Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


30 novembre 2009

UNA CITTA' DIVERSA E' POSSIBILE: LEON KRIER E PIER CARLO BONTEMPI (1)

Nel luglio 2002 si tenne ad Arezzo un Workshop in occasione della redazione del Piano Strutturale. Il Consulente scientifico del piano era, al tempo, Peter Calthorpe. Al Workshop erano stati invitati, tra gli altri, Lèon Krier e Pier Carlo Bontempi. Di quei pochissimi giorni di lavoro cui seguì una mostra e un dibattito pubblico di grande successo e interesse, sembra che si sia persa ogni traccia: nel sito del Comune c’è una cronologia puntigliosa e dettagliata dei lunghi anni di gestazione del PS, ma del workshop solo questa comunicazione.
Poiché a suo tempo avevamo fatto foto e raccolto un po’ di materiale, sono andato a ripescarlo e lo pubblico in due parti.


In questa prima parte ci sono stralci della relazione di Lèon Krier e alcuni dei suoi disegni, nella prossima ci saranno stralci della relazione di Pier Carlo Bontempi, sempre con disegni.

Stralci dalla relazione svolta da Lèon Krier:
Calthorpe è forse, all’interno del movimento del New Urbanism, il teorico che più di ogni altro fa riferimento alla grande scala territoriale, riuscendo a fare una sintesi di concetti molto atomizzati, simili alla mia concezione di quartiere o di struttura della città della piccola città.
Calthorpe ha concepito l’idea della città policentrica, basati su una catena di villaggi collegati tra loro da sistemi di trasporto pubblico. Penso che Arezzo sia una città “felice” per la sua collocazione geografica, ma che la sua periferia presenti le stesse problematiche delle altre aree suburbane italiane.
In particolare Arezzo presenta problemi difficili da risolvere dal punto di vista strutturale, poichè i suoi sobborghi risultano estremamente frammentati dalla presenza di infrastrutture del traffico, dei trasporti e dei percorsi d’acqua; elementi questi che non aiutano una buona forma urbana.


Il grande concetto di Calthorpe è di “legare” la città diffusa, periferica, in una catena di quartieri a forma di “ipsilon” e di concentrare la crescita futura della città su questi tre assi. Mi sembra una scelta molto pragmatica ma anche possibile, perché su questi tracciati ci sono vaste aree per lo sviluppo, che possono permettere ad una grande città di espandersi ulteriormente, come ha fatto negli ultimi 50 anni.
Dunque, invece di una crescita atomizzata, si potrà prevedere il completamento dei quartieri, e avere così una crescita all’interno, piuttosto che una crescita esplosiva.
(omissis)

Girando per la città ci rendiamo conto quanto sia vero l’assunto che una grande quantità di spazio è contraria ala qualità urbana dello spazio. Le immagini che seguono sono un esempio che mostra quanto queste aree frammentate possano nel futuro divenire aree di crescita urbana, fino a raggiungere una densità forse non uguale a quella del centro storico, ma certamente uguale alla qualità spaziale del centro storico, anche se meno densa.

Gli isolati che abbiamo disegnato, oltre a contenere gli edifici esistenti, avranno in futuro la tendenza a creare fronti edilizi continui, anche se di diversa altezza, secondo il vecchio sistema di facciate e di muri, talcolta così raffinati nei centri storici o nei piccoli nuclei di campagna fuori città. Questi servono come modello diretto, e li percepiamo non come segni della storia, ma segni della tecnologia per creare nuovi centri storici. (Omissis)

Ogni quartiere avrà il suo centro, e una piazza, e un suo limite chiaramente leggibile. (Omissis)

Automobile e pedoni devono poter coesistere in armonia piuttosto che in conflitto. (Omissis)
Strade come Corso Italia e Via Roma, che attraversano tutto il corpo della città antica, hanno la capacità di legare al centro storico tutti i quartieri della nuova Arezzo, e soprattutto di superare la terribile frattura creata dalla ferrovia e permettere alla città di collegarsi all’università e all’ospedale, che in futuro potrà espandersi e diventare un quartiere indipendente”.

E’ ovvio che lo scopo di questo e del prossimo post non è quello di alimentare un dibattito su Arezzo, dato che sarebbe impossibile per chi non conosce la città; tuttavia dal confronto del testo con le immagini si comprendono bene i principi essenziali che stanno alla base del pensiero di Lèon Krier e di Peter Calthorpe e che, pur applicati ad una situazione specifica, hanno una portata assolutamente generale:
1. una città costruita in continuità con il centro storico, fatta di quartieri ognuno dotato di un proprio “centro storico”, capace di ridare dignità a zone oggi monofunzionali e anonime;
2. un potenziamento del trasporto pubblico con la valorizzazione del sistema ferroviario attualmente esistente lungo il quale andare ad individuare le aree di crescita della città, alleggerendo così la pressione del traffico privato in ingresso e in uscita dalla città;
3. una città che cresce su se stessa con densità molto alte simili a quella del centro storico;
4. una crescita che si innesta sui due assi viari principali esistenti.

Ma il successo di questi propositi non è indifferente al tipo di disegno urbano, e questo non è una variabile indipendente tale da dare esiti positivi qualunque esso sia: quando si dice alta densità si intende che il pieno deve prevalere sul vuoto, non che si realizza con edifici di maggiore altezza; si intende che il nuovo tessuto urbano dovrà essere analogo a quello della città storica, fatto da isolati e strade racchiuse da fronti edilizi continui. Senza queste caratteristiche i buoni propositi, le scelte “politiche”, sono destinate al fallimento e alla ripetizione degli errori del passato, lontano e più recente.

Per questo c’è da augurarsi che, a distanza di sette anni, questi disegni non siano stati rimossi dalla memoria, oltre che abbandonati in archivio come spesso accade nei nostri comuni, che vengano ripresi, sviluppati, perfezionanti, anche corretti se è il caso. Non esiste progetto che non contenga errori o analisi non del tutto condivisibili, e anche questo non sfugge alla regola, ma il workshop è stata una occasione davvero unica e straordinaria di elaborazione concreta di proposte e progetti fatti da straordinari architetti e urbanisti quali Lèon Krier, Pier Carlo Bontempi, Peter Calthorpe; nato probabilmente per caso, se non addirittura per un equivoco, ha fornito materiale di grande qualità che sarebbe insano fare finta che non sia mai esistito per ricominciare con nuovi progetti, naturalmente nel solito filone modernista.


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29 novembre 2009

LANGONE ANCORA CONTRO I GRATTACIELI

Su Il Foglio ancora una Preghiera di Camillo Langone contro i grattacieli.


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26 novembre 2009

UN OMAGGIO AI RAFFINATI DISTINGUO SU LE CORBUSIER (e sui suoi seguaci)

Pietro Pagliardini

Quella che alcuni giudicano essere una demonizzazione acritica perpetrata da parte di questo blog ai danni di Le Corbusier pare essere invece una corrente di pensiero piuttosto diffusa e che si va consolidando sempre più. Evidentemente l’aumento della distanza temporale fa perdere i freni inibitori verso quell’aura di intoccabilità e sacralità che si “deve” avere verso un personaggio che, nel bene o nel male, fa parte della storia del XX secolo.
Un esempio addirittura eclatante ne è un articolo di Theodore Dalrymple sul City Journal, segnalatomi ancora una volta da Angelo Gueli, il cui titolo non lascia spazio a incertezze: L’Architetto Totalitario.
Ma è l’attacco del pezzo assolutamente fulminante:

Le Corbusier sta all’architettura come Pol Pot sta alle riforme sociali”.



Difficile trovare qualcosa di più dissacrante. Come si vede non si lavora secondo le raffinatezze critiche che talvolta nascondono l’incapacità di vedere la realtà nella sua crudezza.

Continua l’articolo:
In un certo senso egli ha meno attenuanti per la sua attività di Pol Pot: diversamente da questo egli possedeva un grande talento, persino del genio. Sfortunatamente ha orientato i suoi doni a fini distruttivi e non è una coincidenza il fatto che abbia servito volentieri sia Stalin che Vichy. Come Pol Pot egli voleva ripartire dall’Anno Zero: prima di me, niente, dopo di me, tutto.
Con la loro presenza, le torri rettangolari rivestite di freddo cemento che lo ossessionavano, spazzarono via secoli di architettura.
Difficilmente ogni paese o città in Gran Bretagna (per prendere solo una nazione) non ha avuto la sua forma distrutta da architetti e urbanisti ispirati dalle sue idee
”.

Quest’ultima è, secondo me, la conseguenza fondamentale che sfugge ai più: il contributo degli allievi, consapevoli o meno, che, nonostante i soliti raffinatissimi critici neghino decisamente, continuano imperterriti e impuniti sulla scia del Maestro a disegnare piani e progetti; ed è normale che sia così perché l’imprinting culturale ha memoria lunga e si può cambiare solo con il tempo o con una scossa, come quella che è avvenuta nella prima metà del secolo scorso, ovviamente diretta da pochi ai danni di molti. Sui meccanismi di questa aristocratica imposizione dall’alto di canoni sgraditi ai più è illuminante Tom Wolfe in Maledetti architetti, uno dei primi libri a fare contro-informazione in questo campo (ma anche Tom Wolfe viene giudicato poco meno che uno zotico dai nostri esigentissimi critici).

Prosegue l’articolo:
Gli scritti su Le Corbusier iniziano spesso con un riconoscimento alla sua importanza, qualcosa come: "E 'stato l'architetto più importante del ventesimo secolo”. Amici e nemici sarebbero d'accordo con questo giudizio, ma importante è, ovviamente, l’ambiguità morale ed estetica. Dopo tutto, Lenin è stato uno dei politici più importanti del ventesimo secolo, ma fu la sua influenza sulla storia, non i suoi meriti, a renderlo tale: allo stesso modo Le Corbusier. Eppure, proprio come Lenin è stato venerato a lungo dopo che la sua mostruosità avrebbe dovuto essere evidente a tutti, così Le Corbusier continua ad essere venerato”.

L’articolo, che è molto lungo, prosegue parlando di libri e mostre che recentemente hanno celebrato LC e l'autore racconta episodi a lui accaduti durante la visita ad una di queste mostra a Londra:
Ho segnalato alle signore una sezione della mostra dedicata al piano Voisin, un progetto di Le Corbusier per sostituire un ampio quartiere di Parigi con edifici fondamentalmente dello stesso disegno di quelle che abbellisce la periferia di Novosibirsk e di ogni altra città sovietica (per non dire niente di Parigi stessa e delle sue alienanti banlieues). Se realizzato, il piano avrebbe cambiato, dominato, e, a mio avviso, distrutto l'aspetto di tutta la città. Qui, la mostra trasmetteva un film del 1920 che mostrava Le Corbusier di fronte a una mappa del centro di Parigi, una gran parte del quale egli procedeva a coprire con un pennarello nero con tutto l'entusiasmo di Bomber Harris (1) che pianifica l'annientamento di una città tedesca durante la seconda guerra mondiale.

Le Corbusier esaltava questo tipo di distruttività, come immaginazione e coraggio in contrasto con la convenzionalità e la timidezza di cui ha accusato tutti i coetanei che non siano caduti in ginocchio davanti a lui. Dice qualcosa dello spirito di distruzione che alligna ancora in Europa il fatto che un simile film venga fatto vedere non per suscitare orrore e disgusto, o almeno ilarità, ma ammirazione
”.

Salto tutta la parte centrale, di cui consiglio vivamente la lettura, e riporto la conclusione del pezzo:
Le Corbusier non appartiene così tanto alla storia dell'architettura quanto a quella del totalitarismo, a quella deformità spirituale, intellettuale e morale degli anni tra le due guerre in Europa. Chiaramente, non era solo, era sia un creatore che un sintomo dello Zeitgeist. I suoi piani per Stoccolma, dopo tutto, sono stati una risposta a un concorso ufficiale svedese su come ricostruire la bellissima città vecchia, e la sua distruzione era sul programma. È un segno della forza ancora presente della tentazione totalitaria, come il filosofo francese Jean-François Revel l’ha chiamata, il fatto che Le Corbusier sia ancora venerato nelle scuole di architettura e altrove, piuttosto che universalmente vituperato”.

A chi pensasse che questo su Le Corbusier è un giudizio solo politico che però nulla toglie alle qualità dello stesso e che il giudizio sul genio architettonico deve essere tenuto separato e distinto da quello sull’uomo e sulle sue debolezze io dico che non ha capito niente del personaggio e del suo pensiero e che, tra l’altro, non gli renderebbe giustizia.
Le Corbusier ha fatto azione politica per mezzo della sua architettura, della sua urbanistica, della sua teoria e del suo pensiero e le opere, sue e dei suoi seguaci, sono l’espressione materiale della sua visione  della politica e della società: non si può apprezzare l’architetto e teorico e condannarne il pensiero politico; il pacco va preso tutto insieme, volenti o nolenti.



***

Theodore Dalrymple, un medico, è un redattore di City Journal e Dietrich Weismann Fellow presso l'Istituto di Manhattan. Il suo libro più recente è Non con un bang, ma con un gemito.

(1) Soprannome del comandante in capo della RAF durante i bombardamenti inglesi sulla Germania.

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21 novembre 2009

LE ARCHISTAR SECONDO MARC AUGE'

Pietro Pagliardini

Salvatore d’Agostino ha pubblicato su Wilfing Architettura un articolo di Marc Augé tratto da Le Monde, dal titolo L’architettura globale. Rimando al link per la lettura del testo.
L’analisi che Augé svolge sul fenomeno archistar, facendo ricorso a concetti del tutto analoghi a quelli di Nikos Salìngaros nel libro No alle archistar, LEF, 2008, e non tanto diversi da quelli ripetuti più volte in questo blog, è oggettiva; le proposte per il futuro che auspica rischiano di essere, a mio avviso, peggiori del male.
La critica all’architetto demiurgo che progetta per il villaggio globale non sembra affatto finalizzata al rispetto delle culture locali e dei luoghi ché anzi, dice Augé:
Le polemiche sull’importanza di adattarsi al contesto non hanno senso in un’epoca in cui ogni contesto locale vuole anche essere globale e in cui la firma dell’architetto diventa il simbolo di questo cambiamento di scala”.
Quindi l’autore sembra prendere atto di questa realtà giudicandola coerente con le aspettative delle comunità locali.(1)



Poi prosegue:
La retorica dei suoi discorsi (dell’architetto) serve a conquistare mercati: per questo, spesso imita l’ideologia degli imprenditori. Per lo stesso motivo incarna il cammino della storia”.
Ma dove vada la storia, per fortuna, neanche Augé si azzarda a prevederlo. Da notare che Augé non distingue la figura dell’architetto da quella dell’archistar, a riprova che sono proprio loro, le archistar, a dare il passo agli architetti in genere. E non è un caso che l’antropologo abbia colto nella mitica espressione “cultura del progetto”, che poi altro non è che la "cultura del proprio progetto”, ciò che accomuna gran parte degli architetti.

Ma a questo punto c’è il passaggio decisivo, il cambio di marcia. La disapprovazione di Augé per gli architetti che sono “più affascinati dalla possibilità di lasciare la loro impronta sui luoghi più importanti del pianeta… che dall’idea di affrontare i problemi tecnici e sociali causati dall’urbanizzazione mondiale” non è però rivolta alle loro architetture nè all'essere le archistar simbolo di una globalizzazione che rende tutti uguali “i luoghi più affascinati del pianeta” (con progetti di seconda mano dice addirittura) e che quindi dopo il loro intervento tanto affascinanti non saranno più, bensì è rivolta alla mancanza di un impegno sociale che si dovrebbe esprimere nella formulazione di proposte “sugli alloggi in città, su come affrontare l’emergenza pensando anche sul lungo periodo”.

Assolutamente incomprensibile e contraddittorio il confronto in negativo con Le Corbusier, che Augé stesso riconosce avere fatto molti danni proprio per la sua mania di risolvere il problema dell’abitare facendo tabula rasa e rifiutando la città storica!
Ebbene, cosa chiede Augé agli architetti? Di preoccuparsi del problema dell’abitare e di “tornare ad essere visionari del mondo”, esattamente quello che lui riconosce come contributo negativo di Le Corbusier! Tornare a preoccuparsi d’altro che di architettura e di città ma di problemi globali, quelli che, ad esempio, Bauman esclude possano rientrare nel campo di azione e di controllo a parte degli architetti.

L’alternativa all’archistar egomaniaca sarebbero dunque l’archistar visionaria in chiave socio-politico-utopica, un deja vue fallimentare.

Sembra che all'autore del'articolo sfugga un aspetto assolutamente elementare: che gli architetti debbono fare il loro mestiere e lasciare i problemi globali alle dinamiche della società, alla cui risoluzione possono certamente contribuire positivamente ma solo con la loro disciplina che consiste nel dare forma all’ambiente di vita dell’uomo, ciò che da decenni non sembra essere al centro dell’attenzione di molti.
Seguendo invece il suo invito si continuerebbe nella sperimentazione di nuovi modelli abitativi e urbani (e di modelli di ingegneria sociale) che hanno dato esiti catastrofici per la città e i suoi abitanti.
Ce n’è voluto di tempo per tornare a parlare di forma urbis e di disegno urbano, e adesso Augé ci propone un nuovo ’68 con l’immaginazione al potere!?


(1) Per smentire questa realtà si legga questo articolo del Corriere della Sera, I dieci edifici più brutti del mondo.

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17 novembre 2009

200 ANNI IN ....12 SECONDI

Ringrazio Angelo Gueli di avermi segnalato questo divertente e significativo video sulla trasformazione di una strada di New York:

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16 novembre 2009

DORATO INCUBO METROPOLITANO

PALM BEACH, FLORIDA, USA

Foto 1



Foto 2

Foto 3

Foto 4

Foto 5 (altro incubo in costruzione)

Immagini tratte da Google Earth

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12 novembre 2009

SARA' VERO?

Un link al giornale Libero con un'intervista a Luca Molinari, curatore del Padiglione Italia della prossima Biennale:


La domanda è: sarà vero? A giudicare dalla biografia del nuovo direttore della Biennale, Kazuyo Sejima, non c'è da esserne affatto certi!

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8 novembre 2009

MURI CADUTI E MURI...CADENTI

Pietro Pagliardini

Durante la presentazione del libro di Nikos Salìngaros, No alle archistar, LEF, 2009, tenutasi a Firenze, si è svolto un dibattito che, dato il tema, non avrebbe potuto che essere alquanto radicalizzato.
Ma non è questo l’argomento, quanto la seguente affermazione del Prof. Arch. Gianfranco Di Pietro, che presentava il libro, detta a completamento di un suo punto vista sulla pensilina di Isozaki a Firenze:
Una cosa è sicura: nei centri storici non si deve più costruire architettura contemporanea”.



Prima un brevissimo profilo del Prof. Di Pietro: in Toscana è stato, per lungo tempo, tanto autorevole quanto temuto membro della C.R.T.A, in pratica la commissione urbanistica della regione presso la quale tutti i PRG e i piani attuativi dovevano necessariamente transitare, oggi abolita ma allora dotata di ampi poteri decisionali, di interdizione e di indirizzo (e di cui si comincia a rimpiangere la fine). Redattore di piani regolatori, piani paesistici, piani territoriali di coordinamento, tra cui quello delle Province di Arezzo e Siena, i suoi piani sono impostati su schedature dettagliatissime e su norme fortemente vincolistiche. Ha svolto attività di progettazione sia nel campo della nuova edilizia sociale che nel recupero di fabbricati storici. Già docente di urbanistica alla facoltà di Architettura di Firenze, ha pubblicato libri insieme ad Edoardo Detti.

Premetto che Di Pietro, pur condividendo la critica del libro al fenomeno archistar, non ha nascosto le sue perplessità in ordine all’analisi di Salìngaros, da me invece condivisa, che buona parte del disastro architettonico e urbanistico delle nostre città affonda le sue origini nelle avanguardie del novecento, ed ha anche detto di provare ammirazione, per la loro impronta etica, per diversi interventi di quel tempo, citando in particolare il Weisenhof e le Siedlungen di Bruno Taut.




Cosa c’è dunque dietro l’idea stessa di escludere ogni forma di architettura contemporanea dai centri storici da parte di chi non rifiuta affatto l’architettura moderna?
A quali conseguenze porta un scelta di questo tipo?
La più semplice ed immediata risposta è l’ovvia constatazione che tra il contrasto e il contesto è preferibile quest’ultimo. Non ha detto infatti: non bisogna intervenire nei centri storici ma: "non bisogna farlo con progetti che sono per loro natura dissonanti e contrastanti".

Dunque un architetto che apprezza l’architettura moderna esclude che questa possa armonizzarsi con l’architettura della storia. Ma il prof. Di Pietro non è solo amante dell’architettura moderna, è anche un tipologo e un appassionato custode dei centri storici e del paesaggio.
La contraddizione è tanto evidente quanto, per assurdo, apparente.

E’ evidente perché certifica il riconoscimento di una indiscussa superiorità dell’architettura del passato su quella presente. Se, infatti, così non fosse e dato che la città storicamente si è sempre trasformata ed evoluta con l’aggiunta e la sovrapposizione di edifici di epoche successive fino alla configurazione attuale che noi tanto apprezziamo, allora non si capirebbe il motivo per cui non dovrebbe continuare a crescere con edifici contemporanei.

La contraddizione è tuttavia apparente per il fatto che modernità fuori e conservazione dentro sono due facce della stessa medaglia, la conseguenza di quella rottura violenta con la tradizione e con la storia voluta dalle avanguardie che segna una linea di confine netta e invalicabile tra un prima e un dopo e perciò anche tra un centro e una periferia. In giorni di celebrazione del 9 novembre 1989, è fin troppo facile la metafora della costruzione di un “muro” che divide un passato superbo, ritenuto morto, da un futuro fatto di sperimentazione di nuove forme architettoniche e urbane di cui l’avanguardia rivendica la paternità e la guida.

Io credo che questa “doppia morale”, mi piace chiamarla così, ha sì il merito di salvare il centro storico ma condanna la città nel suo complesso.
Di Pietro ha detto, e c’è del vero, che la ricerca effettuata nella prima metà del secolo affondava le sue ragioni nei velocissimi cambiamenti sociali ed economici delle società occidentali e che occorreva perciò trovare risposte a nuovi fenomeni quali la mobilità individuale e collettiva, l’inurbamento e la formazione di nuove classi sociali, ecc. Tuttavia è altrettanto vero che la oleatissima macchina dell’avanguardia non è stata capace di accorgersi in tempo del fatto che le soluzioni date erano profondamente sbagliate sia nelle forme architettoniche, completamente prive di ogni radice con il passato e quindi non accettabili proprio da coloro verso cui diceva di orientarsi la ricerca, cioè gli esseri umani (ed esistono prove in tal senso divertentissime sulla trasformazione spontanea da parte dei residenti di nuovi quartieri funzionalisti), sia nella struttura della città, la quale ha dovuto subire la rozza ed elementare razionalizzazione di essere frammentata in zone diverse che tuttora viene insegnata e perpetrata e di cui la città tutta, compreso il centro storico (che ha assunto appunto questa sacrale funzione), sta pagando il prezzo.

L’avanguardia non ha saputo né voluto fermarsi ed ha cristallizzato il suo potere e la sua ideologia occupando tutti gli spazi possibili e anche di più. Da avanguardia che voleva essere si è trasformata nella peggiore accademia, con i relativi accademici, fondendosi con il potere economico dei media fino alla sua forma più evoluta nell’ambito della globalizzazione con il fenomeno delle archistar, i divi creatori di forme nuove per definizione, indifferenti ai luoghi e alle genti, ogni nuovo progetto delle quali “deve” diventare evento mediatico globale per vendere gli stessi oggetti edilizi a Dubai come a Ostia, a New York come a Savona.

Se dunque l’identità dei luoghi e dei popoli va perduta con l’architettura moderna e tanto più contemporanea, è opportuno conservare e congelare ciò che resta del patrimonio storico urbano e architettonico come un reperto archeologico.

Questa, credo, sia la molla che crea questa “doppia morale”. Fare i conti con la storia significa anche salvare quel poco di buono che può esserci stato e gettare a mare tutto il resto senza rimpianti; non significa, invece, perfezionare ciò che è sbagliato in origine, non significa arrampicarsi sugli specchi giustificando gli errori come “deviazioni”, significa riconoscere un fallimento e basta, al pari dell’abbattimento del muro di Berlino che è un gesto liberatorio di condanna totale di un passato sbagliato e disumano. Ma non è facile che avvenga, o almeno non dal di dentro, visto che insieme al muro cadrebbero anche i suoi fedeli Vopos.

A coloro che in questi giorni condannano e dileggiano i “frattali”, consiglio di fare i conti con ciò che esiste e che hanno davanti agli occhi ogni giorno, e di cui potrebbero essere in parte responsabili, invece di trastullarsi nel gioco autoreferenziale del critico che si scaglia contro ciò che potrebbe minare la sua personale posizione di potere.

Oggi riprendere il cammino interrotto vuol dire, prima di tutto, cercare di ricostituire un corpo disciplinare minimo condiviso tra gli architetti e soprattutto nelle università, dopo aver fatto i conti veri con la storia e mettendo da parte la folle idea primaria di creatività e artisticità e puntare sul mestiere.
E’ necessario tornare a fare della buona edilizia e riporre l’Architettura nella valigia dei sogni di ognuno di noi, pronta ad essere tirata fuori nei rari casi della vita in cui è lecito pensare di fare ricorso ad essa, e non scomodarla in ogni circostanza, come inculcato nelle aule universitarie e come mostrato nelle riviste, dal caminetto della signora Gina alla riqualificazione delle piazze del sindaco di turno. Questo significherebbe, parafrasando Di Pietro, dare una forte impronta etica al nostro mestiere.

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6 novembre 2009

ANCHE SEATTLE HA IL SUO "PIANO CASA"

Visitando il blog Planetizen ho trovato un link a questa notizia: "Il cottage nel giardino di casa ha avuto l'OK a Seattle".

Di che si tratta: di un piccolo "piano casa" per cui ogni abitazione, limitatamente ad una zona della città, potrà costruire nel giardino di casa un'altra abitazione della superficie massima di circa 74 mq e a determinate condizioni che sono dettagliate nell'articolo e per chi avesse voglia di approfondire nell'ordinanza del City Council, approvata all'unanimità.

Lo scopo è quello più naturale, cioè offrire la possibilità di costruire una casetta a costi bassi per la famiglia o da mettere sul mercato degli affitti a costi contenuti. Mi sembrano considerazioni molto poco ideologiche, ragionevoli e valide anche per la realtà italiana. Tutto qui.

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2 novembre 2009

SALINGAROS INTERVISTATO DA GIORGIO SANTILLI

Nikos Salìngaros intervistato da Giorgio Santilli su Il Sole 24 ore:


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26 ottobre 2009

SONDAGGI

Angelo Gueli mi ha segnalato un post del blog Architecture Here and There che non conoscevo.
Tralasciando i sondaggi via internet che, come quelli fatti dai quotidiani, non hanno grande attendibilità perché si rivolgono ad un pubblico fidelizzato che tende dunque ad avere idee in comune, gli altri dati che David Brussat fornisce sono invece molto significativi.



Ecco una sintesi del post:

Nel 2007 l’AIA (American Istitute of Architects) commissiona, per il suo 150° anniversario, un sondaggio tra un campione di 1804 cittadini e gli edifici modernisti subiscono una debacle.
Le più alte in classifica sono le torri gemelle, 19° posto, ma per ovvi motivi affettivi, segue la pur splendida
Casa sulle cascate, di F.L. Wright, 29° posto.



A Dresda la ricostruzione della Frauenkirche è passata con l’80% dei voti e quella del circostante Neumarkt con il 91%.

Lo scorso maggio, Le Figaro ha chiesto ai parigini quali edifici vorrebbero voluto demolire.Per il
33,4 per cento era la Torre di Montparnasse (1972), nel centro di Parigi, seguivano le Beaugrenelle Towers, una serie di grattacieli modernisti fuori Parigi, con il 31,4 per cento, al terzo posto, il 22,7 per cento, volevano radere al suolo il Centre Pompidou.

La settimana scorsa, un sondaggio ha chiesto a 1.042 britannici: "Immaginate che un nuovo edificio dovesse essere costruito vicino a casa vostra. Quattro diversi modelli vengono proposti. Osservate ciascuno disegno. Quale vi piacerebbe che fosse costruito? Due erano tradizionali e due di disegno modernista. Tutti erano di volumetrie e utilizzo simile.
Quelle tradizionali, sono stati preferiti dal 77 per cento
.

Questi dati sono solo una conferma di ciò che in realtà ogni architetto sa, anche se rifiuta di riconoscerlo. O se lo riconosce ritiene che i cittadini non abbiano le capacità e le conoscenze per decidere.
Io credo invece che l’architettura possa ritrovare una sua strada e una sua dignità disciplinare e civile non certo con le Leggi sull’architettura o con i Festival vari ma con il contributo attivo dei cittadini, unici titolari del diritto di decidere sulla propria città.


*****
A questo punto mi concedo una deviazione, un divertissement:
se i cittadini sono stati chiamati a scegliere sul segretario di un partito, con un processo democratico molto simile a quello che auspico per i concorsi (gli esperti, cioè gli iscritti, scelgono tra candidati e progetti veramente alternativi e questi si sottopongono al giudizio popolare), perché mai non dovrebbe accadere la stessa cosa per la città che presenta un interesse collettivo di interesse almeno pari a quello delle vicende di un partito?
E quale è stato il risultato di quel voto di domenica?
1°: la tradizione rivisitata
2°: la modernità manierista
3°: il modernismo nichilista.

Davvero singolare l’analogia con i sondaggi in architettura!

Finita la deviazione, la domanda resta sempre la stessa: chi ha paura del voto ai cittadini?

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24 ottobre 2009

NIKOS SALINGAROS IN ITALIA

Nikos Salìngaros inizia la prossima settimana una serie di incontri e conferenze in diverse città.

Questo il calendario:

BOLOGNA: Venerdì, 30 ottobre, ore 9.30–15.30 18° Europa Symposium, “La progettazione biofilica e partecipativa. Modelli a dimensione reale. La natura dell’ordine”, Fiera SAIE di Bologna, Palazzo dei Congressi – Sala Bianca. (L'intervento è previsto alle ore 11,30)

ROMA: Sabato 31 ottobre 2009, ore 8.30–12.30, Master Bioarchitettura /Risparmio energetico a Roma presso la Università Lumsa, Via Pompeo Magno 22, zona Prati.

ROMA: Sabato, 31 ottobre 2009, ore 15,30 incontro e conferenza stampa, Lalineabiancastudio, via dei Gracchi 81(San Pietro).

FIRENZE: Martedì 3 novembre ore 21,30 presentazione del nuovo libro "No alle archistar" presso Libreria Edison, Piazza della Repubblica 27, Firenze. Introduzione del prof. arch. Gianfranco Di Pietro, interventi di Pietro Pagliardini e Lucien Steil. Organizzato dalla Libreria Editrice Fiorentina.

ROMA: Giovedì 5 novembre ore 11,00, conferenza presso la Facoltà di Architettura Valle Giulia, Università la Sapienza di Roma, via Antonio Gramsci 53, Aula Magna.

ROMA: Giovedì 5 novembre ore 17,30 presentazione del nuovo libro "No alle archistar", Fondazione CESAR, presso la Sala Quaroni, Palazzo degli Uffici Eur, Via Ciro il Grande 16.

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18 ottobre 2009

ATTUALITA' DI GIOVANNONI SUI GRATTACIELI

Ettore Maria Mazzola
Professor of Urbanism and Architecture
The University of Notre Dame
School of Architecture Rome Studies


Il recente post di Pietro Pagliardini sul costruendo “grattacielino” di Arezzo mi ha riportato alla memoria un attualissimo articolo pubblicato dal grande (e quasi ignorato) Gustavo Giovannoni sul Fascicolo V-VI di Architettura e Arti Decorative nel lontano 1927. Il titolo del suo saggio era INTORNO AGLI SKYSCRAPERS.


Erano gli anni in cui si accendeva il dibattito tra cultori della tradizione e promotori del modernismo, i primi arroccati nella Roma non toccata dall’industrializzazione (per volontà politica), i secondi con base a Milano e Torino, con le scuole di Disegno Industriale che insegnavano l’architettura. I primi si battevano per il mantenimento in vita dell’artigianato, i secondi vedevano l’indispensabilità del passaggio al processo industriale. I primi vedevano nelle origini classiche e rurali la chiave per produrre “una nuova architettura rispettosa della gloriosa tradizione italiana”, i secondi guardavano all’estero ciò che veniva prodotto in Francia, Germania e Stati Uniti d’America. A Roma stessa c’erano i “Giovannoniani” e i “Piacentiniani”, al Nord dettavano legge il pensiero dei vari Pagano, Cattaneo, Terragni, ecc. sotto la “protezione” di Marinetti.

Purtroppo i “tradizionalisti” non beneficiavano di un appoggio mediatico come quello della stampa supportata dall’industria, sicché la rivista Architettura e Arti Decorative (fino a quando non è stata sospesa nel ’31) era l’unica che continuava a pubblicare progetti tradizionali, pur aprendosi ad articoli che parlavano la lingua antagonista. Non altrettanto accadeva con le varie Casabella, La Nuova Architettura, o Moderne Bauformen, le quali non solo non si mostravano pluraliste, ma addirittura attaccavano i progetti dell’ICP di Roma con frasi quali “Creature del Ridicolo” e “progetti che sembrano disegnati da Borromini per un Cardinale piuttosto che case per i ceti popolari”. Il 1927 vide la prima grande sconfitta per i “conservatori” romani, con un concorso organizzato alla Garbatella per delle imprese, e non per gli architetti; concorso per i quale gli architetti erano stati scelti a priori dalle ditte in modo da realizzare un gruppo di casette modello di stampo razionalista. Di lì a breve le cose andarono sempre peggio per i “tradizionalisti”.
Oggi, alla luce del disastro socio-urbanistico-architettonico del “modernismo” (o International Style che dir si voglia), sarebbe il caso di rispolverare i libri e le pubblicazioni di quell’epoca, al fine di riscoprire le conquiste teoriche e pratiche che si erano raggiunte. Questa “riscoperta” ci potrebbe aiutare a non ripetere gli errori del passato, e a ripartire dal momento in cui ci siamo “distratti”, o addormentati, nel sogno di un futuro fantastico, che la realtà ci ha mostrato non essere proprio come lo si era immaginato.
Con questo articolo voglio ricordare le parole profetiche di Giovannoni “intorno agli sky-scrapers”, e penso che oggi più che mai sia utile rispolverarle. Chissà mai che aiutassero ad evitare i grattaceli di Milano e quello che spaventa il caro Pagliardini?

Eccovi dunque il testo integrale del Giovannoni:

INTORNO AGLI SKYSCRAPERS
di Gustavo Giovannoni

Spesso nei fascicoli di questa Rivista, ed in particolare nei numeri dell’ultimo anno col bel progetto del Palanti pel così detto “Eternale”, abbiamo pubblicato disegni e notizie su grandi grattacieli ideati o costruiti; e pensiamo di non aver fatto cosa sgradita ai lettori.
Queste grandi mole americane rappresentano infatti uno dei temi più interessanti e vivi nella moderna costruzione, sia nei riguardi tecnici, pei quali possono dirsi una mirabile conquista dello spazio ottenuta con una sapiente organizzazione della scienza e della meccanica pratica, sia in quelli architettonici, poichè sono forse questi gli unici edifici che abbiano saputo raggiungere decisamente uno stile; specialmente nei più recenti esempi, in cui la fabbrica, spogliatasi ormai della inadeguata ed inorganica veste di ordini e di cornici classiche, si presenta con semplici linee e trae dalle grandi masse i suoi effetti.


Ma ormai la questione dei grattacieli si avvia anche tra noi a quesiti contingenti, perchè la moda (artificiosa come tutte le mode) tende dalle città americane, che fanno quasi una gara di fabbriche sempre più alte, ad estendersi alle nostre vecchie città europee; non tanto perchè se ne senta il bisogno, ma perchè spesso da noi, un po’ provincialescamente, si guarda oltre oceano per avere la nota della “strenuous life”. E su questa possibilità d’importazione sarà forse opportuno esprimere fin d’ora qualche pensiero.
S’incontreranno vivacemente in tali quesiti i due eterni argomenti di discussione sulla nostra Architettura: cioè la necessità da un lato di trovare espressioni adatte ai moderni temi, ai tipi di costruzione, alle esigenze attuali, e dall’altro il rispetto al carattere dato dall’ambiente architettonico ed edilizio, pel quale nelle vecchie città il passato diventa energia presente nello stabilire rapporti e forme e misure. E, senza fin d’ora voler concludere con una formula assoluta d’intolleranza, credo che occorrerà pensarci bene prima di ammettere che tra le cupole romane od i palazzi di Firenze o di Venezia si allunghi la grande massa invadente degli edifici a 50 piani.

Ma l’osservazione prima e fondamentale che mi sembra opportuno riassumere per sfatare un pregiudizio diffuso è questa: Lo skyscraper non è un monumento e non va considerato coi criteri dell’architettura astratta, come una piramide od una cupola od un arco trionfale, ma rientra nella categoria dell’architettura pratica, modesta e spicciola nella realizzazione dei suoi scopi edilizi e finanziari, anche quando si svolge in masse imponenti. Ed il suo aspetto infatti dà appunto, logicamente, tale impressione. Forse a chi vede soltanto i disegni, in cui la sapiente grafica architettonica (fatta spesso per falsare anzichè per rendere onestamente il vero) attenua le finestre o le confonde con toni chiari della parete, l’edificio sembra trasformato in una grande e massiccia torre babilonense, ovvero in una selva di pilastri verticali che si perdono nelle nuvole; ma la realtà riporta a lor posto i valori dei pieni e dei vuoti, cancella ogni elemento decorativo, e restituisce la massa al tipo di un “alveare” costituito da tante cellule geometriche tutte uguali tra di loro.

Orbene in questo campo dell’architettura pratica, la prima revisione deve essere quella delle ragioni concrete a cui l’opera risponde. Ed allora che ne risulta? Che tali ragioni rappresentano non un progresso, ma un regresso nella vita civile, un assurdo più ancora che un errore nei riguardi dell’igiene, della viabilità cittadina, dell’economia edilizia. Gli skyscrapers rendono infatti pessime le condizioni di illuminazione degli edifici prossimi e di insolazione delle vie; negli ambienti interni, per la serrata utilizzazinoe dello spazio e la esclusione dei cortili, rendono nulla la ventilazione naturale; col concentrare forti nuclei di popolazione e di traffico congestionano sempre più il movimento delle strade e nei quartieri; costano infine enormemente, cioè almeno 5 o 6 volte al mc. in più della costruzione ordinaria, perchè sulle loro gambe d’acciaio si accumula il peso non necessario, della grande altezza, e pertanto recano un inutile sperpero di denaro....

L’adozione degli skyscrapers nel Nord-America, per un fatto edilizio non dissimile, pur in ben differenti proporzioni, a quello che vide sorgere le insulae nell’antica Roma, deriva, a veder bene, da quei grandi errori edilizi che son stati i piani regolatori, tanto inferiori agli europei, delle città americane. Se Chicago ha veduto sorgere, col Tacoma Building ed il tempio massonico, i primi skyscrapers, questi hanno preso poi cittadinanza specialmente in New York nei quartieri costituenti la City: quartieri stretti tra l’Hudson, l’East River ed il mare, mal serviti da vie tutte regolarmente uguali e quindi tutte insufficienti; sicchè ogni sviluppo è dovuto avvenire in altezza anzichè in superficie. Poi nelle altre città americane è avvenuta la imitazione, e l’elemento economico è intervenuto a sospingerlo, non tanto pel ripetersi di analoghe condizioni edilizie, quanto pel determinarsi di questo paradosso: La tolleranza dei regolamenti edilizi per le case altissime, espressione di un individualismo esagerato e dannoso, ha fatto crescere a dismisura il valore delle aree fabbricative, cioè il valore potenziale che è in diretto rapporto con la capacità di reddito ed ha così creato la convenienza artificiosa.

Possono dunque definirsi gli skyscrapers come una interessantissima ed ingegnosissima anomalia patologica della edilizia moderna, che certo dovrà essere sorpassata e posta tra gli errori inutili quando i mezzi di comunicazione avranno compiuto il loro ciclo di sviluppo e consentiranno un rapido decentramento dei nuclei cittadini verso la campagna. Ce n’è abbastanza, senza entrare nel dibattito tra la meraviglia che destano e la disarmonia che possono creare, per dichiararli ospiti “non desiderabili”.

Queste considerazioni dunque si oppongono al preconcetto, troppo frequentemente invalso, che tutto ciò che si produce nella moderna tecnica edilizia sia razionale ed opportuno e debba accettarsi come il portato di una civiltà dominante al cui progresso è vano opporsi; preconcetto che fa il contrapposto all’altro che vede tutto bello in quello che ha prodotto il passato...
La conclusione pratica è che in ogni caso, se mai, la moda e l’interesse dovessero condurre queste nuove espressioni edilizie - quasi cristallizzazioni geometriche di esigenze mal intese - nelle vecchie città europee, occorrerebbe tenerle nettamente distinte dall’ambiente edilizio ivi già costituito.

Un quartiere di sky-scrapers può essere assurdo praticamente, ma ha, come si è detto, il suo stile. Quando questo si inserisce nello stile di una città, nel suo sottile profilo frastagliato fatto di piccole unità e di grandi monumenti, la disarmonia è evidente ed insanabile.
Nel numero di Aprile 1926 del Wasmusth’s Monathefte, è un interessante resoconto di un concorso bandito a Colonia per un enorme grattanuvole da costruirsi allo sbocco del ponte sul Reno in prossimità delle ardite guglie del duomo; ed il tema, arduo, non ha scoraggiato i concorrenti che sono circa 450! Ma i bozzetti prospettici dei progetti migliori mostrano il contrasto insanabile tra la linea frastagliata della vecchia città culminante nelle cuspidi sottili e la massa parallelepipeda, traforata con regolarità geometrica da finestre dei piani equidistanti, e provano così ancora una volta la necessità dello sdoppiamento tra ambiente nuovo ed ambiente vecchio.

Gli unici bozzetti che siano tollerabili, almeno nel disegno compiacente che rende le masse piene, sono quelli in cui con una specie di mimetismo irrazionale si simulano schemi che rientrano nelle nostre concezioni acquisite: una torre, un insieme di costruzioni addossate che sembrano accavallate su di una collina...
Pregiudizi? Certo. Ma quando si esca dagli elementi fisiologici del colore e del suono, di pregiudizi è fatto tutto il nostro senso estetico; e l’armonia nelle proporzioni ne è la norma principale, ed i rapporti col significato ne rappresentano la principale sua relazione con la vita reale.
Nessuno può dirci come questi pregiudizi si orienteranno, come si comporranno nell’avvenire. Intanto è elementare dovere far prevalere il concetto dell’ambiente, cioè le ragioni di un’architettura edilizia già costituita a quelle dell’architettura individuale che forma l’esterno secondo lo schema interno, logico o no, dell’edificio. A ciascuno dei due concetti il proprio diverso campo. G.G.


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17 ottobre 2009

UN FLASH DI URBANISTICA TOSCANA

Pietro Pagliardini

Questo post è di una noia mortale. E la noia sarebbe niente di fronte all’incredulità, ed anche ad una moderata dose di indignazione, per questa “breve” sintesi di Norme di attuazione di un Regolamento Urbanistico, cioè del più importante e decisivo atto di cui una comunità si dota per “disegnare” la propria città.
Ho detto breve perché l’articolato completo è di ben 201 articoli e non siamo a Roma o Milano o Torino ma in un comune toscano con una popolazione inferiore ai 10.000 abitanti.
Quello che mostro non è uno scoop, è solo un esempio tra i tanti, certo non dei migliori. E' tutto autentico e copiato dal sito del comune, ho solo estrapolato e messo insieme 9 articoli dei 201, cioè meno del 5% del totale, che descrivono, ma sarebbe più corretto dire “prescrivono”, tutte le “funzioni” e le destinazioni previste e normate con pignoleria e puntiglio, secondo la legge toscana, con l'aggiunta di un po' di compiacimento
Non è certo necessario leggerlo tutto, è sufficiente scorrerlo velocemente per rendersi conto di alcune cose:


1) Dietro questo testo si nasconde una mentalità pianificatoria che ovviamente nulla ha a che fare con una qualsivoglia forma di libertà dei cittadini ma è piuttosto degna di un fallimentare regime da piano quinquennale.
2) Nessun progetto credibile e plausibile può uscire, e infatti non esce, per la città. Il modello che ne risulta è un frutto maturo ed esasperato del movimento moderno e della divisione della città per funzioni e tale divisione si spinge fino ai minimi dettagli, fino al parcheggio coperto o scoperto, fino a dare la definizione, che è scontata, ad esempio del commercio all'ingrosso, non sapendo tuttavia che tale forma economica è desueta al punto che non viene più insegnata nemmeno negli istituti commerciali, se non nell'ambito della storia economica. Il tutto ovviamente senza un disegno che non sia un mosaico colorato di funzioni nobilitato dal nome altisonante di “progetto di suolo”.
3) Ne esce un tipo di società burocratizzata a livelli parossistici, uno stato occhiuto che vuole decidere su tutto e tutti, che parla una lingua incomprensibile, se non a pochi iniziati a quel culto, e che contrasta in maniera esagerata con quanto abbiamo visto, nella trasmissione Report, accadere nella pur precisa e metodica Germania.

Ecco il testo, che dice molto più di qualsiasi commento, avvertendo che questo è solo un assaggio, un trial, si dice oggi:

Residenziale
La destinazione d’uso residenziale R comprende:
- civile abitazione;
- collegi, convitti, studentati, pensionati;
- strutture ricettive extra-alberghiere con le caratteristiche della civile abitazione (affittacamere, case e appartamenti per vacanze, residenze d’epoca).


Attività industriali e artigianali
1. Sono attività dirette alla produzione e trasformazione di beni ed alla prestazione di servizi.
2. La destinazione d’uso per attività industriali ed artigianali è articolata in:

- I: fabbriche, officine e autofficine (compresi laboratori di sperimentazione, uffici tecnici, amministrativi e centri di servizio spazi espositivi connessi); magazzini, depositi coperti e
scoperti anche in assenza di opere di trasformazione permanente del suolo; attività di  supporto alle attività produttive.
- Ia: impianti produttivi al servizio dell’agricoltura e per la trasformazione dei prodotti agricoli, magazzini ed impianti per la zootecnia industrializzata;
- Ie: attività estrattive e di escavazione;
- Ir: impianti per autodemolizioni e recupero rifiuti
- If: impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili non destinati all’uso domestico e/o autoconsumo.


Attività commerciali
1. La destinazione d’uso per attività commerciali è articolata in:
- Tc1: esercizi di vicinato come definiti dalla legge, bar e ristoranti; sono considerate compatibili con la destinazione commerciale anche le seguenti attività: attività per la fornitura di servizi attinenti le telecomunicazioni e la telematica, l’informazione turistica, il multimediale; laboratori artistici e botteghe artigiane; artigianato di servizi personali e residenziali con superficie utile lorda non superiore a mq 250 e diverse da industrie insalubri di prima e seconda classe;
- Tc2: medie strutture di vendita come definite dalla legge;
- Tc3: grandi strutture di vendita come definite dalla legge di tipologia “C” e di tipologia “B”.


Attività commerciali all’ingrosso e depositi
1. Le attività commerciali all’ingrosso e depositi (Tc4) sono quelle dirette ad acquistare merci e rivenderle ad altri commercianti, ad utilizzatori professionali o ad altri utilizzatori in grande.
2. Sono considerate compatibili anche le attività di commercio al dettaglio non alimentari congiunte e coordinate all’attività di commercio all’ingrosso e le attività di commercio al dettaglio non alimentari che richiedono ampie superfici di vendita, almeno superiori a 500 mq., quali rivenditori di materiali edili, concessionari d’auto, vendita mobilia.


Attività turistico ricettive
1. La destinazione d’uso per attività turistico ricettive secondo quanto definito dalla L.R. n. 42 del 23/03/2000 è articolata in strutture ricettive gestite per la produzione e l’offerta al pubblico di servizi per l’ospitalità:
- Tr1: alberghi (inclusi motel e villaggi albergo) e residenze turistico alberghiere;
- Tr2: campeggi;
- Tr3: villaggi turistici, aree di sosta, parchi di vacanza; ed in altre strutture ricettive:
- Tr4: strutture ricettive extra-alberghiere per l’ospitalità collettiva (case per ferie, ostelli,
rifugi);
- Tr5: residence.


Attività direzionali
1. La destinazione d’uso direzionale è articolata in:
- Tu1: uffici privati, studi professionali; sedi di associazioni;
- Tu2: agenzie bancarie; banche; centri di ricerca; sportelli di assicurazione; agenzie immobiliari;
- Tu3: uffici amministrativi e tecnici delle attività produttive e/o commerciali.


Servizi e attrezzature di uso pubblico
1. La destinazione d’uso a servizi ed attrezzature di uso pubblico e di interesse generale disciplinata dal presente Regolamento è articolata in:
- Sa: servizi amministrativi riferiti ad esempi “Usi del suolo e modalità d’intervento ed attuazione”o a uffici amministrativi, protezione civile, tribunali, attrezzature della finanza, per la pubblica sicurezza e militari, archivi, servizi postelegrafonici e telefonici;
- Sb: servizi per l’istruzione di base riferiti ad asili, scuole per l’infanzia, scuole dell’obbligo;
- Sc: servizi cimiteriali e attività ad essi connessi;
- Sd: servizi culturali, sociali e ricreativi riferiti ad esempio a musei, teatri, auditori, cinema, sale di spettacolo, biblioteche, mostre ed esposizioni, centri sociali, culturali e ricreativi, ludoteche, centri polivalenti, mense;
- Sh: servizi per l’assistenza socio sanitaria riferiti ad esempio a centri di assistenza, case di riposo, residenze protette e pensionati (compresi servizi ambulatoriali e sociali connessi);
- So: servizi ospedalieri e case di cura;
- Si: servizi per l’istruzione superiore;
- Sr: servizi religiosi riferiti a chiese, seminari, conventi;
- Ss: servizi sportivi coperti riferiti a palestre, piscine, palazzi dello sport, campi coperti;
- St: servizi tecnici riferiti ad esempio a stazioni dei trasporti, impianti tecnici per la produzione e distribuzione di acqua, energia elettrica, gas, idrogeno, centrali termiche, stazioni telefoniche, impianti per il trattamento dei rifiuti, depuratori, canili, pensioni per cani e gatti, mattatoi, edifici annonari, stazioni di sperimentazione per la flora e per la fauna, servizi di soccorso pubblico, servizi tecnologici, servizi innovativi, poli tecnologici e digitali, depositerie giudiziarie.
- Su: università e servizi universitari; attrezzature didattiche e di ricerca (compresi servizi tecnici, amministrativi, sociali e culturali connessi), scuole speciali di livello universitario, residenze universitarie.
- Aree per la riduzione del rischio idraulico, a sua volta articolate in:
- Ce: casse di espansione
- In: invasi
- Cs: canali di salvaguardia


Spazi scoperti di uso pubblico
1. Gli spazi scoperti di uso pubblico e di interesse generale disciplinati dal presente Regolamento sono articolati in:
- Vg: giardini;
- Vp: parchi;
- Pp: parcheggi a raso;
- Ps: campi sportivi scoperti;
- Pz: piazze riferite a spazi pedonali o prevalentemente pedonali.


Spazi scoperti di uso privato
1. Gli spazi scoperti di uso privato disciplinati dal presente Regolamento sono articolati in:
- Vpr: verde privato
- Vo: orti urbani
- Vb: boschi
- Vvt: vigneti terrazzati
- Vot: oliveti terrazzati


Infrastrutture e attrezzature della mobilità
1. Le infrastrutture e attrezzature della mobilità disciplinate dal presente Regolamento sono articolate in:
- Mc: impianti di distribuzione carburanti;
- Mp: parcheggi coperti;
- Ms: parcheggi scoperti.


Attività agricole
1. Sono attività dirette alla coltivazione del fondo, alla silvicoltura, all'allevamento del bestiame e attività connesse.
2. Sono considerate attività connesse a quella agricola:
- le attività agrituristiche;
- le attività di promozione e servizio allo sviluppo dell'agricoltura, della zootecnia e della
forestazione;
- le attività faunistico-venatorie.
3. Sono comunque considerate attività agricole tutte quelle definite tali da disposizioni normative
comunitarie, nazionali e regionali.


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13 ottobre 2009

LANGONE SU TERRAGNI E IL MERCATO IMMOBILIARE

Camillo Langone su Il Foglio è una riserva inesauribile di trovate e io lo linko, nonostante sia in forte concorrenza con il precedente link al servizio di Report cui, se fosse americano, spetterebbe di diritto il Premio Pulitzer.

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12 ottobre 2009

REPORT: FOTOGRAFIA DELL'URBANISTICA ITALIANA

Su Report di domenica 11 il servizio La via del mattone mette in luce in maniera impietosa e assolutamente corrispondente al vero lo stato della nostra urbanistica e, direi, della nostra condizione di sudditi della burocrazia.

CONSIGLIO VIVAMENTE DI GUARDARLO A TUTTI MA DIREI CHE SAREBBE NECESSARIO COSTRINGERE A GUARDARLO TUTTI COLORO CHE REDIGONO PIANI, NORME DI ATTUAZIONE, REGOLAMENTI EDILIZI E I VARI FUNZIONARI REGIONALI ADDETTI ALLA SCRITTURA DELLE LEGGI.

Questo il link:
LA VIA DEL MATTONE
con l'avvertenza che l'inizio del servizio cui mi riferisco è circa al 10° minuto. Prima c'è un servizio sulla frana di Messina.

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9 ottobre 2009

CAMBIAMENTO CLIMATICO?

Il titolo non tragga in inganno: non tratto di clima meteorologico né di riscaldamento globale o grandi glaciazioni ma di alcuni segni del cambiamento di clima intorno all’idea di città.
Uno di questi lo si trova su Italia Oggi del 7 ottobre con un articolo di Philip Wohl dal titolo : Nuove città con anima e sensualità. E’ un’intervista a Jacques Ferrier, architetto il cui nome mi è del tutto nuovo (ma, d’altronde, che importanza ha conoscere tutti gli attori del cinema, quando l’importante è il cinema?) che è presentato come progettista del salone francese all’Expo di Shangai: da quel poco che vedo in foto il padiglione è costituito da una griglia di non so quale materiale, innovativo naturalmente, dalla forma più o meno a parallelepipedo che contiene non so cosa (NB: la foto sotto non ha niente a che fare con Ferrier, ma è un progetto per una città cinese).




Vado a cercare il suo sito, lo trovo subito ma è così terribilmente cervellotico e non comunicativo, oltre che pesante da caricare, che ci capisco ben poco, se non che è da escludere trattarsi di architetto tradizionale o antichista. Ovvia scoperta, altrimenti non avrebbe progettato il padiglione per l’Expo.

Eppure molte delle cose che dice sulla città sono interessanti. Lui si riferisce alla situazione delle città cinesi e in particolare alla New Towns che là vanno per la maggiore:


Le scelte di una città modernista non sono legate ad una questione di costi, sono ideologiche” e prosegue “produrre delle lunghe strade deserte a fianco degli uffici contenuti nelle torri, è estremamente costoso. Al contrario, prendere coscienza del contesto, il clima e ripudiare la specializzazione dei quartieri, non è certo più caro. Una città da 10 milioni di abitanti concepita come un dormitorio è a rischio esplosione sociale”.
Questa affermazione, pur basandosi su esclusivi aspetti economici (ma il giornale che lo intervista è economico), è inequivocabile e netta e, ovviamente, non vale solo per la Cina.
Continua:

Bisogna pensare alle atmosfere di una città prima di riorganizzarla, bisogna cercare i punti di interesse come un lungo fiume, un albero, un monumento. La città come la campagna deve essere sensibile ai materiali, agli odori, ai suoni ed ai paesaggi”.
Questa frase si riferisce in gran parte ad una new town, ovviamente, dato che non è che un fiume in una città si possa inventare, però l’attenzione al sapore dei luoghi è condivisibile.
E prosegue:

In tutto questo l’Europa può avere un ruolo centrale perché … nel vecchio continente non si parte mai dalla tabula rasa, qui c’è attenzione al contesto e alla storia

Ottimo programma per il futuro, anche se fino ad oggi è stato esattamente il contrario e la “tabula rasa” l’ha fatta da padrona.

Quale la ricetta, chiede il giornalista?:

“…..ispirarsi alle città antiche di 500 mila abitanti per crearne di contemporanee da 5 milioni di abitanti: anche lì si richiederà molta innovazione.
Questa conclusione mi sembra più fumosa e comunque rimette le cose a posto nel suo richiamo ad una generica innovazione e non nutro dubbi che l’architettura che Ferrier propone sia molto simile, se non uguale, alla sua; ma, coinvolto dalle sue atmosfere di architetto ispirato da un soffio creativo, anch’io mi sbilancio e dico che sento aleggiare un profumo di novità.

Un architetto come Ferrier che nella sostanza rinnega, senza affermarlo direttamente, tutto quanto ad oggi fatto e teorizzato per la città contemporanea dimostra che alcune idee cominciano a farsi strada e a diventare patrimonio anche di architetti iper-modernisti (immagino che lui rifiuterebbe questa definizione, ma non ne saprei trovare altre).

Io non mi pongo il problema se esse siano sincere o se siano strumentali ad uno scopo o se non siano del tutto digerite: anche se così fosse, e non è scontato, a maggior ragione vorrebbe dire che quelle idee pagano e tornano utili e dunque il risultato sarebbe addirittura superiore al caso in cui ad averle dette fosse stato qualcuno che le sostiene coerentemente da sempre. Sarebbe la presa d'atto del fallimento di decenni di ideologica urbanistica modernista (non lo dico io, ma Ferrier) e del successo vero di un’idea di città vicina a quella della tradizione europea.
Dunque vengano pure tanti altri Ferrier e, soprattutto, che questa idea si consolidi, si allarghi e sia duratura.


N.B. La foto è tratta dal blog de La Stampa "Bodegons" ed è un progetto per il centro urbano di Huaxi, progetto di Mad

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7 ottobre 2009

INSULAE COME GRATTACIELI, TERTULLIANO COME LANGONE

Ho tratto il brano che segue dal classico “La vita quotidiana a Roma” di Jérome Carcopino, Edizioni Laterza, 2008 (ma la prima edizione in francese è del 1939):




Proprio al contrario della domus di Pompei, l’insula romana è cresciuta in altezza e ha finito per raggiungere sotto l’impero dimensioni vertiginose.


E’ proprio questo il carattere predominante, per cui, dopo aver impressionato gli antichi, essa sorprende oggi anche noi, tanto ci colpisce la sua somiglianza con le abitazioni urbane più recenti e più ardite. Già nel III secolo a.C. le insulae a tre piani (tabulata, contabulationes, contignationes) erano divenute così numerose che non ci si badava più; e Tito Livio, enumerando i prodigi che nell'inverno 218-17 a.C. annunziarono l'offensiva di Annibale, cita, senza ulteriori commenti, l'incidente di un bue, che, fuggito dal mercato, salì le scale fino al terzo piano di un'insula che fiancheggiava il Forum Boarium e si gettò nel vuoto tra lo spavento e le grida degli astanti.

Alla fine della repubblica l'altezza media delle
insulae indicata incidentalmente da questo episodio è superata. La Roma di Cicerone è come sospesa nell'aria per la sovrapposizione delle sue abitazioni: Romam cenaculis sublatam atque suspensam.


La Roma di Augusto si leva ancora più in alto. Allora, come scrive Vitruvio, «la maestà dell'Urbe, l'accrescimento considerevole della sua popolazione portarono di necessità un'estensione straordinaria delle sue abitazioni, e la situazione stessa spinse a cercare un rimedio nell'altezza degli edifici».
Rimedio d'altra parte così imprudente che l'imperatore, spaventato dai pericoli che minacciavano la sicurezza dei cittadini e dai crolli di cui tale sviluppo in altezza era responsabile, impose un regolamento che proibì ai privati di elevare le costruzioni oltre i 70 piedi (
21 metri circa). Ma in seguito proprietari e imprenditori gareggiarono tanto in avarizia quanto in temerità nello sfruttare in qualunque modo i margini di tolleranza fissati dall'interdetto imperiale.

Per tutta la durata dell'Alto impero, troviamo abbondanti prove di questo sviluppo in altezza degli edifici, appena credibile per l'epoca; a Tiro,a principio dell'èra cristiana, le case di quel porto famoso dell'Oriente - osserva sorpreso Strabone - sono quasi più alte di quelle della Roma imperiale. Cento anni dopo, Giovenale deride questa Roma aerea, che poggia solo su travicelli sottili e lunghi come flauti. Aulo Genio cinquant'anni più tardi si lagna di queste case dai numerosi ed erti piani:
multis arduisque tabulatis; e il retore Elio Aristide s'indugia a considerare gravemente che se le abitazioni dell'Urbs fossero d'un colpo portate tutte al livello dei loro pianterreni, si estenderebbero fino a Hadria sull'Adriatico Superiore. Invano Traiano aveva rinnovato le restrizioni di Augusto, aggravandole anzi col fissare a 60 piedi (18 metri) l'altezza degli edifici privati: la necessità fu più forte della legge; e nel IV secolo si mostrava ancora tra le curiosità dell'Urbe, a fianco del Pantheon e della Colonna Aurelia, una casa gigantesca le cui dimensioni prodigiose non mancavano mai di attirare l'attenzione del visitatore: l'insula Felicles. L'edificio di Felicula era stato fabbricato duecento anni prima, perché all'inizio del principato di Settimio Severo (193-211) la sua fama aveva già attraversato i mari; e quando Tertulliano cercava di convincere i suoi compatrioti africani dell'assurdità delle invenzioni con le quali i Valentiniani cercavano di colmare l'infinito che separa la creazione dal creatore, non trovò allora paragone più istruttivo: egli deride senza pietà questi eretici - impacciati da tutti gli intermediari e mediatori generati dal loro delirio - per avere «trasformato l'universo in una specie di immenso palazzo mobiliato», al sommo del quale pongono Dio, sotto i tetti - ad summas tegulas -, e che eleva «verso il cielo tanti piani quanti se ne vedono a Roma nell'edificio di Felicula».

Certamente, malgrado gli editti di Augusto e di Traiano, i costruttori avevano raddoppiato la loro audacia e l'
insula Felicles si levò al di sopra della Roma degli Antonini come un grattacielo. Anche se questa è rimasta un'eccezione straordinaria, un caso-limite quasi mostruoso, è anche vero che gli edifici di cinque o sei piani non si contavano più attorno ad essa. In quello che abitò Marziale sul Quirinale, in via del Pero, il poeta doveva salire soltanto fino al terzo piano per tornare a casa, e non era certo l'inquilino peggio alloggiato. Tanto nella sua insula quanto nelle insulae vicine, c'erano inquilini molto meno favoriti perché erano appollaiati molto più in alto; e nel quadro crudele che egli ci ha lasciato, d'un incendio romano, Giovenale immagina di rivolgersi al disgraziato che abita, come il Dio dei Valentiniani, sotto i tetti: « Già - egli dice - il terzo piano brucia e tu non sai nulla. Dal pianterreno in su c'è lo scompiglio, ma chi arrostirà per ultimo è quel miserabile che è protetto dalla pioggia solo dalle tegole, dove le colombe in amore vengono a deporre le loro uova ».

Cosa voglio dimostrare con questo? Ben poco, dato che il testo parla da solo, però mi sembra 

un utile invito alla lettura del libro per chi non lo conoscesse, mi fa osservare che la scellerata sfida in altezza non è esclusiva del nostro tempo (al pari di moltissimi altri temi e argomenti) e che la condanna che Tertulliano emette sulle insulae esageratamente alte è una secolare anticipazione di quella emessa da Camillo Langone nel noto articolo "L’anticristo abita al 53° piano" nei confronti dei grattacieli.
Il tempo non sembra portare saggezza.

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