Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


7 gennaio 2010

ARCHISTAR E PARTECIPAZIONE

Leggo su Avvenire di domenica 3 gennaio e commentato dal sito SARZANA, CHE BOTTA!, come segnalatomi in un commento da Enrico Bardellini, una pagina sulle archistar e, da contraltare, alcuni spunti sulla partecipazione dei cittadini alle scelte per la città. Scrivono il sociologo Franco La Cecla e rispondono a Leonardo Servadio, Mario Botta e Ray Lorenzo.
L’Avvenire, con Leonardo Servadio e non solo, è un giornale molto attento al fenomeno dell’architettura e della città, sempre con un taglio non modaiolo ma problematico in cui si mostrano anche aspetti più nascosti e meno esplorati della realtà.


Sul tema archistar credo di aver già detto cento volte ma Mario Botta, ammesso che appartenga al mondo delle archistar in senso stretto (credo appartenga più a quello dei “Maestri”, che sono i padri delle archistar, non tanto per età anagrafica quanto per appartenenza ad un’epoca) non delude mai e offre sempre spunti di discussione.

Botta mi sembra essere affetto più che da “polarità schizofrenica”, come scrive La Cecla, da una certa indeterminatezza nelle sue affermazioni, un dire e non dire che lascia le porte aperte ad interpretazioni diverse, anche se è certamente vero che poi sono i suoi progetti a parlare, come deve essere per ogni architetto, e quelli sono chiarissimi: troppo uguali a se stessi ovunque.

Dice Botta: “L’architettura è ineludibile. Non si può spegnere come fosse una trasmissione che non ti piace o accantonare come un libro che ti delude”.
Io credo che questa sia una profonda verità ma non sono sicuro affatto che Botta gli attribuisca lo stesso significato che gli attribuisco io, cioè che l’architettura non produce beni di consumo ma edifici per l’uomo realizzati per durare nel tempo, per l’eternità nelle intenzioni di ognuno, per cui, una volta costruiti, hanno il dono o la dannazione della permanenza, restano lì a perenne godimento o condanna di chi vi passa davanti e di chi vi abita e, appunto, non si possono spegnere come la radio, né rimuovere in soffitta come un quadro venuto a noia.
Può anche darsi che Botta intenda che l’Architettura, con la A maiuscola naturalmente, promana con tale forza dalle profondità interiori del suo autore da non poterla controllare o spengere.
Può darsi, dico, perché appunto l’indeterminatezza, e non la schizofrenia, mi sembra la cifra di Botta.
E prosegue: “l’architettura non è lo strumento per costruire in un luogo, ma per costruire quel luogo”.
Questa frase è ancora più scivolosa.
Esaminiamone il significato:
Potrebbe essere il segno di una grande attenzione ai luoghi perché potrebbe significare che ogni edificio contribuisce a dare vita (o morte)ad un luogo ma potrebbe anche significare che è l’architetto, indifferente ai luoghi, a crearli ogni volta proprio con le sue architetture. C’è del vero anche nella seconda possibilità, ma questa senza la prima vuol dire attribuire all’architetto una potenza che sovrasta i luoghi.

In entrambe le espressioni, e ancor più dal combinato disposto delle due, traspare in filigrana una concezione “titanica” della figura dell’architetto capace di creare, con la sua architettura ineludibile, la vita dei luoghi. E’ certamente una visione da archistar o Maestro, temperata, questa volta sì, da una specie di pudore, o polarità schizofrenica come dice La Cecla, quando Botta afferma che “gli architetti sono chiamati a lavorare anche sul terreno della memoria, che oggi è il vero antidoto alla globalizzazione”.
Come non essere d’accordo! Solo che Botta dà l’impressione di lavorare sulla memoria di se stesso, dato che i suoi progetti si assomigliano sempre e sono firmati, poco connessi alla memoria dei luoghi, della comunità, della funzione reale e simbolica stessa dell’edificio (si vedano le sue chiese), casomai al richiamo ad elementi costruttivi che costituiscono la memoria dell’architettura, e non dei luoghi, come l’arco o certe forme geometriche astratte o l’uso del paramento a blocchi pesanti o volumi fortemente legati al terreno (salvo alla Scala, dove c’è un ribaltamento gravitazionale con l’astronave levitante sul tetto).

Ma Botta si esprime anche sulla partecipazione dei cittadini alle scelte per la propria città.
Qui il discorso è davvero più difficile perché si corre il rischio della facile demagogia politica o, all’opposto, dell’aristocratico disprezzo verso le masse ignoranti.
Mi sembra che raramente si affronti il problema in maniera “laica” e razionale, rispettosa della realtà, cioè quella di considerare, semplicemente, gli individui come cittadini facenti parte di una comunità e quindi, per definizione, detentori del diritto di esprimersi e di decidere le sorti e la forma del proprio ambiente di vita, cioè la città. Questa è per me una certezza che risiede nell’essenza della città, invenzione che ha qualche millennio di storia e senza la quale dubito avrebbe potuto esserci la storia stessa.

L’unica incertezza e l’unico motivo di discussione, e anche di divisione, dovrebbe essere quello legato alla rappresentatività e alle modalità di accesso a quel diritto, vale a dire se ricorrere ad una democrazia diretta o ad una rappresentativa. Certamente è esclusa del tutto la possibilità che possano essere gli architetti a decidere da soli: non è proprio previsto nei moderni manuali di filosofia politica, essendo Platone superato da un pezzo, almeno su questo argomento.

Ray Lorenzo non lo conosco, le cose che dice nell’intervista mi sembrano molto ragionevoli e di buon senso. Credo tuttavia, ma davvero mi posso sbagliare, che l’esperienza di cui è portatore, cioè quella americana, non possa essere trasferita meccanicamente in Italia dato che penso che là la società civile americana sia molto più strutturata in maniera spontanea attraverso gruppi e associazioni libere da legami politici. In sostanza credo che la società civile sia molto più forte che da noi, dove tutto tende ad essere istituzionalizzato per essere ricompreso all’interno del più ampio e complicato processo politico. Ogni occasione da noi è buona per creare un’agenzia, un comitato ufficiale, un Ente, un gruppo di lavoro che, in un modo o nell’altro, fa riferimento a qualche forza politica o a qualche istituzione pubblica. Insomma mi sembra che in Italia il rischio di addomesticare ogni gruppo nato spontaneamente, quando non creato istituzionalmente dall’alto, sia altissimo.

Leggendo l’articolo di La Cecla sento parlare di facilitatori (un nuovo lavoro, né più né meno), di una stabile Agenzia a Torino e mi metto subito sul chi va là: qui c’è sotto qualcosa, qui non c’è nessuna spontaneità, qui c’è un sistema istituzionalizzato e addomesticato che poco ha a che vedere con la partecipazione vera. Assomiglia molto al Garante dell’informazione della Legge Urbanistica della Regione Toscana: non dico che sia un errore in senso assoluto, ma che sia da esaltare proprio no, perché la partecipazione per legge proprio non funziona, si riduce ad uno stanco rito privo di contenuti, come, ad esempio, le assemblee partecipative istituzionalizzate in ambito scolastico, ormai buone solo per saltare una mattina di lezione.
Personalmente, ma posso ricredermi, sono convinto che sia estremamente difficile coinvolgere davvero i cittadini nel corso del progetto. Ascoltare i cittadini prima è doveroso, saggio, utile e necessario, al pari di quello che avviene quotidianamente nel rapporto tra un architetto e il proprio cliente; progettare insieme ad una moltitudine di persone mi sembra utopico e non proprio agevole.
Credo invece, fermamente, nella scelta dei cittadini, nella consultazione popolare sul progetto o su più progetti. E’ successo spesso nel passato lontano e recente, deve succedere molto più spesso. E’ la democrazia, niente di più, niente di meno; è la politica.
E Botta che dice? Cosa può dire se ultimamente viene contestato a Genova, a Sarzana!
Alla domanda se può funzionare l’architettura partecipata, risponde: “Funziona dove l’architetto è in grado di dar forma al consenso. Che però può configurarsi anche come ‘rapina’… “.
Evidentemente lui ritiene di non essere adatto a dare forma al consenso ma anche a non fare rapine. Almeno la sincerità e l'onestà deve essere apprezzata.

3 commenti:

Salvatore D'Agostino ha detto...

Pietro,
registro una novità Mario Botta non è un archistar ma un maestro (qualche tempo fa avevo avuto dei dubbi guardando i tuoi progetti).
Perché gli edifici sono eterni?
Il Colosseo è eterno poiché rudere.
Gli Uffizi poiché trasformato in museo.
Piazza San Marco perché è un bazar per turisti ‘romantici’.
Gli edifici si trasformano (commercialmente) ogni giorno non sono eterni.
Non c’è edificio storico che non sia stato rimesso a nuovo.
Ma dov’è: «l’astronave levitante sul tetto» della Scala a Milano? Stai bene o mi devo preoccupare?
Nessuno disprezza le masse ignoranti, ma non possiamo pretendere da loro che siano prepararti in storia dell’architettura (neanche gli architetti lo sono).
Io affiderei un’operazione delicata a un chirurgo specializzato non chiederei il parere della gente.
Saluti,
Salvatore D’Agostino

Pietro Pagliardini ha detto...

Salvatore, questa volta ammetto che non sono stato chiaro. Cercherò di esserlo adesso. Premetto, come ho scritto più volte, che il termine Maestro per gli architetti mi fa venire il mal di pancia. Non riconosco nessun Maestro, non riconosco una storia dell'architettura fatta "per Maestri". Credo sia una degenerazione della nostra professione. Mi interessano le architetture e non gli architetti.
Ciò premesso, Maestro, riferito a Botta, voleva essere lievemente ironico, anche perchè se non riconosco i Maestri defunti come poteri riconoscerli in vita?
Quanto ai miei miei progetti, non ho capito cosa diavolo c'entri, ma pazienza. Forse ti riferisci all'imitazione, che io considero l'anima dell'architettura? Un anziano e bravo collega dice: certo che si copia, l'importante è copiare bene. Credimi, non è facile. Ma non violare una regola non scritta: qui si parla di idee, se ci sono, non di progetti personali e non riuscirai a trascinarmi su questa strada.
Anche sul progetto della Scala di Milano, che io considero uno dei suoi peggiori e uno dei peggiori in assoluto tra quelli "importanti" degli ultimi anni in Italia, non sono stato preciso: è un ferro da stiro colossale sui tetti di Milano.
I chirurghi specializzati, vivaddio, non creano ad ogni intervento, non si fanno chiamare Maestri, non inventano ogni volta la ruota come pretendono di fare gli architetti, ma applicano metodiche consolidate imparate da altri, cioè copiate dai maestri, o magistri, vale a dire da coloro che gliele hanno insegnate.
Poi ci sono i ricercatori che sperimentano nuove metodiche, che vengono applicate dopo una sperimentazione e solo dopo che c'è una ragionevole certezza sull'efficacia. Invece i nostri Maestri e i Maestri de' noiantri, si sentono autorizzati a sperimentare sempre, sulla pelle degli altri, cioè di tutti i cittadini.
Tu conserva la tua visione prometeica dell'Architetto che io mi tengo la mia dell'architetto.
Spero di essermi spiegato un po' meglio.
Ciao
Pietro

Pietro Pagliardini ha detto...

Scusa Salvatore, mi sono ricordato di risponderti sull'eternità.
Ma è del tutto evidente che ogni edificio, l'architettura tutta, nasce nelle intenzioni del suo autore, sia ignoto, famoso, architetto o muratore, opera individuale o collettiva per essere eterna.
E se oggi vi sono architetti che costruiscono opere provvisorie lo fanno per diventare loro famosi e perciò eterni. C|'è superbia ma sempre all'eternità ci si riferisce.
Saluti
Pietro

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