Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


10 aprile 2009

PIANO CASA, DENSIFICAZIONE, NEW-TOWNS

Pietro Pagliardini

Dopo circa un mese dal suo esordio non si può non prendere atto che il tanto inizialmente vituperato Piano Casa sta ottenendo lo scopo di cui parlavo nei precedenti post e negli innumerevoli commenti lasciati nei vari blog: oltre alla futura finalità economica, far discutere in positivo sulla città contemporanea, sull’urbanistica, sui suoi fallimenti e sui criteri da seguire per modificarla profondamente.
Una legge semplice, senza astruserie e ridondanze (ma ancora devono arrivare le Regioni), senza dichiarazioni di principio come è d’uso ormai nelle varie leggi urbanistiche che sembrano catechismi urbanistici da Stato Etico che impongono “comportamenti” , e quindi stabiliscono “colpe”, più che norme legislative, che dettano regole e stabiliscono infrazioni, ma una legge che ha riacceso un interesse sopìto da tempo.

Densificazione e new towns sono diventate le parola d’ordine e mentre sulla prima c’è una certa convergenza di pareri, sulle seconde c’è opposizione o diffidenza.

Densificazione è una bruttissima parola che possiede tuttavia il dono di farsi capire da tutti anche se la legge non la utilizza mai; la legge dice solo che è possibile demolire e ricostruire con un premio volumetrico.
Da questa possibilità ne ricavavo la necessità di utilizzarla soprattutto in quelle aree marginali alla città del tutto prive dei requisiti urbani per renderle più dense e integrarle con le città stesse.

Densificare è però necessario ma non sufficiente; questa legge ha il pregio di essere uno strumento affidato alle scelte della società civile che potrà farne l’uso che vuole e di cui sarà capace; non impone regole se non quantitative e il resto spetta al mondo della cultura e della politica. Densità non dice infatti nulla sul risultato qualitativo che si intende ottenere.
Se dietro non c’è un’idea di città, se si intende proseguire con la cultura urbanistica dominante fino ad oggi che ha portato alle periferie e alle aree marginali attuali non solo si perde un’opportunità grande, ma si rischia di aggravare la situazione di parti di città già degradate. E a poco varrà affidarsi al solo risparmio energetico che, in termini di apporto globale non avrà un valore significativo, perché è lecito supporre che gli edifici da demolire siano prevalentemente dismessi, quindi a consumo zero, mentre quelli da ricostruire consumeranno, se pur poca, energia; per cui il bilancio energetico totale, alla fine, non potrà che essere negativo o prossimo allo zero.

Demolire e ricostruire nelle periferie vuol dire tessere l’ordito stradale che ancora non esiste, riempire i vuoti per unire brandelli di città, trovare spazi pubblici e verde urbano.

E’ il momento della svolta, è il momento di disegnare città con le regole che hanno sovrainteso alla crescita delle nostre città storiche.

E’ il momento in cui la strada deve tornare ad essere l’elemento generatore della trama urbana, abbandonando il lotto razionalista con l’edificio che vi fluttua dentro, indifferente agli edifici e alla strada stessa, banale accostamento casuale di oggetti di (scarso) design.

E’ il momento dell’isolato che aumenta la densità senza eccessivi sviluppi in altezza che restituisca ai cittadini il piacere di abitare in una città autentica e dia loro la possibilità di intessere normali rapporti sociali con gli altri individui lungo la strada finalmente percorribile anche a piedi e non solo funzionale al traffico veicolare. La città è il luogo della socialità, dello scambio di merci, di cultura e anche di sentimenti umani che non sono affatto cambiati come da più parti si tende a far credere. Senza città non esiste forma di civiltà umana possibile e l’unica città in grado di garantirla è quella tradizionale.

Le piazze non dovranno più chiamarsi tali solo per via della targa, ma diventarlo realmente quali risultanti di nodalità cui concorre il disegno gerarchico della rete stradale, la quale dovrà tenere conto delle relazioni territoriali esistenti e delle preesistenze naturali o artificiali.

Dovrà finire la zonizzazione funzionale, che ha diviso la città in reparti stagni ognuno dei quali è abitato alternativamente solo di giorno o solo di notte, per fare posto al mix di funzioni.

L’edilizia sociale non dovrà avere niente che la possa distinguere come tale e dovranno avere fine i quartieri popolari che nascono, oggi più che mai con il fenomeno dell’immigrazione, con il marchio della diversità e dell’emarginazione.

Densificare per fare città belle.

E’ difficile tutto questo e forse è un’illusione ma non è né utopia né fuga in avanti.

Per ottenere questo risultato, tuttavia, dovrà essere accantonata la mentalità della complicazione burocratica fine a se stessa e il sacrificio del principio di realtà a leggi irrazionali e incomprensibili. Non che la realtà sia semplice o che la Legge debba essere disattesa ma quando questa diventa non solo ostacolo insormontabile alla realizzazione in tempi ragionevoli di piani e di opere necessarie e in più cozza contro elementari principi di libertà significa che ad essere sbagliata la Legge e non la realtà delle cose. Il rapporto tra realtà e Legge è sempre bi-univoco nel senso che l’una crea l’altra e viceversa ma quando questo rapporto diventa univoco, come sta accadendo da anni ormai a tutto vantaggio della Legge, significa che nella società si è insinuato un virus capace di fiaccare la volontà e le coscienze e di far scadere il mondo reale a pura astrazione.
E’ necessario perciò che gli architetti tornino a fare il loro lavoro e abbandonino le procedure dell’urbanistica, che nelle loro mani si sono trasformate da mezzo a fine, e le lascino svolgere a coloro che ad esse sono deputati per cultura e professione.

Sulle new-towns, che allo stato attuale credo siano un’intuizione non concretizzata in articolato, vale sempre il discorso della parola che induce a pensare male perché ci riporta all’esperienza inglese che spesso ha dato esiti negativi.

Ho letto sul Corriere della Sera che il concetto di new-town viene affiancato al nome di Hebenezer Howard, il teorico della città-giardino. Non si può escludere che il Presidente del Consiglio possa avere in testa un simile modello e ammetto anche che l’ideologia che sta dietro le new-towns inglesi del dopo-guerra non differisca molto da quella, però io interpreto quest’idea come un segnale, un simbolo che esprime il desiderio di ritrovare una città bella e funzionale dopo il fallimento della città moderna.

Ciò che non è accettabile è il fatto che coloro che apprezzano Brasilia e Chandigarh, il Corviale o lo Zen, rigettino aprioristicamente questa idea perché creerebbe ghetti! E’ forse troppo chiedere coerenza logica?
Coerenza che invece appartiene a Pier Luigi Cervellati che su Repubblica, riferendosi proprio all’Aquila, chiede di ricostruire il centro storico esattamente com’era prima, ricordando l’esempio di Varsavia. Una visione non solo coerente con il suo pensiero ma che tiene conto del valore profondo dell’identità e dell’appartenenza dei cittadini ai luoghi e alla città. Una relazione complessa questa, molto simile all’amore per un’altra persona che, quando è forte, non accetta scambi anche se l’alternativa si presenta migliore.

Ma anche nel caso delle new-towns vale il criterio sostanziale di quale dovrà essere il loro principio ispiratore che non potrà essere diverso da quello sopra esposto. In questo caso esse potranno svolgere un ruolo di esempio, di guida, di indirizzo anche per gli interventi nell’esistente. E’ abbastanza chiaro che ipotizzare 100 nuove città di fondazione non può che rappresentare un segnale simbolico per dire: le nostre città hanno fallito e devono essere cambiate e migliorate radicalmente e tornare belle come lo erano prima e come abbiamo dimenticato di farle.
Nell’ambito del territorio nazionale ci potranno essere villaggi totalmente nuovi (e non c’è niente di strano visto che anche in Gran Bretagna stanno andando in questa direzione) dotati di una loro autonomia e villaggi nuovi ma fortemente integrati con le città esistenti, in base alle diverse realtà urbane esistenti.

Perciò, se il termine città-giardino è una metafora per dire che i nuovi insediamenti dovranno caratterizzarsi per un livello alto di qualità della vita, entro cui rientra anche, ma non solo, il verde, va bene, sapendo però che la caratteristica prima della città, e di quella europea e mediterranea in particolare, sta nella densità, nello spazio racchiuso più che nello spazio aperto.

La concentrazione, in orizzontale e non in verticale, è un valore perché incrementa i contatti e lo scambio, il vuoto isola.

11 commenti:

Anonimo ha detto...

Credo che lo Zen ed il Corviale siano progetti disastrosi, ma pure l'ideologia che sta dietro alle New Town non è da meno...
Insomma, ancora a fare diversificazioni funzionali fra centro (servizi e lavoro) e periferia (abitazioni)? Con città satelliti collegate al centro? Ancora qui stiamo?
Perchè se di "New town" si parla si intende questo (poi se volevano intendere qualche altra cosa, non so).
Certo che le nostre città hanno fallito, ma proprio perchè si è stravolto spesso e volentieri la vocazione di un tessuto storico ormai stratificato per farne qualcosa di totalmente estraneo alle sue possibilità.
Basta diversificazione fra centro e periferia e basta diversificazione delle funzioni delle diverse zone come ideologia da PRG.
A mio parere occorre "riannodare" i diversi centri fra loro, anzichè separarli, in modo da evitare i grandi flussi quotidiani casa-lavoro che sono fra i maggiori problemi del traffico urbano; inoltre, come dici tu, "stratificare" il tessuto già esistente, ma non per aumentarne la capacità abitativa: piuttosto pensiamo ad un potenziamento dei servizi e delle attività lungo i percorsi e negli insediamenti satellite.
Non dico di ritornare alla classica tipologia di "bottega con sopra abitazione", ma quasi: solo in questo modo si possono evitare inutili ghettificazioni e convergenza della popolazione in pochi punti.
Infine, basta costruire indipendentemente dalle peculiarità del territorio e basta pianificare un insediamento ex-novo unicamente tramite gli strumenti del progetto. Probabilmente gli errori del passato sono in larga parte dovuti al fatto che ingegneri e architetti disegnavano sopra una piantina non conoscendo i luoghi (intesi alla Norberg-Schulz) e pensando unicamente ad applicare qualche teoria astratta, che nulla aveva a che fare con i bisogni reali della popolazione o la vocazione del territorio.
Infine vorrei chiudere con i miei complimenti sinceri al tuo blog, non posso fare a meno di passarci ogni giorno.
A presto.
Matteo Seraceni.

Pietro Pagliardini ha detto...

Matteo, mi riconosco in tutto quello che hai scritto.
L'unica cosa è che non è ipotizzabile densificare solo con servizi e attività, occorre anche la residenza, non fosse altro perchè senza gente non c'è attività possibile e non si realizza proprio la commistione delle funzioni.
Io credo, ma posso sbagliarmi, che il Cavaliere quando dice new town abbia sì presente Milano 2 e Milano 3 ma intenda sostanzialmente "città belle". Il Cav. è un intuitivo e non è un architetto (per fortuna) e bisogna sapere cogliere la sua spinta propulsiva che, comunque la si pensi, c'è ed è grande (guarda il 20%!). Tu pensa da questa proposta semplice ma immaginifica, certamente sua, che sconquassi è riuscito a portare nella dormiente e stitica (scusa il termine) cultura urbanistica italiana. Così per le new town potrebbe essere la stessa cosa. Io la prendo, oltre che come mezzo per fare edilizia sociale, anche come scommessa di ricostruzione, e non mi riferisco alle aree terremotate.
Io sto vivendo da anni il nuovo Piano strutturale della mia città, iniziato nel 2001 e ancora siamo in alto mare. E' iniziato con Peter Calthorpe uno dei fondatori del New Urbanism e, fino a che c'è stato lui, si è parlato di città, di cose vere, di realtà. C'è stato un workshop di alto livello che ha prodotto progetti. Da quando non gli hanno rinnovato il contratto siamo caduti nelle maglie della legge regionale che è fatta solo di assurde clausole burocratiche, spacciate per roba seria, con la scusa della sostenibilità, niente a che vedere con la realtà delle cose. Non si è visto più un disegno, solo dati, carte, numeri, norme. E sono passati già 8 anni. Ho letto ieri sul Foglio che anche il PRG di L'Aquila è iniziato nel 2001 e ancora sono al nostro esatto punto, anche per motivi politici, per carità. Nelle altre città grandi è quasi dappertutto la stessa situazione.
Su questa aria stagnante è passato come un uragano il Cav. e ha rimesso tutto in discussione. A me sembra un grande risultato e ho scritto subito che si trattava di "rivoluzione culturale" e non di cementificazione. Considera che, a parte ciò che penso io, ha trovato qui dalle mie parti, Toscana, il consenso di molti urbanisti che sono militanti della sinistra. L'unica differenza tra me e loro è che loro lo dicono sconsolati perché la proposta non è partita dal loro partito.
Saluti
Pietro

Verde83 ha detto...

Caro Piero, io forse, come ipotizzavi privatamente, son troppo deluso, pessimista, ed è forse per questo che vedo in te un ottimismo che difficilmente riesco a condividere conoscendo dal dentro la realtà universitaria. Di segnali in senso di sostituzione edilizia, e non solo per problematiche strutturali, anche dalla politica, ne vengon diversi, e da anni (mi vengono in mente i radicali), mai accolti. Io ti assicuro che rimarrei sorpreso di vedere schierati alla difesa di un fronte strada vivibile, fruibile, a disposizione della città, più di 5 o 6 professori della facoltà di architettura di Firenze; ti assicuro che di fronte ad una PIAZZA su cui affacciano, sopraelevati ad un metro da terra, i mini-giardini sul retro delle villette a schiera, non molti miei colleghi si domandano dove sia finita l'urbanistica e cosa sia una piazza se non accoglie la vita, e quidi la facciata, degli edifici che la determinano. Io fiducia negli architetti di oggi non ne ho molta, in quelli di domani ne ho meno (perchè non ne ho alcuna in chi li forma), e non è poi solo in questi che si debba riporre fiducia di fronte ad una responsabilizzazione forte (come il piano casa è) di tutto il settore dell'edilizia, dal muratore all'amministratore locale.
Il piano casa come lo interpreti te è talmente banalmente INDISPENSABILE da risultare geniale, ma lo è da lustri, decenni, e se ancora non è partito nulla del genere, se in via Crispi/via Roma, si abbatte la Margaritone e non la Banca Toscana, ho paura che il tuo ottimismo sia mal riposto. Certo, sperare non fa mai male, ed arrendersi in una "crociata" giusta non è mai auspicabile, ma l'unica timida speranza che riesco a mantenere io su questo piano casa è che l'emozione per i recenti eventi possa spingere a riconsiderare la città come luogo dei cittadini, a riconsiderare l'architettura come tu ipotizzi ma io solamente riesco a sperare.
Quel 20% la mia breve esperienza mi insegna sia più probabile finisca nel marasma del disastro architettonico italiano che all'interno di un piano di sostituzione edilizia rispettoso non solamente della vita dei cittadini nel senso di tutela e salvaguardia, ma anche nel senso di rivalorizzazione della stessa attraverso la realizzazioni di città che quantomeno non siano alienanti come da decenni purtroppo stanno diventando. Non penso che l'uragano che rimetta in discussione gli obsoleti (ad esser gentili) dogmi dell'urbanistica e la totale deregulation dell'architettura fosse nelle idee di chi l'ha scatenato nè sia avvertito come tale da chi fino ad oggi in quei dogmi e in quell'assenza di grammatica ha sguazzato. La speranza è sempre l'ultima a morire e secondo me è meglio da riporsi nella società civile, ma rendersi conto che il garage per il suv serve, è un momento, che la tua vita a un suv di distanza dalla città non vale il vivere la città lo capisci dopo anni; e per gli architetti è ancora peggio, fino a che le facoltà non saranno liberate da chi insegna che con la stesa forma si può fare un centro velico e una chiesa, per essere prese in mano da chi porti fuori gli studenti a vedere, guardare, vivere e capire Firenze.

Vorrei però spendere una parolina a favore di Howard, che ultimamente trovo spesso accostato ad idee razionaliste (che penso si sia già capito quanto malvolentieri io digerisca) per l'embrione di ipotesi di zoning che racchiudevano le sue città. Dato fondante della sua teoria era una città da "chiudersi" a 60'000 abitanti, poi di come lui intendesse la città si può discutere, ma l'idea di una città a dimesnione uomo mi piace riconoscergliela ogni volta che mi imbatto in qualche villettopoli costruita ad uso e consumo dell'ultimo modello di suv o in qualche mastodontico peep costruito ad uso e consumo di architetti vittime del proprio ego da demiurgo infallibile e amministratori vittime di un'ignoranza che ha spinto a voler esser nuovi e innovatori anche quando il nuovo era la morte della città in quanto tale.

Penso di essere stato già prolisso oltre il tollerabile, e qui ti saluto.
Riccardo Verdelli

Pietro Pagliardini ha detto...

Riccardo, intanto dico che il tuo commento è una bella risposta a quello del post precedente a Robert. E a Robert, che ha a cuore quanto te la città, ma dissente sulle responsabilità e sui rimedi, dico che Riccardo non è un vecchio romantico e nostalgico ma un giovane studente di architettura che vive sulla propria pelle i guasti e, mi si lasci dire, l'ignoranza del corpo accademico della facoltà, o almeno della gran parte di quello.
Anch'io, Riccardo, ho il pessimismo della ragione ma, forse in quanto neofita, essendo modernista pentito, ho l'ottimismo della volontà.
Tu mi citi casi aretini che io e te conosciamo e gli altri no e quindi spiego che la sede della Banca Toscana è un edificio di cemento bianco faccia a vista, ovviamente diventato grigio, con puntazze qua e là, sbalzi, vetrate, pilastri esili come grissini in un incrocio tra la principale via del centro storico e la principale strada dell'800, nel luogo più centrale di Arezzo.
Invece di questa, dice Riccardo, che dovrebbe essere stata abbattuta, è stata invece abbattuta una scuola, lungo la stessa strada dell'800, più o meno coeva alla strada stessa.
Di qui la sua delusione e la sua indignazione. In proposito dico a Riccardo una parola di speranza: la Banca Toscana credo sia in vendita, e chi la comprerà, se mai qualcuno la comprerà, credo vorrà lucrare sul volume. Se così fosse c'è qualche speranza che venga abbattuta e che migliori. Potrebbe anche peggiorare, però, visti i tempi. Qui entra in gioco la politica ma, perbacco, anche la cultura di chi stabilirà regole e approverà progetti. E anche l'architetto che progetterà, qualcosa avrà pur da dire.
Insomma, gli architetti hanno sempre una grande responsabilità (e questa è un'altra risposta a robert del post precedente).
Grazie Riccardo

Biz ha detto...

Di primo acchitto, questa cosa delle "new townss" (con la esse, come direbbe sorridendo Arbore), mi pare uno di quegli slogan a cui una classe politica che ritengo culturalmente scarsa ci ha abituato.

Insomma, l'uso dell'inglese è forse qualcosa che maschera un vuoto di idee e progettualità effettiva; o peggio, che maschera roba abietta.
Vogliono riaprire i bordelli e parlano di eros center, tanto per intenderci.

L'approssimazione è simile a quella ad esempio di G. Fini, quando mette in ballo lo "stato etico" con un uso del termine filosoficamente del tutto improprio.

Non so, ma mi pare che questo nuovo slogan preluda a nulla di buono, ad una buona rioganizzazione del territorio e nemmeno a nuove cittadine di fondazione fatte bene.
(con la "perizia giurata"?)

Pietro Pagliardini ha detto...

biz, qui la classe politica nel suo complesso credo che c'entri poco: questa è opera del Cav. in prima persona come il 20% è opera solo sua.
I tuoi dubbi sono anche i miei ma io credo che in parte dipenderà dalla legge in gran parte dai progettisti, in parte dai controlli.
La legge del 20% e del 35% non lancia proclami e neppure fissa principi "sacri e inviolabili", fornisce solo un'opportunità.
Credo che anche quella delle new towns dovrebbe fissarne pochi. Il resto sia lasciato alla società, agli amministratori, alle imprese, agli architetti, al mondo della cultura, alla stampa, agli interessi, al sistema nel suo complesso.
Tu dirai: andiamo bene!!!!
Ma su questo noi che ci possiamo fare? Solo continuare a scrivere le nostre cose, che spesso parlano la stessa lingua, sperando che il seme attecchisca.
Mi sembra già un obbiettivo alto.
Ciao
Pietro

Biz ha detto...

Si Pietro, ma quello che a me sconcerta un po' è questo approccio quantitativo che la politica Berlusconiana sta imprimendo al dibattito.
... 20, 35% di cubatura ... sveltire le procedure ... new town ...
ma che siamo, negli anni '50, della ricostruzione dopo i bombardamenti?

Gli architetti, che vuoi che dicano?
Se Berlusconi mi dicesse: "vieni con me e fai una gnù town" farei i salti di gioia, è ovvio. E chiunque farebbe lo stesso (magari pensando "così lo faccio bene, tanto se no lo farebbero altri")
Ma che senso ha, in Italia, oggi, questo approccio?

Le carenze di noi architetti sono un conto ... ma qui si tratta delle carenze dei politici!

Anonimo ha detto...

Io vorrei però ritornare suul'incapacità della classe politica.
Ora, immaginate di essere voi ad aver perso la casa (comprata magari coi risparmi di una vita e con rate del mutuo ancora da pagare)e con essa tutto il resto: vestiti, mobili, libri, ecc..
Vivete nei campi di raccolta come profughi, con solo qualche vestito di ricambio e soprattutto tanto tempo libero per riflettere su quelli che non ce l'hanno fatta.
Bene, a questo punto arrivano i geni italici e pensano bene di rincuorare le popolazioni con questo messaggio: "Che città vecchia che era!Va abbandonata e distrutta e poi si ricostruisce una cosa nuova di zecca sopra una "piastra di cemento" da un'altra parte!"
Ma come? La mia casa... diroccata certo, ma ancora la mia casa... non può essere sistemata? Non possiamo rimettere tutto a posto come prima, riavere tutto indietro?Con che coraggio si parla ad una popolazione distrutta da un lutto così grave in questo modo? Con quale coraggio si parla di comprare il cagnolino nuovo quando il vecchio è morto dopo così pochi giorni?
Ecco lo sbaglio grosso: non è l'idea di ricostruire "nuovo e più bello", ma lo sono i tempi e le modalità. Ed una insensibilità così grande mi fa solo pensare al peggio.
Mi spiace, ma avrei ancora preferito il silenzio e semplicemente un piano per risanare gli edfici non agibili, piuttosto che le sparate di diverso genere che sento in giro.
A presto.

Matteo

Pietro Pagliardini ha detto...

biz, non è in discussione il tenere famiglia di ognuno di noi ma la decenza nello stare zitti quando si lavora per quello scopo sì.

Matteo, se ti fai un giro nei blog e nelle rassegna stampa ce ne sono tantissimi, perfino in buona fede, che pensano di fare interventi contemporanei a L'Aquila, considerandola un po' come un cantiere di sperimentazione per una nuova, ulteriore modernità, sperando forse di trovarla, alfine.
Però la più bella che circola oggi è quella del mancato rilascio del certificato di agibilità per l'ospedale (per mancanza di accatastamento): questa notizia passa, e qualche autorevole giornalista la commenta pure, come una ulteriore aggravante del crollo, anzi, fanno passare l'idea che ci possa essere una qualche relazione.
Ammetto che un giornalista non sappia cos'è l'agibilità ma almeno prima, informiamoci! Altrimenti siamo all'assurdo che l'edificio è lesionato per mancato accatastamento, una specie di punizione di tipo fiscale.
Principio di realtà vò cercando....
Saluti
Pietro

Biz ha detto...

Ieri ho visto alla trasmissione di Santoro un esponente del PDL che ha mostrato con orgoglio il progetto preliminare della New Town che hanno in mente per le "giovani coppie".

Mi spiace Pietro, ma non mi pare affatto che stiano andando nella direzione da noi auspicata.
Eppure, bastava che avessero dato l'incarico, invece che ad architetti di palazzinari, che so? Ad un biunviorato Pagliardini Salingaros ... ci metterei veramente la firma, ad una vs new town.
...
Facciamo un partito? :-)

Pietro Pagliardini ha detto...

biz, io non l'ho visto ma non dubito tu abbia ragione.
Che dire!!!!!
Anche un triumvirato con Guido Aragona non sarebbe stato male.
Sono generoso, tanto non mi costa niente in nessun modo.
Cercherò la trasmissione sul sito RAI, ma dovermi sorbire Travaglio mi ripugna alquanto.
Ciao
Piero

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