Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


7 ottobre 2011

IL DOLORE NON HA PREZZO

Ricevo da Ettore Maria Mazzola questo testo sulla morte delle cinque donne per il crollo dell'edificio nel quale lavoravano. E' un testo scritto sull'onda della commozione, essendosi la tragedia consumata nella sua città natale, ma lucido come al solito nell'evidenziare l'approssimazione con cui vengono emessi giudizi e la scarsa conoscenza delle cause che possono averla determinata.
Il testo è stato anche pubblicato su Archiwatch

Caro Pietro,
ho sentito il dovere nei confronti della mia città natale di raccontare ciò che a 500 km di distanza ho percepito di questa terribile tragedia e della speculazione che c'è stata intorno al dolore di chi ha perso la vita, un familiare o una casa e un lavoro.
Spero possa postare sul tuo blog questo mio sfogo

 IL DOLORE NON HA PREZZO
di Ettore Maria Mazzola

Succede che, mentre una città si stringe intorno ai feretri di cinque povere vite strappate, e la donna sopravvissuta al crollo di via Roma dal suo letto di ospedale racconta si che lavorasse per 4 euro all’ora, ma che non è vero che il suo datore di lavoro fosse un negriero, la stampa locale e nazionale continuava ad accanirsi, descrivendo Barletta come un luogo in cui gli imprenditori sfruttane le operaie .. e trascurando colpevolmente la ricerca della verità sulle ragioni del crollo.

Peggio hanno fatto certi politicanti i quali, stimolati dal banchetto per sciacalli e avvoltoi allestito dalla malasorte e dalla faciloneria, hanno pensato bene di cogliere al volo l’occasione per potersela prendere con il sindaco chiedendone le dimissioni.

Che senso ha tutto ciò? Come è possibile essere così cinici da trasformare una tragedia che ha distrutto 5 famiglie in una occasione di rivincita politica? Dov’è la dignità e l’etica di certa gente il cui comportamento è paragonabile a quello degli sciacalli, se non addirittura a quello degli stercorari?

Se c’è qualcosa che certi momenti richiedono è un’unità, al di là del credo politico, è il senso di solidarietà verso chi ha perso la mamma o una figlia, verso chi ha perso la casa, verso chi non ha più nulla. E invece certa gentaglia, assetata di “politica”, ha pensato bene di approfittare della situazione.

Questa gentaglia ha trovato l’ovvio appoggio di certi media interessati allo scoop scandalistico che, nell’era della società dello spettacolo, trovano molto remunerativo usare la macchina del fango che non mira solo a distruggere la personalità dei titolari del maglificio all’interno del quale hanno perso la vita 5 giovani vite, inclusa quella della loro piccola figlia, ma ad infangare un’intera città, e se si vuole, tutto il sud d’Italia! Ieri c’è stato il funerale, anch’esso immortalato dalle telecamere come in uso per le grandi tragedie, anch’esso preceduto e seguito da passaggi pubblicitari televisivi. I servizi degli inviati hanno “giustamente” dato ampio spazio alle rimostranze dei cittadini che chiedevano la verità … senza assicurarsi dei modi con i quali lo facevano, né a chi fossero rivolte le accuse che, purtroppo, in parte sono sembrate manipolate da chi sosse interessato solo alla testa del sindaco Maffei.

Ora cala il sipario, e probabilmente in Italia, Presidente della Repubblica incluso, non fregherà più nulla a nessuno della tragedia che si è consumata a causa del pressappochismo con cui qualcuno ha operato. Se c’è qualcuno con cui bisognerebbe prendersela, non credo proprio che possano essere le autorità comunali, semmai bisognerebbe alzare l’indice verso quei tecnici e periti che non hanno saputo valutare il pericolo incombente, oppure verso quella cultura generale che a Barletta, come in molte altre città italiane, consente di far demolire edifici storici ritenendoli intenzionalmente “fatiscenti”, mentre nella realtà potrebbero vivere molto più a lungo di quanto non si immagini: la loro colpa è solo quella di essere dislocati in zone centrali, molto appetibili per chi voglia fare speculazione e costruire in zone molto più vivibili che non nelle orribili periferie zonizzate che la pseudo-cultura urbanistica a partire dagli anni ’50 ci ha “regalato”.

Ma c’è di più. Lo sputtanamento mondiale sul salario delle povere vittime andrebbe capito meglio. La fortunata e coraggiosa sopravvissuta ci dice che fossero proprio loro stesse, le operaie, a chiedere di non essere messe in regola: qui si tratta di una situazione di necessità di sopravvivenza!

Uno Stato la cui Costituzione si apre dicendo che “l’Italia è una Repubblica fondata sul Lavoro” non dovrebbe consentire che certe cose possano accadere, e se accadono è perché i “moderni” politici – anni luce distanti da chi concepì e scrisse quelle parole sulla Costituzione – hanno trasformato questa “Repubblica” in una “Oligarchia fondata sul precariato e sul gioco d’azzardo”.

Ci scandalizziamo per i 4 euro l’ora delle povere ragazze di Barletta, ma quanto guadagnano le loro omologhe che lavorano nelle altre città d’Italia, nord incluso? Ce lo siamo dimenticato il servizio di Report che mostrava come gli operai delle “grandi imprese” impegnate nei cantieri “a 5 stelle” milanesi vengono pagati 2,5 euro l’ora? E quanto guadagnano i maestri di scuola e i professori delle medie e superiori? E quelli delle Università? E come è possibile accettare la sola esistenza delle Agenzie Interinali che guadagnano sul lavoro sottopagato dei loro iscritti? Quanto guadagnano gli addetti ai call-center della grandi aziende? E quanto i “tecnici” che oggi fanno le perizie per alcune banche italiane pur avendo le loro basi in Romania, togliendo lavoro ai tecnici nostrani che, tra l’altro, potrebbero visionare meglio gli immobili da periziare? Cosa dire poi della mia categoria, gli architetti, dove i grandi studi sfruttano vergognosamente i giovani laureati e abilitati pagandoli (quando li pagano) i giovani e volenterosi ragazzi molto meno di quei 4 euro l’ora?

Cosa può fare un piccolo, o piccolissimo, titolare d’azienda italiano che vuole continuare a produrre in Italia invece di farlo in Cina (magari anche prendendosi dei contributi dallo Stato Italiano)? A nord si sfruttano i lavoratori stranieri i quali, pur consentendo al loro “padrone” di mantenere in vita l’azienda nonostante il mondo globalizzato, viene anche negato il diritto a mantenere il proprio credo religioso perché, essendo in Italia, questi “sporchi stranieri” devono rinnegare le loro origini e tradizioni! Non c’è dunque da meravigliarsi se a sud la cosa avvenga, come è sempre avvenuta, coinvolgendo dei connazionali. Questo non significa voler giustificare chi lo faccia, ma semplicemente voler guardare più onestamente, e senza retorica, alla dura realtà che investe il mondo del lavoro di tutto il Paese, e non solo Barletta.

Il vero scandalo non è dunque questo, ma l’esistenza di un sistema marcio che si ricorda di queste realtà solo in occasione di certe disgrazie, disgrazie che esso stesso ha generato avendo gettato nella disperazione l’intero mondo del lavoro.

Poche ore dopo aver appreso la notizia, quasi in diretta perché me l’aveva comunicata mia madre che si era trovata a passare lì vicino quando ancora si levava in volo la nuvola di polvere avevo scritto queste parole:

È una storia che si ripete. Spero che adesso si riescano a salvare i superstiti e si comprendano fino a fondo le cause che hanno generato questo crollo. Che si puniscano gli eventuali responsabili, se non è stato un caso dovuto all'abbandono parziale dello stabile, come sembra di capire da alcune notizie che ho potuto leggere nel web, spero soprattutto che non si speculi politicamente sul dolore e sul lutto che ha colpito Barletta. Dalle foto mi sembra comunque di capire che la malta che legava i tufi delle murature non fosse di buona qualità, mi sembra uno di quegli edifici che, come usano dire gli operai molto anziani, ha sofferto la sete, ovvero un edificio la cui malta aveva poca calce, tanta sabbia e poca, se non pochissima, acqua. In questo caso, finché l'edificio è stato abitato e vissuto, e non ha subito stravolgimenti degli orizzontamenti e delle murature portanti, nulla gli è capitato perché aveva raggiunto un suo equilibrio che lo faceva "lavorare" a compressione, nel momento in cui sono sopraggiunte delle modifiche (pare che ci fossero dei lavori in corso?) che hanno generato delle tensioni, quell'equilibrio precario è venuto meno. Diversamente non mi spiego come possano esserci la quasi totalità dei blocchi di tufo che sembrano essere usciti ieri dalla cava. Chiudo esprimendo il mio dolore ai parenti della piccola che è deceduta e all'intera cittadinanza”.

Il giorno dopo ho potuto capire qualcosa in più e ho scritto:

ho letto stamattina un po' di notizie che non avevo potuto leggere ieri, ed ho anche visto un video prima del crollo che mi ha lasciato alquanto perplesso: Un edificio che viene demolito in adiacenza ad un altro con il quale "collaborava" staticamente. Una demolizione avvenuta sicuramente con l'ausilio di martelli pneumatici (tassativamente vietati sugli immobili costruiti in tecnica tradizionale), un muro ad arcate che è stato demolito venerdì e che, si suppone, facesse da contrafforte alla struttura, sono tutte cose che lasciano sconvolti per la faciloneria con cui si è proceduto. Non sapevo dell'atteggiamento discutibile dei VVFF cui qualcuno ha fatto riferimento, del quale sono venuto a conoscenza solo stamattina. Fino a ieri pensavo che il crollo fosse relativo all'intero blocco che non c'è più, solo stamattina ho compreso che a crollare è stata la casa a schiera con due sole finestre. Penso che sia fin troppo chiaro come le cose siano andate, spero che lo sia altrettanto per chi farà le indagini e le perizie, e per chi emetterà delle sentenze .. nella speranza che certe cose non accadano mai più”.

E poi, avendo letto un post di Niki Vendola sul crollo ho voluto puntualizzare:

Condivido il discorso, ma voglio puntualizzare alcune cose perché potrebbe partire una campagna demonizzatrice di una certa edilizia nell'interesse di chi voglia specularci (specie in conseguenza dei Piani Casa). Voglio ricordare che certi edifici vengono giù per l'incompetenza con cui vengono fatti certi lavori e non perché sono costruiti con pietre, mattoni e calce. Tra l'altro gli edifici in tecnica tradizionale, se ben costruiti, in caso di sismi o altre sollecitazioni, adattandosi gradualmente alle mutate condizioni statiche, possono salvare molte più vite degli edifici in cemento armato e/o acciaio che, in caso di collasso, non lasciano vie di scampo. Per essere più preciso voglio ricordare che i crolli di L'Aquila e Pompei ci hanno dimostrato come, se certi edifici fossero stati restaurati con tecniche e materiali tradizionali, oggi starebbero ancora in piedi, e molte vite sarebbero state salvate. Non si deve demonizzare gli edifici antichi e/o "vecchi", semmai si devono demonizzare le università che non formano più dei tecnici in grado di restaurare a dovere il nostro patrimonio. Non è poi ammissibile che per ragioni economiche (anche dovute alla situazione politico-economica attuale) si debba risparmiare sulle norme e i sistemi di sicurezza: Come è stato possibile demolire l'edificio accanto a quello crollato (col quale collaborava staticamente) senza nemmeno puntellare quello crollato? Chi ha vigilato sulle opere di demolizione in corso ha valutato la necessità di demolire "a mazza e piccone"? Oppure ha consentito l'uso (proibito sugli immobili costruiti in tecniche tradizionali) del martello pneumatico che crea vibrazioni pericolosissime che generano il distacco tra i blocchi di tufo e i ricorsi di malta? Come è stato possibile che, come ha raccontato un volontario, sotto gli occhi dei VVFF e della Protezione Civile, una pala meccanica si sia potuta mettere a scavare senza pensare che sotto potevano esserci ulteriori cedimenti che, come poi si è visto, probabilmente hanno portato ad estrarre solo cadaveri nonostante ci fossero stati dei contatti tra i soccorritori e le "sepolte vive"?

Riflettiamoci tutti, e stiamo vicini, almeno col pensiero, a queste famiglie straziate da un dolore che nessuna condanna potrà più colmare.

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30 settembre 2011

TRASPORTO PUBBLICO E CITTA' DISPERSA

Un link ad un articolo del Prof. Gabriele Tagliaventi che, con il caso Bologna, affronta, numeri alla mano, il tema generale della città compatta alla luce della difficoltà del trasporto pubblico. Argomento che vale per tutte le città.

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22 settembre 2011

IL PARADOSSO DELLE CITTA' INVISIBILI

Segnalo un paradosso che esemplifica il completo distacco dell’urbanistica operante dalla realtà della città e dallo stesso senso della realtà:

la Regione Toscana ha “esploso” la categoria edilizia dell’ampliamento, il cui significato è sufficientemente comprensibile a tutti, dividendolo in due categorie diverse:
l’addizione funzionale e l’addizione volumetrica.
Non sto a riportare la definizione ufficiale e la semplifico: l’addizione funzionale è quell’”ampliamento” che non costituisce un nuovo organismo edilizio e deve essere “funzionale” ad uno già esistente. A titolo di esempio: se ingrandisco il mio soggiorno o aggiungo una camera per un figlio o una stanza al servizio della casa esistente, una serra per esempio, si parla di addizione funzionale.
Se invece accanto alla mia casa costituisco una unità autonoma, oppure accanto alla mia casa costruisco un nuovo volume da utilizzare come “laboratorio” per un’attività lavorativa, a prescindere dalle dimensioni della stesso, si parla di addizione volumetrica.

Ora è evidente, in base al troppo bistrattato “buon senso”, che in entrambe i casi io costruisco fisicamente un “volume”. Per adesso teniamo a mente questa constatazione.

Cosa distingue i due diversi volumi?
In linea di principio tale distinzione non è né astratta né peregrina, perché segue, in qualche misura, il processo di crescita spontaneo di un organismo, di uno stesso organismo edilizio, che si sviluppa nel tempo in base alle necessità di chi vi abita, e questo viene nella legge classificato come “addizione funzionale”.
Se invece inserisco un organismo edilizio nuovo e diverso, faccio un salto di scala, modifico la natura del tessuto, e questo viene classificato come addizione volumetrica. In sostanza, l’addizione funzionale risponde a normali esigenze di crescita legati all’abitare e quindi va incontro alle normali aspettative dei cittadini.

Tutto questo in linea di principio. Ma cosa accade poi nel momento in cui i principi si sostanziano in articoli di legge? Accade, tra le altre cose, che le addizioni funzionali non rientrano nel “dimensionamento” del PRG, mentre le addizioni volumetriche sì.
Già, perchè esiste il dimensionamento del piano, che sarebbe la madre di ogni PRG. Dico madre, ma sbaglio, dovrei dire figlio, perché si suppone che il mitico numero che segna e direi mette il marchio su ogni nuovo piano dovrebbe scaturire dall’altrettanto mitico quadro conoscitivo.
Ora come possa un numero, la cui determinazione è così complessa, scaturire da un quadro conoscitivo territoriale nessuno è in grado di stabilirlo e infatti il dimensionamento è una scelta a monte, una scelta politica che successivamente viene giustificata con una massa di dati, a valle, una parte dei quali certamente necessari, i più invece superflui e abbastanza risibili. Comunque nessuno di questi da solo può determinare automaticamente un valore credibile, ad eccezione di quelli della rete dei servizi: acqua, fognature, ecc. oppure dei servizi scolastici, ma solo se si esclude di poterli incrementare; e questa è, appunto una scelta politica.

In verità è molto più semplice ed anche più logico lavorare per approssimazioni successive, e per sintesi, ipotizzando un certo valore di cubatura, in base a criteri sintetici fondati essenzialmente su scelte di progetto e quindi proiettare, in base al numero di abitanti prevedibili a regime, la necessità dei vari servizi.
E’ chiaro che l’indirizzo del dimensionamento è quello di restringersi al minimo fino a raggiungere lo zero, conseguendo cioè l’altro mito chiamato volume zero.

Con queste condizioni, l’addizione funzionale sfugge al dimensionamento, perché la sua quantità totale non è facilmente prevedibile e perché l’addizione funzionale è classificata nella categoria della ristrutturazione edilizia.
Sì, avete capito bene: con la ristrutturazione edilizia si può ampliare casa ma quel’ampliamento non è classificato come volume. Non è una deroga, in verità (e sta qui la grande furbizia) ma è proprio la categoria dell’intervento edilizio cui si fa appartenere l’addizione funzionale che esclude per definizione l’esistenza del volume in aggiunta. Quindi è un volume inesistente e quindi, anche in un piano che si dicesse essere a volume zero, nella realtà a zero non è.

Paradosso della norma: il dimensionamento, stabilito a monte come principio ideologico, è salvo.
Si stabliscono limiti improbabili allo sviluppo (sostenibile) e contemporaneamente si introduce sotto banco la scappatoia a quei principi. Si introduce cioè una norma fatta apposta per evadere la norma, quindi si può dire che non è il cittadino a compiere azioni criminogene, come qualcuno sostiene, ma è lo Stato, in questo caso la Regione, che produce norme che sono potenzialmente criminogene. La furbizia pubblica incoraggia certamente quella privata.

Dice: ma è tutto fatto a fin di bene, per uno scopo nobile. E io rispondo che è vero, ci mancherebbe, tuttavia si vorrà ammettere che la logica e lo stesso principio di realtà vanno a ramengo?

Una norma che volesse rispettare il principio della crescita naturale dell’abitato esistente, il principio di realtà e un minimo sindacale di logica umana, avrebbe dovuto conservare la categoria dell’ampliamento, regolamentando quello corrispondente alle addizioni funzionali, con incrementi a scalare in base alle necessità, quindi con una norma che conceda di più a chi ha di meno (una casa piccola ha più necessità di una casa grande)e considerare gli ampliamenti per quello che sono, cioè nuovi volumi. Ma non si può farlo perché il dimensionamento, dato ideologico-politico imposto a monte lo impedisce.

Il risultato finale è che:
- un parte della crescita della città risulta essere invisibile, perché non esiste ufficialmente come volume; questa palese assurdità autorizza il cliente a pensare che tu lo stia prendendo in giro o che non ci abbia capito niente. Vaglielo a spiegare al cliente che un volume non è volume, e quello ti dice, d'istinto, che se non è volume allora perché lo limitano! E’ possibile dargli torto?
- il dimensionamento, posto come limite massimo per legge, ma senza una motivazione reale, tant’è che lo si svicola con una norma che con l’arcivernice fa sparire gli ampliamenti, diventa il nodo scorsoio dei PRG imposto dalla politica e non dalla realtà delle cose, dato che la realtà non è un numero ma la forma della città e il vero dimensionamento è quello che compatta la città in base ad un disegno coerente e non la fa espandere nella campagna;
- la ristrutturazione, che ha una sua accezione chiara nella legge nazionale, a livello regionale diventa un elastico entro cui ci può stare ogni cosa e che contribuisce al sorgere di interpretazioni leguleie da cui la qualità della città ha solo da perdere.

Morale: come rovinarsi la vita con le proprie mani senza ottenere alcun risultato qualitativo accettabile, rovinando la vita ai progettisti, incrementando a dismisura la loro dipendenza dalle interpretazioni degli uffici e inquinando quello che dovrebbe essere il normale rapporto tra la legge e i cittadini: leggo, capisco, applico.
Troppo facile per uno Stato sofferente di bulimia burocratica che ci sta portando alla morte.

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9 settembre 2011

QUALE DENSIFICAZIONE?

Densificazione: parola brutta e anche vagamente sinistra: utilizziamola per comodità di linguaggio e di comuncazione. Vorrei rispondere più compiutamente ai commenti lasciati da robert al post precedente e premetto che: non sarò breve e se robert volesse replicare può non limitarsi ad un commento ma inviarmi un post da pubblicare.
robert afferma, e io non ne dubito, che l’idea di densificazione urbana è presente da almeno una decina d’anni in alcune università, e nel suo ultimo commento porta una serie di dati che lo confermano.
Con questa premessa giunge alla conclusione che noi che facciamo riferimento a Nikos Salìngaros non abbiamo inventato niente e che quanto affermato da Gabriele Tagliaventi nel suo articolo ha il merito, al massimo, di essere entrato nella notizia al momento giusto e che tutto sommato lui e noi del gruppo avremmo colto il vento e ci saremmo aggregati. Insomma, avremmo avuto fiuto.
Se anche si trattasse di fiuto lo riterrei già un merito: perché altri non l’hanno avuto, a maggior ragione se di questi argomenti vi è chi ne parla da almeno dieci anni e oltre e che adesso i tempi sembrano maturi?
Potremmo dire che chi ha introdotto questo principio nella legge urbanistica toscana ha avuto fiuto? Io direi più correttamente che è stato intelligente e lungimirante perché ha dato gambe ad una idea.
Ma robert sbaglia sul fiuto, perché si ferma solo alla superficie della densificazione urbana.

Cosa si intende per densificazione urbana?


Letteralmente è semplice: aumento della densità edilizia delle aree urbane, ottenuta andando a riempire vuoti di aree marginali ma urbanizzate, oppure demolendo e ricostruendo, oppure ristrutturando, con incentivi volumetrici per ottenere il doppio obiettivo di non “consumare “ nuovo suolo agricolo e di razionalizzare la vita all’interno della città in termini di servizi pubblici, di ogni genere, a partire dai trasporti.

Cercando nei vari documenti reperibili in rete, ho trovato molteplici varianti di significato, dalle più fantasiose, a quelle che trovano il sistema di infilarci i pannelli fotovoltaici o l'agricoltura urbana, a quelle che ritengono che sia l’altezza, cioè i grattacieli, l’elemento risolutore. Non v’è dubbio che il modello Manhattan sia molto denso. Il modello italiano invece si declina con grattacieli in mezzo al verde. Una novità già scoperta da un signore svizzero molto ordinato. L’ordine, comunque, diventa un merito rispetto alle proposte attuali che, prevalentemente, mettono insieme qualche birillo e, a posteriori, per giustificarne la presunta utilità ci appiccicano, tra le altre, l’idea di densificazione.

Ho trovato poi questo studio targato INU. Si osservi il risultato progettuale finale: qui non è cambiato niente rispetto a prima, il modello urbano è lo stesso, stecche perpendicolari alla strada, strada solo per le auto, mancanza di ogni caratteristica urbana, semplice ripetizione di modelli periferici, solo molto più densi. La chiamano densificazione insediativa. Già il termine insediativo, più ampio e generico di urbano, più burocratico, a mio avviso connota una certa indifferenza alla forma della città privilegiando l’azione dell’occupazione dello spazio e l’aspetto quantitativo. La proposta progettuale ne è una riprova.

Il punto è proprio questo: densificazione come mero dato numerico e funzionale è “vecchia” di qualche anno, come afferma robert, ma cosa c’è di nuovo, di utile, di positivo se la città resta qualitativamente come prima, e anzi replica e moltiplica i suoi difetti ma con molti metri cubi in più? Una densificazione urbanisticamente sbagliata diventa un’aggravante non un vantaggio.
Anche la speculazione edilizia più bieca è “densificazione”, e in questo caso si può affermare che per ritrovare l’origine dell’idea si può andare molto indietro nel tempo, direi alle insulae romane, che nonostante i divieti imperiali crescevano in altezza. Il condono consisteva nella tolleranza. Anche in questa densificazione, dunque, nihil sub sole novi.

In questo blog, invece, con il contributo dei vari amici, è stata sostenuta un’idea di densificazione urbana ben precisa, la cui necessità è giustificata al contempo dai due fattori fondamentali:
- quello economico-ecologico, cui fa riferimento robert, nel senso che più la città è compatta, minore è la necessità dell’utilizzo dell’auto, maggiore è la possibilità della pedonalizzazione e quindi il risparmio di risorse energetiche, migliore è l’organizzazione del trasporto pubblico;
- quello della forma della città, da perseguire mediante il disegno urbano, sul modello della città tradizionale europea: strade, isolati, cortine edilizie, piazze, pluralità di funzioni, zonizzazione verticale e quant’altro adesso non è il caso di ripetere.

Non è dato un lato della medaglia senza l’altro e direi che l’elemento prevalente è il secondo, la forma urbana, quella che consente, aldilà della situazione contingente di crisi economica, scelte economicamente virtuose, come scrive Tagliaventi nel suo articolo. La situazione di crisi è uno stimolo, direi un’occasione e una necessità in più per spingere in quella direzione, ma la forma compatta della città tradizionale ha un valore indipendente da quella e non ad essa subordinata.

Per restare a Tagliaventi, che sostiene quest’idea da sempre, portando spesso ad esempio il caso dello sprawl americano ed il retrofitting dei centri commerciali a veri quartieri urbani, mai ha egli tenuto separati i due aspetti del problema.
Ma vogliamo ampliare il discorso? Lèon e Rob Krier non hanno fatto altro che progettare e scrivere di città tradizionali, cioè dense, compatte, in cui il margine con la campagna è nettamente definito. Siamo agli antipodi dello sprawl. Altro che dieci anni, e altro che calcoli numerici!

City Pizza, di Léon Krier - La pizza completa (città tradizionale), la pizza per ingredienti (città dello zoning)
Il fatto è che, ragionando per assurdo, se non vi fosse stato quel taglio netto nella storia, quel grado zero dell’urbanistica teorizzato dall’avanguardia, se non fosse stata inventata, diffusa e propagandata fino a far credere che fosse impossibile immaginare una città moderna senza la zonizzazione, se non fosse stato abbandonato il disegno della città a vantaggio dei retini che indicano le varie funzioni parcellizzate, se l’unica forma di disegno, a scala di piani attuativi, non fosse stato quello della astratta geometria di tipo pittorico senza alcuna relazione con l’abitare dell’uomo nello spazio urbano, se non fosse stata vituperata e abbandonata la strada come elemento generatore della città, per sostituirla con edifici staccati e separati (ma dicevano tenuti assieme) da un improbabile verde comune, se non fosse stata abbandonata la città europea, ma solo adeguata ai nuovi standard di vita degli individui e della società, oggi non ci sarebbe stato bisogno di coniare questo brutto termine di densificazione, più adatto ad una confettura di marmellata industriale che ad un insediamento umano.

E’ un discorso per assurdo, l’ho già detto, perché con i se non si fa la storia, ma serve a far comprendere a robert la diversità esistente tra i 10 anni di studi sulla densificazione e quanto da noi sostenuto. E serve per sottolineare che c’è un uso buono ed un uso sbagliato di questo termine.
E noi ne abbiamo fatto un uso buono e lo abbiamo sostenuto con un’azione efficace, tenace e sfidando spesso anche il ludibrio di molti. Niente di eroico, per carità, specialmente per chi come me svolge la libera professione in ambito privato, ma chi è vissuto o ha provato a vivere nell’ambiente accademico credo ne abbia dovuto ingollare di rospi.

Quindi il fatto che vi sia chi l’ha studiato da dieci anni, e magari dal punto di vista sbagliato, e l’abbia tenuto in un cassetto da aprire per qualche convegno da mettere nel cv e presto dimenticato e non l’abbia diffuso presso gli studenti, non abbia insomma fatto scuola, loro che avrebbero potuto farla, per me ha valore "zero".
Lo studio della città non è lo studio delle particelle elementari della fisica, riservato al mondo accademico e della ricerca. Lo studio della città è destinato agli architetti, agli urbanisti e agli amministratori che devono diffonderlo e comunicarlo ai cittadini per renderlo operativo, a vantaggio di tutti.

La città è bene comune, cioè appartiene a tutti, la città è il luogo della politica (e tutti gli architetti lo sanno bene perché tutti i giorni si confrontano o si scontrano con la politica, cioè con l’arte di amministrare la polis, volenti o nolenti) e l’architettura è arte civica e le se le idee non si diffondono e si sostengono, specie in momenti in cui le città sono così in difficoltà, è come non averle prodotte.
Teoria e prassi in urbanistica camminano a braccetto e non possiamo immaginare l’una senza altra proprio per la specificità e direi unicità dell’urbanistica e dell’architettura rispetto ad altre discipline.
Una riprova elementare: qualsiasi quotidiano o foglio locale, oltre che di calcio, tratta sempre di urbanistica, lavori pubblici, traffico. Perché?

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5 settembre 2011

GABRIELE TAGLIAVENTI SU CATTIVA URBANISTICA E DEBITO PUBBLICO. ARTICOLO CHE SI SPOSA CON IL POST PRECEDENTE

Un articolo di Gabriele Tagliaventi sul rapporto tra urbanistica e debito pubblico italiano.
Un articolo che conferma la bontà e la necessità di quei principi affermati nella modifica alla Legge urbanistica della Regione Toscana di cui ho scritto nel post predcedente.

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21 agosto 2011

L'ISOLATO APERTO DELLA RIVE GAUCHE

Nella cassetta della posta ho trovato un giornale dal titolo Architetti, sotto titolo Idee, Cultura e Progetto. Ho pensato a materiale pubblicitario che fa sempre la solita fine, dopo la separazione della plastica che lo avvolge dalla carta. Poi ho visto la casa editrice, Maggioli, e l’ho sfogliata. Formato tabloid, fogli staccati tipo quotidiano, carta pesante, veste grafica studiata per una buona leggibilità. E’ già un pregio.
Sostenibilità a piene mani, ovviamente, qualche premio (alla sostenibilità), immancabile l’IPad, applicato all’architettura in questo caso.
Un titolo verso la fine attrae la mia attenzione: Sì alla rue, no al corridor. E sotto: Il quartiere Masséna, Paris, Rive Gauche. Sono costretto a leggere l’articolo. Che vorrà dire? Le Corbusier rivisitato? Oppure una sua mezza negazione? Insomma, il bicchiere sarà mezzo vuoto o mezzo pieno?


La faccio breve: si tratta di un nuovo quartiere in costruzione il cui piano urbanistico è di Christian de Portzamparc. Io ero rimasto alla Villette, quando ancora mi interessavano i nomi dei progettisti, anche se la Citè de la Musique non mi era piaciuta proprio. Cosa ha di speciale questo piano di Masséna? Ha che de Portzamparc pare essere famoso per l’isolato aperto, o open block o ilot ouverte - dico pare perché io non lo sapevo e quindi per me è una novità – e in questo quartiere c’è l’applicazione di questa novità.

Quale sarebbe la caratteristica di questo ilot ouvert? Sarebbe che le strade formano un tessuto analogo a quelle della città tradizionale, nella fattispecie credo che rimanga più o meno la trama attuale, ma gli isolati non sono costituiti da fronti continui lungo strada, bensì vengono lasciate aperture, varchi, distacchi tra gli edifici, essendo però costruiti gli incroci, cioè i punti più interessanti e singolari di un isolato. Ma qual è lo scopo di questa scelta o trovata che dir si voglia? Quella di permettere la costruzione di tanti edifici staccati l’uno dall’altro, ma abbastanza vicini l’uno all’altro, in modo tale che ogni progetto possa essere diverso dall’altro ma, è specificato nell’articolo, nel rispetto di certe sagome o profili.

Cito il brano specifico dell’articolo di Carlo Teodoli: “Dov’è l’idea chiave di de Porzamparc nel quartiere Masséna? E’ nel suo concetto di Ilot-Ouvert; un solo concetto semplice, ma che vale tutto il quartiere, e che apre a un vasto scenario, anche infinito, di “variabili” dell’architettura senza rinunciare alle “costanti” di buon funzionamento urbanistico e viabilistico del quartiere; parafrasando Le Corbusier (no alla rue corridor) de Porzamparc afferma invece: sì alla rue ma no al corridor”.
Chiaro no? Lo scopo è quello di consentire la massima libertà progettuale inserita in un tessuto apparentemente simile a quello proprio della città.

Nell’articolo vi sono una serie di foto di edifici ma non c’è alcuna planimetria. Gli edifici sono molto fantasiosi, nel senso che sono tutti diversi, come da concetto-guida, di varie altezze da quattro fino a circa 12 (almeno nelle foto del giornale; nel sito se ne vedono di molto più alti) e sono molto vicini tra loro. Non si capisce bene, o meglio, a giudicare dalle foto non vedo nessuna novità rispetto ad una città fatta di grattacieli, ma molto più bassi, cioè non sono grattacieli. Cerco su internet e trovo di più qui, su www.arthitectural.com (ma che nome impronunciabile che ha questo sito!).
Le immagini sono accattivanti e mi è impossibile capire se siano foto o rendering di altissima qualità. Per essere realtà è troppo ordinata, per essere rendering ci sono particolari troppo realistici (oggetti di uso comune che si intravedono dai parapetti traslucidi delle terrazze). Ma non ha troppa importanza, qui si capisce abbastanza bene ciò che è o dovrà essere.
Ci sono poi anche alcuni grafici che sintetizzano l’idea che sta dietro al quartiere.

La trovata è, dal punto di vista del marketing, assolutamente geniale. Lo slogan è azzeccato. Insomma, la confezione è ottima. Il risultato molto meno. Gli spazi tra gli edifici sono privi del minimo senso. Non sono strade, non hanno altro scopo che mantenere i distacchi in funzione dell’esaltazione degli edifici, sono vuoti lasciati per la vuota vanità dell’architetto e sono inevitabilmente destinati all’abbandono.

Il principio dell'ilot ouvert non è urbanistico, è architettonico. Nell’articolo della rivista c’è scritto: “…i risultati sono molto interessanti: rinuncia (de Portzamparc) a firmare l’architettura di edifici ma firma l’urbanistica del planivolumetrico come se fosse un immenso e articolato edificio, per affermare, magari senza volerlo, il ruolo del progettista “dal cucchiaio alla città” o, più semplicemente, il primato dell’architettura come disciplina globale nel design della città dove l’urbanistica (come l’ingegneria del resto) è insomma un suo autorevole affluente, ma non il contrario”.
Ecco, io credo sia vero proprio quel contrario, anche se, idealmente, le due discipline dovrebbero essere intimamente unite, come lo sono state nel passato. Penso però che questo non sia più pienamente possibile, non nel linguaggio architettonico almeno. E’ possibile invece negli aspetti tipologici e morfologici, nella indicazione planivolumetrica (come nel caso in oggetto, in fondo), nel controllo delle altezze, nella continuità della cortina stradale, che è un aspetto urbanistico e architettonico allo stesso tempo.
Insomma, il bicchiere è mezzo vuoto, la rue o è corridor o non è. Inutile tentare mediazioni tra l’isolato (sostantivo) e l’edificio isolato (aggettivo) nel lotto. Il risultato resta quello di una città priva di sequenze, una somma di oggetti cui la presenza della strada non riesce comunque a garantire una continuità.

Ma voglio finire con una nota di ottimismo estivo: prendiamola come una manovra di avvicinamento al punto di...inizio.

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19 agosto 2011

COMPLETARE LA FACCIATA DI SAN LORENZO

Un altro testo di Ettore Maria Mazzola sulla proposta del Sindaco di Firenze Matteo Renzi di completare la facciata della chiesa di San Lorenzo, argomento già affrontato nei commenti al post sulla "riqualificazione" della Piazza San Silvestro a Roma.
A fine articolo riporto qualche link ai vari pareri sulla proposta e ad una storia dei progetti per il completamento dal 1900 al 1905.

Sull’ipotesi di completare la facciata di San Lorenzo a Firenze
di Ettore Maria Mazzola

Lunedì 25 luglio 2011, il Corriere della Sera” ha pubblicato una di quelle notizie definibili “shock” in ambito architettonico e accademico: il sindaco di Firenze, Matteo Renzi, previo referendum popolare, propone di completare la facciata della Basilica di San Lorenzo secondo il progetto elaborato da Michelangelo nel 1515!
Il sindaco di Firenze, in occasione del 150° anniversario di Firenze Capitale d’Italia (2015), propone la “riqualificazione” dell’edificio, con una previsione di spesa di circa 2 milioni e mezzo di euro, in gran parte sostenuta da privati. In concreto, il piano prevede il completamento della facciata costruendo ex novo l’ingresso della Basilica.
La notizia, come era preventivabile, ha suscitato un vespaio di domande, la più ricorrente delle quali è stata: Ma è lecito riprendere in mano i progetti di un architetto scomparso più di 500 anni fa e tentare di andare incontro al suo volere con gli strumenti e le idee di oggi?



Inizialmente mi sono chiesto: ma con tutti i problemi delle periferie, del traffico e del degrado urbano che possono rilevarsi a Firenze, è davvero necessario ipotizzare una “riqualificazione” di San Lorenzo? E ancora, indipendentemente dalla facciata incompleta, considerata la vitalità della piazza in tutte le ore del giorno, pensiamo davvero che San Lorenzo sia un edificio che necessiti di essere riqualificato?
Ebbene, per non avvalorare le tesi di coloro i quali dicono di no a tutto – spesso stupidamente – e mettendo da parte questi interrogativi maliziosi, voglio prendere per buone le intenzioni del sindaco, e voglio dare dei suggerimenti a sostegno di questa proposta, affinché non si avvalori la posizione dei sostenitori della “necessità di evitare falsi storici, realizzando qualcosa di contemporaneo”, che già sta prendendo piede.

Che l’ambiente accademico italiano sia totalmente avverso a certi temi è cosa ben nota: a causa delle Carte del Restauro di Atene (1931) e Venezia del (1964), e soprattutto a causa delle teorie del restauro di Cesare Brandi, l’Italia è oggi il Paese dove, più di tutti gli altri, vige il terrore della “falsificazione della storia”, un problema del tutto falso, nato solo ed esclusivamente per tutelare il mercato nero delle opere d’arte! Sicché, in base a questa assurda posizione, e pensando di essere nel giusto, si insegna nelle università, si scrive sui libri e sulle riviste e si esercita la professione.
Così, a proposito della proposta del sindaco fiorentino, c’è stato chi si è chiesto: “che senso avrebbe dover rispettare il progetto di Michelangelo piuttosto che realizzare “finalmente” qualcosa che mostri che siamo nel XXI secolo?
Questa domanda esprime il generale sentimento serpeggiante tra gli architetti e i critici di architettura formatisi nella scuola modernista-storicista, quella scuola che ha fatto delle teorie di Gropius e di Zevi (l’insegnamento della storia andrebbe eliminato perché limitativo delle potenzialità della mente degli architetti), il proprio cavallo di battaglia. Partendo da questa affermazione, la scuola modernista ha via via sviluppato idee come “tutti abbiamo il diritto di esprimere la nostra arte”, oppure “tutti siamo artisti”, “tutti hanno diritto ai propri 15 minuti di notorietà” ecc. e, altrettanto gradualmente, ha formato una massa “ignorante" di professionisti (e di critici), questi, grazie a questa semplificazione della professione, hanno potuto credersi artisti, architetti, critici e storici.
Il lavaggio del cervello operato da questa scuola di pensiero impostasi come l’élite colta portatrice del verbo – specie a partire dal secondo dopoguerra – è stato talmente vasto che oggi molta gente, per paura di essere accusata di anacronismo e/o ignoranza, finge di comprendere il significato di determinate opere che non hanno alcun senso, se non quello dettato dalla legge del “prendi i soldi e scappa”.

La cosa gravissima è che questo fenomeno si ritrova anche in ambiente ecclesiastico, ragion per cui, chi dovrebbe tutelare l’istituzione della chiesa, spesso e volentieri si lascia ammaliare dalla visione consumistica dell’architettura dettata dall’ignorantissima “società dello spettacolo”, visione che consente, con il minimo sforzo intellettuale, di produrre forme architettoniche generate da uno scarabocchio – opportunamente trasformato in tre dimensioni dal computer – che nulla hanno a che vedere con l’architettura delle chiese, con la liturgia, e con la religione stessa e, più in generale, con l’architettura degli edifici … non è un caso se Patrick Schumacher, partner di Zaha Hadid, ha avuto l’ardire di affermare che il “parametricism” – secondo il quale è il computer, grazie ad appositi softwares, e non più la mano dell’architetto a generare il progetto – da loro teorizzato, sta diventando la “nuova tradizione egemone!”.

Ebbene, alla domanda sulla legittimità o meno di realizzare la facciata di San Lorenzo progettata 500 anni fa, e considerato che chi ha posto questa domanda l’ha giustificata tirando in ballo “Le Sette Lampade dell’Architettura” di Ruskin: « ... lo spirito dell’artefice morto non può essere rievocato, né gli si può comandare di dirigere altre mani e altre menti. E, quanto alla copia semplice e diretta, è chiaramente impossibile, Come si possono copiare superfici consumate per mezzo pollice? L’intera finitura del lavoro era nel mezzo pollice sparito; se si tenta di restaurare quella finitura, lo si fa congetturalmente; se si copia ciò che è rimasto, affermando che la fedeltà è possibile, (...) come può il nuovo lavoro essere migliore del vecchio? C’era ancora un po’ di vita, in quello vecchio, un misterioso suggerimento di ciò che era stato e di ciò che aveva perduto ... » voglio brevemente esprimere il mio parere.

Che senso avrebbe avuto, per tutti gli architetti ch si sono succeduti nella realizzazione del Duomo di Firenze, dover giurare con una mano sulla Bibbia e l’altra sul modello ligneo del progetto di Arnolfo di Cambio (1296), che avrebbero portato a compimento l’opera originaria?
Chi conosce la storia del Duomo di Firenze sa che il progetto di Arnolfo venne interrotto nel 1330, privo della cupola perché non si sapeva come realizzarla. Nel 1367 Neri di Fioravante, sviluppò uno modello alto 4 metri che mostrava come, rinforzando le strutture arnolfiane, fosse possibile realizzare la gigantesca cupola ogivale. Tuttavia sorse il dubbio su come reperire il materiale e realizzare una centinatura e delle gru in grado di realizzare la struttura vera. Nel 1418 venne bandito il concorso, vinto da Brunelleschi e Ghiberti (ma questo nel ’25 venne rimosso) per realizzare la struttura medievale che venne portata a compimento nel 1468 con il completamento, ad opera del Verrocchio, della lanterna sormontata dall’enorme sfera dorata. Tutti questi personaggi, nonostante la loro fama, vennero costretti, dai membri dell’Opera del Duomo, a giurare sul modello di Neri, che avrebbero realizzato quella cupola.

La facciata venne addirittura realizzata solo nel 1871, da Emilio De Fabris (l’opera venne completata dopo la morte di quest’ultimo, nel 1887 da Luigi Del Moro) sulla base di un progetto che prendeva ispirazione dalla porzione basamentale già rivestita nel medioevo.
La stessa storia si ritrova per la Basilica di Santa Croce, sempre a Firenze, progettata da Arnolfo di Cambio nel 1294-95, dove il campanile venne realizzato ex-novo da Gaetano Baccani tra il 1847 e il ’65 e la facciata da Niccolò Matas tra il 1853 e il ’63!

Ma se andiamo in altre realtà, come il Duomo di Siena o quello di Orvieto, abbiamo facciate che ci raccontano fino a 700 anni di lavori, durante i quali si sono succeduti fior di architetti, scultori, mosaicisti e lapicidi … eppure l’immagine d’insieme ci mostra una coerenza e un carattere senza tempo e, soprattutto, una profonda devozione nei confronti del Signore.

Ecco, è proprio questo il punto, diversamente da oggi, un tempo non era la firma e/o il nome dell'architetto, né la "datazione", ad avere importanza, ma l'edificio costruito per il Signore!
Basta dunque con la lettura della storia fatta di schede datate infilate in cassetti la cui riapertura è vietata. Basta con l'egoismo dei critici e degli storiografi, che per dare un senso al loro mestiere e alla loro visione ideologica debbono imporre a tutti quella che è la loro lettura della storia. Se Renzi vuole completare San Lorenzo, come già era stato fatto a Firenze (con grande apprezzamento dei turisti) per Santa Maria del Fiore e per Santa Croce, che lo faccia, purché si proceda fedelmente nel rispetto del lavoro Michelangiolesco, (o arnolfiano, perché no?) senza stravaganze necessarie a far riconoscere che il lavoro sia stato fatto nel 2011!

Certo, Michelangelo non aveva tenuto in grande considerazione il programma medievale della Basilica di San Lorenzo, però aveva progettato una facciata in perfetta armonia con la “grammatica”, le proporzioni, i materiali e i colori dell’architettura fiorentina dopo l’opera di Brunelleschi, Michelozzo, Alberti e Rossellino.

Come propone il sindaco dunque, spero davvero che sarà la cittadinanza ad esprimere il proprio parere, Michelangelo o Arnolfo, purché tutto avvenga nel massimo rispetto della filologia e del contesto!


Link:
Libero: Confindustria, positivo dibattito su completamento facciata San Lorenzo
Blog Cristallo di Rocca: Caldi agostani
La Nazione, Firenze: San Lorenzo, pensiamo alle crepe sulla cupola
Corriere Fiorentino: San Lorenzo: Festa e rivoluzioni
Skyscrapercity: E' giusto o no completare le facciate delle basiliche secoli dopo?
Corriere Fiorentino: La città non è delle Soprintendenze
FAI, Fondo Ambiente Italiano: Michelangelo, una archistar per Firenze
Massimiliano Savorra: progetti per la facciata di San Lorenzo a Fierenze (1900-1905)

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14 agosto 2011

BUON FERRAGOSTO

Una cartolina di Buon Ferragosto con il drappellone o "cencio" del Palio dell'Assunta del 16 agosto, a Siena naturalmente (che pare abbia scampato il pericolo di perdere la provincia: peccato, già ad Arezzo pensavamo di averla "conquistata").
La spiegazione della fattura del drappellone è qui.

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8 agosto 2011

PROPOSTA DI LEGGE SUI CONCORSI DI ARCHITETTURA

Questa è una proposta per i concorsi di architettura che non ha affatto la pretesa di essere proposta di legge, come c’è scritto nel titolo che è uno specchietto per le allodole.
E’ solo un post in cui parlo dei concorsi e formulo alcune proposte, non organiche certamente ma in cui io credo abbastanza. Dico abbastanza perché non di tutte sono convinto al 100%.
Globalmente si tratta di una provocazione. Tuttavia la legge attuale e le altre proposte che ho letto non portano a niente perché si basano su presupposti assolutamente sbagliati, il peggiore dei quali è che sono sempre gli esperti, i tecnici, i "migliori" a decidere perché la politica sarebbe corrotta (e i cittadini non li prende in considerazione nessuno).
Se questo fosse vero, allora tanto varrebbe rinunciare alla democrazia, dato che i politici sono eletti dai cittadini e quindi, se sono corrotti i politici lo sono anche i cittadini. E non si tiri fuori la legge elettorale, dato che le attuali leggi trovano origine nel post tangentopoli, cioè quando c’erano le preferenze e l’uninominale.


Legenda: in rosso i commenti a me stesso

PRINCIPI GENERALI
Si soprassiede sulle premesse e sulla storia dei concorsi, per amor di patria, e si arriva subito ai principi generali.

Quello che i concorsi non devono essere:
• I concorsi di architettura non sono un metodo per fare lavorare gratis et amore dei, e senza speranza, centinaia di architetti per volta
• I concorsi di architettura non sono neppure welfare e non servono quindi a fare poca assistenza a molti allo scopo di creare consenso
• I concorsi di architettura non devono alimentare il sistema corruttivo, in senso etico ma anche in senso molto materiale, dei giudici che favoriscono i propri sodali, con scambio di ruoli con i sodali che giudicano i giudici della volta precedente
• I concorsi di architettura non devono servire solo a fare svolgere i concorsi di architettura e poi tutto finisce lì. A concorso deve seguire incarico e opera. Basta con l’onanismo dei concorsi

Quello che i concorsi devono essere:
• I concorsi di architettura servono a scegliere i migliori progetti per la città e non i migliori architetti per le riviste.
• Poiché la città è composta da cittadini e amministrata da amministratori eletti dai cittadini, i giudici dovranno essere gli esperti, i cittadini e gli amministratori eletti dai cittadini.
• E’ garantita alle riviste libertà di stampa e di opinione e se vorranno poi recensire i migliori architetti per le riviste, liberissime di farlo, tanto non le legge più nessuno, a parte gli architetti, che sono solo una parte - anche se consistente - dei cittadini.

PROPOSTA
I concorsi sono aperti a tutti.
Ma non tutti devono lavorare come pazzi a vuoto, anche per non creare inutili e frustranti aspettative.
I concorsi si svolgeranno in due fasi:
• nella prima fase tutti inviano un curriculum e una proposta progettuale composta di 1 max 2 tavole A3 che illustrino l’idea del progetto e una relazione in una pagina A4
• la commissione seleziona un numero di progetti limitato, massimo 5, tra quelli pervenuti, che passeranno alla fase successiva in cui il progetto sarà approfondito con massimo 3 tavole A1 e una relazione
Scendere nel particolare del formato e del numero delle tavole potrà sembrare sbagliato in questa fase, ma “Dio sta nei dettagli” ed è invece proprio nei dettagli delle leggi italiane che si annida il Diavolo.
A tutti i selezionati sarà riconosciuto un rimborso spese adeguato alla natura del progetto e comunque non simbolico.
Per fare un esempio: da 5 a 10.000 euro ciascuno. I concorsi costano ma costa molto di più bandirli e poi non assegnarli, cioè il solito coitus interruptus.
Al progetto vincitore sarà affidato l’incarico per la progettazione dell’opera (a questo punto si inserisce la proposta, molto ragionevole ed equa, di cui ai punti 6 e 7 della Proposta di legge del Sole 24 ore)
Questa prima parte di procedura non è inventata di sana pianta, ma fa riferimento al sistema adottato in Francia dove, con un metodo analogo a questo, vanno a concorso moltissime opere non solo pubbliche ma anche private.

Composizione della commissione e criteri di determinazione del vincitore:
La commissione sarà composta da un numero dispari di membri e sarà presieduta dal Sindaco o suo delegato (o comunque dal rappresentante dell’ente banditore).
Questa è una proposta scandalosa nell’Italia moralista, giustizialista e anti-casta di oggi ma è l’unica che possa ridare responsabilità e dignità alla politica. Il Sindaco è eletto dai cittadini e quindi lui risponde del proprio operato a fine mandato, non gli altri.
I rimanenti membri saranno nominati al 50% dal Consiglio Comunale (o dall’organismo rappresentativo dell’ente banditore) e il rimanente 50% scelto dall’ente banditore tra una rosa di nomi indicati dagli Ordini professionali. Un funzionario dell’ente banditore svolgerà mansioni di segretario.
E’ chiaro l’intento di rimettere le scelte nelle mani della politica, sempre in base al principio di rappresentatività. Mi pesa un po' indicare gli Ordini, però al momento non conosco altro organismo che abbia maggior rappresentatività degli architetti. L'Università forse? Peggio mi sento! Meglio gli Ordini, almeno sono presenti in ogni provincia.
La commissione stabilirà una graduatoria tra i progetti selezionati e ammessi alla seconda fase, giustificandone con precisione le motivazioni, che saranno rese pubbliche.
I progetti selezionati saranno successivamente sottoposti al giudizio dei cittadini, previa esposizione dei progetti stessi. Nell’ambito di tale esposizione sarà tuttavia possibile prendere visione di tutti i progetti partecipanti, cioè anche quelli della prima fase.
E’ evidente la finalità di rendere accessibili tutti i progetti e non solo quelli selezionati: i cittadini, i partecipanti e  chiunque ne abbia interesse potrà così giudicare il lavoro della giuria. Data l’esiguità degli elaborati sarà un lavoro che non richiede particolari sforzi e costi di allestimento.
Per cittadini si intendono i residenti nel comune in cui sorgerà l’opera. Il periodo a disposizione per il voto non potrà essere inferiore a tot giorni, dopo un minimo di tot giorni in cui sarà data ampia pubblicità all’evento. Il voto sarà raccolto con la semplice presentazione del documento di identità che attesti la residenza.
Il tot sta a dire che non sono sicuro, ma immagino che 10 sia numero sufficiente per entrambe le scadenze. La cosa deve essere snella e non andare alle calende greche (tanto ad andarci, alle calende, ci pensa da sola).
Nelle città grandi, per opere di interesse esclusivo di zona o di quartiere, il voto potrà essere limitato ai residenti nella zona o nel quartiere.
Al termine della consultazione popolare il Sindaco (o il rappresentante dell’ente banditore) decide il progetto vincitore. Il Sindaco può avvalersi dei consulenti che ritiene più opportuni, i quali presteranno la loro opera dietro pagamento di un semplice rimborso spese.
Sarebbe più corretto che il Sindaco intervenisse solo nella fase finale, senza dunque partecipare ai lavori della giuria. Però è importante che tale figura sia presente anche nella prima fase di selezione dei progetti. Semmai è da valutare se debba partecipare alla scelta della seconda fase o se al suo posto non debba essere previsto un funzionario tecnico dell’amministrazione, visto che il Sindaco sarà quello che alla fine decide.

Considerazioni finali
Come ho detto questa proposta di legge è chiaramente una allegra provocazione. Sono una serie di principi generali e particolari (ricordiamoci sempre che Dio ecc. ecc.). E’ tutta da valutare, in specie nella fase di votazione dei cittadini. Quello che fa paura non è la possibilità, anzi la certezza, di polemiche, ché anzi è proprio questo il cuore e la vita della scelta di un progetto per la città, semmai la scarsa partecipazione, oppure la possibilità di organizzare politicamente i votanti. Perché è chiaro che a quel punto i nomi dei progettisti saranno resi noti. Ma anche questo, in fondo, è un rischio da correre, perché la città si organizza in base alla politica e non esiste, né può esistere, meccanismo perfetto, essendo la democrazia imperfetta per sua natura. Se si vuole scambiare la democrazia con la perfezione, si accomodino lor signori.
Un dubbio mi rimane sull’anonimato. Personalmente sarei propenso ad eliminare questa ipocrisia, ma capisco anche le ragioni contro.

Pietro Pagliardini

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6 agosto 2011

PIAZZA SAN SILVESTRO: L'ATTACCO AL CENTRO STORICO CONTINUA

Ricevo dal Prof. Ettore Maria Mazzola questo testo sul progetto di "riqualificazione" di Piazza San Silvestro a Roma che pubblico con piacere.

****
Piazza San Silvestro: l’attacco al centro storico continua
di
Ettore Maria Mazzola

La cronaca romana di questi giorni ci ha mostrato la rivolta pacifica suscitata dall’avvio del progetto di “riqualificazione” di Piazza San Silvestro. Una rivolta più che prevedibile.
Intanto c’è da chiedersi se, con tutti i problemi di Roma, specie in periferia, la “riqualificazione” di piazza San Silvestro sia una priorità che giustifichi una spesa di circa € 2.500.000,00.
Poi chiediamoci se il progetto in corso possa realmente definirsi un progetto “riqualificante”, oppure se non si tratti dell’ennesimo abominio progettuale, figlio dell’ideologia modernista e del disinteresse per il contesto nel quale si interviene, che pone al centro di tutto l’affermazione dell’ego del progettista.
Il risultato di questa ennesima “gaffe urbanistica” dell’amministrazione capitolina, è stata l’ovvia rivolta dei cittadini che hanno manifestato il proprio disappunto bloccando il cantiere. Contemporaneamente sui blog si sono moltiplicati i messaggi che implorano la sospensione del progetto e chiedono un cambio di direzione nella gestione dell’urbanistica romana.

Per quanto mi riguarda non posso che unirmi al coro degli indignati; del resto, dopo la violenza all'Ara Pacis, e lo stupro dell’Unione Militare, questo intervento rappresenta il progredire delle metastasi, di un "tumore" che, originatosi con il Museo dell'Ara Pacis, si sta estendendo fino a Piazza San Silvestro in una direzione ... e Largo Perosi nell’altra. Del resto era prevedibile, se si dà a Meier e Fuksas il permesso di sfregiare il centro storico più bello del mondo, chiunque può sentirsi legittimato a fare altrettanto!

La realtà dei fatti è che non c'è più alcun amore per la nostra città, né da parte degli architetti (che in realtà pensano solo al loro ego), né tantomeno da parte dei politici, ai quali interessa solo la propaganda. Per questi ultimi, spesso profondamente ignoranti, l'importante è che il proprio nome sia sui giornali e, siccome la gente legge a stento i titoli e sempre meno i contenuti, che si parli bene o male non fa nulla, basta che si parli.
Eppure non è che ci vorrebbe molto a capire come fare una piazza: se facciamo il raffronto tra la mobilitazione in atto per bloccare l’esplanade di San Silvestro, con quella che fu la mobilitazione popolare per mantenere in pristino la finta fontana barocca istallata a Fontanella Borghese per il set cinematografico Disney 2 anni fa, ci accorgeremmo che la gente comune, ovvero i fruitori degli spazi urbani, non fa polemica per il gusto di farla, ma la fa per evitare di vedere violentati gli spazi che le appartengono. Nei due casi menzionati, infatti, si è “combattuto” per evitare uno scempio o per mantenere un qualcosa che, esteticamente, si riteneva apportasse una miglioria allo spazio preesistente.

A tal proposito sarebbe il caso di ricordare che il Codice Civile italiano tutela tutti coloro i quali rivendicano il possesso di un luogo che utilizzano, frequentano o guardano, e che come tali devono essere tenuti in considerazione prima di apportare delle modifiche; sarebbe quindi utile recuperare concetti come quello contenuto nel Piano per Bari Vecchia del 1930, (G. Giovannoni – C. Petrucci) che recitava «[…] Tra le attribuzioni del Comune e della commissione dovrà essere quella che fa capo al Diritto Architettonico, in quanto l’opera esterna non tanto appartiene al proprietario quanto alla città».
Ovviamente, nel coro di protesta contro il progetto di Piazza San Silvestro, c’è stato anche chi, dalla Facoltà di Architettura, ha suggerito di coinvolgere personaggi come Foster, Pei, Piano e l'Aulenti che, a suo avviso, potrebbero dare delle soluzioni più consone ad una piazza … da parte mia, se penso a ciò che Gae Aulenti ha fatto al Foro Carolino di Napoli mi viene la pelle d'oca!!

A tal proposito, penso che più che suggerire delle archistar, che mirano solo a mettere la loro firma sul territorio, sia necessario coinvolgere tutti coloro i quali vogliano mostrare ciò che vorrebbero venisse realizzato in Piazza San Silvestro; ma soprattutto, vorrei che ad esprimersi non debba essere una "commissione di esperti" (visto che si sono formati, o meglio che sono stati lobotomizzati, nelle facoltà di architettura e ingegneria italiane votate al modernismo), ma che debbano essere i cittadini ad esprimere le loro preferenze, mediante un processo partecipativo reale e non fasullo, come quello della recente presa in giro per Largo Perosi alla Moretta.
A mio avviso Roma, che è la città delle fontane, meriterebbe di avere una vera fontana in Piazza San Silvestro, (l’ultima degna di tale nome è quella realizzata da Attilio Selva nel 1928 in Piazza dei Quiriti!) meriterebbe di avere una pavimentazione non astrusa come quella del progetto in corso, ma legata alla geometria che la contiene, una pavimentazione che tenga in considerazione le gerarchie degli edifici che la circondano; Piazza San Silvestro meriterebbe dei lampioni degni di portare luce nel centro di Roma, e non brutti come quelli installati lungo via Veneto.
Il progetto in corso presenta una serie di orribili “panchine-bara”, prive di schienale e messe alla rinfusa: una soluzione che sembra più una disposizione casuale di oggetti, utile a riempire il vuoto della piazza, che non un tentativo di realizzare un luogo per la socializzazione ove riunirsi e chiacchierare … non ci vogliono le archistar per capirlo, ma una semplice analisi storico-tipologica degli spazi urbani di Roma.

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4 agosto 2011

SOGNO DI UNA NOTTE MEZZA ESTATE

Un augurio di buone vacanze con una precisazione e un sogno.
La precisazione è che ho letto nel libro Fascio e martello, Laterza che Antonio Pennacchi è diplomato geometra, mentre io nel post precedente avevo scritto, come apprezzamento, che non era né architetto né geometra. Il mio apprezzamento resta intatto.
Il sogno è dettato dalla contingenza della crisi economica: tutti parlano di risparmiare, meno auto blu, il Quirinale ha tagliato 15 milioni, alla Camera hanno rinunciato all'apertura serale del ristorante e facezie varie. Al danno della crisi si aggiunge la beffa della ridotte vacanze del Parlamento: meno ferie = più leggi inutili, complicate e illiberali.
Il sogno di una notte di mezza estate? Che comincino a liberalizzare, eliminando le leggi e non producendone nuove. Allentino il controllo sociale su tutto. Un cittadino per fare una nuova stanza spende più di tecnici e di carta che di opere. Per costruire e aprire un'azienda occorrono mille permessi e tempi infiniti. E se poi il progetto è pessimo non interessa un accidente a nessuno.
Liberalizzino l'edilizia per i cittadini e semplifichino quella per le imprese, e anche gli architetti la finiscano con l'ipocrisia di gridare allo scempio edilizio se un cittadino fa una stanza in più perché gli serve. Discreditano la categoria.
Il vero risparmio? Allentare la presa della politica sulla società, diminuire le procedure, diminuire le "istruttorie" e quindi gli addetti a compiti inutili nei comuni e negli enti.
Più responsabilità ai cittadini = riforma a costo zero.
Intanto il ristorante alla Camera la sera è chiuso: un bel sollievo per l'economia!
Buone vacanze.
Pietro

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27 luglio 2011

LA CITTA' SECONDO ANTONIO PENNACCHI

Nel suo bel romanzo Canale Mussolini, Mondadori, 2010, Antonio Pennacchi scrive a proposito della bonifica dell’Agro Pontino:

Nel corso della storia umana i villaggi e le città si sono formati normalmente quasi tutti sulle vie di traffico. A forza di passarci – o ai punti di guado o agli incroci con altri sentieri – ogni tanto qualcuno si ferma, costruisce una baracchetta e lì cominciano a fermarsi e magari a commerciare anche altri viandanti. Allora si sparge la voce e sempre più gente va lì e tira su una nuova baracchetta, un’altra ancora e nasce la città.
Pure Roma è nata così: come emporio, come posto di scambio e di mercato tra Etruschi, Sabini e Latini. Sono quindi le strade e i traffici che normalmente fanno nascere le città.
In Agro Pontino è stato il contrario e sono state le città – quei villaggi – a far nascere le strade. E difatti sono “città di fondazione” perché non sono nati una casa qui e un’altra là spontaneamente, ma ci è venuto prima un geometra, quando ancora non c’era niente, e ha detto: “Qui ci verrà una casa, lì la chiesa, un’osteria, i carabinieri, la piazza e tutto il resto, e ogni casa che verrà dopo dovrà mantenere questa e quest’altra distanza dalla strada e da tutto il resto”. E hanno cominciato a lavorare e a tirare su i muri
”.


Pennacchi fino a 10 anni fa faceva l’operaio, non l’architetto e neppure il geometra. Però ha studiato le città di fondazione della bonifica dell’Agro Pontino, ma non solo: ha capito da autodidatta quello che molti architetti non hanno capito con anni di studio, cioè l’essenza dell’origine e della vitalità della città, vale a dire la strada. Non sempre per colpa loro, non è che gli architetti siano più stupidi degli altri esseri umani, ma perché non è stato loro insegnato, e non è stato insegnato perché neppure i docenti lo sapevano o se lo sapevano ne avevano rimosso il ricordo allo scopo di perseguire un’idea di città così semplice da diventare misera, funzionalista ma non funzionante, illuminista ma priva di ogni barlume di razionalità.
E con l’andare del tempo se ne è persa davvero la memoria, almeno nella cultura ufficiale dominante, quella che detta la linea a cui la maggioranza si adegua, per ovvi motivi di convenienza e quieto vivere - le dinamiche accademiche sono più o meno note a tutti – e con la cultura ufficiale l’ha persa la cultura diffusa, quella operante quotidianamente, quella dei 140.000 architetti italiani. Ovvio che non tutti l’hanno persa, che anzi ve ne sono non pochi e agguerriti che perseguono questa idea nella loro professione, negli studi, nell’insegnamento, e la diffondono e la fanno conoscere a quelli che, come me ad esempio, si rendono conto che la città come è adesso non è più una città e confrontandola con un centro storico, depurato delle grandi qualità artistiche, si accorgono che la differenza vera la fa proprio la strada.

Pennacchi in queste poche righe dimostra però di avere colto anche la differenza tra la crescita della città spontanea, con regole insediative che sono una somma di condizioni geografiche, economiche, sociali e antropologiche, e quella della città progettata, con regole edilizie imposte e non necessariamente condivise, frutto di scelte culturali e/o ideologiche, cioè di un sistema di idee.
Visto il personaggio, non è più rinviabile la lettura di Viaggio per le città del Duce, Laterza, 2008, dello stesso Pennacchi.

Pietro Pagliardini

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15 luglio 2011

Piazza Charles-Edouard Jeanneret-Gris, detto Le Corbusier

Dunque a Zurigo hanno rifiutato di intestare una piazza all’orologiaio svizzero Le Corbusier.

Sarebbe una buona notizia, detta così. Ma la causa del rifiuto, o meglio la sospensione, è dovuta alla sua vicinanza al regime nazista. Non che sia un fatto commendevole questo; tutt’altro, è senza dubbio riprovevole. Solo che mi viene da pensare che se in Italia dovessimo togliere i nomi delle strade di tutti coloro che sono stati vicini a regimi dittatoriali e assassini, ho l’impressione che dovremmo cercare molti nomi geografici e/o botanici per sostituirli.
E mi sarebbe piaciuto molto di più che non fosse neanche venuto in mente di intitolare una piazza a LC, piuttosto una bella strada di periferia, di quelle con ai lati tanti blocchi di edifici alti a parallelepipedo e senza tetto, disposti rigorosamente perpendicolari alla strada stessa. Quelle case con il numero civico dipinto grosso sulla testata, per far capire agli inquilini quale sia il loro posto dove dormire, perché abitare è già una parola grossa.

Una di quelle strade che hai paura a percorrere a piedi, perché può accadere di tutto senza che nessuno se ne accorga, perché non c’è mai nessuno che se ne possa accorgere - che diavolo ci deve fare uno in una strada senza vita, in una non-strada - e se per caso ci fosse farebbe finta di non accorgersene e scapperebbe di corsa in casa, ammesso che avesse la prontezza di riflessi di leggere il numero giusto.

In alternativa avrebbero potuto pensare ad una strada di una zona industriale, molto più larga e importante di quelle delle zone residenziali, per onorare il mito della funzionalità e della velocità. Quelle strade che spesso non hanno nemmeno il nome ma sono riconoscibili da un numero o da una lettera: Strada A, Strada B, ecc. Spersonalizzare i nomi, classificare e basta: spersonalizzare le case e quindi anche le strade che portano alle case. Spersonalizzare la città per spersonalizzare i cittadini.

Ecco, in verità mi sarebbe piaciuto che avessero deciso di non intitolare la piazza per fatti e non per opinioni; e il fatto è proprio questo, cioè sono i progetti di LC ad essere contro l’uomo e la sua unicità rispetto a tutti gli altri uomini.

E’ l'urbanistica di LC ad essere intrinsecamente e naturalmente vicina ai regimi dittatoriali, di qualunque colore essi siano. Ma se è venuto in mente di intitolargli una piazza, vuol dire che da un punto di vista fattuale, cioè per i progetti di LC, e per le sue folli teorie, si riteneva giusto rendergli omaggio.
Invece per questo e solo per questo non avrebbero dovuto nemmeno pensarci.

Mi viene in mente, per una di quelle associazioni di idee inspiegabili e incontrollabili, la famosa battuta di Orson Welles: In Italia, sotto i Borgia, per trent'anni hanno avuto guerre, terrore, assassinii, massacri: e hanno prodotto Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera, hanno avuto amore fraterno, cinquecento anni di pace e democrazia, e cos'hanno prodotto? Gli orologi a cucù.

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29 giugno 2011

LA SOSTENIBILITA' DI JAMES HOWARD KUNSTLER E QUELLA DI CASA NOSTRA

Parto dalle parole chiave del dibattito urbanistico attuale, sia in politica che tra i così detti addetti ai lavori (i due campi si confondono spesso), quelle che vengono citate ogni tre per due e che, giuste o sbagliate che siano, frutto di riflessione meditata o semplice coazione a ripetere slogan, contribuiscono non poco alle scelte, o alle non-scelte, e quindi ai risultati.
Le parole chiave, i tag, sono l’espressione semplificata di principi, idee, visioni della città ma proprio per sintetizzare devo ricorrere ad un’ulteriore semplificazione, una selezione che necessariamente ne trascura moltissime altre non meno importanti . Ne sono consapevole.
Dunque le parole chiave più ricorrenti sono, a mio parere:
sostenibilità
consumo di suolo
zero volume.

James Howard Kunstler

La prima delle tre, la sostenibilità, è il principio fondante delle altre due, che rappresentano invece il momento di attuazione concreto di quel principio, il modo attraverso il quale si ritiene di conseguire il risultato di rendere qualsiasi atto pianificatorio o edificatorio “sostenibile”. Si potrebbe dire “in principio era la sostenibilità” perché in fondo la sostenibilità si sostiene su un atto di fede politica, essendo le verità scientifiche addotte alquanto controverse, soggette a confutazione e del tutto secondarie rispetto alla profonda motivazione ideologico-lobbistica (vedi lobby )
In questo senso la legge urbanistica della Regione Toscana, già nella sua prima versione, è probabilmente la madre giuridica, e quindi il vangelo dello stato di diritto, di questo principio e delle sue conseguenze. Dice infatti la legge (condenso e semplifico):
La legge promuove lo sviluppo sostenibile, nel rispetto della migliore qualità della vita delle generazioni presenti e future e garantisce la tutela delle risorse essenziali del territorio quali, aria, acqua, suolo ed ecosistema, città ed insediamenti, paesaggio e documenti della cultura, sistemi infrastrutturali.
Nuovi impegni di suolo
(consumo di suolo) sono consentiti esclusivamente qualora non sussistano alternative di realizzazione e riorganizzazione degli insediamenti (zero volume).

Segnalo il tono profetico e salvifico volto a preservare le generazioni future, quindi quelle che ancora non ci sono. Personalmente tendo a diffidare di chi, al di fuori di una visione religiosa e all’interno di una politica, dichiara di preoccuparsi troppo anche per chi ancora non c’è. Mi sembrerebbe sufficiente pensare ai figli e al massimo ai nipoti: andare oltre, più che superfluo è arrogante è pericoloso perché lascia supporre di avere capito tutto anche dell’evoluzione del futuro. Sembra un atto di speranza ma è invece il suo opposto perché manifesta la sfiducia nella capacità delle future generazioni di saper gestire e trovare soluzioni al loro presente. Induce ad un ripiegamento su se stessi, è la fine della speranza, l’interruzione del cammino in una visione lineare del tempo e della storia. Potrebbe trattarsi solo di realismo o di principio di precauzione, ma il primo richiederebbe informazioni e dati più certi, il secondo è negato dal testo della legge e soprattutto dai toni apocalittici che accompagnano in genere la pronunzia di questo assioma.

Si dichiara, infatti, che la sostenibilità è finalizzata alla qualità della vita dell’uomo e si specifica che la “qualità insediativa ed edilizia sostenibile” deve garantire “la sanità e il benessere dei fruitori”. Queste due condizioni vengono però dopo “il risparmio energetico” e “la salvaguardia dell’ambiente naturale”.
Sanità e benessere insieme evocano, più che altro, ticket, liste di attesa e la pubblicità di una SPA in località termale, e questo la dice lunga sulla visione dell’uomo che viene sottesa dalla legge, perché il vero soggetto della legge, e quindi della sostenibilità, sono il risparmio energetico, cioè la Terra, anzi Gaia, e la natura. Al centro della legge, che come tutte le leggi è allo stesso tempo frutto e seme, effetto e causa della società, c’è una Natura idealizzata, non solo buona e da preservare ma anche dotata di valore autonomo a prescindere dalla presenza dell’uomo e quindi un soggetto che ha diritti che l’uomo non può e non deve violare. E’ un totale rovesciamento di fronte rispetto al pensiero e all’azione del mondo occidentale (1).

Ma vi sono altri indizi che la sostenibilità sottenda un giudizio negativo sull’azione umana. Questi si ritrovano nei modi in cui essa viene declinata, cioè nel consumo di suolo e nel volume zero.
Continuando nella lettura della legge (ripeto che questa è presa a titolo di modello esemplificativo di un pensiero) ecco cosa si trova:
Fermo restando quanto disposto dal comma 3, nuovi impegni di suolo a fini insediativi e infrastrutturali sono consentiti esclusivamente qualora non sussistano alternative di riutilizzazione e riorganizzazione degli insediamenti e delle infrastrutture esistenti. Essi devono in ogni caso concorrere alla riqualificazione dei sistemi insediativi e degli assetti territoriali nel loro insieme, nonché alla prevenzione e al recupero del degrado ambientale e funzionale.
Qui ci sono il “consumo di suolo” e “il volume zero”. A parte la retorica del linguaggio, che depone senza appello a sfavore di tutta la legge, queste prescrizioni sono suscettibili di interpretazioni diverse. Vi si dice in sostanza che occorre prima recuperare ciò che esiste e solo se dimostra che non ce ne è abbastanza per le necessità (su quali siano e come si ottengano, il mitico dimensionamento, è meglio sorvolare) allora e solo allora sarà possibile procedere con nuovo impegno (comunemente detto “consumo”) di suolo.
Il dubbio nasce, non per me ma in base a come vengono generalmente interpretate queste norme, con il periodo successivo che si riferisce non a singoli edifici ma a sistemi insediativi che devono essere riqualificati.
Ora questo comma nel suo complesso potrebbe e dovrebbe essere interpretato nel senso migliore, vale a dire nella necessità di costruire nel costruito, nel densificare la città, sia mediante ristrutturazione che con nuove costruzioni e quindi evitare al contempo il “consumo di nuovo suolo” e di migliorare lo stato di quanto è già costruito, o meglio urbanizzato. Sarebbe non solo cosa ragionevole ma anche corretta e auspicabile, se non fosse che nella vulgata e nell’uso corrente della politica, della tecnica e della burocrazia, per nuovo impegno di suolo si intende, banalmente e stupidamente, nuova superficie coperta e da qui nasce l’equivoco del “volume zero”: ogni nuova costruzione è demonizzata, anche in aree interne alla città, libere ma comprese all’interno di ambiti ormai non più fungibili per l’uso agricolo. Questo è tanto vero che l’assessore regionale all’urbanistica, che di professione è urbanista, la prof.ssa Anna Marson, ha sentito recentemente il bisogno di puntualizzare in un documento che per impegno di suolo non si deve intendere quello all’interno delle aree urbanizzate.

Ma la vulgata resta ed è quella che diffonde il verbo e che impedisce di spostare il dibattito su un livello più alto, di nuovo disegno urbano, indirizzandolo invece verso una generica e improduttiva denuncia contro il mondo delle costruzioni.
Sostenibilità è parola chiave importante e da prendere troppo sul serio per essere lasciata nelle mani di chi la riduce a slogan, luogo comune, passepartout per il politicamente corretto.
C’è un bell’articolo di James Howard Kunstler, dal titolo Ritorno al futuro, che affronta il tema della sostenibilità. Se è vero che Kunstler parte da una visione e previsione alquanto catastrofista, che personalmente non condivido perché in fondo speculare alle previsioni delle città futuriste, è anche vero che il suo approccio al tema città è una ventata di aria fresca, un ritorno alle origini, agli elementi fondativi che hanno determinato la nascita delle città stesse, vale a dire la loro collocazione geografica in prossimità di grandi elementi naturali di comunicazione, fiumi, mari, tracciati naturali terrestri, per affermare che in caso di crollo e declino di molte città - fatto che negli USA è assolutamente frequente in questi tempi di crisi economica - saranno proprio quelle dotate di questa forza intrinseca a sopravvivere, grazie alla possibilità di modificare il proprio modello di sviluppo in maniera meno dipendente dall’energia o con l’uso di energia diversa.

Kunstler consiglia di investire su quelle città, e in futuro vede: le nostre città diventare più piccole e più dense, con un minor numero di abitanti. I grattacieli diventeranno obsoleti, i viaggi saranno ridotti e i confini della campagna più definiti.L’apporto di energia alle nostre economie decrescerà di molto e probabilmente in modo destabilizzante……. Ricordate: le città tradizionalmente esistono proprio in quei luoghi perché occupano siti di importanza geografica e strategica, come la posizione di Detroit su un breve tratto di fiume tra due grandi laghi. Qualche tipo di insediamento continuerà ad esistere nella maggior parte di questi luoghi, ma non nella forma che oggi conosciamo. Saranno luoghi urbani nel senso tradizionale del termine: compatti, densi, ad uso misto, e composti di quartieri basati sul quarto di miglio a piedi dal centro al bordo, i cosiddetti cinque minuti a piedi, che è una norma transculturale che si trova ovunque nelle comunità urbane pre-automobilistiche. Il modello è scalabile: un quartiere è l'equivalente di un villaggio; diversi quartieri e un distretto commerciale fanno una città, e molti quartieri costituiscono una città di medie dimensioni”.....
L'idea di agricoltura verticale è una dimostrazione di quanto sia diventata estrema la nostra tecnograndiosità, e quanto ci siamo allontanati da secoli di saggezza accumulata….. il luogo appropriato per questo (l’agricoltura) è al di fuori della città. C'è una grande differenza tra il giardinaggio e l'agricoltura. Alcune attività sono essenzialmente rurali e alcune cittadine, e abbiamo bisogno di ristabilire questa distinzione”.


Ecco, questa è la sostenibilità che può aiutare il progetto di una città migliore e che non richiede, per esistere, una catastrofe ecologica, ambientale, energetica ed economia prossima ventura, perché è corretta a prescindere, e non le parole d’ordine, o parole chiave, usate a sproposito da noi a soli fini di lotta politica tra chi vuole costruire ad ogni costo e chi vi si oppone con presupposti sbagliati.


Nota:
1) Vedi questa intervista a Giulio Giorello, certamente un laico, fatta da uno studente:
STUDENTE: A proposito del rapporto uomo-natura, perchè l’uomo, invece di coesistere con essa, cerca sempre di prevaricare sulla natura?
GIORELLO: Ogni essere vivente cerca di modificare il proprio ambiente. I castori, per esempio, modificano il corso dei fiumi. L’uomo esprime una volontà di conquista della natura molto più ambiziosa di qualunque altro animale, estendendo il proprio intervento fin dove può. Si pensi all’intera storia delle conquiste spaziali. E’ difficile spiegarne le ragioni. Si può solo dire che quest’ambizione è per l’uomo una condanna e al contempo un privilegio. Il privilegio gli è stato dato da Dio, come è scritto nel Libro della Genesi dell’Antico Testamento in cui il Signore incarica Adamo di "nominare tutti gli animali e tutte le piante". L’esegesi biblica e una esatta traduzione dall’ebraico indicano che Adamo, e pertanto l’uomo, sia considerato il "custode" della natura e non il suo "dominatore". Di conseguenza l’uomo deve considerarsi il responsabile di tutte le creature che abitano la terra, l’acqua e l’aria, e di tutto l’ambiente che lo circonda. L’uomo quindi è anche responsabile di ciò che fa all’ambiente. Nel suo rapporto con la natura l’uomo non può e non deve essere un prevaricatore. In caso contrario la natura "si vendica".

Pietro Pagliardini

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17 giugno 2011

10 DOMANDE SULL'EDIFICIO DI VIA DEL CORSO A ROMA

In stile Repubblica, ma in sedicesimo, avrei 10 domande da porre sul progetto dell’edificio Benetton a Roma, in via del Corso, progettato da Massimiliano Fuksas. In realtà ne avrei altre di domande da porre, ma è preferibile attenersi alla regola del 10.

Il problema è che non so a chi porle queste domande. Quindi è un messaggio dentro una bottiglia lanciato nel mare magnum della rete. Chissà che qualcuno che conosce almeno parte delle risposte non lo legga!

1) L’edificio attuale è vincolato ai sensi della ex 1089/1939?
2) L’area rientra nel vincolo paesaggistico ex legge 1497/1939
3) Se sì ad una sola delle due domande precedenti, perché la Soprintendenza ha rilasciato il nulla-osta e chi ha istruito la “pratica” e chi l’ha firmata (nome, cognome, ruolo)?

4) Il progetto è stato oggetto di un Piano Attuativo o di Recupero, magari in variante, o è stato autorizzato con Permesso di costruzione diretto?
5) Se è stato oggetto di Piano Attuativo o Piano di Recupero, esiste una commissione urbanistica che ha approvato? E con quale motivazione?
6) Come e da chi è composta questa commissione urbanistica (nomi, cognomi, ruolo)?
7) Se è stato autorizzato con Permesso di costruzione diretto, con quale motivazione la Commissione Edilizia ha approvato? Nel caso in cui a monte ci sia stato un Piano Attuativo o di Recupero, la C.E. non avrebbe potuto che prenderne atto, almeno nelle linee generali, ma possibile che nessuno dei membri abbia sentito il bisogno di esternare un disagio, dissociarsi, uscire per farsi mettere assente, far mettere a verbale qualche cosa, dare un segno di vita, insomma?
8) Da chi è composta la Commissione Edilizia (nome, cognome, ruolo)?
9) Chi ha istruito la pratica del Permesso di Costruzione e chi l’ha rilasciata (nome, cognome, ruolo)?
10) Possibile che il Sindaco, gli Assessori competenti, un Assessore qualsiasi della Giunta, qualche consigliere comunale di maggioranza o minoranza, qualche consigliere dei Municipi, qualche Presidente di commissione, qualche politico di prima, seconda o terza fila, qualche mezza tacca qualsiasi nella pletora di amministratori che ci possiamo permettere in questo straricco paese, qualche rappresentante della comunità montana, che sarà scesa anche a Roma immagino, qualche Assessore o consigliere provinciali e regionale, qualche funzionario o tecnico di uno dei numerosi enti, che ci possiamo sempre permettere in questo sempre più straricco paese, in qualche utilissima conferenza dei servizi, qualche funzionario della ASL per il NIP, dei VVFF per l'esame progetto, del Genio Civile per il deposito delle strutture, dell'ufficio commercio per le autorizzazioni, ecc. ecc. ecc., possibile, dicevo, che nessuno abbia visto, saputo, annusato, sentito dire che stava per essere o era già stato approvato un progetto di tal fatta nel centro di Roma, tra le decine di tavoli in cui è transitato, e che abbia mantenuto il segreto, anche con la moglie o il marito? Tutto si potrà dire fuorché passi inosservato!

Certo, manca la domanda regina, la più seria ma anche la più terribile cioè: possibile che sia piaciuto a tutti questo progetto? Ma questa non la voglio proprio porre.

Pietro Pagliardini

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ETERNITA' E VERGOGNA DEL MATTONE

Sul Corriere della Sera di martedì 14 giugno ci sono due belle pagine dedicate a Giorgio Vasari, di cui ricorre il 5° centenario della nascita e di cui si inaugura una mostra agli Uffizi dal titolo Vasari, gli Uffizi e il Duca, cioè Cosimo de’ Medici, che commissionò a Vasari il progetto degli Uffizi. Vi è poi, sempre in relazione al Vasari e alla mostra, un articolo sul rapporto tra l’eternità dei grandi della storia, grandi nel bene o nel male, e l’eternità dell’architettura e della poesia da loro lasciata o a loro dedicata. Titolo dell’articolo: Da Pericle a Hitler: l’eternità è sempre affidata alla pietra. I grandi sono sempre gli stessi: Pericle, Giulio II, Urbano VIII, Cosimo, appunto, il Re Sole, e pure Hitler; per finire con Pompidou e Mitterand.


Si parla di sovrani, di principi diremmo meglio, anche del principe del male per antonomasia. Il giudizio basato sull’eternità del ricordo legato all’eternità delle opere lasciate, non è un giudizio sul valore di ognuno, ma la constatazione del fatto indiscutibile di essere la memoria di molti di questi principi legata indissolubilmente alle opere che hanno voluto e ci hanno lasciato.
Certo che Hitler sarà ricordato per ben altro che l’architettura, anche se il suo stadio olimpico è risorto a nuova gloria con le Olimpiadi di Berlino e con il bell’intervento di adeguamento progettato da GMP, forse il più bell’esempio di recupero e trasformazione di uno stadio che io conosca, splendida fusione di architettura classica e modernità.

Inevitabile e amaro il confronto della “soluzione” del rapporto vecchio-nuovo, con il progetto del nuovo negozio Benetton a Roma, “firmato” da Massimiliano Fuksas e segnalato opportunamente da Giorgio Muratore su Archiwatch.

I nuovi Principi sono le case di moda con i loro stilisti o le varie multinazionali; sono principi del profitto. Ma non è il profitto il problema, anzi, è bene che ne producano molto. Il problema è il ridurre e piegare in maniera scientifica l’architettura, ma direi meglio, la città, a pura merce di scambio, a grande outlet urbano in stile…. come non saprei, modernista è troppo poco ed è in fondo offensivo per i modernisti autentici. Che le società industriali e commerciali necessitino di una immagine architettonica capace di distinguersi è una evidenza. Che questa architettura sia per sua natura pura comunicazione visiva e parte integrante del brand e quindi che la logica dell’oggetto sia assolutamente prevalente su quella del contesto, ed anzi lo neghi proprio per cercare di emergere dal rumore di fondo creato da tutti gli altri concorrenti, è un’altra evidenza.
Ma non c’è giustificazione alcuna perché operazioni come queste vengano perpetrate in danno del centro storico e di quello di Roma in particolare. Non solo chi l’ha progettato, ma chi l’ha approvato dimostra mancanza di senso del proprio ruolo e delle proprie responsabilità. Qui non siamo al fuck the contest, siamo davvero ad un livello molto inferiore, se possibile. Qui il contest non è solo la città ma lo stesso edificio su cui si interviene con linguaggio sgrammaticato.

Non sono un seguace dell’indignazione, ma immaginare quel progetto (immaginare per poco, perché è in costruzione e lo vedremo finito) in via del Corso, con quelle escrescenze giustapposte sul tetto e quella rete da insaccati che vorrebbe risolvere un angolo, mi rende incredulo perché è come essere alle aste della progettazione e per il fatto che è stato approvato da “organi competenti”. Di cosa siano competenti è un altro bel rompicapo. Ma davvero alle grandi società e ai "grandi" architetti non si può dire di no? Oppure il sì sarà giustificato dalla consunta storiella riciclata che dobbiamo accettare la sfida del nostro tempo?

Dopo aver letto le due pagine del Corriere, non griderò contro la democrazia che non riesce a produrre bellezza, però che debba produrre solo bruttezza, rischia di far vacillare qualche convinzione. Gli ultimi tre sindaci romani, Rutelli, Veltroni e Alemanno avranno lasciato il loro segno nella città di Roma, ma sono certo che non saranno ricordati come Pericle o Giulio II.
Per loro e nostra consolazione non saranno comunque ricordati nemmeno come Hitler.
Non saranno ricordati e basta.

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3 giugno 2011

CAMILLO LANGONE

Ancora Camillo Langone su il Foglio contro i grattacieli:
del 2 giugno

Una conferma che il mal di grattacielo non ha partito né appartenenza. In questo senso è davvero....democratico!

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1 giugno 2011

GREGOTTI A MEZZO DEL GUADO

Dall’ultimo libro di Vittorio Gregotti, Architettura e Postmetropoli, Einaudi, un breve brano tratto dal capitolo XII, Periferie. A seguire un commento.

La messa in discussione del principio delle periferie urbane nell’ultimo mezzo secolo è figlia della critica della separazione, proposta un tempo per ragioni di funzionamento e igieniche, delle aree di abitazione e di servivi da quelle industriali, estesa poi a principio di pianificazione generale e sovente proposta come forma antiurbana di ghettizzazione sociale, connessa anche al tentativo di industrializzazione dell’edilizia come ripetizione estesa “product-oriented”. A nostro avviso, la mescolanza sociale e funzionale è ingrediente indispensabile per la trasformazione delle periferie, trasformazione che per attuarsi deve però passare attraverso un progetto complessivo della specifica parte urbana; cioè oltre che attraverso il completamento efficiente dei servizi e dei trasporti, con la presenza di attività diversificate e di funzioni rare che mettano in relazione obbligata la parte con il resto della città. Tutto questo con una modificazione morfologica che restituisca il senso del tessuto urbano e della prossimità fisica tra le parti (il caso del nuovo piano di Roma fondato sull’idea della costituzione delle 9 centralità nelle periferie ne è un esempio). E’ necessario predicare, diversamente dall’igienismo sociale della prima metà del XX secolo (sospinto anche dalle condizioni di abitabilità inaccettabili dei quartieri operai del XIX secolo e dalla connessione tropo diretta abitazione-lavoro), la mescolanza compatibile di funzioni, di strati sociali, di usi, di servizi collettivi di qualità, cioè dei materiali costitutivi della città storica estesi in modo nuovo alla periferia urbana.

Naturalmente contro tutto questo si costituiscono come difficoltà da un lato il neofunzionalismo immobiliare, che tende a selezionare la destinazione delle aree in funzione del reddito, dall’altro il desiderio di selezione sociale e di difesa dal diverso da parte degli architetti. Di qui l’interrogativo intorno a quali regole morfologiche l’organizzazione di tale periferia possa produrre, quali spazi tra le cose costruite, quali servizi e attività siano ad esse organiche, quali gerarchie, quali compatibilità con le nuove funzioni e relazioni; in che modo, e se, la relazione con la geografia e la storia emerga come identità non deduttiva ma riconoscibile dagli stessi cittadini oltre che dagli architetti. Una concezione quindi della periferia della grande città capace di utilizzare anche la propria posizione e la propria ricchezza di infrastrutturazione accumulata (un modo anche di estendere il principio della ricostruzione della città sulle proprie tracce) costruendo un insieme di centralità dotate di alta mescolanza sociale e funzionale per l’intera città e capaci di articolare e fornire di servizi le distese abitative che già si sono accumulate negli ultimi due secoli. Centralità dotate di identità e di qualità nel disegno urbano, cioè di qualità degli spazi tra le cose oltre che nella qualità dialogante delle cose stesse costruite, e nella chiarezza disponibile della loro proposta di ordine morfologico e gerarchico tra le parti”.

Che dire? Bene, benissimo, in specie la prima parte. La seconda è più tortuosa, involuta e tipicamente gregottiana: problemi in campo non tutti chiaramente comprensibili, affermazioni che lasciano intendere anche altro possibile, propalazione di molti dubbi lasciando intravvedere risposte che lui saprebbe dare ma che non sembra voler dire. In particolare mi sembra incerto, fumoso e soprattutto datato l’interrogativo sullo spazio “tra le cose costruite” con “centralità dotate di identità e di qualità nel disegno urbano……e nella chiarezza disponibile della loro proposta di ordine morfologico e gerarchico tra le sue parti”. Periodo faticoso da leggere tutto d’un fiato e molto acrobatico, tanto per non parlare della strada, che è il vero “spazio tra le cose costruite”, anzi è la strada che genera le cose costruite. Insomma mi sembra un modo per eludere la realtà dello spazio urbano.
Ma l’analisi delle periferie è giusta e il rimedio che viene proposto condivisibile e necessario.

Ciò che mi sembra a dir poco lunare è il fatto che “La messa in discussione del principio delle periferie urbane nell’ultimo mezzo secolo è figlia della critica della separazione, proposta un tempo per ragioni di funzionamento e igieniche, delle aree di abitazione e di servivi da quelle industriali, estesa poi a principio di pianificazione generale e sovente proposta come forma antiurbana di ghettizzazione sociale”.

E’ lunare l’affermazione che sarebbero cinquant’anni che si è scoperto che la periferia è figlia della separazione, e però è dagli stessi cinquant’anni che si continua con la separazione. Perbacco, com’è andata? L’hanno forse scoperta nei laboratori di ricerca dell’università e non ce lo hanno detto? L’hanno tenuta così segreta questa scoperta che, per non farla trapelare, lo stesso Gregotti nei suoi piani, vedi il PRG di Arezzo del 1987, vigente fino a 10 giorni fa, ha continuato nella separatezza più assoluta, nella rigida zonizzazione, sia nelle carte di piano a retini con le zone omogenee, sia nella normativa, e pure nei Piani-Progetto, numerosi, allegati al piano e ampiamente documentati, in cui avrebbe potuto fornire esempio di trasgressione a questa rigida regola?

Tutto il libro, in verità, è sulla falsariga di questo brano: analisi in buona parte giuste, storia tirata un po’ per la giacchetta, nessuna autocritica (sempre confidiamo fiduciosi in quella sullo Zen), visione del mondo improntata ad un marxismo d’antan (ma questo è un punto di vista legittimo e rispettabile). Davvero difficile, almeno per me, tirarne una sintesi e dare un giudizio compiuto e obiettivo, tanti sono gli elementi contraddittori.

Azzardo però a dire che Gregotti possiede senza dubbio tutti gli strumenti per individuare i problemi, per incamminarsi verso la loro soluzione e per modificare radicalmente il suo pensiero sulla città, avvicinandosi fortemente ad una visione urbana vicina a quella della città storica, ma è riluttante, quasi fosse frenato dal timore di apparire troppo semplicistico, di tradire l’immagine tipica dell’intellettuale problematico e pensoso, quello che scopre sempre esserci ben altro e ben oltre, forse di non voler riconoscere gli errori.
Uno sforzo, suvvia, che non succede niente! Età ed autorevolezza sono sufficientementi importante da consentire tutte le trasgressioni, soprattutto se giuste, e ce n’è ancora abbastanza per lanciarsi in nuove avventure.


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