Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


8 novembre 2009

MURI CADUTI E MURI...CADENTI

Pietro Pagliardini

Durante la presentazione del libro di Nikos Salìngaros, No alle archistar, LEF, 2009, tenutasi a Firenze, si è svolto un dibattito che, dato il tema, non avrebbe potuto che essere alquanto radicalizzato.
Ma non è questo l’argomento, quanto la seguente affermazione del Prof. Arch. Gianfranco Di Pietro, che presentava il libro, detta a completamento di un suo punto vista sulla pensilina di Isozaki a Firenze:
Una cosa è sicura: nei centri storici non si deve più costruire architettura contemporanea”.



Prima un brevissimo profilo del Prof. Di Pietro: in Toscana è stato, per lungo tempo, tanto autorevole quanto temuto membro della C.R.T.A, in pratica la commissione urbanistica della regione presso la quale tutti i PRG e i piani attuativi dovevano necessariamente transitare, oggi abolita ma allora dotata di ampi poteri decisionali, di interdizione e di indirizzo (e di cui si comincia a rimpiangere la fine). Redattore di piani regolatori, piani paesistici, piani territoriali di coordinamento, tra cui quello delle Province di Arezzo e Siena, i suoi piani sono impostati su schedature dettagliatissime e su norme fortemente vincolistiche. Ha svolto attività di progettazione sia nel campo della nuova edilizia sociale che nel recupero di fabbricati storici. Già docente di urbanistica alla facoltà di Architettura di Firenze, ha pubblicato libri insieme ad Edoardo Detti.

Premetto che Di Pietro, pur condividendo la critica del libro al fenomeno archistar, non ha nascosto le sue perplessità in ordine all’analisi di Salìngaros, da me invece condivisa, che buona parte del disastro architettonico e urbanistico delle nostre città affonda le sue origini nelle avanguardie del novecento, ed ha anche detto di provare ammirazione, per la loro impronta etica, per diversi interventi di quel tempo, citando in particolare il Weisenhof e le Siedlungen di Bruno Taut.




Cosa c’è dunque dietro l’idea stessa di escludere ogni forma di architettura contemporanea dai centri storici da parte di chi non rifiuta affatto l’architettura moderna?
A quali conseguenze porta un scelta di questo tipo?
La più semplice ed immediata risposta è l’ovvia constatazione che tra il contrasto e il contesto è preferibile quest’ultimo. Non ha detto infatti: non bisogna intervenire nei centri storici ma: "non bisogna farlo con progetti che sono per loro natura dissonanti e contrastanti".

Dunque un architetto che apprezza l’architettura moderna esclude che questa possa armonizzarsi con l’architettura della storia. Ma il prof. Di Pietro non è solo amante dell’architettura moderna, è anche un tipologo e un appassionato custode dei centri storici e del paesaggio.
La contraddizione è tanto evidente quanto, per assurdo, apparente.

E’ evidente perché certifica il riconoscimento di una indiscussa superiorità dell’architettura del passato su quella presente. Se, infatti, così non fosse e dato che la città storicamente si è sempre trasformata ed evoluta con l’aggiunta e la sovrapposizione di edifici di epoche successive fino alla configurazione attuale che noi tanto apprezziamo, allora non si capirebbe il motivo per cui non dovrebbe continuare a crescere con edifici contemporanei.

La contraddizione è tuttavia apparente per il fatto che modernità fuori e conservazione dentro sono due facce della stessa medaglia, la conseguenza di quella rottura violenta con la tradizione e con la storia voluta dalle avanguardie che segna una linea di confine netta e invalicabile tra un prima e un dopo e perciò anche tra un centro e una periferia. In giorni di celebrazione del 9 novembre 1989, è fin troppo facile la metafora della costruzione di un “muro” che divide un passato superbo, ritenuto morto, da un futuro fatto di sperimentazione di nuove forme architettoniche e urbane di cui l’avanguardia rivendica la paternità e la guida.

Io credo che questa “doppia morale”, mi piace chiamarla così, ha sì il merito di salvare il centro storico ma condanna la città nel suo complesso.
Di Pietro ha detto, e c’è del vero, che la ricerca effettuata nella prima metà del secolo affondava le sue ragioni nei velocissimi cambiamenti sociali ed economici delle società occidentali e che occorreva perciò trovare risposte a nuovi fenomeni quali la mobilità individuale e collettiva, l’inurbamento e la formazione di nuove classi sociali, ecc. Tuttavia è altrettanto vero che la oleatissima macchina dell’avanguardia non è stata capace di accorgersi in tempo del fatto che le soluzioni date erano profondamente sbagliate sia nelle forme architettoniche, completamente prive di ogni radice con il passato e quindi non accettabili proprio da coloro verso cui diceva di orientarsi la ricerca, cioè gli esseri umani (ed esistono prove in tal senso divertentissime sulla trasformazione spontanea da parte dei residenti di nuovi quartieri funzionalisti), sia nella struttura della città, la quale ha dovuto subire la rozza ed elementare razionalizzazione di essere frammentata in zone diverse che tuttora viene insegnata e perpetrata e di cui la città tutta, compreso il centro storico (che ha assunto appunto questa sacrale funzione), sta pagando il prezzo.

L’avanguardia non ha saputo né voluto fermarsi ed ha cristallizzato il suo potere e la sua ideologia occupando tutti gli spazi possibili e anche di più. Da avanguardia che voleva essere si è trasformata nella peggiore accademia, con i relativi accademici, fondendosi con il potere economico dei media fino alla sua forma più evoluta nell’ambito della globalizzazione con il fenomeno delle archistar, i divi creatori di forme nuove per definizione, indifferenti ai luoghi e alle genti, ogni nuovo progetto delle quali “deve” diventare evento mediatico globale per vendere gli stessi oggetti edilizi a Dubai come a Ostia, a New York come a Savona.

Se dunque l’identità dei luoghi e dei popoli va perduta con l’architettura moderna e tanto più contemporanea, è opportuno conservare e congelare ciò che resta del patrimonio storico urbano e architettonico come un reperto archeologico.

Questa, credo, sia la molla che crea questa “doppia morale”. Fare i conti con la storia significa anche salvare quel poco di buono che può esserci stato e gettare a mare tutto il resto senza rimpianti; non significa, invece, perfezionare ciò che è sbagliato in origine, non significa arrampicarsi sugli specchi giustificando gli errori come “deviazioni”, significa riconoscere un fallimento e basta, al pari dell’abbattimento del muro di Berlino che è un gesto liberatorio di condanna totale di un passato sbagliato e disumano. Ma non è facile che avvenga, o almeno non dal di dentro, visto che insieme al muro cadrebbero anche i suoi fedeli Vopos.

A coloro che in questi giorni condannano e dileggiano i “frattali”, consiglio di fare i conti con ciò che esiste e che hanno davanti agli occhi ogni giorno, e di cui potrebbero essere in parte responsabili, invece di trastullarsi nel gioco autoreferenziale del critico che si scaglia contro ciò che potrebbe minare la sua personale posizione di potere.

Oggi riprendere il cammino interrotto vuol dire, prima di tutto, cercare di ricostituire un corpo disciplinare minimo condiviso tra gli architetti e soprattutto nelle università, dopo aver fatto i conti veri con la storia e mettendo da parte la folle idea primaria di creatività e artisticità e puntare sul mestiere.
E’ necessario tornare a fare della buona edilizia e riporre l’Architettura nella valigia dei sogni di ognuno di noi, pronta ad essere tirata fuori nei rari casi della vita in cui è lecito pensare di fare ricorso ad essa, e non scomodarla in ogni circostanza, come inculcato nelle aule universitarie e come mostrato nelle riviste, dal caminetto della signora Gina alla riqualificazione delle piazze del sindaco di turno. Questo significherebbe, parafrasando Di Pietro, dare una forte impronta etica al nostro mestiere.

8 commenti:

memmo54 ha detto...

Purtroppo se si vuole iniziare un discorso “perlomeno sensato” bisogna mettere da parte quello che pensano gli architetti: specie se sono parte in causa nel caos e nella confusione.
Meglio ascoltare desiderata, necessità financo opinioni di minuti abitanti; meglio ascoltare i filosofi del linguaggio , meglio ascoltare “addirittura” i sociologhi; matematici, fisici, chimici, macchinisti e linotipisti, piuttosto che perdere tempo dietro la prosa fiorita e stucchevole dei panegirici dedicati i cultori del “…attenzione alla grande dimensione urbanistica che non trova corrispettivi nel contesto romano e, insieme, un’attenzione, consapevole, al dettaglio tecnologico che tocca le più piccole scale senza scadere in artificiose leziosità decorative mentre l’articolazione dei grandi volumi terziari trova modo di alleggerire le grandi masse che si sfrangiano avvolgendosi nelle spire delle scale di emergenza capaci di affermarsi come protagoniste nel disegno dell’intero insieme.”
Peccato si tratti, per chi non lo sa , di smisurati scatoloni di c.a. addobbati da esili infissi rossi e non delle “case popolari” di Garbatella o di Trionfale realizzate dallo stesso ICP.
Meglio ricominciare da capo. Questa prosa, confusa per critica architettonica, pur troppo (…per i giovani ...) non lo è affatto.
Trattasi semplicemente di copertura ideologica a misfatti edilizi cui solo il tempo e l’invenzione portentosa del più famoso degli svedesi, potrà porre rimedio.

Pietro Pagliardini ha detto...

Sarei proprio curioso di sapere il nome dell'autore di quella prosa in perfetto architettese!
Ma in fondo a che serve saperlo, potrebbe essere chiunque, uno vale l'altro.
"Artificiose leziosità decorative": chi le ha mai viste le decorazioni da decenni a questa parte?
Non c'è alternative al ricominciare d'accapo, non ci sono altre strade: o si riprende il discorso interrotto o continuerà tutto come adesso. Non c'è spazio per soluzioni mediane o terziste.
saluti
Pietro

Vincenzo Corrado ha detto...

“Una cosa è sicura: nei centri storici non si deve più costruire architettura contemporanea”...
si deve costruire costruire architettura contemporanea travestita da non contemporanea...come dire...costruiamo oggi quello che avrebbero potuto fare ieri,ma con i materiali di oggi, con le tecnologie di oggi, ma con l'aspetto del ieri...ma lo facciamo oggi...insomma...un altro cassotto by SALINGAROS&C.... direi da rivedere

Anonimo ha detto...

“Una cosa è sicura: nei centri storici non si deve più costruire architettura contemporanea”.
Pietro, Vincenzo ha perfettamente ragione, la frase è demenziale.

Vilma

Pietro Pagliardini ha detto...

A Vilma e Vincenzo.
A me sembra la constatazione, la presa d'atto, la certificazione di un fallimento. In realtà Di Pietro disse anche altro; disse che l'architetto Detti, che aveva lavorato con Carlo Scarpa, gli riferì che lo stesso Scarpa confessò che era un bene che il progetto di Wright non fosse stato eseguito a Venezia. E Scarpa era un grande ammiratore di Wright!
Evidentemente anche Scarpa aveva colto questa impossibilità di convivenza, lui che pure ha fatto splendidi inserimenti nell'antico. Ma la città è altra cosa dall'edificio.
Sergio Los in un convegno a Firenze disse: "Bisogna prendere atto che la nostra epoca non sa costruire città, sa produrre ogetti splendidi, auto, va sulla Luna, ma non sa fare le città".
Questa è ben più categorica della prima.
Ciao
Pietro

Vincenzo ha detto...

sulla seconda si può discutere...ci sto..ma a me sembra ben diversa dalla lapidarietà "razzista" della prima...io non mi arrendo, sarò giovane e pieno di "illusioni", ma io non mi arrendo...voglio fare architettura dove è necessario farla...e dove mi sarà possibile farla...speriamo bene..
a ri-saluti

Pietro Pagliardini ha detto...

Vincenzo, che tu abbia voglia di fare il tuo mestiere è assolutamente normale. Il punto è come farlo.
Se sei possibilista sull'affermazione categorica di Los, però, non puoi tenerla slegata e indipendente da quella di Di Pietro. Entrambe partono dalla constatazione l medesima realtà.
Prendiamo i soliti esempi di sempre: la Scala di Botta, una forma assurda sopra i tetti di Milano, l'Ara Pacis (non ho parole pe dirne tutto il male possibile), ecc. Poi ci sono i numerosi interventi diffusi nelle varie città: la piazza Santa Maria Novella a Firenze ne è un esempio, con incredibili panchine uso boutique che sono solo un segno di arroganza nel volersi confrontare con la chiesa dell'Alberti ma il cui risultato è assolutamente miserevole.
Non sta scritto da nessuna parte che "bisogna lasciare il segno", solo nella mente degli architetti. Sta scritto invece nel DNA della città che la sua crescita deve essere evolutiva e non rivoluzionaria, e infatti la città contemporanea è un fallimento e mi sembra che questa constatazione cominci ad insinuarsi e a minare anche le certezze più granitiche.
Saluti
Pietro

DARIO ha detto...

Interessanti le teorie di questo fisico-matematico di nome Salingaros! Ma hai qualche suo lavoro concreto da proporre, cioè cosa ha fatto? Ha partecipato a piani urbanistici? Ha prodotto qualche architettura?
A leggere delle sue teorie mi sembra solo un visionario nostalgico delle antichità ... non per denigrare il suo libro ma insomma prendersela con le Archistar e farne un capro espiatorio è un po' infantile. Il libro mi interessa e vorrei leggerlo ma da quallo che ho reperito su internet mi ha dato l'impressione che voglia proporre solo del "falso storico" per le nostre città. In centro a Firenze vorrebbe forse costruire palazzi rinascimentali? E a Roma? Ci buttiamo sul neoclassico o sul barocco? Forme e stili non sono casuali e se si sono evoluti ci sarà pure un motivo. Altrimenti la città che vorrebbe proporre in realtà esiste già ... si chiama Las Vegas!

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