Pietro Pagliardini
Un titolo di giornale su un fatto apparentemente marginale avvenuto nella mia città mi offre lo spunto per tornare sul tema delle strade.
“Il mercato nell’area delle caserme ha fatto flop”, questo è il titolo del giornale sullo spostamento provvisorio del mercato rionale da una piazza in ristrutturazione ad un altro luogo. Non è tanto interessante il fatto locale, anche perché si tratta di una inevitabile operazione temporanea in attesa della fine dei lavori nella sede storica del mercato, quanto è invece sintomatico delle aspettative e delle speranze che si ripongano sulle “funzioni”, per la “riqualificazione” di certe aree urbane.
La formula tipica è: prendi un’area dismessa o mai utilizzata, spremiti il cervello per trovargli una funzione principale e alcune altre accessorie, mettici un po’ di residenza, magari facci un bel concorso d’idee e l’area è ri-qualificata. Sembra quasi che ciò che si desidera automaticamente si dovrà avverare, grazie alla mitica, ricorrente, parola “funzione”; è solo una dimostrazione di perdita del senso di realtà dovuta, in questa caso, alla mancanza di una lettura della città.
D’altra parte anche le leggi urbanistiche prevedono il piano per la “distribuzione delle funzioni”, formula che da sé la dice lunga sull’ideologia che guida il legislatore e, di conseguenza, l’urbanistica applicata alla redazione dei piani.
Un articolo della Legge Urbanistica Toscana dice tra l’altro:
“Con riferimento a ciascun ambito la disciplina della distribuzione e localizzazione delle funzioni individua e definisce:
a) le funzioni non ammesse anche in relazione a singoli complessi immobiliari, a singoli immobili o a parti di essi;
b) le quantità massime e minime per ciascuna funzione in relazione alle reciproche compatibilità;
c) i mutamenti di destinazione comunque soggetti a titolo abilitativo;
d) le condizioni per la localizzazione delle funzioni in determinate parti degli ambiti;
e) specifiche fattispecie o aree determinate nelle quali il mutamento delle destinazioni d’uso degli immobili, in assenza di opere edilizie, è sottoposto a denuncia di inizio dell’attività.
4. La disciplina della distribuzione e localizzazione delle funzioni ha validità quinquennale”.
Ho citato questo articolo per mostrare quanta importanza si attribuisca alle funzioni e con quanta meticolosità esse debbano essere regolate, quantificate, casa per casa, addirittura. E’ un piano quinquennale, per l’appunto, che corrisponde alla durata di un Consiglio Comunale, ma che non può non evocare famosi antenati dei quali rinnova i fallimenti. E’ vero che la legge non dice di prevedere alcune funzioni piuttosto che altre né dice che deve esservi mono-funzionalità, ma chi deve interpretare ed applicare queste leggi nei piani non può non ragionare in termini di zonizzazione e, infatti, molti continuano ad applicarla rigorosamente.
E’ un circolo vizioso: le leggi urbanistiche le fanno gli architetti regionali ma il fatto è che poi queste leggi vengono applicate e l’approccio dirigista che le guida tende a determinare l’impostazione di tutto il piano e questa cultura si auto-alimenta.
Si stimola in questo modo un metodo che privilegia il software urbano, cioè il metodo secondo cui la città dovrebbe funzionare secondo gli schemi del pianificatore, basandosi su funzioni, il più delle volte astratte perché imposte dall’alto, ma, anche se realistiche, sempre a tempo, transitorie, legate ad un determinato momento storico ed economico e destinate inevitabilmente a morire e trasformarsi. E’ in questo momento, quando la funzione si esaurisce o decade, che conta l’hardware della città, cioè la sua conformazione urbana, la sua rete viaria, la centralità vera o la marginalità di piazze o aree particolari.
Se nella fase del progetto, e prima ancora di lettura della città, non si è tenuto conto della possibilità, anzi della certezza del decadimento di quella funzione principale, la capacità attrattiva dell’area rischia di non iniziare nemmeno e, se inizia, inevitabilmente avrà una fine, e con essa anche l’area degraderà.
D’altra parte questo metodo sembra funzionale ad un sistema della comunicazione che mette in primo piano l’evento, che sia esso di carattere architettonico o legato a qualche manifestazione; quale giornale importante e, a maggior ragione, quale TV prenderanno mai in esame o faranno un servizio su una zona della città "normale", che non abbia eventi particolari, che non sia capace di attirare l’attenzione del giornalista e del pubblico? La normalità, è noto, non premia le vendite.
L’architettura e l’urbanistica, predicando l’oggetto unico e singolare piuttosto che l’insieme e il contesto, si sono focalizzate sull’evento ormai da decenni, oggi in maniera addirittura parossistica, e il fenomeno archistar è solo la parte emergente dell’icerberg (per questo va combattuto). Il guaio è che la politica, in specie quella locale e con distribuzione del tutto bipartisan, in molti casi si è accodata con entusiasmo e senza filtro critico a questa tendenza, trovando in essa la possibilità di apparire, di fare qualche intervista, qualche mostra, qualche inaugurazione. Esiste, insomma, una perfetta sinergia tra urbanistica e architettura dello spettacolo da una parte e politica dall’altra, il tutto però a scapito della qualità della città.
Ecco dunque lo stupore di alcuni sul fatto che un luogo marginale, nonostante la pubblicizzazione sui giornali, superato il primo momento di curiosità, non attiri più persone. Se un’area abbastanza centrale è da cent’anni utilizzata per un uso assolutamente specialistico, nel caso specifico caserme dell’esercito, un motivo ci dovrà pur essere! C’è da pensare che già prima di questo uso non fosse evidentemente idonea a certi usi urbani, non fosse cioè nodale. Ora è certamente possibile che per una serie di trasformazioni avvenute al contorno possa esserlo diventata ma, nel caso specifico, non è avvenuto. Prima c’erano orti conventuali e poi caserme. Siamo di fronte ad un grande isolato chiuso che difficilmente potrà diventare un luogo con una sua centralità.
Se questo fosse vero, ed è vero, non c’è funzione che potrà farla diventare tale, almeno nel lungo periodo. Da qui il flop del mercato: perché la gente dovrebbe andarci apposta? Tanto vale, purtroppo, prendere l’auto e andare al supermercato dove c’è il parcheggio e dove trova tutto. Ripeto, in questo caso il problema è solo temporaneo, perché i banchi torneranno al loro posto a lavori finiti e gli affari degli ambulanti rifioriranno, e la vita riprenderà laddove c’è sempre stata e dove la gente transita in maniera naturale, lungo una direttrice importante e vicina la centro. Ma l’esperienza dovrebbe insegnare qualcosa sulle funzioni e sul perché non siano esse, da sole, a determinare la vita di una piazza o di una strada. Questa nasce di conseguenza all’esistenza di una rete di strade gerarchizzate (tradizionali, cioè delimitate da edifici e non da vuoto) che creano in determinati punti dei nodi i quali, in base ad una legge geometrica, sono attrattori di informazione, vale a dire di persone, di attività economiche o sociali.
E’ in questi nodi che si collocano certe attività di carattere urbano, che rivestono cioè un’importanza simbolica e sociale per la stragrande maggioranza dei cittadini. Certo, all’origine può essere una funzione a costituire, nel tempo, un nodo (una abbazia, un convento, forse anche un centro commerciale) ma in un tessuto preesistente e consolidato questo non avviene o è molto difficile che possa avvenire.
Sono certo invece che qualcuno penserà, nel caso da cui ho preso spunto, che il mercato non sia la “funzione” giusta e che basterà, cioè, “azzeccare” quella giusta e il gioco sarà fatto.
Non è così, la forza delle regole della città vince sempre alla lunga, l’effimero è perdente.
In ambito urbano non è la forma (hadware) a seguire la funzione (software) ma è la funzione che si colloca entro la forma.
Foto tratte da Google Earth:
Foto in alto Aree Caserme
Foto in basso: al centro sede storica del mercato
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