Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


29 agosto 2009

L'ARTISTA IMPRENDITORE

Pierre Sauvanet, in Elementi di estetica, Il Mulino 2009, così descrive l’evoluzione della condizione dell’artista avvenuta tra l’800 e il ‘900:
È dunque per progressiva derivazione che la parola «artista» si è estesa alle altre arti oltre che alla pittura e la poesia. Ciò facendo, ha portato con sé in tutte le arti il suo seguito di significati simbolici: vocazione, bohème, artista maledetto, ispirazione, genio, follia, malinconia, eccetera.
La sociologa Nathalie Heinich distingue tre, anzi quattro fasi nell’evoluzione dello status dell'artista: mestiere, professione, vocazione, e vocazione accentuata in regime di singolarità. Per la prima fase, quella del mestiere, le stesse parole «arte» o «artista» non esistono; gli artigiani pittori del Medioevo appartengono a una corporazione e sono relegati ai gradi più bassi della scala sociale. La seconda fase, quella della profes¬sione, corrisponde a una volontà di emancipazione dell'artigianato, e di riconoscimento dell'arte come arte liberale.



Quanto alla vocazione come terza fase, appare verso il 1830 (con il termine «apprendista»), si conferma alla fine del XIX secolo (in particolare con la figura di Van Gogh) e non fa che affermarsi nel secolo seguente (in particolare con la posizione di Duchamp): gli artisti evocano ora il primato della vocazione sull'apprendistato, dell'innovazione sulla tradizione, e del genio sul lavoro. È questo mito dell'artista assolutamente singolare, dapprima associato alla vita da bohème, poi all'originalità a tutti i costi, che, a torto o a ragione, ancora oggi è alla base di buona parte delle nostre rappresentazioni.

L'artista in regime di singolarità moltiplica allora i paradossi: come essere ancora singolare quando l'essere fuori dalla norma diviene la norma? Come sfuggire ai modelli volendo divenirne uno? L'anti-accademismo non è a sua volta un nuovo accademismo? E così via. Da qui, questa logica conseguenza: «L'artista non sarà più colui che produce delle opere d'arte, quanto colui che riesce a farsi riconoscere come artista».

Al limite, la questione dell'artista oggi non è più quella dell'arte, e nemmeno dell'opera, ma quella del riconoscimento. Oggi ad un artista - salvo eccezioni - produrre un'opera durevole interessa meno che essere immedia¬tamente riconosciuto dal mercato fluttuante in una società effimera. Ecco per esempio cosa rispondevano rispettivamente l'austriaca Elke Krystufek e il cinese Cai Guo-Qiang a una domanda della rivista «Beaux-Arts Magazine» all'alba dell'anno 2000 («secondo voi, che cosa significa essere artista oggi?»): «Viaggiare tutto il tempo. Passare più tempo a parlare con la gente che al lavoro. Passare più serate a delle cene d'affari o delle feste che nel proprio atelier»; «significa che bisogna correre alle ambasciate per ottenere nuovi visti, passare la dogana, attendere una sistemazione, prendere aerei, ispezionare dei siti, fare proposte e calcolare budget, tutto ciò sopportando il cambiamento di fuso orario...» [«Beaux-Arts Magazine» 1999, 26]. Si potrebbe dire che l'artista contemporaneo deve comportarsi come il capo di un'impresa, il capo della propria impresa artistica, che porta il suo nome, la sua firma, e che vende i suoi prodotti attraverso una rete internazionale di distribuzione. In ogni caso, essere un artista è divenuto «fare l'artista», cioè essere obbligato a recitare un ruolo, a mettere in scena sé stesso. Per essere riconosciuto, è ridotto alla tautologia: l'artista non fa altro che produrre ritratti dell'artista come artista
”.

Mi sembra una rappresentazione distaccata dell’evoluzione della percezione che l’artista ha di se stesso e del suo ruolo nella società e in cui, sostituendo Architetto ad Artista, si può leggere lo stato dell’architettura contemporanea, di cui la manifestazione paradossale delle archistar è la punta dell’icerberg e il punto di arrivo di un processo iniziato proprio con le avanguardie artistiche.

Le archistar, al pari dell’artista contemporaneo di successo, sono vere e proprie aziende produttrici di progetti che non conterebbero molto in se stessi, se non fosse che, a differenza dei quadri, permangono nel tempo nelle città a inquinarle e, soprattutto, a sconvolgere l'evoluzione disciplinare e l’insegnamento dell’architettura.

8 commenti:

Anonimo ha detto...

Anne Cauquelin in un suo celebre testo rieditato e tradotto innumerevoli volte. ("L'art contemporain ", 1992) individua nella triade Marcel Duchamp, Andy Warhol, Leo Castelli (gallerista che creò una vera e propria rete di gallerie d’arte in tutto il mondo per promuovere l’arte moderna americana e la pop art) l’origine della “situazione postmoderna” dell’arte, sorretta da una formidabile rete di comunicazione commerciale, una macchina per far soldi nella quale “ … il contenente prende il sopravvento sul contenuto: è la 'messa in vista' ('questa è arte') che genera il significato, non le opere; è la rete che esibisce il suo proprio messaggio: ecco il mondo dell'arte contemporanea".
Del resto Warhol, una sorta di genio del ‘male’, ma pur sempre genio, afferma con lucida spregiudicatezza: “Business art is the step that comes after Art. I started as a commercial artist, and I want to finish as a business artist. After I did the thing called "art"or whatever it's called, I went into business art. I wanted to be an Art Businessman or a BusinessArtist”.


Non stupisce che l’architettura di oggi sia contaminata dallo stesso spirito, le avanguardie del ‘900, un fenomeno di portata generale che esprime con largo anticipo una nuova visione non solo dell’arte, ma del mondo intero, ci dicono che la cultura non è definita per scompartimenti stagni, ma permea intere epoche con quello che definiamo ‘spirito del tempo’.
Mi sembra semplicistico, Pietro, dire che l’architettura moderna ‘inquinerà’ le città del futuro, solo in futuro lo sapremo (lo sapranno), personalmente sono convinta che l’architettura del nostro tempo resterà a testimoniare il nostro tempo, bello o brutto, liquido o meno, e ben vengano lo sconvolgimento dell’evoluzione disciplinare e dell’insegnamento dell’architettura: “Esercitarsi a guardare la realtà da punti di vista diversi, sforzarsi di trovare analogie tra fenomeni apparentemente lontani tra loro, conservare anche da adulti la sana curiosità dei bambini: così si potenzia la capacità di fornire risposte originali a problemi sempre nuovi.” (Alberto Oliviero, ‘Come nasce un'idea’, 2006)

saluti
Vilma

Pietro Pagliardini ha detto...

vilma, in effetti io dico che inquinano, ora, adesso, e questo è ovviamente un mio punto di vista. Per il futuro non azzardo previsioni ma, a lume di naso, se un materiale è inquinante l'unico modo per eliminare il problema è eliminare il materiale. Dunque se è inquinante oggi lo sarà anche in futuro. A meno che inquinante non sia il termine giusto e allora cade il ragionamento.
Ma io credo lo sia, e parecchio.
Ciao
Pietro

Anonimo ha detto...

Pietro... resto sempre più allibito degli strafalcioni culturali che qui dentro siete capaci di produrre. Per fortuna non siete degli archistar, secondo la tua logica inquinereste mezzo mondo.

Saluti
Robert

Pietro Pagliardini ha detto...

Robert, incasso volentieri la critica ma non mi dispiacerebbe affatto che tu me la spiegassi, altrimenti rischiamo di entrare in un battibecco inutile che diventa la fotocopia del dibattito politico in corso a livello nazionale.
Saluti
Pietro

Anonimo ha detto...

in effetti, Robert, non si può lanciare il sasso e nascondere la mano .....
Vilma

Emmanuele ha detto...

Sono daccordo con la lettura di Nathalie Heinich, un po meno con il paragone tra artista ed archi-star (anche se non sono in disaccordo). Vilma Tomassetti giustamente cita il triangolo maledetto con cui le istituzioni dell'arte si sono trasformate in merceificio. Aggiungerei anche Danto, che ne ha dato la benedizione critica. L'ultimo numero di Àgalma (numero 17, Arte senza opere) indaga proprio su questo tema, e se ti interessa te ne consiglio la lettura (lo faccio con un certo imbarazzo, dato che vi ho scritto anche io un saggio, e peccherei di immodestia consigliandolo. Ma i saggi di cui mi sono fatto compagnia sono veramente interessanti). Sull'archistar, io sono un po recalcitante, anche se non completamente. Infatti direi che l'ultima ondata, l'ultima maniera, quella che vede gli studi più giovani mettere oggetti curiosi in edifici banali per farsi pubblicare, oppure al contrario ma con lo stesso intento, che vede la proposta più controversa ed irrealizzabile. Il problema vero è però un regime comunicativo massivo che rende impossibile l'identificazione della qualità, e l'emersione della controversia sul dialogo, della sconsideratezza sull'innovazione. Ugualmente in arte, il discorso è lo stesso. "L'essere artista", senza far arte, è la deriva ultima di questo regime di storicità. Eppure "L'arte senza opere" ha una nobile origine, dall'ozio creativo, al situazionismo. Ora è solo un modo "cool" di essere flaunearistico.
PS: Apprezzerai senz'altro la lettura dell'ultimo testo di Perniola: Miracoli e Traumi della comunicazione.

Pietro Pagliardini ha detto...

Scusa Emmanuele, forse sono solo ignorante ma quando citi Vilma Tomassetti, che io non conosco, ti riferisci proprio a lei o è un refuso che sta per Vilma Torselli?
Lo chiedo solo per chiarezza.
Saluti
Pietro

Emmanuele ha detto...

Sì hai ragione, non ricordavo il suo cognome

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