dalla finestra.

Le Corbusier ha impostato il suo ideale di città sull’auto, basandosi su una “profezia” e una scommessa. La profezia della meccanizzazione individuale si è avverata forse oltre ogni previsione, ma quel modello di città ha dichiarato fallimento perché ha distrutto la città senza risolvere i problemi della mobilità. Se LC ha la sua quota di responsabilità, il mondo della cultura urbanistica è doppiamente colpevole perché ha avuto tutti gli elementi per capire l’errore e cambiare, e non l’ha fatto.
Oggi è necessario non commettere specularmente lo stesso errore di LC, non essere cioè radicali nella negazione del mezzo auto. Oggi abbiamo il dovere di cercare soluzioni realistiche e non utopiche che mettano al primo posto la qualità della vita urbana, progetti che favoriscano, attraverso il disegno del sistema insediativo, la massima pedonalità possibile e disincentivino naturalmente l’uso dell’auto per ogni minima esigenza personale, familiare o lavorativa. La prima risposta sta nella città densa e compatta, con limiti definiti tra questa e la campagna, affinché gli spostamenti siano quanto più possibile contenuti in un’area circoscritta in cui sia possibile la scelta tra mezzi diversi.
La mia personale convinzione, che so essere contro corrente, è che si possa convivere con l’auto a condizione che la rete delle connessioni stradali sia ricca, continua, con pochi divieti, perché la circolazione delle auto è come quella dei fluidi: se si chiude un canale il liquido esonda da un’altra parte.
Dunque la sfida che si pone a tutti coloro che come me auspicano un ritorno alla città tradizionale, è proprio quella della soluzione della mobilità. Risolta questa in maniera realistica e condivisa, non ci potranno essere più scuse.

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29 maggio 2011

GENIALIDAD KRIER EN GUATEMALA


L'architetto è l’unico responsabile di ciò che esce dal suo tavolo da disegno e porta la sua firma.
Nessun politico o imprenditore si farà carico della colpa culturale dell'architetto per un ambiente sbagliato.

Le nostre università sono responsabili per la preparazione della prossima generazione di architetti a questo dovere etico e morale insuperabile.

Robert Krier

Tratto da Facebook, Genialidad Krier en Guatemala

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27 maggio 2011

TOR BELLA MONACA DI L. KRIER...ESISTE GIA'

Progetto fortemente Krieriano con accenti razionalisti e un sapore da Roma imperiale.
Sicuramente un grande virtuosismo nella realtà virtuale:


P.S. Un collega architetto mi ha fatto acutamente notare che una passeggiata virtuale come questa è possibile solo in un progetto di città tradizionale. Come potrebbe essere infatti una passeggiata a CityLife intorno a tre birilli?
Il bello è, in effetti, che anche una passeggiata vera è possibile solo in una città tradizionale.
Dunque passeggiata virtuale ma non troppo.

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21 maggio 2011

DOPO L'ORGIA BUROCRATICA, TORNARE AL PROGETTO

Ormai è fatta. Il Regolamento Urbanistico della mia città (cioè il PRG) è approvato e le elezioni comunali si sono svolte. Quindi ogni cosa che dirò non avrà alcuna influenza nell’immediato(spero anche verso di me) e non si potrà fare troppa dietrologia su secondi o terzi fini.
A onor del vero ho già parlato abbastanza in itinere, ma l’ho fatto solo in ambito cittadino, mentre da questo blog mi sono limitato solo a qualche rarissima e leggera (o pesante?) ironia, tipo questa sulle strade o questa, a giochi fatti, sulle cucce dei cani.
Sono solo due dei numerosi esempi dello stupidario che diventa inevitabile quando le Norme Tecniche di Attuazione si compongono di 155 articoli, di 346.735 caratteri (senza spazi) e di 58.816 parole (sia chiaro, non le ho contate io, ci ha pensato Word da solo). Immaginate di contare - non di leggere- fino a 58.816, immaginate il tempo che ci vuole e pensate cosa significhi comprendere e assimilare un testo con lo stesso numero di parole. E dire che la legge regionale prevede, con grande enfasi ed evidenza, la figura del Garante dell’Informazione: ma è davvero possibile informare su un testo siffatto?

Piano 1935 - Tutto disegnato e poi realizzato quasi esattamente così

Sembrano solo numeri, ma in realtà sono la dimostrazione della rinuncia ad ogni credibile piano - tanto meno al disegno della città- della impossibilità di una sua decente e corretta gestione, della mancanza assoluta di trasparenza e di semplificazione, in fondo di un deficit di pensiero democratico, perché i cittadini, cioè coloro a cui il piano è destinato, non avranno alcuna possibilità di comprendere alcunché; dovranno affidarsi totalmente a noi professionisti, e noi professionisti dovremo affidarci agli uffici per decrittare il testo. Saremo perciò tutti molto più sudditi e molto meno cittadini. Saremo tutti un po’ meno liberi.

Sembrano solo numeri, ma invece sono la rappresentazione di una decadenza culturale e politica perché sono lo specchio di una visione della società che, non solo a livello locale, ma anche regionale, nazionale ed europeo, affida la propria vita ad una quantità bulimica quanto inutile di regole e norme, avendo perso ogni rapporto con il mondo reale, in campo urbanistico specificamente, con la propria città e il proprio territorio.

Ma queste sono solo le Norme, la parte scritta del piano! Poi ci sono gli elaborati grafici, le tavole. Anche qui la quantità è l’elemento caratterizzante, la qualità essendo del tutto assente. Ma parlare di qualità è davvero fare una fuga in avanti, perché questa presuppone un disegno capace di rappresentare un’idea, magari sbagliata oppure non condivisa, ma che pure dovrebbe esistere: ebbene, se c’è non appare, perché paradossalmente a fronte di così tante tavole grafiche non esistono… disegni, ma solo un collage di campiture colorate, con sovrapposte sigle alfanumeriche che rimandano alle norme. Non esiste un progetto in scala 2000 di qualcosa, le strade nuove si troncano improvvisamente fuori del ridotto limite delle piccole aree oggetto di trasformazione; la stragrande maggioranza del territorio comunale, anche quello con grosse previsioni edificatorie, è rappresentato con un indistinto retino a righe diagonali e al loro interno niente, solo la cartografia di base: non una strada, non il minimo accenno a qualche forma possibile di insediamento, solo decine di tavole prive di qualsiasi informazione che non siano sigle alfanumeriche.
Un piano che è una legenda di un testo astruso. Possono numeri e lettere rappresentare da sole un’idea di città? Può un data base farsi piano urbanistico?

Nei tre anni in cui mi sono occupato di questo blog, ho visitato decine di altri blog e siti che si occupano di architettura ed urbanistica, ho discusso e polemizzato con molti di loro, e viceversa, cercando di affermare l’idea di un tipo di disegno urbano capace di riscattare le nostre città e le nostre periferie disperse e frantumate dalla zonizzazione selvaggia, dalla fine della strada come elemento generatore e vitale della città, dal ritmo sincopato della giustapposizione di una serie di oggetti piuttosto che dalla sequenza continua dei fronti edilizi lungo le strade che sfociano in piazze in cui si concentra la vita sociale e di relazione, con l’idea di un ritorno al disegno dello spazio, almeno in misura compatibile con le numerose, superflue e illiberali procedure imposte dalla legge; mi sono scontrato con idee dal tutto diverse che io considero sbagliate, ma mai, dico mai, ho incontrato un nulla come quello messo in campo nel piano di Arezzo. E se fossi solo io a dirlo, poco varrebbe, ma l’hanno scritto e gridato per anni tutte le categorie professionali ed economiche, attraverso i proprio rappresentanti istituzionali e associativi, fino al punto di una Camera di Commercio, ente pubblico, che cerca di riempire il vuoto di progetto proponendo essa uno studio alternativo per la città.
A nulla è valso, se non ad ottenere l’accoglimento di una parte delle 2600 osservazioni presentate, che al massimo avranno potuto attenuare o, speriamo, eliminare le storture più macroscopiche, gli errori più grossolani non dico del progetto, che è l’oggetto misterioso, ma della stessa lettura dello stato attuale, del quadro conoscitivo come si dice con molta retorica, che ha però ricadute fondamentali nelle trasformazioni future.

Eppure il piano era partito bene 11 anni fa con la chiamata come consulente scientifico, probabilmente casuale e figlia di una serie di coincidenze, di Peter Calthorpe, architetto-urbanista americano esponente di spicco del New Urbanism,. La lettura che aveva dato della struttura urbana di Arezzo era giusta, aveva individuato con chiarezza i problemi della città legati alla sua forma davvero unica e al suo punto critico cioè il suo assetto territoriale caratterizzato da numerose frazioni prive di identità e dei requisiti minimi di autosufficienza e di forma per poter essere qualcosa di più che semplici dormitori. Aveva agito, secondo il suo metodo, dando una grande importanza alle infrastrutture per la mobilità, volendo garantire quella prossimità e pedonalità del massimo tempo di dieci minuti da percorre a piedi per godere delle opportunità offerte dalla città.

Aveva impostato lo sviluppo lungo la rete ferroviaria trattandola come una metropolitana di superficie e lungo quell’asse aveva previsto il potenziamento degli abitati esistenti ed anche nuovi insediamenti. Questa scelta non era del tutto condivisibile se applicata in maniera massiva, perché ancora trascurava il recupero delle importanti frazioni, in specie quelle della direttrice sud, ma forse, se ci fosse stata l’opportunità, con la discussione e il confronto che lui accettava senza problemi, avrebbe potuto esserci la possibilità di apportare correttivi e integrazioni. Ma non è stato possibile perché il suo lavoro è stato bruscamente interrotto, forse per ragioni non proprio culturali legate all’amministrazione del tempo, non a lui.

Le sue idee, e direi meglio lo spirito che le guidava, sono state messe da parte ed è rimasta solo l’applicazione pedissequa della parte peggiore della cultura espressa dalla legge regionale: l’abbandono del disegno, il territorio parcellizzato in aree sottoposte a vincoli e tutele - differenza di cui mi sfugge tutt’ora il significato reale - il tutto inserito in un enorme database geografico, tra l’altro intriso di una quantità di errori di lettura imperdonabili, il cui risultato è illeggibile ai più ma che soprattutto non delinea nessuna idea plausibile di città.
Impossibile dialogare, scambiare opinioni, inutile avvertire del precipizio verso cui si andava, solo ascoltare modeste lezioncine, in ossequio alla garanzia dell’informazione.
Mi rendo conto di aver delineato uno scenario quasi apocalittico, ma la realtà è forse peggiore, e per rendersene conto basta andare a consultare il SIT del comune, l’unica cosa fatta veramente bene e di qualità infinitamente superiore a quella di altri comuni.

A questo punto, dopo 11 anni di travaglio del nuovo piano, è il momento di ricavarne qualche riflessione meno amara e più positiva per il futuro, che non sia solo di interesse locale, ma più generale, e di guardare avanti.
Intanto per dire: mai più così. E’ poco, mi rendo conto, anzi niente, ma davvero il pericolo da scongiurare è che non accada più un fatto come questo, perché il rischio dell’ulteriore avanzamento di questa incultura urbana è concreto, supportato da burocrazie regionali che oramai sono più potenti e inattaccabili degli stessi amministratori.

In campagna elettorale è venuta l’assessore regionale all’urbanistica Prof.ssa Anna Marson, urbanista espressa dall’Italia dei Valori, persona di notevoli qualità, a illustrare alcune idee sulla necessaria modifica della legge regionale. I principi che ha affermato, e che sono stati espressi in un documento ufficiale della Regione, dimostrano la sua volontà di cambiare in meglio e non sono apparsi solo promesse elettorali. Ha parlato molto chiaro, ha detto di voler sfoltire la sovrabbondante retorica verbale - fatto assolutamente non secondario né formale – ha auspicato un necessario, anche se non sufficiente, ritorno al disegno urbano, una ridefinizione del significato originario del concetto di nuovo consumo di suolo, utilizzato oggi come un mantra al solo scopo di non far niente, soprattutto nella riqualificazione dell’abitato esistente. Ha detto molto altro e il suo intervento è visibile qui.

La speranza è che, senza aspettare la nuova legge regionale, che richiederà tempi lunghi e ostacoli a non finire, e il cui risultato non è affatto scontato, ad Arezzo si possa tornare alla realtà, ad affrontare i problemi urbanistici della città avendo come faro un disegno compiuto di essa, mettendo in secondo piano il tema fuorviante, eredità culturale del movimento moderno, della ossessiva divisione delle funzioni e risolvere, matita in mano guidata dal cervello, le periferie e le frazioni in modo corretto, creando luoghi urbani, ancorché piccoli, che diventino centro di vita sociale con pluralità di funzioni, lasciando alla libera iniziativa dei cittadini la scelta delle attività da insediare, sapendo che loro conoscono meglio di chiunque cosa realmente serva dato che ci investono i propri denari, avendo il pubblico il dovere di garantire certi servizi essenziali.
Insomma, dare dignità e fiducia ai cittadini e abbandonare l’idea dirigistica e autoritaria che il pubblico possa e debba decidere tutto, sapendo bene che poi la forza del mercato tutto travolge e il risultato è addirittura opposto a quello sperato.
Liberare le energie degli individui e controllare gli appetiti della speculazione, guidandoli verso un disegno di città più umana, l’unico vero potere che il pubblico detiene e che non esercita quasi mai in maniera corretta.

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19 maggio 2011

DA PIERO A RAINALDI: DECADENZA DELL'ARTE


La rappresentazione dello stesso gesto di accoglienza, protezione e misericordia dal passato al presente, dalla limpida composizione architettonica delle figure all'informe cavità, dal pieno al vuoto, dalla sapienza artistica del simbolo alla banale espressione individuale del niente, dalla eleganza alla volgarità, dal sacro al profano.

Link:
Associated Press
Repubblica- Roma
Affari Italiani
Fides et Forma
Fides et Forma

Pietro Pagliardini

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UN PIANO IMPOSTATO SU ATTENTO STUDIO TIPOLOGICO E MORFOLOGICO

Estratto NTA del Regolamento Urbanistico di Arezzo:

…Sono da escludere dal computo della Sul (Superficie Utile Lorda):
…I manufatti di servizio alle unità immobiliari residenziali, quali legnaie, ricoveri per animali di affezione, ricovero da giardino, gazebo, pergolati privi di copertura impermeabile, voliere ed altri locali di servizio simili. Tali locali devono avere le seguenti caratteristiche:

  • avere complessivamente una Superficie Utile Lorda massima di mq. 15 per gli edifici monofamiliari, ovvero mq 20 per gli altri casi; per gli edifici posti sul territorio rurale la SUL è elevata a mq 30;
  • essere realizzati in legno o altro materiale leggero non di recupero;
  • essere privi di fondazione, escluso il solo ancoraggio;
  • ad un solo livello con altezza massima in gronda non superiore a 2,40 ml…..
Un dubbio: sarà muratoriano o caniggiano?

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17 maggio 2011

INTERVISTE A EISENMAN E GREGOTTI

Quasi contemporaneamente sono apparse due interviste a due diversi architetti: una sul Washington Post a Peter Eisenmann, l’altra a Vittorio Gregotti su Le Storie, RAI3, con un elemento comune: totale distacco tra vita pubblica e vita privata.
Peter Eisenman dichiara con onestà intellettuale, come direbbe qualcuno, con sfrontatezza, come direbbero altri, di aver progettato per i propri committenti case in un certo modo mentre la sua personale scelta è stata quella di dividere la sua esistenza tra due abitazioni: la prima è “un piccolo appartamento muto a New York con una cucina dove non c’è posto tra due persone”, la seconda una “meravigliosa vecchia casa del New England, in pietra, mattoni e piastrelle", che era un mulino del 18° secolo ed è costruita sopra una cascata. "Nessun architetto ha mai lavorato su di essa. Non si potrebbe progettarne una come questa. Accade nel tempo, come hanno fatto i successivi proprietari che l’hanno modificata per soddisfare i propri bisogni”.

Alla domanda del perché di questa scelta Eisenman risponde: “Sono immerso nell’architettura tutto il giorno, lavorando nel mio studio o insegnando”. E dopo “voglio tornare nella mia casa accogliente”.
Molto sincera ed anti-retorica, molto poco epica ed anche dissacratoria questa visione del mestiere di architetto.
Di particolare interesse la notazione che una casa diventa accogliente non a causa di un progetto ma grazie ad un processo nel tempo di cui l’architetto non fa parte ma in forza di successivi adattamenti e modificazioni da parte dei proprietari. Non è una scoperta, certamente, perché è sempre stato storicamente così, almeno fino a quando il forte inurbamento ha costretto a regolare in maniera minuziosa e perfino invasiva le modificazioni e la crescita della città ma, detto da Eisenman, che ha progettato case immodificabili e certamente non intime e accoglienti, quali la serie 1-10 - e già il nome utilizzato per identificarle, anonimo e non riferito né ai luoghi né ai committenti la dice lunga - è addirittura stupefacente. E l’intervista prosegue con la sua storia personale che l’avrebbe portato a “non volere entrare nella tua vita”, cioè a non voler più progettare case private ma solo “icone pubbliche che la gente vada a vedere per poter dire: E’ grande”.

Ammetto di apprezzare lo spirito di quel “non voler entrare” nella vite degli altri, quasi una citazione del famoso film, perché progettare la casa di un altro è, in qualche misura, anche un atto di violenza, un dover spiare per decidere come quella persona dovrà vivere, una intrusione nel lato più intimo della sua vita privata e familiare.
Se è inevitabile ed anche gratificante progettare residenze, tuttavia avere almeno consapevolezza dell’importanza e della responsabilità di questo atto, può contribuire a cambiare il modo di porsi nei confronti dell’architettura e della professione.

Tuttavia rimane in Eisenman una contraddizione straordinaria e lampante, che mi è perfino difficile immaginare non sia arrivato a cogliere, quella cioè di continuare a considerare l’architettura pubblica come spettacolo per i cittadini, quasi non fosse parte integrante della città al pari dell’edilizia privata, e non fosse portatrice ancor più che le residenze di valori simbolici e rappresentativi della collettività e della comunità cittadina. Se il problema nei confronti della residenza privata si pone, in prima istanza, nei confronti del singolo, quello dell’architettura pubblica si pone nei confronti di tutti e quindi l’approccio al progetto dovrà essere ancora più attento a non colpire la sensibilità della collettività e a fare in modo che il progetto sia il più condiviso possibile. Quella frase, che può prestarsi, interpretandola in modo molto benevolo, anche ad una interpretazione diversa e positiva, vale a dire l’attenzione dovuta ai progetti di quelli che Marco Romano chiama i temi collettivi, se collegata ai progetti e alle idee di Eisenman non può che essere letta come la consueta esaltazione dell’architetto che vuole stupire e meravigliare per far esclamare “E’ grande”, riferito evidentemente all’autore più che all’opera.

Come è possibile che un progettista dichiari di preferire vivere in case tradizionali e quasi da edilizia spontanea, arrivando a rigettare l’idea stessa dell’intervento dell’architetto per queste, ma contemporaneamente si dedichi alla realizzazione di opere pubbliche con un genere di progetti opposto, tutti improntati a forme estranee non solo alla tradizione ma a qualsiasi idea di riconoscibilità di un edificio collettivo, se non per le maggiori dimensioni?

Per Gregotti il caso è diverso. Teniamo presente la nota intervista delle Jene in cui alla domanda se vorrebbe vivere allo Zen risponde, quasi cadendo dalle nuvole, che lui non è un proletario e quindi la domanda è priva di senso.
Gregotti è intervistato da Corrado Augias sul tema del suo ultimo libro, Architettura e Postmetropoli, Einaudi, che ho cominciato a leggere, con grande fatica, in questi giorni. L’intervista è invece godibile. Gregotti fa osservazioni condivisibili, quali la mancanza di progetto nello sviluppo delle postmetropoli ma anche delle città minori, scopre con un po’ di ritardo, nel caso della conurbazione continua del nord-est, che le persone dimostrano il desiderio di una vita urbana, di vivere vicini l’uno all’altro ma allo stesso tempo di desiderare individualità e privacy, scopre perfino che in molte casi la città si sviluppa per zone a diversa composizione sociale. Tutto il discorso di Gregotti è impostato sulla necessità di una vita urbana e conclude con un appello all’umiltà da parte degli architetti, ironizzando sul loro desiderio di creatività. Come non essere d’accordo! Salvo dettagli, personalmente potrei sottoscrivere tutto.

Però, e qui c’è l’analogia e la differenza con Eisenman, Gregotti non ne trae alcuna conclusione di tipo personale, come, almeno per il tema residenza, fa Eisenman.
Non è il giudizio morale che interessa, almeno a me, ma le differenze tra due modi di intendere il proprio lavoro, la propria disciplina e la differenza abissale con cui i due “Maestri” pongono se stessi rispetto a questa:
- Eisenman è consapevole di essere quello che è, cioè un’archistar famosa e venerata, una vedette dello spettacolo mediatico dell’architettura, dello show-business. Lo dice, lo dichiara, non ha retro pensieri e non nasconde questo suo essere icona de-costruttivista che ha fatto scuola. Dice, basta saper leggere, che la sua architettura non è fatta per gli uomini, non è fatta per abitare perché lui cerca altro. Dunque chi lo segue dispone di tutte le informazioni per poter scegliere consapevolmente e per capire che la sua architettura è altro dalla costruzione della casa e della città per l’uomo.

- Gregotti, al contrario, dice cose ragionevoli, si mostra preoccupato per lo stato dell’architettura e per le condizioni in cui versano le città, grida contro l’estrema personalizzazione dell’architettura stessa e nel libro, come nell’intervista, denuncia la perdita della forma della città e la fine dell’idea stessa del progetto e del piano, denuncia la divisione della città per classi sociali ma non ne trae alcuna conseguenza. Non indica una strada possibile e credibile, non dichiara i suoi errori passati, pontifica quasi che lui non avesse lasciato un segno non positivo negli anni passati con le sue opere e con la sua azione culturale da direttore di Casabella e da punto di riferimento di una fetta importante della cultura architettonica per circa un ventennio. Nella sua risposta in cui mostra “stupore” alla domanda se lui avrebbe voluto abitare allo Zen c’è tutta la diversità con la cultura di Eisenman in cui è invece possibile trovare sì cinismo ma è impossibile negare consapevolezza del proprio essere e onestà intellettuale.

Gregotti è all’opposto l’esempio di una cultura italiana elitaria, algida e cristallizzata nelle proprie convinzioni, chiusa al mondo esterno tanto da non avere remora alcuna a dichiarare che lui “non è un proletario” per cui il problema non si pone proprio.
Da Eisenman un giovane studente o architetto dotato di cervello e capacità critica può difendersi rifiutandone i principi di fondo oppure sposarne le convinzioni; da Gregotti è più difficile, perché il potere elitario e carismatico che attribuisce all’architetto induce a credere che progetti come quello dello Zen siani giusti per il solo fatto che lo ha stabilito l’architetto. Quel tipo di progetto sarebbe giusto per quel tipo di classe sociale e non per tutti gli uomini. Evidentemente attribuisce una diversità antropologica al proletario e al borghese, in base alla quale le due classi non hanno diritto alla stessa qualità della vita, non hanno le stesse necessità, gli stessi desideri, le stesse aspettative, le stesse umane debolezze.
Gregotti cristallizza e condanna ognuno ad appartenere alla sua classe sociale d'origine. Parla e scrive di marxismo, ma di un marxismo di tipo gregottiano e, aggiungerei, italiano. Roba da buttare alle ortiche.

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10 maggio 2011

ENRICO LAVAGNINO:PROGETTO SULLA COLLINA CORTONESE

Quando recentemente ho visto in commissione paesaggio a Cortona il progetto di Enrico Lavagnino che segue, la prima cosa che ho pensato è stata quella di poterla pubblicare. Alla prima occasione, cioè una cena che periodicamente facciamo insieme ad altri colleghi al solo scopo di stare insieme a discutere di politica, naturalmente litigando su tutto, gli ho chiesto se mi avesse potuto fornire alcune copie degli splendidi disegni che avevo visto, accompagnati da una breve relazione. Oggi mi sono arrivati per posta, devo dire con mia grande sorpresa, conoscendo la sua riservatezza e il suo carattere schivo.
Enrico Lavagnino, architetto, il cui cognome tradisce chiaramente la sua origine ligure, è ormai da anni cittadino cortonese. Lì risiede e ha il suo studio. La sua presenza a Cortona, il suo prestigio e il suo esempio hanno contribuito in maniera determinante ad innalzare il livello qualitativo dei progetti e dei disegni tra tutti i progettisti cortonesi. Esaminare pratiche edilizie in commissione a Cortona, anche le più modeste, è un'esperienza singolare: non c'è tecnico, anche tra i geometri, che non ponga attenzione e cura particolare al disegno e al progetto.
Cresciuto alla scuola di Caniggia, autore di numerose pregevoli pubblicazioni, un'esperienza all'Università, Lavagnino è autore di numerosi e importanti progetti di restauro e di nuove costruzioni, pubbliche e private, a Cortona soprattutto ma anche in provincia.
Non faccio torto a nessuno dei miei colleghi e amici dicendo che considero Enrico Lavagnino il più colto e più bravo architetto della provincia di Arezzo, sapendo però, limitandone il campo, di fare un gran torto a lui. Infatti, trovare un architetto dotato di grande e profonda cultura unita alla notevole capacità professionale e progettuale, è infatti una coincidenza di fattori davvero rara.
Lo ringrazio sinceramente per questa raccolta di foto e per la sintesi della sua ben più corposa relazione e mi scuso con lui per la qualità delle immagini, molto inferiore agli originali, per ovvi motivi di pesantezza.

(Consiglio di espandere l'immagine cliccando la croce a destra)
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Progetto per la riconversione edilizia di volumi degradati posti sulla collina cortonese
Architetto Enrico Lavagnino
Si tratta della riconversione edilizia di alcune costruzioni recenti a carattere produttivo e di pessima qualità architettonica, impropriamente collocate all’interno di un ambiente rurale conservato, posto nelle vicinanze della città storica di Cortona.

Il progetto è stato fondato sulla “lettura” interpretativa dello stato attuale, sia nel senso specifico, la valutazione delle potenzialità effettive del luogo, che nel senso generale, l’individuazione critica delle regole tipologiche reperibili nel territorio circostante, dalle quali abbiamo tratto i principali riferimenti per determinare le trasformazioni compatibili.

La collina cortonese è caratterizzata da una serie di terrazzamenti decrescenti adagiati secondo le curve di livello oggi coltivati a olivo. Il sistema è scandito di moduli produttivi regolari, -i poderi-, delimitati dai percorsi che attraversano il territorio in senso orizzontale -le mezzacoste - collegati, nella direzione opposta da percorsi territoriali in pendenza -i crinali- sui quali si attestano, in posizione emergente, gli insediamenti più importanti, il tutto in un quadro ambientale ancora conservato, anche se al di fuori di vero ruolo produttivo.


Le indagini tipologiche sono state orientate sulla struttura territoriale e le sue fasi di formazione, sugli aggregati rurali e in particolare sui processi evolutivi dell’edilizia rurale, la così detta casa colonica, nella specifica versione collinare.

I nuclei rurali sono stati schedati e analizzati sulla base della loro posizione territoriale e in particolare distinti tra quelli ubicati sul “crinale alto”, sui promontori emergenti, sulla mezzacosta e nella pianura. Per ognuno di essi sono state valutate: la relazione tra i percorsi principali di accesso e i percorsi secondari di collegamento con il territorio rurale, la giacitura rispetto all’assetto orografico, l’orientamento, il sistema aggregativo tra i vari gruppi di fabbricati, i rapporti tra la posizione e l’articolazione dell’edificio principale abitativo rispetto ai fabbricati secondari produttivi e infine la relazione tra gli edifici e gli spazi liberi cortilizi e in particolare la posizione dell’aia.

L’analisi degli edifici rurali si è invece addentrata nel rapporto tra l’edificio e il percorso di accesso, la collocazione dell’edificio principale rispetto all’assetto orografico diviso nei casi che hanno la fronte parallela alle curve di livello oppure ortogonale alle curve di livello, la preminenza dell’affaccio principale su quelli secondari, oppure sull'isorientamento, sull’evoluzione del sistema aggregativo delle cellule edilizie elementari, sia in senso orizzontale che in senso verticale, sulla posizione dei sistemi distributivi e in particolare sulla posizione della scala e della loggia esterna. Infine sono state fatte alcune osservazioni sui materiali e sull’evoluzione dei sistemi costruttivi che caratterizzano questo tipo di edifici.

Per ogni scala di “lettura” i risultati delle indagini sono stati riportati in tabelle riassuntive di classificazione tipologica e poi riordinati in sequenza temporale al fine di elaborare un’ipotesi ricostruttiva del processo evolutivo sia dei nuclei insediativi sia della casa colonica su pendio.

Come già detto la proposta progettuale, scaturita dalle informazioni derivate dall’analisi preventiva, è stata fortemente condizionata dall’evidente qualità ambientale dell’area oggetto d’intervento che doveva prevalere, per ragioni evidenti, su qualsiasi formulazione “innovativa” o “contrappositiva” del progetto rispetto al contesto di partenza.

Cioè il progetto doveva sottostare a una ferma e decisa presa di posizione derivata dalla convinzione per non dire la certezza che l’operazione di trasformazione edilizia avveniva entro un territorio, quello della collina cortonese, che è un territorio di grande qualità territoriale e ambientale, il cui valore deriva da un processo evolutivo che è arrivato al suo massimo livello di compiutezza e qualunque intervento di trasformazione, se pur legittimo, non può e non deve sottovalutare questa condizione, contrapporsi a questa realtà, superare questi limiti, salvo esser certi di lavorare per sottrazione di qualità.
Più in dettaglio l’intervento prevede la costruzione di tre episodi insediativi di tipo residenziale, disposti lungo un percorso di crinale esistente, separati da una breve distanza e collocati nei punti singolari della struttura orografica del promontorio oggetto dell’intervento. I singoli episodi sono costituiti da alcuni edifici disposti intorno a uno spazio di tipo “cortilizio” con affaccio prevalente verso sud/sud-ovest, sono stati relazionati al contesto attraverso lo studio sulla giacitura del terreno, la collocazione dell’edificio rispetto al sistema delle fasce agricole esistenti o eventualmente di nuova formazione, la valorizzazione dei percorsi rurali esistenti, la piantumazione di essenze tradizionali quali l’olivo, la vite, alberi da frutto e infine attraverso la sistemazione, con elementi di arredo di tipo rurale, delle pertinenze limitrofe ai fabbricati e in particolare dell’aia.

Ogni edificio residenziale è formato da un corpo principale, su più piani, caratterizzato da una monocellula “matrice” di altre cellule laterali e da corpi annessi disposti intorno ad uno spazio esterno. Essi si collocano, rispetto all’orografia, in modo parallelo alle curve di livello, salvo alcuni casi particolari condizionati dal troppo declivio del terreno o dalla posizione che essi occupano all’interno dell’aggregato che si posizionano secondo le linee di massima pendenza.

Il progetto degli edifici è unificato su un modulo residenziale comune che tiene conto della crescita cellulare individuata nella fase di studio e le diverse soluzioni sono legate a varianti sincroniche del tipo principale, dipendenti dalla diversa collocazione nell’aggregato, dall’isorientamento, dalle variazioni dell’assetto orografico.

I sistemi costruttivi utilizzati per la realizzazione degli edifici, anche se aggiornati secondo i modelli strutturali e di contenimento energetico attuali, sono orientati verso l’uso di materiali di tipo tradizionale e in particolare, per le murature esterne, di laterizio portante rivestito di pietra locale, legno e laterizio per i solai interni e rifiniture coerenti con le tecniche tradizionali.

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9 maggio 2011

L'ORA DELLO ZEN

Dopo il successo dell'iniziativa palermitana sullo Zen, ripropongo un articolo dell'architetto Ciro Lomonte, organizzatore della conferenza tenuta da E.M. Mazzola, pubblicato sul numero 640 de Il Covile, naturalmente con la raffinata veste grafica che gli è propria.

L'ORA DELLO ZEN
Visitando nel 1983 lo ZEN 2 di Palermo, René Furer, docente di Gestaltungstheorie dell’ETH di Zurigo, si chiedeva se Vittorio Gregotti non fosse il migliore architetto italiano del momento. Più prudentemente, Ignacio Vicens y Hualde, professore di Proyectos Arquitectónicos della Universidad Politécnica di Madrid, nel corso di un’analoga visita del 1986 faceva notare che il linguaggio e i materiali adoperati erano più adatti a gente ricca, in quanto avrebbero comportato continue e costose opere di manutenzione.
Nella trasmissione Le Iene del 20 febbraio 2007 il progettista novarese, dopo avere dichiarato di considerare lo ZEN 2 il migliore esempio di edilizia popolare del mondo, declinava l’invito ad andarci ad abitare: «Io non faccio il proletario, faccio l’architetto». In effetti, se non si trattasse di una guerra tra poveri, le continue occupazioni — che hanno richiesto anche in questi giorni l’intervento delle forze dell’ordine — farebbero pensare che tutti ambiscano vivere allo ZEN 2.

Nel 1989 Edoardo Bennato pubblicò la canzone “ZEN” nell’album “Abbi dubbi”. Il ritornello ripeteva: «Zona Espansione Nord— abbreviazione: ZEN, / non c’è ragione no — non c’è ragione. / Quartiere di Palermo — città d’Italia, / non c’è ragione no — non c’è ragione». Bennato, che aveva studiato architettura, alludeva al razionalismo di Gregotti.
Ci troviamo di fronte ad un caso emblematico. Il sonno “nella” ragione genera mostri. Non è il sonno “della” ragione che produce degrado sociale, bensì il sonno nel carcere del razionalismo (abitare lì, dormire lì). La riprova è sotto gli occhi di tutti. Il vicino ZEN 1 è stato realizzato prima, con tipologie di edifici condominiali non belle ma neppure ingenuamente sperimentali. Ebbene, i proletari a cui vennero assegnate queste case (i loro figli, i loro nipoti) sono oggi persone civili, che non a caso evitano accuratamente di farsi identificare con gli abitanti del limitrofo campo di concentramento.
Ciò che desta ulteriore stupore è l’indifferenza del gruppo di progettazione dello ZEN 2 alle esperienze positive che si erano fatte a Palermo nei decenni precedenti. Nel 1956 Giuseppe Samonà aveva realizzato Borgo Ulivia, un esteso quartiere di edilizia popolare che si è mantenuto in buone condizioni senza bisogno di interventi successivi. Volendo cercare il pelo nell’uovo, Samonà non avrebbe dovuto usare rivestimenti in laterizio, estranei alla tradizione costruttiva siciliana, data l’abbondanza in loco di ottima pietra da taglio. Per gli abitanti però il vero limite di queste case è l’assenza di balconi, che essi hanno aggiunto abusivamente con una grande libertà compositiva, degna di un Piet Mondrian.

Andando a ritroso nel tempo, è molto istruttivo verificare la durata degli alloggi popolari realizzati fra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta, confortevoli e gradevoli, anche dal punto di vista dell’integrazione urbanistica con gli edifici circostanti destinati ai ceti medi e alti. Non sono ghetti, come lo ZEN.
Di questi esempi forse il migliore è il Quartiere Matteotti, che oggi si presenta come un borgo residenziale di prim’ordine. In questo caso infatti sono stati curati dettagli costruttivi tradizionali, qualità degli interni e bellezza dei volumi, inseriti in piacevoli giardinetti.
Il nuovo assessore alla Casa della Regione Lazio si è riproposto di abbattere il Corviale, un famoso ecomostro di Roma, lungo un chilometro. Fiore all’occhiello dell’intellighenzia visionaria che ha prodotto edilizia popolare negli anni Settanta, il cosiddetto Serpentone è tristemente famoso, come gli altri esempi del genere, per l’imbarbarimento sociale e i fenomeni di violenza favoriti dagli stessi criteri progettuali utopistici. Il Gruppo italiano di Nikos A. Salìngaros ha presentato due soluzioni dettagliate per sostituire lo sterminato lager compatto con un quartiere a misura umana.

A questo punto c’è da chiedersi se anche a Palermo non sia giunta l’ora di demolire lo ZEN 2 e disegnare un borgo autosufficiente più ancorato nella storia della città e ben contestualizzato in quella zona naturalisticamente unica di Piana dei Colli. Il sindaco Cammarata aveva fatto molte promesse sulla riqualificazione di Palermo: per es. la pedonalizzazione del centro storico e notevoli miglioramenti delle periferie. Ma, aldilà di qualche parcheggio e del cantiere della metropolitana, non si è visto molto di più.
Qualcuno potrà obiettare che le casse del Comune sono vuote, eppure questo è un falso problema. Lo ZEN 2 è ancora lungi dall’essere completato ed è, come tutti i quartieri popolari del suo genere, un buco nero di fondi pubblici. La Regione ha assegnato di recente almeno 20 milioni di euro per lavori da effettuarsi su questo complesso di edilizia popolare. Sarebbe un errore utilizzare questi fondi per costruire altre insulae, seguendo il fallimentare progetto originario. Il Gruppo Salìngaros è pronto a fare delle proposte concrete anche per lo ZEN 2. Bisognerà studiare approfonditamente natura dei luoghi e storia urbanistica della Sicilia e delle sue tradizioni edilizie (conci di calcarenite, pietra di Billiemi, intonaco Livigny, coccio pesto, coppi siciliani, ecc.). Sarà un incentivo ulteriore alla rinascita dell’artigianato locale, composto da maestranze molto capaci che rischiano di sparire.
CIRO LOMONTE

La foto è di Guido Santoro

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6 maggio 2011

NOI PER LO ZEN

Il 5 maggio si è tenuta a Palermo la conferenza di Ettore Maria Mazzola sullo Zen, organizzata da Ciro Lomonte.
La conferenza ha ottenuto un successo straordinario, commentata e apprezzata da quotidiani e blog. Molti partecipanti e aderenti si sono autotassati per contribuire alle spese del progetto.
Chi volesse ulteriori notizie può cercare su facebook il Gruppo aperto "Noi per lo Zen", oppure seguire questo link:
http://www.facebook.com/home.php?sk=group_184784378235271&ap=1
Di seguito il testo dell'intervento di Ciro Lomonte:

Il colonialismo politico e finanziario è un cavallo di battaglia di Antonio Piraino.
A me preme sottolineare un’altra questione: la colonizzazione architettonica. Risulta paradossale che la Sicilia abbia prodotto un’arte con forti connotati locali, di grande originalità, mentre era governata da dominazioni straniere. Edoardo Caracciolo definiva “contaminazioni” alcune di queste peculiarità siciliane, ma in generale sono qualcosa di più: sono una serie di linguaggi nuovi e spesso unici.
Dopo essere stata “liberata” (si fa per dire) da Garibaldi e dai Savoia, all’Isola sono stati imposti modelli estranei alla sua tradizione e alla sua natura. Dal Piano Regolatore del 1877 in poi possiamo fare tanti esempi di colonialismo architettonico. Non dimentichiamo che il PRG del 1962 è stato il primo dell’Italia post bellica, sulla base della LUN del 1942. Lo zoning, i retini grafici che definivano le aree da costruire nella città, ritagliando indiscriminatamente, per es., i firriati delle ville di Piana dei Colli, sono un modello accademico che i professori della nostra Facoltà di Architettura hanno preso da fuori. Vito Ciancimino non ha fatto altro che sfruttarlo al meglio per i propri interessi.

Noi dobbiamo e possiamo reagire ad una colonizzazione di tal fatta, nell’urbanistica e nell’architettura. Anche per questo è consolante la crescita delle adesioni a questo nostro progetto: è – in embrione – la rivendicazione di una identità. Del resto il Gruppo Salingaros, di cui fa parte il prof. Mazzola (e di cui mi fregio di far parte anch’io), attribuisce un valore notevole al coinvolgimento dei non specialisti di architettura nella progettazione dei luoghi in cui andranno a vivere e sui quali pertanto hanno pieno diritto di esprimere un parere. Abbiamo persino ipotizzato che negli stessi concorsi di architettura la giuria sia composta dai cittadini che, a vario titolo, hanno un legame con quell’edificio o quel brano di città.
Palermo è una metropoli strana rispetto alle altre quattro italiane: è nata da un’immigrazione interna, proveniente dalle aree agricole della stessa Isola e indotta dalla creazione nel dopoguerra dell’apparato amministrativo della Regione Siciliana, a fronte di una consistente emigrazione delle migliori menti della città verso il nord Italia o verso l’estero. Le altre metropoli italiane non sono così: hanno potuto difendere la propria identità e trasmetterla ai nuovi arrivati perché hanno mantenuto un consistente nucleo di cittadini originari del luogo (penso in particolare a Milano e Torino, oltre che a Roma).
Palermo ha riscoperto il proprio centro storico negli anni Ottanta. Il recupero di quella parte della nostra città (di cui però non condivido la filosofia estetizzante, che ne ha favorito indirettamente la trasformazione in un mosaico di ristoranti e di pub) ha tuttavia generato un nuovo spirito di appartenenza.
Comprendere lo scempio delle periferie, visitarle (molti non le conoscono neppure), rivisitarle da un punto di vista strategico, è un ulteriore passo avanti in questo sviluppo di una coscienza dell’essere palermitani. È un segnale forte, è un fattore di speranza.
Un amico mi faceva notare che i palermitani hanno un cuore grande, si entusiasmano solo quando si lanciano in imprese audaci. Imprese che abbiano un carattere di esperienza universale. Altrimenti si immalinconiscono, come avviene tutte le volte che si chiudono nella gestione – per caste chiuse – di affari che denotano un deprecabile provincialismo. Di fatto in questa città si respira da tempo un disincanto, una sfiducia, una tristezza che è causa di intensa sofferenza. Questa è la ragione per cui rimango colpito dalla vostra partecipazione di oggi, dal contributo anche economico di molti, che mi fa dire:
"Sono orgoglioso di essere siciliano!"

Ciro Lomonte
(intervento al convegno del 5 maggio 2011)

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28 aprile 2011

CONFERENZA: RIGENERARE LE PERIFERIE URBANE

Giovedì 5 maggio • 18.30 - 21.30
Palermo, Hotel Wagner
La conferenza è organizzata dal movimento "Noi per lo ZEN" promosso da Antonio Piraino, Ciro Lomonte e Anna Brignina


Interverranno:
  • Prof. arch. Ettore Maria Mazzola, professor of Traditional Urbanism, Architecture and Building Techniques presso la University of Notre Dame School of Architecture, Rome Studies e Vice Presidente del Gruppo Salìngaros
  • Padre Miguel A. Pertini, Parroco dello ZEN

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27 aprile 2011

ROB CARTER REMIXA LE CORBUSIER

Stone on Stone [CLIP] from Rob Carter on Vimeo.

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23 aprile 2011

PIERO DELLA FRANCESCA: RESURREZIONE - SANSEPOLCRO (AR)

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22 aprile 2011

GIORGIO VASARI: DEPOSIZIONE- CASA VASARI, AREZZO

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20 aprile 2011

VITA E MORTE DELLE GRANDI CITTA'

Un link ad un articolo tratto dal CHICAGO BLOG di Oscar Giannino, legato all'Istituto Bruno Leoni, un istituto che si definisce, ed è, liberale, liberista e mercatista.
Si tratta del ricordo di Jane Jacobs in occasione della sua morte avvenuta nel 2006 scritto da Stefano Moroni.
Un'altra dimostrazione, se ce ne fosse bisogno, che urbanistica e politica corrono su strade parallele che spesso si incrociano: l'urbanistica influenza la vita degli uomini e molte delle sue scelte hanno valenza politica, sia per il metodo, che ad esempio può oscillare dal massimo della partecipazione al massimo dell'autoritarismo, sia nel merito, che riguarda più specificamente la forma della città e l'organizzazione dello spazio e quindi il modo in cui si possono instaurare le relazioni personali, sociali ed economiche tra i cittadini. Insomma i rapporti reciproci tra le due discipline sono davvero molteplici e difficilmente riassumibili in poche righe, restando tuttavia fermo il fatto che l'urbanistica ha una sua autonomia disciplinare, culturale e tecnica da cui non si può prescindere se non si vuole sconfinare nel puro sociologismo di cui, peraltro, è stata imbevuta soprattutto nel secolo scorso.

Questo il link:

di Stefano Moroni


Post precedenti su Jane Jacobs:
Jane Jacobs
Jane Jacobs -2 - Strade
Strade 1 - Palladio e Jane Jacobs

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19 aprile 2011

EDDYBURG CONFERMA LE MIE IPOTESI

Oggi Eddyburg mi viene incontro confermando "aldilà di ogni ragionevole dubbio" le mie considerazioni fatte nel post su Italia Nostra in ordine alla svolta decisamente a sinistra di questa associazione, almeno nel suo organo nazionale. Infatti oggi il sito pubblica un articolo di Asor Rosa che conferma la sua speranza di sospensione della democrazia parlamentare da ottenere con Carabinieri e Polizia, già manifestata nel famigerato articolo del Manifesto.
A qualcuno potrebbe sembrare un argomento estraneo a questo blog, ma così non è per due motivi:

1) Italia Nostra nazionale si occupa di città, come questo blog
e
2) la democrazia è nata nella polis greca, cioè nella città. E nella città,  nella mia città, deve continuare a vivere. Se qualcuno la attenta interessa anche a me, non tanto come blogger ma come cittadino.

Pietro Pagliardini

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17 aprile 2011

PRESTINENZA PUGLISI SDOGANA LA "GENTE"

Luigi Prestinenza Puglisi, nel supplemento a Il Fatto Quotidiano del 15 aprile, nella sua recensione alla mostra Le città di Roma all’Ara Pacis, scopre che le periferie romane, fotografate senza alcuna presenza umana, come fossero cioè “natura morta” (parole sue), appaiono “devastanti”. Per la precisione scrive:
Il risultato per chi non è appassionato di immagini potrebbe essere devastante”. (1)
C’è da immaginare quanto possano apparire gratificanti a chi ci abita! E infatti anche LPP si pone questo problema e domanda, prestando la sua voce all’abitante:
Ma al Corviale o a Vigne Nuove potrei andarci ad abitare proprio io?”.
Il punto di vista della gente (sì proprio della gente), insieme a quello del critico, fa capolino nella critica architettonica: è uno scoop!


Ma non finisce qui. LPP continua affermando che la mostra è un boomerang per gli organizzatori (2) ma ammette che:
Il compito era disperato: si trattava di mettere insieme i costruttori romani, un’amministrazione di destra e la cultura di sinistra”.
Altro scoop: la cultura di sinistra è responsabile di quelle insane periferie. Chi l’avrebbe detto! Anche se non capisco perché dovrebbe essere un boomerang per il Comune che, almeno teoricamente, dovrebbe avere tutto l’interesse a prendere le distanze da quei progetti posto che l’attuale giunta non può certamente essere ritenuta responsabile di opere realizzate negli anni 70/80. Ma forse bisogna essere dentro le cose romane per capirlo. Lo scoop però resta.

Da ultimo, dopo i fuochi artificiali, il botto finale: l’unico progetto che “spicca in absentia” è la Tor Bella Monaca di Léon Krier, “strapaese dineylandiano” che “invece che acquietarsi con nature morte, si confronta almeno con un bisogno della gente”.
Inverosimile, inimmaginabile: si comincia a leggere e interpretare la gente con i suoi bisogni. Ci si avvicina, con nonchalance, con una frase buttata lì come fosse normale in questo mondo del tutto a-normale dell’architettura, a dire che la gente ha dei bisogni legittimi.
La diversità antropologica tra architetti e cittadini si attenua. Si dà per scontato, finalmente, che l’architettura “disneylandiana” non va giudicata solo per quello che appare superficialmente ma in quanto proiezione di un desiderio di tradizione e/o di classicità, di valori sicuri e condivisi che si è potuto fino ad oggi esprimere solo entro le proprie mura domestiche con la cucina rustica, i mobili in stile, gli archetti di forati nei corridoi, il camino in pietra o mattoni, la trave finto legno e tutto l’analogo, ingenuo repertorio ai più ben noto, e all’esterno negli archi in c.a. parossisticamente ribassati tanto da sembrare stretchati per errore con Photoshop.
Si dà per scontato che esista anche una cultura popolare e che ha una sua dignità degna di attenzione.

Qualunque cosa pensi realmente LPP - che in questo scritto breve lascia sempre, e molto abilmente, uno spiraglio ad una doppia lettura - non è dato sapere con certezza, tuttavia non c’è dubbio che ha fatto entrare in scena ufficialmente, tra l’architetto e il progetto, il terzo incomodo, il convitato di pietra, il grande assente, cioè il negletto uomo comune, il committente anonimo, l’abitante sconosciuto, colui che è costretto a subire il progetto della città, del quartiere, della casa e, non avendo altra scelta, in quanto relegato in stato di minorità culturale dall’Architetto, dalle riviste, dai magazine, dalle collane Grandi Architetti distribuite a prezzi popolari in edicola, esprime i suoi desideri, i suoi gusti estetici, le sue fantasie nel privato o nell’outlet village toscano o romano o ticinese.

Vale la pena seguire LPP per capire meglio e trovare ulteriori conferme.
Noi(3) che abbiamo sempre considerato la gente l’attore principale della commedia, più spesso della tragedia urbana, registriamo questa piacevole novità.


Note:
1) Da notare la sottigliezza: non ha scritto l’architetto, ma l’appassionato di immagini!
2) Promotore dell’iniziativa: ACER, associazione dei costruttori romani – Padrone di casa: Comune di Roma – Curatori: Piero Ostilio Rossi, Francesca Romana Castelli – Allestitore e critico: Pippo Ciorra
3) Noi non è pluralis maiestatis ma sta per tutto quell’ampio movimento culturale che viene banalizzato e divulgato con il nome di antichisti, in opposizione a modernisti. Non è un bel nome nelle intenzioni di chi lo usa, ma a me piace.

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12 aprile 2011

ITALIA NOSTRA, NICOLA EMERY E LA CITTA' COME BENE COMUNE

Una serie di coincidenze mi ha portato in questi ultimi giorni ad imbattermi nel medesimo argomento, su libri e sul web, intorno alla definizione di città come bene comune.
Non apprezzo molto questa espressione, non perché non ne condivida il significato letterale, che anzi sono un convinto assertore del fatto che la città appartiene a tutti e quindi è un bene comune, ma per il fatto che è una definizione ultimamente troppo abusata in politica e rischia, dietro questo suo significato primo, di portarsene altri più ambigui o diversi.

Dove mi sono imbattuto in questa espressione? Prima in un libro, dal titolo tanto lungo per quanto è breve il testo, di Nicola Emery, Progettare, costruire, curare. Per una deontologia dell’abitare, Casagrande. Poi in un decalogo di Italia Nostra nazionale, arrivato ieri per e-mail dal sito Sarzanachebotta, redatto con il contributo di cinque conosciuti urbanisti italiani, sul tema “La città è un bene comune”.
I cinque urbanisti sono: Edoardo Salzano, Vezio de Lucia, Pier Luigi Cervellati, Maria Pia Guermandi, Paolo Berdini. Mi è sembrato di capire che l’iniziativa del decalogo sia nata a seguito, o in coincidenza, non ha molta importanza, di un convegno in cui i suddetti urbanisti hanno tenuto le loro relazioni.

Ho letto l’editoriale su Eddyburg da cui ho dedotto che la mia diffidenza sulla città come bene comune è ampiamente giustificata. E’ bene intendersi: Eddyburg è un sito autorevole, schierato politicamente ma in maniera limpida, serio nelle sue analisi, una parte delle quali non possono non essere condivise; però non c’è dubbio, proprio leggendo quelle analisi, che bene comune connota chiaramente una posizione politica e si trascina dietro risposte e un atteggiamento culturale nei confronti della città che personalmente non condivido perché trascura, come ha sempre trascurato, il tema principale della città, cioè il suo disegno, la sua forma e le conseguenze che i progetti sbagliati comportano su chi li subisce. Naturalmente questa è una generalizzazione perché in realtà Cervellati ha affrontato, con la sua esperienza a Bologna, il tema del centro storico sotto il profilo tipologico e non a caso (lo ha raccontato lui stesso) si è fatto qualche nemico.

Nicola Emery, invece, affronta da filosofo il tema dell’etica in architettura per arrivare a stilare una premessa filosofica ad un Codice deontologico dell’architettura che inizia così:
Lo spazio è un bene comune: pianificatori, architetti e costruttori hanno il dovere di progettare e costruire rispettando questo bene che deve andare a vantaggio di ognuno.

L’ultima coincidenza sta nel fatto che proprio in questi giorni mi sono interessato delle Vele di Scampia, del loro auspicabile abbattimento, della reazione di una buona parte della cultura ufficiale a questa proposta e quindi del rapporto tra forma della città e comportamenti sociali nonché del ruolo che i cittadini devono avere nelle scelte per la città, proprio in quanto bene comune.
Il decalogo di Italia Nostra nazionale è il seguente:

Non credo in questo caso di poter essere accusato di faziosità se dico che, oltre ad avere una impostazione politica fortemente caratterizzata “a sinistra”, propone solo soluzioni “quantitative” e generiche, quali il “recupero delle immense periferie degradate cresciute negli ultimi decenni”.

E’ vero che è un decalogo e non un trattato, ma quale tipo di recupero si intende? E quel generico “negli ultimi decenni” - che se letto insieme all’articolo su Eddyburg è riferibile al periodo dagli anni ’80 in poi, anni di Craxi, della Tatcher e di Reagan - tutto giocato in chiave esclusivamente politica senza nessun accenno a quello direttamente urbanistico delle teorie moderniste sulla città, non lascia forse qualche dubbio che si tratti di una operazione squisitamente politica?
E quel decimo punto, la “partecipazione di cittadini e associazioni alle scelte urbanistiche”, non appare un po’ troppo di maniera in quel voler rimarcare la presenza di associazioni, ritenendo evidentemente, i cittadini da soli un po’ meno rappresentativi?

Vorrei domandare a Italia Nostra nazionale cosa ne pensa delle Vele di Scampia o dello Zen o di Corviale.
Mi piacerebbe sapere se la demolizione è da demonizzare oppure se è una delle opzioni possibili, almeno in qualche caso.
Mi piacerebbe sapere se Italia Nostra e i cinque urbanisti ritengano che anche gli anni ’70 abbiano prodotto immense periferie degradate oppure se quelle dei Piani di Zona e dei PEEP siano buone per il solo fatto di essere pubbliche e non frutto dell’urbanistica contrattata.
Vorrei sapere se l’urbanistica consociativa sia migliore di quella contrattata e se abbia prodotto splendide città dove la gente vive felice!
Vorrei sapere se Italia Nostra ritiene che il problema fosse, negli anni ’70, solo dare un tetto (metaforicamente perché di tetti neanche… l’ombra) oppure una casa, con tutti i suoi attributi connessi. E sarei davvero curioso di sapere se l’urbanistica degli standard e dei servizi (pubblici, perché il privato è escluso al punto 4) è quella che viene riproposta oggi. E, ad esempio, il negozio di alimentari o il bar o l’edicola di giornali rientrano nell’iniziativa privata oppure c’è tolleranza per un limite dimensionale entro cui questa è ammessa, al pari della Cina ai tempi di Mao?
Davvero stupefacente questo decalogo: sembra una voce dall’oltretomba, un tuffo nel passato, un ricordo di una giovinezza che non è più!

Di diverso tono è l’analisi di Nicola Emery, tutta giocata sull’idea di un’architettura che ha “un suo alto mandato sociale”. Partendo da Platone e passando per Vitruvio, probabilmente forzando un po’ il pensiero di entrambi, Emery riconosce che l’architettura, in quanto “arte utile”, non può limitarsi all’“essere-in-sé”, cioè un’arte autoreferenziale al servizio dei soli architetti, ma all’”essere-per-gli-altri” che “nei casi peggiori può rovesciarsi in un suo essere-contro-gli-altri. Non è forse questo capovolgimento d’essenza a prendere disgraziatamente forma nei così detti eco-mostri?”.
Cos’è che non mi convince del tutto nella tesi di Emery? Il fatto che facendo ricorso a Platone e alla sua affermazione che la città è come un pascolo, e come tale dovrà essere costruito in modo da “risultare nutriente e sano”, mi sembra che non afferri e non dimostri appieno la necessità della città come “bene condiviso”, risultando alla fine un discorso un po’ moralistico e retorico in base al quale gli architetti, dovrebbero rinunciare a gran parte del proprio essere-per-sé (atteggiamento archistar, tanto per intenderci) a vantaggio dell’essere-per-gli-altri.
Manca, a mio avviso, una spiegazione razionale intrinseca all’essenza stessa della città, che è bene comune in quanto spazio e luogo in cui si svolge la vita dell’uomo come essere sociale, che necessita dunque di rapporti con gli altri. La città è il luogo di scambio sociale e di relazione per eccellenza, il luogo in cui ognuno entra in rapporto con gli altri; la città è un organismo sociale di persone, la quale deve essere regolata da leggi specifiche che garantiscano ad ognuno il massimo della libertà senza invadere la libertà altrui.
A me sembra invece che la metafora del pascolo, ancorché efficace, lascia trasparire una gerarchia precisa: il pastore e il gregge, dove la legge la detta il primo. E questo in perfetta sintonia con lo spirito de la Repubblica (di Platone, non del quotidiano….)che non concede molto alla democrazia ma auspica il governo dei filosofi. Insomma, preferisco un'etica che sia intrinseca alla disciplina stessa e non un'etica basata su generiche buone intenzioni.

Quindi il termine bene comune è applicabile indifferentemente ad una città governata in modo autoritario e a quella governata in modo democratico. Personalmente preferisco bene condiviso, che significa che occorre un dialogo, uno scambio di opinioni, una lotta politica per mettersi d’accordo sulla forma della città.

E le Vele, che c’entrano le Vele? C’entrano perché Emery, con Platone e Vitruvio, ritengono che la forma città eserciti un’influenza sul benessere o malessere delle persone e incidano sui comportamenti individuali e collettivi.
Scrive Emery: “Assumendo l’idea dello spazio come bene comune, l’architettura può cercare di offrire spazi favorevoli alla coesione e alla solidarietà, spazi che con i loro pieni e i loro vitali vuoti significano altrettante offerte per mescolare in modo proporzionale i diversi. Addirittura, come si legge ancora in Platone, dovrebbe disegnare spazi per far crescere universali legami fraterni…..”.

Anche in questo caso prevale la forma e la sostanza retorica, non si sa se dovuta più a Platone o a Emery, ma comunque il significato è abbastanza chiaro. Riferendoci alle Vele potremmo dire che queste non non offrono spazi favorevoli alla coesione e alla solidarietà e il loro disegno non fa crescere legami propriamente fraterni.
E Italia Nostra nazionale che c’entra con le Vele? Mi piacerebbe davvero saperlo, anche se una vaga idea me lo sono fatta.

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11 aprile 2011

DIVERSI PARERI SULLE VELE DI SCAMPIA

Di seguito alcune opinioni prese dal web sull'abbattimento delle Vele di Scampia. In rosso i miei appunti.


… Di fronte ai continui riferimenti al così detto “stravolgimento” del progetto, divenuto ormai una sorta di leggenda metropolitana ripetuta spesse per sentito dire, ritengo necessario ribadire, ancora una volta, che le modifiche apportate al progetto non c’entrano assolutamente nulla col processo di degrado che ha trasformato le Vele in un inferno abitativo.
Le cause sono ben altre e sono quelle che abbiamo esposte sulla stampa cittadina e, in particolare, nei miei libri "Dalle case collettive alle Unità urbane", Esi, 1996, e "Il Testimone", DenaroLibri, 2001……
Con il grande Riccardo Morandi chiamato a progettare le strutture antisismiche che dimostrarono tutta la loro solidità in occasione del terremoto del 23 novembre 1980…..(1)
Gerardo Mazziotti- Le Vele/2 – Un errore abbatterle, Repubblica 17 agosto 2006
1) E’ rassicurante cominciare con un sano benaltrismo, vero collante dell’unità nazionale, atteggiamento mentale utilissimo a svicolare su problemi e responsabilità. E’ anche interessante sapere che per dimostrare la bontà dell’esecuzione si porta a prova il successo il non essere crollate durante il terremoto. Come se tutte le case di Napoli fossero crollate e le Vele no!




Eppure, quello che per Saviano è un "simbolo marcio del delirio architettonico", per i docenti di storia dell'architettura, di restauro architettonico e per diversi sovrintendenti italiani è un "segno" da salvare, come lo sono stati anche altri segni del "male", come alcune architetture fasciste, e come lo sono il Corviale, lo Zen e molti altri quartieri ad alto tasso di degrado. E intendono opporsi a un nuovo abbattimento delle vele.(2)
Pierluigi Panza - Blog Fatto ad arte, 31 marzo2011
2) Ove si evidenzia che esistono due mondi incomunicabili: quello dei docenti e di diversi soprintendenti, cioè della cultura architettura ufficiale, e quello della gente. Ingiustificabile, dato che l’architettura è per la gente

Le Vele di Scampia non sono che un esempio fra molti di questa architettura inumana, totalitaria, tipica degli anni ’60 e ’70. Quando si scoprì che la thalidomidina induceva deformazioni nei feti umani, venne bandita dal mercato farmaceutico. Gli ecomostri invece continuano a ricevere l’appoggio fervente di un’intera classe di architetti alla moda, nonché di istituzioni che si vorrebbero responsabili della formazione di giovani professionisti. C’è più di un parallelo con quelle scuole di farmacologia dove s’insegnava che il Thalidomide era un buon medicamento contro la nausea provocata dalla gravidanza; ma quel crimine, con le conoscenze raggiunte, non lo si permette più. Perché allora tanto timore reverenziale, ancora, verso gli architetti famosi che promuovano gli ecomostri, e fanno finta che Corviale, Zen2, Vele e Tor Bella Monaca sono «bellissimi»? (3)
Nikos Salìngaros, Blog Fatto ad arte, 31 marzo 2011
3) Qui si narra dell’atteggiamento antiscientifico del mondo dell’architettura che rifiuta la verifica dell’errore. Prima hanno fatto gli esperimenti, non hanno funzionato, continuano a difendere l’errore. Condanna con le aggravanti specifiche.

Il portico, l'atrio, la scala, sono divenuti luoghi di pericolo, nuove carceri piranesiane, dove, nella penombra di ogni angolo, la microcriminalità può agire indisturbata.
È una cronaca amara e questo senza arrivare a scomodare i ceffi mascherati di Arancia Meccanica di Stanley Kubrick.
Così molta gente prova rimpianto per i tempi passati nei quartieri del centro antico dove la vita, pure svolta in un basso o in un buio monolocale, certamente però avveniva in un tessuto sociale più omogeneo e compatto, ove le relazioni interpersonali si svolgevano in uno spazio prossemico noto e controllato.
Questa diffusa condizione di malessere e di ripulsa per il proprio ambiente di vita, generata da uno spazio che ha la capacità di modificare e determinare i comportamenti degli individui che ospita, genera a sua volta delinquenza.
Il fallimento dell'Unità di Abitazione di Marsiglia di Le Corbusier, rimasta prototipo, così come il fallimento delle Vele di Scampia rappresentano la disgregazione dell'ideologia e della politica dello zooning, della città considerata come insieme di funzioni separate anche se poste in luoghi vicini.
La città antica, invece, garantiva l'integrazione sociale ed economica, aggregando negli stessi luoghi realtà di estrazioni diverse, anche culturali, oltre che sociali ed economiche. (4)
Enrico Sicignano, "Costruire in Laterizio" n° 65-1998, ripreso da www.progettoscampia.net
4) Togliere le persone dai vicoli , dalla città, per cacciarli dentro una utopica città nella città è stata una deportazione di massa. Le Corbusier non l’ho citato io. Descrizione e commento molto pertinente.

«Io distinguerei due livelli - continua Gizzi - l'aspetto architettonico-progettuale, cioè l'interesse architettonico, e il degrado sociale. Anche il fatto che abbiano fatto da sfondo a pellicole cinematografiche vuol dire che segnano una presenza, alla stessa stregua dei palazzoni della ex Berlino Est che hanno fatto da fondale a molte scene dei film di Wim Wenders» (5).
Stefano Gizzi, Soprintendete Napoli - da La Stampa
5) Distinguere i livelli significa negare la relazione tra l’architettura e la sua utilitas. E significa anche indifferenza verso chi ci abita. Per il resto, no comment, perché già fatto nel precedente post.

Daniele Sanzone abita a cinquanta metri dalle Vele ed è il cantante degli A67, formazione di crossover rock che nei suoi testi parla di degrado, camorra e, appunto, di Vele.
«Quelle - spiega - sono la metafora del male. Chiedete a chi ci abita, a chi ha perso un figlio o un amico che cosa bisogna fare. Abbattere le Vele significherebbe dare un segnale a tutti, ma non basterebbe. Bisogna fare tanto per questo quartiere, dalle case al lavoro. Qui tra amianto e topi crescono bambini e non è più tollerabile».(6)
Daniele Sanzone, da La Stampa
6) L’opposto del benaltrismo: si riconosce il problema, si trova la soluzione primaria e si allarga poi il discorso alla complessità degli altri numerosi problemi correlati.

E non è assolutamente vero che, per l'esigenza di ridurne i costi, la realizzazione delle Vele è cosa ben diversa dal progetto Di Salvo. E’ vero invece che, mentre erano ancora in costruzione, senza acqua, luce e fogne, la giunta Valenzi (nella quale probabilmente c'era già Siola in qualità di assessore) assegnò gran parte degli alloggi delle Vele ai terremotati del novembre '80 e ai senzatetto storici. Ed è vero, perché da me documentato, che la trasformazione del complesso in un inferno abitativo (direi di più: in una corte dei miracoli) è da contestare, non già a carenze progettuali o esecutive, ma alle varie amministrazioni comunali che l'hanno abbandonato a ogni forma di manomissioni (verande, edicole votive, box, eccetera), di trasformazioni (devastante la chiusura dei piani porticati con alloggi abusivi) e di vandalismi (le trombe degli ascensori sono state per anni utilizzate come depositi di rifiuti).(7)
Gerardo Mazziotti, Il denaro,it
7) Qui sia afferma che progetto ed esecuzione dello stesso non sono il problema. Il problema è l’abbandono da parte delle amministrazioni comunali che avrebbero dovuto accompagnare gli edifici come un genitore fa come i propri figli piccoli. Avrebbe dovuto, in sostanza, insegnare ad abitare.

“Ananke” è parola greca che vuol dire destino; quello delle Vele è stato fermato dal soprintendente Stefano Gizzi con la proposta di salvaguardia mediante dichiarazione di interesse culturale. Non un vincolo che mantenga in eterno la condizione attuale, bensì una leva per indurre un corretto restauro e il riutilizzo, nel rispetto di quello che aveva progettato l’architetto Franz Di Salvo, considerato uno dei migliori interpreti della lezione di Le Corbusier e di Kenzo Tange (le grandi “unità di abitazione” piccole città autosufficienti in tema di servizi), ossia qualcosa di ben diverso da ciò che fu realizzato fra il 1962 e il 1975, al punto da indurlo a ritirare la sua firma dall’opera. Le sue sette Vele prevedevano in tutto 6.500 vani, ma l’intero villaggio doveva essere dotato di scuole, teatri, cinema, centri sociali, spazi per il gioco e lo sport: nulla di tutto ciò fu realizzato né in contemporanea né dopo, e vi si rinunciò del tutto quando il terremoto del 23 novembre 1980 scatenò l’ennesima ondata di occupazioni abusive. Già l’insulso sistema di punteggi per l’assegnazione delle Case Popolari comportava il concentramento di quanto di più socialmente degradato; l’aggiunta dell’abusivismo, l’assenza di servizi elementari, provocarono da subito una miscela infernale, condita anche dal rapido degradarsi dei pessimi materiali: condense diffuse di umidità nonostante l’esposizione quasi totale al sole delle abitazioni, impermeabilizzazione carente, ascensori costantemente guasti nonostante altezze di 14 piani.(8)
l’Altro quotidiano.it – Iniziativa “Salviamo le Vele”
8) Qui si afferma esattamente l’opposto del punto 7. Evidentemente tutte le ragioni sono buone pur di assolvere il progetto

“Pessime da abitare ma di notevole qualità…stupenda opera di architettura” dichiara l’ex soprintendente Mario de Cunzo. (9)
Eleonora Putillo, L'altro quotidiano.it
9) Mario de Cunzo: precedente Soprintendente di Napoli. Vedi punto 5. Bisogna riconoscere una notevole coerenza ai Soprintendenti!!

E’ stato il progettista de “Le Vele” di Secondigliano coadiuvato da un pool di valenti tecnici - uno per tutti il noto Riccardo Morandi che ha studiato le strutture portanti - realizzando quell’interessante complesso demolito di recente senza scrupoli con l’assurda motivazione che l’Architetto era addirittura responsabile del degrado sociale e culturale in cui verte tutta la zona di Secondigliano. (10)
Alessandro Castagnaro, PresS/Tiletter
10) Filone: la colpa è sempre degli altri e io mi tappo gli occhi per non vedere

Quasi d' obbligo a questo punto la scelta di Garrone e Saviano e così le Vele per tre mesi sono diventate la Cinecittà della finzione camorristica. Da antologia, le scene della piscina sul terrazzo di una Vela e del ragazzo che corre nello spettrale corridoio al piano terra. Franz di Salvo e l' architettura napoletana avrebbero volentieri rinunziato a questo supplemento di notorietà. Sperano solo in un paradosso: che il prevedibile successo mondiale del film induca a conservare e restaurare almeno una Vela, se non come testimonianza di un progetto interessante e coraggioso, almeno come location d' elezione di un film di successo. (11)
Pasquale Belfiore, repubblica 22 maggio 2008
11) Io direi che gli abitanti avrebbero fatto volentieri a meno della pubblicità. Ma evidentemente sono un problema secondario.

In un primo momento il Comune intende localizzare in una delle Vele la sede della Protezione Civile e dei Vigili del Fuoco. Ma successivamente si decide così come chiesto dai comitati di abbattere tutte le vele. Comincia la lotta per la riqualificazione.(12)
Da una slide del filmato "Comitato di Lotta Vele Scampia"- http://www.youtube.com/watch?v=BNLAi1odkPE
12) C’è poco da osservare: gli abitanti ne vogliono l’abbattimento. Ci deve pur essere qualche ragione!

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7 aprile 2011

LE VELE DI SCAMPIA? UN MONUMENTO NAZIONALE!

L’intenzione di vincolare le Vele di Scampia da parte del Soprintendente Stefano Gizzi è lo specchio del distacco totale tra la cultura italiana e la realtà. Se si domandasse infatti a qualunque persona comune cosa pensa delle Vele e se andrebbe a viverci la risposta appare scontata.
Se si domandasse a Gizzi forse non risponderebbe come Gregotti per lo Zen, ma dubito risponderebbe affermativamente.
In Italia esiste una cultura che si auto-considera alta ma che non prova disagio a dire che quell’oggetto ha valore storico e architettonico. Gizzi giustifica questa scelta con due argomenti, tra gli altri, che sono significativi (Fonte: La Stampa):
1) le Vele sono state lo sfondo del film Gomorra e, come i casermoni della Germania est sono stati lo sfondo dei film di Wenders, hanno per ciò stesso un valore culturale in senso ampio.
2) uno studio commissionato anni fa dal Ministero dei Beni Culturali a varie università ha decretato il valore di quel progetto.

Si può immaginare quanto possano interessare a chi è costretto a vivere in un inferno i film di Wenders!
Le Vele sono considerate la scenografia di un film dai colori plumbei e i suoi abitanti le comparse di quel film. Il discorso di Gizzi è tutto concettuale in quanto gli edifici dell’Arch. Franz Di Salvo sono trattati come fossero un’idea astratta e ne parla al pari di oggetti d’arte, senza lasciarsi sfiorare dal dubbio che l’architettura esiste per assolvere alla funzione dell’abitare, cioè per accogliere al proprio interno persone che ci vivono e all’esterno persone che lo vedono e che si muovono nello spazio circostante.

Gizzi trascura del tutto il valore civile dell’architettura che significa che la città appartiene a tutti i cittadini, e quindi anche le sue case appartengono, in un certo senso, a tutti e non solo ai loro proprietari. Un edificio è costituito una parte privata, l'interno, e da una parte pubblica, l'esterno, e chi è proprietario di casa non è proprietario di tutta la casa o almeno non ha diritto assoluto su tutta la casa. Lo ha certamente per quello che riguarda l’interno ma l'esterno è parte integrante della città e appartiene a tutta la città ed è per questo motivo che il proprietario ha obblighi di decoro, se non di bellezza, nei confronti dei suoi concittadini.
La città è cioè un luogo e un bene condiviso tra tutti i suoi abitanti e con essa tutti gli edifici che insieme la compongono. Non è casuale che il Sindaco abbia il potere di emettere ordinanze per ripristinare il decoro di edifici in cattivo stato di manutenzione.

Tutto ciò deriva non solo dalla storia della città europea ma dall’essenza stessa della città, che è l’ambiente entro il quale si svolge la vita dell’uomo. Per questo motivo se un’architettura è brutta e indecorosa in quanto invivibile e anti-umana non è civile ma in-civile in quanto rompe e trasgredisce le regole della città e della società e chi abita in ghetti pubblici (vorrei sottolineare pubblici) come le Vele si trova, so malgrado, ad essere automaticamente ai margini della società. Gli abitanti di posti come questo, prescindendo del tutto dai loro comportamenti e dalla loro condizione sociale, sono bollati come emarginati. Quindi la bruttezza è emarginante.

Eppure per Gizzi, che è architetto e che, come quasi tutti gli architetti, ha probabilmente assimilato all’università l’ideologia modernista di Le Corbusier e C., l’ideologia della macchina per abitare, della macro-struttura, dell’oggetto che deve riassumere in sé tutte o quasi le funzioni urbane, del falansterio, cioè dell’anti-città e dell’anti-socialità, viene, prima di tutto, il progetto e il suo progettista, prescindendo da chi lo abita.

Gizzi, con questa sua intenzione di vincolo, perpetra nel tempo e congela, storicizzandolo, l’esperimento di ingegneria sociale fatto in corpore vili.
Il movimento moderno, nato come avanguardia culturale si è trasformato ormai da anni in un movimento reazionario di conservazione dell’esistente, in teoria regressiva.
L’architetto modernista rappresenta per la città quello che il filosofo rappresenta per la polis nella Repubblica di Platone, cioè il migliore che, per questo, è l'unico abilitato a governare. Una visione profondamente anti-democratica e politicamente anti-moderna, vecchia più che antica. Così come Platone irride alla democrazia della polis greca, ritenendo che essa porti, per la troppa libertà concessa agli individui, al disordine, i modernisti sono sostanzialmente contrari al fatto che i cittadini possano avere voce nella forma della città, dove deve invece governare il loro astratto e funebre ordine geometrico. L'architetto modernista si pone da solo sullo scranno del comando, in quanto migliore, per decidere le sorti della città. Il modernismo è quindi una forma attualizzata di platonismo privo però della grandezza del pensiero di Platone. E’ una brutale reazione anti urbana e politica, nel senso di polis. E' autoritarismo allo stato puro.
E dire che a coloro i quali ritengono che i cittadini siano abilitati a scegliere e decidere la politica della città, cioè la forma urbis, viene attribuito il termine di populisti! Evidentemente i modernisti non è che siano poi così culturalmente attrezzati come vogliono sempre far credere.

Il secondo argomento, quello del verdetto delle università, è la riprova di tutto questo, perché dimostra come sia proprio il sistema culturale dell’architettura e dell’urbanistica italiana ad essere rimasto fermo all’ideologia modernista, dichiarando il valore delle Vele. Gizzi non è un’eccezione ma è parte di quel sistema culturale che va profondamente trasformato nella speranza di riportare l’architettura al suo significato originario di casa dell’uomo e per l’uomo, contro un’architettura che è invece per l’architetto e dell’architetto, che ne fa un gioco autoreferenziale sulle spalle dei cittadini.

Una riprova del sistema? Il mese scorso si è svolto un dibattito sulle Vele di Scampia nell'ambito della Fiera d'Oltremare e il Soprintendente Gizzi era annunciato nella locandina come moderatore! E' come se in un processo il Pubblico Ministero facesse anche da  giudice.
Se ha una speranza l’architettura italiana è quella di rimettere ai cittadini le decisioni sulla città, perché è la civitas a dover decidere dell’urbs.

Auguriamoci che il Comune, come ha già annunciato, si opponga al vincolo: evitiamo almeno il ridicolo.

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