Pietro Pagliardini
Questo post è un commento all’articolo di Vilma Torselli, Architettura e consenso, su Artonweb.
Inutile leggere il post se prima non si è letto l’articolo.
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L’interpretazione che Boncinelli fornisce della creatività in relazione al consenso sociale si presta, come accade spesso in questo campo, alla doppia, possibile interpretazione.
Al soldato che doveva partire per la guerra e domandava trepidante se sarebbe tornato vivo, la Sibilla rispondeva “Ibis, redibis non morieris in bello” lasciando a lui l’interpretazione nel mettere la sospensione prima o dopo la negazione, con ciò assicurandosi un sicuro successo.
Il doppio senso di Boncinelli mi sembra stia nel la frase “Il successo creativo richiede qualità sociali tali da permettere l’affermazione propria e dei propri prodotti, e tali capacità sociali possono facilitare un giudizio positivo sull’insieme delle caratteristiche possedute dal soggetto creativo”.
Ora mi sembra che Boncinelli, diversamente dalla Sibilla, non dia due risposte opposte ma due risposte di valore diverso, una basata sull’oggettività del prodotto creativo, l’altra, quella della frase riportata sopra, sulla soggettività , rispetto al pubblico, delle qualità sociali del soggetto creativo. Insomma, sulla capacità del creativo di sapersi vendere bene, di saper sedurre, di apparire convincente, con ciò lasciando al lettore la scelta se attribuire maggiore importanza all’una o l’altra delle risposte.
Non attribuisco un giudizio negativo a questa dote di fascinazione, tanto più in un architetto che non può in alcun modo essere simile ad un poeta maledetto, dato che questi può continuare a scrivere quanto vuole anche senza avere uno straccio di lettore ma l’architetto non può costruire neanche una capanna se non trova un minimo di consenso sociale, almeno in un cliente disposto a dargli credito. E i progetti da soli difficilmente fanno un architetto: mi piacerebbe aver potuto vedere Sant’Elia all’opera!
Non gli attribuisco un giudizio negativo ma aiuta a spiegare il perché, come dice Vilma Torselli, le archistar hanno tanto, innegabile consenso.
Il caso Gehry è emblematico e ormai è diventato un classico: il successo del suo museo a Bilbao è al di sopra di ogni ragionevole dubbio. Grazie alla sua creatività, sulla quale non si possono avere incertezze (che invece ve ne sono sul fatto se sia creatività da architetto o da scultore) ma grazie anche alla potenza dei media che, probabilmente in virtù del nome e della tradizione che porta il museo, l’hanno “pompato” oltre misura, e masse di turisti sono andate in una città ai più ignota, salvo che per il calcio. Grande è pure la creatività di Ghery nel sapersi fare propaganda, nel saper sfruttare con grande capacità la sua bella faccia rugosa e allegra da vecchio saggio e scapigliato allo stesso tempo, nel farsi fare il suo bel film da un grande regista, nel lanciare ai giovani insegnamenti tanto creativi quanti inutili, tipo quello arcinoto del foglio di carta accartocciato entro cui guardare con una telecamera per esplorare spazialità “nuove”.
Se Ghery è grande in questo, per esserne stato anche il capostipite del genere, altrettanto lo è Zaha Hadid la cui condizione di donna, in un universo di architetti uomini, e di irachena, in un ventennio in cui questo paese è stato al centro dell’attenzione mondiale, ha costituito un ottimo viatico, sicuramente casuale, nel conferirle un’aura di novità, mistero, esotismo, curiosità, eccezionalità, unito ovviamente alla sua creatività che consiste nel disegnare forme dinamiche nello spazio mettendo a frutto le innovative tecniche del software, che però nel passaggio dalle patinate copie a sublimazione alla dura materia edilizia, stentano a conservare la loro capacità attrattiva. Non risultano infatti per lei pellegrinaggi come a Bilbao.
Ma è giusto citare anche il nostro Renzo Piano il quale tra tutti è, in questo senso, il più intrigante e il più sapiente, con un approccio mediatico molto “contestualizzato”, che io definirei “genovese”, perché è “oculato” nel proporsi e, quando lo fa, riesce a mantenere un garbo ed un aplomb molto understatement, in cui bisogna essere veramente del mestiere per capire se ti sta prendendo in giro oppure se fa sul serio, e comunque ti lascia davvero sempre il dubbio; cosa invece che negli altri è più semplice discernere, se tanto tanto uno non è avvezzo ad abboccare a tutta la pubblicità che gli viene propinata.
Anche umanamente Renzo Piano è una miscela di romanticismo(il suo amore per il mare) e di concretezza (il suo battere sul mestiere e sulla ricerca) ed è perciò italianissimo in questo, perché è “ruffiano” come la sua architettura: non ti lascia senza fiato né ti indigna ma sei costretto ad accettarla anche contro voglia non riuscendo a capire cosa ci sia di giusto o di sbagliato. Al che, viene da pensare, ma non ho fatto alcuna indagine in materia, che il Beaubourg sia più opera di Rogers che sua, tanto è esuberante e eccessivo (per questo dubbio vedi anche www.prestinenza.it).
Mi piacerebbe anche parlare di Libeskind ma ho divagato troppo e sono anche andato fuori tema rispetto alle riflessioni finali di Vilma Torselli che condivido. Non c’è dubbio infatti che i media, nella loro fame mai appagabile di notizie sensazionali ad ogni costo, per valorizzare il loro spazio pubblicitario, lasciano poco o punto tempo e spazio alla riflessione meditata, a tutto vantaggio dell’immagine flash, della spettacolarizzazione, della “invenzione” straordinaria.
Anche la critica specializzata, sempre attraverso i media ma anche in gran parte attraverso l’università, ed è quella che lascia il segno più profondo, svolge un decisivo ruolo di mediazione tra il soggetto creativo e il pubblico.
E’davvero possibile bypassare questo sistema? Io credo proprio di no, si può solo sperare che cambi il prodotto ma il metodo resta lo stesso. Questo vale però per le punte dell’iceberg, per l’occhio dei media, per la notizia globalizzata. Esiste invece un grande bacino di consenso o dissenso che non sta sotto gli occhi del mondo ed è quello della provincia dove io credo sia possibile oltre che necessario, mettere in rapporto diretto soggetto creatore e pubblico, opere e città.
Lo si può fare, basta che lo si voglia fare ed è una forma di rapporto così profondamente coerente con la nostra società che si dice essere democratica che quasi stupisce non sia presa in alcuna considerazione. E’ il metodo del voto popolare, ma non quello fatto attraverso la TV digitale, che è manipolabile perchè influenzato da fattori incontrollabili, ma quello fatto proprio con una scheda o una firma, che richiede un interesse reale che smuova il cittadino ad andare in un luogo, a guardare cosa si sta pensando di fare della propria strada, del proprio quartiere, della propria città e decidere che cosa sia più giusto o, semplicemente, cosa gli piaccia di più.
Nel mezzo possono esserci manipolazioni politiche; è possibile, anzi sicuro, ma politica significa arte di governare la città, quella però fatta al cospetto di persone fisiche, di cittadini-elettori in carne ed ossa non passivi spettatori o lettori o nickname della rete. Quindi non ha senso parlare di manipolazione quanto di normale dinamica della politica, cioè di scelte per la città.
Un concorso per un nuovo edificio pubblico, una piazza, la sistemazione di una strada, un edificio privato di grande impatto, tanti sono i campi in cui è doveroso che vi sia il parere “scritto” dei cittadini.
In realtà la decisione su quelli che Marco Romano chiama i “temi collettivi della città”, fatta in base ad una intenzione estetica è caratteristica comune e peculiare della città europea almeno fin dagli inizi del medioevo.
Ma l’intenzione estetica collettiva, cioè la volontà di determinare ciò che è bello e ciò che è brutto per la propria città, pur appartenendo ad una società chiusa di tipo organico, perciò disposta a muoversi entro un universo di canoni condivisi, contrariamente alla nostra società aperta in cui la scelta individuale e le spinte centrifughe sono nettamente prevalenti sull'unità, ha determinato tuttavia la formazione di un diritto architettonico secondo il quale la città appartiene a tutti. Il fatto che vi sia una separazione dei compiti tra coloro che sono deputati alla redazione del progetto e coloro che di tale progetto dovranno essere i fruitori non esclude l’esistenza della figura del committente, di colui cioè che paga per l’esecuzione dell’opera.
Nel caso delle opere pubbliche non c’è alcun dubbio che tale committente sia la città.
Si tratta di decidere, perciò, se lasciare tale decisione al livello della democrazia rappresentativa, come avviene "teoricamente" oggi, cioè ai Consigli Comunali e Provinciali, oppure se rimetterla ad una forma più diretta, cioè direttamente dei cittadini.
Allo stato attuale la decisione è sempre e comunque frutto di una mediazione di interessi diversi e contrastanti tra una pluralità di soggetti:
- l’ente preposto che, consapevole della propria debolezza e incapacità di assumersi responsabilità che potrebbero influire sul meccanismo del consenso, si affida agli “esperti”;
- gli “esperti”, nominati anch’essi con assurdi metodi di garanzia che, per dover essere impersonali, finiscono per diventare o casuali o frutto di scelte opache;
- gli architetti che rivendicano il loro diritto alla libertà di espressione e alla creatività che è culturalmente l’opposto del rispetto dei luoghi e degli uomini;
- i cittadini direttamente interessati all’opera che vengono formalmente fatti sfogare nelle varie forme in cui si esercita la così detta partecipazione e trasparenza ma cui alla fine non resta che la formazione di comitati di protesta e del no; questa procedura, che in termine tecnico si chiama “presa in giro”, allunga a dismisura i tempi, inquina il clima, sotto ogni profilo, fa guadagnare qualche posticino in municipalizzate a qualche presidente di comitato e dà sempre, alla fine pessimi risultati.
Risulta perciò chiaro che la soluzione corretta è affidare la scelta dell’opera direttamente alla città.
Dunque, in campo urbanistico, come in quello artistico, è necessario trovare strade capaci di stabilire una relazione diretta tra autore e pubblico e direi meglio tra prodotto e pubblico, dato che l’autore interessa solo agli architetti e ai media. Ma qui c’è da superare un doppio ostacolo: quello degli architetti, cui torna comodo il filtro dell’establishment culturale e politico, più manipolabile che non il giudizio di massa e torna comodo anche ad una politica che, incapace da tempo di assumersi la responsabilità di scelte autonome, preferisce coprirsi le spalle con parodie di scelte democratiche.
Una prova di tutto questo lo avremo proprio con la ricostruzione in Abruzzo: voglio proprio vedere se quella gente così colpita nei propri affetti, nella perdita della propria casa e dei propri ricordi più intimi permetterà di essere espropriata della decisione sul che fare delle loro città. Voglio proprio vedere se il dibattito rimarrà a livello politico e di esperti urbanisti e architetti o sarà costretto a confrontarsi con i veri protagonisti della ricostruzione.
20 commenti:
Pietro,
mi muratorizzo, perché forse la banalità è più efficace di un pensiero.
… delirio Pagliardini …
… la cementificazione dell’Italia è stata causata dalle archistar? …
… questa frase: «Zaha Hadid la cui condizione di donna, in un universo di architetti uomini, e di irachena, in un ventennio in cui questo paese è stato al centro dell’attenzione mondiale, ha costituito un ottimo viatico» è maschilista e un po’ razzista (anche rozza), comunque di una certa arrogante destra, non preoccuparti …
… sei proprio convinto che tra la progettazione di un museo ad opera di Ghery o Pagliardini, il popolo attraverso il voto democratico, scelga Pagliardini? …
… non vuole essere cinismo, ma temo che la ricostruzione in Abruzzo sarà affidata agli stessi cementificatori che hanno donato trecento vittime …
… questo è un post codardo perché è molto semplice sparlare di Renzo Piano e via dicendo che denunciare il geometra/ingegnere/architetto/imprenditore che come dice il poeta Andrea Zanzotto ha «causato lo sterminio dei campi» cementificandoli senza ritegno …
… questi post sono codardi perché non affrontano il vero problema dell’Italia la banalità …
Saluti,
Salvatore D’Agostino
Ma secondo te, se uno vuole fare un sintesi della storia del fascismo, per dire, parla del suo vicino di casa che aveva la camicia nera e tutti i sabati andava a fare le marce oppure parla di Mussolini, del Re, del delitto Matteotti? Ma cosa vuoi dire dei geometri...tanto per fare i soliti lamenti?
La scelta tra me e Gehry non è possibile perchè...io non faccio musei.
Su un quartiere residenziale in Italia è una sfida che accetterei volentieri.
Sul resto stendo un velo di silenzio.
Pietro
Pietro,
suvvia, ma se vuoi parlare dell’architettura in Italia degli ultimi quarant’anni parli dell’opera nefasta degli ‘archistar’?
Mi sembra irreale.
A questo punto mi viene il sospetto che sono io che vivo in un altro contesto, a parer mio, i danni maggiori sono arrivati dai romantici del centro storico, dagli architetti del finto rustico (meglio se è toscano), dai post-post modernisti (da catalogo), dagli imprenditori con la terza media, dai geometri con il sogno borghese, dagli ingegneri del mq/progetti stradali e dagli architetti che si fanno definire ‘arredatori’.
Io non ci casco in questa logica perversa di distrazione dalla realtà. I tuoi nemici, con tutti i loro limiti, sono grandi professionisti.
Comunque sarei curioso di vedere un referendum popolare Pagliardini VS Ghery per la costruzione di una casa residenziale.
Da siciliano conosco che cosa significa il ‘silenzio’ è un’arma che uccide la dignità delle persone.
Aspetto sempre un post concreto e non lagne da adolescente vittima delle idee del proprio padre.
Un post che espone idee e non verità assolute, sarebbe un gran passo avanti e ci può migliorare la vita. Altrimenti rimane lagna personale e non pensiero.
Coraggio…
Mi sa che il prossimo commento lo farò stile preghiera di Camillo Langone perché lo stile Muratore non funziona.
Saluti,
Salvatore D’Agostino
Mi domando, Salvatore, se riesci a leggere e interpretare il tema e il senso degli argomenti.
Direi di no e per agevolarti te li semplifico.
Tema: Architettura e consenso, svolto da Vilma Torselli, con analisi della mediazione tra autore e pubblico (leggiti l'articolo, magari).
Svolgimento: meccanismo del consenso, oggettivo e soggettivo, cioè, qualità del progetto e qualità dell'autore.
Strategie di marketing individuale degli architetti, quelli famosi che vanno sulle riviste e fanno "scuola" (hai presente?) non i geometri o gli archeometri e neppure gli architetti normali.
Proposta: eliminare la mediazione.
Metodo: voto popolare.
Applicati di più e prova a restare al pezzo con l'avvertenza che se vai ancora fuori tema farai un monologo.
Coraggio!
Pietro
Preghiera di Salvatore D’Agostino del 19 aprile 2009.
Oggi volevo uscire, fare un viaggio ma la Sicilia e da sei mesi che è diventata uggiosa come Milano.
Con questa voglia, mi sono recato in un piccolo borgo, in prossimità del mio paese, per ascoltare una messa.
Una chitarra a ritmo di peltro intermezzava la funzione con canti semplici e non armonici. Confidavo nell’omelia, ma è stata l’apocalisse dei luoghi comuni. Per fortuna ho potuto osservare la bellezza che risiedeva nella partecipazione sentita dei tanti fedeli.
Dopo il buon pranzo domenicale non pensavo di leggere un post di Pietro Pagliardini, ma si sa tutti possono sbagliare
(il problema è che persevero da più di un anno) e cosa leggo i soliti luoghi comuni sulla devastazione psicologica degli archistar, conditi di astio da bar dello sport, Gehry il re della propaganda, Hadid astuta donna irachena ammaliatrice tecnologica, Renzo Piano il ruffiano, Libeskind fuori post (mancanza di spazio redazionale).
Vado in tilt e mi rendo conto che vivo fuori contesto post/Italia.
Mi sa che la prossima domenica andrò a risentire il prete del piccolo borgo, con tutti i suoi limiti almeno non mi è sembrato un monotono, ma questa volta al ritorno, non leggerò il solito post di Pietro Pagliardini…
Che vuoi farci Salvatore? E' molto più semplice trovare capri espiatori, magari tra personalità che hanno avuto successo (e quindi che un po' segretamente si invidiano ...) che rimboccarsi le maniche e, imparando da tutti gli altri (senza denigrare nessuno) fare qualcosa di più che criticare altri. Io credo, ma forse sono troppo ottimista, che da chiunque si possa imparare qualcosa e che le critiche siano sempre poco costruttive, meglio dare l'esempio che chi vuole può seguire, senza imporre il proprio punto di vista.
E questa, prima che si travisino le mie parole, non è una critica a Pietro o ad altri, è solo una constatazione (amichevole ovviamente) che vorrebbe spingere a discutere di possibili soluzioni e di proposte concrete ai problemi, con la convinzione che ogni intervento non sia "buono" o "cattivo" in assoluto, ma presenti soluzioni che "funzionano" e non in base ai risultati ottenuti.
Master io credo di essere sempre qui a proporre, in positivo, una visione di architettura e di città.
Criticabilissima, in verità, come in effetti mi viene sempre criticata. Ma non si può escludere a priori l'attacco ai simboli di un'architettura spettacolo che diventa un osceno modello di riferimento mediatico.
Negare questa evidenza significa, secondo me, non capire il meccanismo del consenso. E il post è sul consenso ed è un commento all'articolo di Vilma Torselli.
La critica feroce allo star-system dell'architettura è il tratto caratteristico di questo blog, insieme alla proposta di un'architettura e di un'urbanistica tradizionale.
Può non piacere ma questo è il dato. E, tra l'altro, non cambierà affatto questa impostazione.
Quanto alle infantili considerazioni sull'invidia, e non mi riferisco alle tue, sono penose: vorrebbe dire che io sarei invidioso anche di LC? Ora essere invidioso di una persona defunta proprio no e, nei suoi confronti non ho nemmeno il complesso del padre o come diavolo si chiama, dato che non è mai stato un mio idolo. Semmai lo era, e in arte lo è, Wright che invece non ho quasi mai citato, essendo egli un genio, non esente da errori, che non ha prodotto danni nell'architettura e soprattutto nella cultura architettonica. Anzi.
Saluti
Pietro
wright non ha prodotto danni?
cavolo, e io che mi chiedevo da un bel po'per quale motivo pietro non prendesse a calci nel sedere il wright come principale artefice della cacca-diffusa (leggi città diffusa). e non mi metto a discutere sulle trasgressioni architettoniche di FLW che, francamente, mi sembrano un tantino demoniache citate qui dentro...
robert
PS: vedrai che tra poco scopro che gli piace pure michelucci e ricci, d'altra parte gli piace pure quel "cattivo esempio" :-) del gino valle
Al di là delle convinzioni personali e delle diatribe sul loro contenuto, direi che sarebbe utile tornare sullo spunto iniziale, sapendo che ognuno di noi ha le sue idee e che ha il diritto di tenersele. Ciò che volevo evidenziare con il mio breve scritto in artonweb è che, nella società moderna, l’architettura, come l’arte, “..... è come se si fosse progressivamente esiliata dal mondo ed avesse scelto di sopravvivere in aree protette ..... ma sostanzialmente avulse e impenetrabili. Questo è avvenuto perché l'arte [ e, aggiungo io, l’architetura] ha perso il suo privilegio storico, quello di elaborare l'immaginario simbolico-visuale dell'uomo. E' fuor di dubbio, infatti, che oggi sono i mass-media i detentori del nostro immaginario .....”: faccio mie queste parole di Alessandro Tempi, che così stigmatizza il ruolo semplicemente autoreferenziale e autoconservativo di ogni manifestazione visiva di oggi.
Certo l’architettura non è una manifestazione visiva, ma a giudicare dalla ricerca di ‘visibilità’ sembra che ci si stia progressivamente avvicinando.
D'altra parte ogni opera prodotta da un creativo, sia artista che architetto, non avrebbe senso se non venisse comunicata al fine di coagulare un giudizio intorno al suo carattere di creazione. "Non si danno ‘innovazioni’ che vivano solo nella dimensione del privato”, scrive uno psichiatra, Antonio Preti, che si è occupato nello specifico proprio di 'atto creativo', e pare che le archistar lo abbiano preso alla lettera. Viene in mente la rivoluzione operata da Marcel Duchamp prima, e da Andy Warhol poi, grazie alla quale il concetto di opera d’arte prodotta si è tramutato in quello di opera (d’arte) comunicata: architettura comunicata, detta, rappresentata, fotografata, firmata, griffata ..... un’architettura d’immagine, una “architettura della distanza” come la definisce Marc Augé, o anche della “singolarità intesa come produzione di opere uniche”, è l’architettura di questa nostra epoca dell’apparenza.
Tutto ciò sta accadendo, e non vedo perché/come opporvisi, essendo io del parere che ciò che accade ha in sé le sue ragioni d’essere. Niente per caso.
Vilma
Vilma,
perfetto «Tutto ciò sta accadendo...»
Riporto un dialogo tra due scirttori Magris e Baricco:
«Magris — Credo che non esista una contrapposizione fra i barbari e gli altri (noi?). Anche chi combatte molti aspetti «barbarici» non è pateticamente out, ma contribuisce alla trasformazione della realtà. Come nel Kim di Kipling, in cui tutti spingono la Ruota e ne sono schiacciati. Senza pathos della Fine né di un miracoloso e fatale Inizio. La civiltà absburgica, così esperta di invasioni barbariche, non le demonizzava né le enfatizzava; si limitava a dire: «È capitato che...».
Baricco — «È capitato che...», bellissimo. Quando ho pensato di scrivere I barbari avevo proprio uno stato d'animo di quel tipo… Sta capitando che… Non avevo in mente di raccontare un'apocalisse e nemmeno di annunciare qualche salvezza… volevo solo dire che stava succedendo qualcosa di geniale, e mi sembrava assurdo non prenderne atto. Forse ho letto troppi mitteleuropei da giovane e mi son trasformato in un von Trotta. Colpa tua, in un certo senso…» (http://www.corriere.it/cultura/08_ottobre_07/magris_baricco_civilta_barbari_20ff4502-9434-11dd-a0d8-00144f02aabc.shtml)
Non capire i mutamenti ed insistere sulla sterile critica tassonomica è da immaturi oltre che da folli.
Ecco perché reputo inopportuno parlare di Gehry/Piano/Hadid/Libeskind in questo modo semplicistico.
Inoltre non capire che in Italia c’è una profonda incultura nel campo dell’architettura significa abitare a Timbuctu.
Saluti,
Salvatore D’Agostino.
"Tutto ciò sta accadendo, e non vedo perché/come opporvisi, essendo io del parere che ciò che accade ha in sé le sue ragioni d’essere."
secondo me no, vi sono tutti i sintomi perchè si stia "tornando indietro" ad un'architettura più legata al contesto e che va vissuta e abitata e non solo fotografata/comunicata. così com'è morta la finanza virtuale non mi stupirei se facessimo fuori anche l' "architettura della distanza".
comunque, se mi è permesso, l'architettura oggettuale è nata già nell'800: le stesse fotografie degli alinari andavano verso quella strada, e quasi tutta la fotografia d'architettura esclude il vissuto, l'abitato, in sostanza il linguaggio della vita per poter essere comunicata, oggettivizzata e slegata non solo dal contesto ma dalla vita stessa delle persone. c'è poco da fare, noi architetti non tolleriamo che la vita possa sporcare le nostre architetture e questo è una modalità che tutti gli architetti, tradizionalisti/modernisti/ecc ecc applicano all'architettura. anche se, da un certo punti di vista, la fotografia ripulita risponde ad un'esigenza di ricreare l'immagine che si forma nella nostra testa che è, appunto, ripulita dal linguaggio della vita.
robert
Più tardi commenterò ma adesso vorrei sottoporvi questa lettera delle nostre archistar che non bisogna prendersela con loro perché non sono responsabili e i problemi sono ben altri:
http://www.architectsjournal.co.uk/news/daily-news/top-architects-condemn-prince-charles-meddling/5200676.article
Nei link molto faziosi ne avevo già inseriti due al Timesonline sullo stesso argomento.
Saluti
Pietro
pietro, così... ad intuito, ho la sensazione che abbiano perfettamente ragione. le modalità da mecenate ben poco democratico che usa il nostro carletto te le ho fatte notare in altri post.
robert
Ecco, su questo argomento dissento, parzialmente.
Non sempre ho bisogno di leggere quello che pensi e spesso ne ho già parlato con qualcuno che la vede in modo molto simile al tuo, ma in questo caso non sono d'accordo. Le archistar nascono da particoalri contingenze in cui un edificio, o più, di edilizia specialistica sia voluto dalla committenza come diretta espressione della propria grandezza (tema tipicamente imperiale, penso sia anche da questo che nasce il nostro meraviglioso paese). Leggendo tra i commenti affermi di non temere il confronto con gehry, sull'edilizia residenziale, agli occhi del pubblico. Ecco, io sono d'accordo, su un pubblico mediamente colto insomma, magari a chiedere ad un bambino che vede le astronavi di gehry, no. E non c'entra nulla la pubblicità, la spinta dei media o cos'altro, c'entra che, per fortuna, la casa ha delle forme riconosciute, nell'angolo acuto non mi c'entra il mobile, nel lato inclinato non posso attaccare i quadri, tutte cose che anche inconsciamente formano il giudizio, e non ci sono media che tengano. Ma qui arrivo al punto in cui dissento: le archistar non nascono qui, nascono nell'edilizia specialistica, nel museo, nella struttura sportiva, nell'aeroporto, in quell'edilizia che può essere anche scultura, episodio, in un'edilizia che ancora non ha trovato una forma o che probabilmente non può trovarla perchè non la ha. E a me il gueggenheim di Bilbao piace non perchè lo vedo in tv (banalizzando), ma perchè è una bella scultura, un oggetto sorprendente, che incuriosisce.
Il problema grave che riconosco sta nell'edilizia che una forma ce l'ha, ma per sciocchi vizi "culturali" è spinta a perderla: la chiesa.
Io ci leggo una "smania" di rinnovamento, un'esigenza di un nuovo tanto stupido quando religiosamente inaccettabile che porta a chiamare chiesa il centro velico che Richard Meier ha fatto a Roma. In questo caso sì, la spinta mediatica è forte, ma è una spinta interna al culto, non esterna, qualunque cittadino di fronte a quell'oggetto con 2 didascalie "Valencia, centro velico per America's Cup" o "Roma, chiesa", non immaginerà mai la seconda ipotesi, nè la preferirà.
L'esempio più chiaro di quel che voglio dire sta nel tanto vituperato (per ragioni secondo me sbagliate) City Life per Milano. Non sono i tre bananoni l'errore, sono pure belli, e rivoluzionare uno skyline non necessariamente è un male: il dramma sono le residenze che vi si articolano intorno, è quel bidet che a seconda di come cambia l'area resta uguale, ruota, si sposta, è l'articolazione dell'ambiente che spezza due assi viari importanti. Ma l'archistar la fanno i 3 bananoni e non certo quelle porcherie di residenze che attorno a questi si articolano. E il pubblico lo percepisce: non sceglierebbe mai uno di quei palazzetti scrausi rispetto alle residenze ottocentesche poco distanti. Ci si può rammaricare che un'archistar riceva commenti entusiasti per l'edilizia specialistica e non le critiche doverose a residenze orribili, ecco forse la pressione mediatica sugli obrori che producono non è sufficiente, ma non è sufficiente neanche sulle villettopoli che costantemente spuntano a destra e a manca.
Le archistar nascono e muoiono, nel giudizio della "gente", con i loro grattacieli, musei, stadi, ponti, purtroppo chiese, ma quella "gente" è spesso comunque in grado di appassionarsi da sola a un'architettura/scultura e da sola a rifiutare la scultura quando voglia sconvolgere forme date per assodate.
Non penso quindi che ci sia una pubblicità dietro il successo dell'archistar, ma al limite un'accettazione per compartimenti stagni che fa si che l'opera stupefacente resti impressa più della "casa", per quanto questa possa essere fatta male.
Riccardo
Robert, tengo famiglia e tengo lavoro ed essendo rimasto indietro con i commenti, ho dovuto stamparli prima di cena e leggerli e rispondere nel dopo cena.
“Ciò che accade in sé ha le sue ragioni d’essere. Niente per caso”. Così conclude Vilma il suo commento.
E’ vero che se qualcosa accade è in virtù di una azione che lo fa accadere e, in questo caso, è vero certamente che se l’architettura è apparenza ciò dipende dal fatto che la nostra epoca è l’epoca dell’apparire più che dell’essere. Ed è altresì vero che se si forma un ciclone nei Caraibi ciò può essere dovuto all’ormai abusato battito d’ali di una farfalla nella foresta amazzonica.
Però è anche vero che ciò che contraddistingue l’uomo rispetto a tutti gli altri esseri viventi conosciuti è la sua libertà di scegliere attraverso un atto di volontà. La storia esiste proprio grazie a questa volontà, spesso guidata dal caso, indubbiamente, ma spesso obbediente ai disegni o almeno alle azioni volute e impostate dall’uomo.
Noi siamo capaci talvolta di vincere e sottomettere la natura, talvolta soccombiamo ad essa, ma lottiamo sempre per vincerla. Il caso del terremoto ne è un esempio: sono morte troppe persone e noi ci domandiamo giustamente se e in cosa abbiamo sbagliato e questo atteggiamento ci induce a migliorare ancora perché noi “vogliamo” che non accada più o almeno che si limitino i danni.
Nei fenomeni sociali, a maggior ragione, siamo noi gli attori principali, la natura c’entra ben poco (se non quella umana e qui Vilma ha da dire molto più di me) e la storia è una lunga narrazione di azioni dell’uomo volte a piegare certi fenomeni alle sue volontà , ad indirizzare la storia in una direzione invece che nell’altra. Dunque i fatti accadono perché accadono ma potrebbero accadere anche in maniera diversa. Non c’è bisogno di propendere per una visione escatologica per leggere nella storia umana un progresso, costellato di grandi, terribili e ripetuti errori. Che ancora si ripeteranno.
Tutto ciò per confermare una differenza di fondo, che arricchisce il dialogo, tra il mio approccio alla realtà, orientato al risultato, e quello di Vilma, più propenso all’analisi e alla comprensione, come lei dice, dei fenomeni psichici.
Dunque, le archistar; o meglio il fenomeno archistar, perché a me personalmente non importa molto di loro come persone, come non importa molto delle star delle cinema. Però un fenomeno non si combatte perché il fenomeno non esiste, è un’astrazione della nostra mente, una categoria utile a raggruppare un insieme di azioni e di persone. Esistono gli attori del fenomeno che, nella sua manifestazione evidente e ultima sono le archistar. Colpisci loro e colpisci il fenomeno e, soprattutto, colpisci coloro che appoggiano, imitano, propagandano, sponsorizzano quel fenomeno.
Prenderne atto e subirle oppure opporvisi e provare a cambiare? Nel mio caso la risposta è evidente.
E qui viene bene rispondere a Riccardo alias Verde83. Intanto chiarisco, non per te, che quando dico che accetterei la sfida con Gehry, non compio né un inutile gesto di presunzione né un rischio ma vado sul velluto perché di fronte ad un quartiere progettato con case sbilenche e un quartiere tradizionale fatto di strade e case con i tetti da sottoporre alla scelta dei futuri abitanti non esiste gara, chiunque sia l’autore di quest’ultimo.
Ma è proprio per questo che non viene presa in considerazione la proposta del voto, perché è più facile pilotare il consenso attraverso i sacerdoti del culto, cioè gli esperti di turno; perché il fenomeno archistar, che è una grande semplificazione e che è, sostanzialmente, nelle sue forme di espressione del potere, il naturale punto di arrivo del fenomeno dei “maestri” (naturalmente quelli del Bauhaus e seguenti) non serve solo a loro ma ha un grande seguito perché alimenta un giro di reciproci interessi nell’assegnazione delle cattedre, nei concorsi (una volta da giudice, l’altra volta da concorrente), nelle direzioni (ora sempre meno) delle riviste ecc.
C’è tutto un sistema che da decenni funziona in questo modo e non sono il solo a dirlo, non invento niente di nuovo (vedi Prestinenza Puglisi): ho tutta la collezione di Casabella direttore Gregotti; sempre gli stessi nomi, lo stesso giro, gli stessi vincitori dei concorsi, le stesse architetture fatte con lo stampino salvo lievi variazioni. Allora erano quelle le archistar de’ noialtri.
Oggi sono quest’altre, l’architettura è più globalizzata, è ancora più degenerata, è diventata più evanescente, astratta dai luoghi, sempre più autoreferenziale (ma lo erano anche prima) o scultura appunto. Riccardo, mettersi a sottilizzare se quel progetto della tale archistar è accettabile perché è un oggetto singolo, slegato dal contesto comunque è un errore perché ti metti nei loro panni e sei fregato. E’ il metodo, il sistema e le sue conseguenze ad essere sbagliate, oltre alla maggior parte delle opere.
Ma, dice Riccardo come pure Master: e i geometri? Sono loro che contribuiscono alla massa delle costruzioni. E’ vero, come è vero che ai geometri si sono affiancati da anni anche gli architetti. Ma, intanto, va detto che i geometri costruiscono in base a norme tecniche fatte da architetti , e non dimentichiamocelo mai (lo sa bene Riccardo il cui padre fa norme tecniche dove riesce a contenere in parte, se non ad eliminare, la furbizia e la spregiudicatezza del geometra nell’interpretazione) scrivendo norme tipologiche e morfologiche. E poi, che lotta fai contro una categoria forte, numerosa, diffusa? Le uniche possibilità sono due:
-o fai una lotta politica, perdente in partenza perché sono ben appoggiati da sempre in Parlamento;
-o fai una battaglia culturale.
E la denuncia del fenomeno archistar è una (non l’unica, lo so) delle possibile battaglie culturali, perché mostra i difetti della manifestazione più evidente del fenomeno. L’ho già detto: colpisci le archistar e colpisci un sistema culturale.
Riccardo, hai ragione sugli edifici specialistici e come tu sai non è che io rifiuti l’architettura moderna, l’architettura dell’immagine proprio per edifici che, se non inseriti all’interno di un contesto urbano ma isolati e che hanno il compito di comunicare la loro presenza, devono segnalare la loro diversità per motivi pubblicitari aziendali o di mercato. Ma queste archistar, o almeno gran parte di esse, non generalizziamo, sarebbero capaci di teorizzare e fare le loro invenzioni astratte dentro un centro storico e, dietro di loro, la folla di architetti osannanti ad imitarli. Guarda gli esiti dei concorsi, guarda le riviste, i siti ecc.
La pubblicità c’è, Riccardo, ed è forte ed è organizzata. leggi, se ancora non l'hai fatto, Maledetti architetti di Tom Wolfe dove sono spiegati in modo divertente i meccanismi.
E la riprova, e vengo a robert, è in quella lettera contro il principe Carlo, che io ho letto solo velocemente ma da cui è facile capire come si coalizzino quando è in pericolo l’accettazione supina di un progetto di qualcuno del gruppo. Hai visto che non manca quasi nessuno all’appello! O meglio manca il più capace nel mondo della comunicazione, cioè Rem Koolhaas, un maestro assoluto di intelligenza in questo campo. E’ un segno di debolezza quel gruppo di firme, non di forza. Non so se abbiano chiesto a Koolhaas di firmare, ma l’esserci, se da un lato certifica per scritto l’appartenenza al ghota dell’architettura mondiale, dall’altra ne dichiara un piccolissimo scricchiolio. Non vorrai mica stare a disquisire se è lecito che il principe Carlo si opponga o parlare dei metodi, spero!
Vuoi sapere , robert, se mi piace Ricci: NO. Non mi piace come architetto e non mi è piaciuto come professore. Vai a Sorgane o vai a vedere il palazzo di giustizia e poi mi saprai dire.
Vuoi sapere se mi piace Gino Valle: SI e moltissimo e lo considero uno dei più seri e bravi architetti italiani del secolo scorso. La sua “griffe” non la riconoscevi dalla noiosa ripetitività di se stesso, semmai dalla capacità ogni volta di saper interpretare il progetto alla luce del tema da svolgere e del contesto.
Robert, vedo che non ti addolori troppo nell’osservare un certo ritorno all’architettura legata al contesto: dentro la tua dura scorza modernista alberga un’anima tradizionalista. Ti puoi salvare anche te.
Saluti
Pietro
"dentro la tua dura scorza modernista alberga un’anima tradizionalista"
sulla seconda parte hai perfettamente ragione: la tradizione me l'hanno insegnata fin da piccolo (e, come me, molti altri architetti usciti dalla mia stessa facoltà).
sulla prima ti racconto una commissione edilizia di un po' di mesi fa. progetto di lottizzazione: 20 belle casette unifamiliari distanziate tra loro dai canonici 10 metri. il sottoscritto critica la solita modalità di insediamento da periferia (traducilo con villettopoli). cerco di spiegare che sarebbe meglio un intervento maggiormente unitario, più denso ecc ecc... sì, insomma, le solite storie che noi architetti che conosco le "regole" sanno diffondere (che siamo tanti, mica pochi, nonostante tu continui a pensare che sia una cosa di nicchia la cultura della sedimentazione tipologico-morfologica delle città storiche).
risposta del capufficio: "sì... lo so robert... hai ragione... le cose che dici tu son giuste... ma non si vendono...". io ribatto che un intervento simile a quello che propongo è stato fatto due/tre anni fa e non mi sembra riuscito così male. seconda risposta del capufficio: " hai ragione... è riuscito bene... ma tre quarti degli appartamenti sono ancora invenduti...".
questa è la dura realtà della cacca-diffusa (leggasi villettopoli). continuiamo a masturbarci il cervello con le archistar, i padri modernisti e le pippe tra tradizionalisti e modernisti? io, sinceramente, no.
sul resto, su valle, sul regionalismo critico, sulla classicità, su ricci e compagnia bella c'avrei troppo da scrivere che mi servono almeno due ore che ora non ho a disposizione.
robert
PS: per la cronaca, il piano di lottizzazione era firmato da un ingegnere (non ricordo il nome, probabile che fosse un ing-star)
robert, quello che tu racconti della C.E. non mi meraviglia essendo stato anche io in qualche C.E. e conoscendo le pressioni del mercato, espresse dai colleghi e/o dagli impresari e trasmesse dal tecnico dell'ufficio.
So che il problema esiste ed esiste sia per la comprensibile paura di non vendere, sia per la (talvolta) scarsa autorevolezza degli uffici tecnici, sia per le norme del piano ma, in ultima istanza, per il mercato stesso, cioè per le richieste della gente che sogna la propria villetta unifamiliare.
Non è che questi problemi mi siano estranei, sia professionalmente che culturalmente.
Ma secondo me le strade possibili sono due:
-una è da seguire a livello locale, partecipando ad ogni occasione possibile che si presenta (sempre meno) con tutte le difficoltà del caso: la politica che non vuole intralci e che sostanzialmente è disinteressata al tema, il rischio di dover portare esempi di colleghi che incontri tutti i giorni per strada e non è che puoi togliere il saluto a tutti;
- un'altra, la più praticabile ed anche la più efficace, è provare a dare un contributo, ciascuno a suo modo, a livello "culturale" generale (uso questo termine un po' pomposo ma non ne trovo altri): se cambia un clima generale può influisce anche su quello locale.
Non sottovalutare il meccanismo dell'imitazione e del "condizionamento" ambientale che vale per ognuno di noi, nessuno escluso.
Se i modelli globali sono iper-individualisti non c'è da aspettarsi che non lo siano quelli locali.
Rimane, è vero, il dato delle aspettative della gente che sono, prevalentemente, centrifughe.
Però non è una regola assoluta, ci può essere spazio per tutte le esigenze.
Se guardi Poundbury con attenzione, e non voglio essere fazioso questa volta ma te lo dico con convinzione, vedrai che si può garantire l'individualità della casa con la continuità della strada e con l'isolato. Lèon Krier non vende fumo ed ha studiato a fondo l'isolato che non è esattamente, come potrebbe sembrare da un'occhiata frettolosa, la riproposizione pedissequa di quello della città storica.
Vi sono edifici a schiera, in linea e unifamiliari, parcheggi interni e verde privato.
Quel modello mi sembra un'ottima sintesi tra le esigenze individuali e quelle di socializzazione ed anche tra possibilità economiche diverse.
E poi, se fosse così facile sarebbe tutto risolto; come dite voi: le cose accadono perché accadono. Bene, pensiamo a come farle accadere in altro modo.
Saluti
Pietro
Due cose:
1) Non posso fare a meno di condividere le affermazioni di Vilma Torselli: è indubbio che l'architettura stia diventando sempre più fenomeno mediatico e per far questo si commistioni con arti visive/sceniche/filmiche/virtuali; probabilmente alla luce di questo si capisce l'enfasi posta sull'eccessiva pubblicizzazione del proprio brand.
C'è poi chi ha l'intelligenza poi di capire il pericolo nascosto dietro il baratro ricoperto da carta colorata (ed in questo ho sempre pensato che Venturi possa essere considerato il Warhol dell'architettura) e riesca a giocare sul rapporto "popolare"/"qualità artistica".
L'architettura, come l'arte, segue da sempre correnti ed ispirazioni che definiscono quale sia la "via" di riferimento per poter essere "in auge" e quindi avere "consenso": come afferma Torselli, è un dato di fatto ed è compito dei critici prenderne atto (ora mi viene in mente ad esempio Balthus, che ho sempre ritenuto un grande artista ma che, facendo figurativo, non è conosciuto dalle masse).
Probabilmente questa è l'estrema conseguenza della società di massa in cui viviamo, in cui il consenso, dalla politica al "Grande Fratello", risulta forse più importante delle idee stesse (rileggersi ad esempio "Massa e potere" di Canetti sul perchè le masse obbediscono solo a chi riesce a creare consenso).
Il voto popolare - a mio modesto parere - sarebbe quindi solamente un'accentuazione del carattere già populistico di certa architettura, non certamente una cura.
Poi è ovvio che ciascuno di noi può apprezzare/dileggiare ognuna di queste realizzazioni in base ai propri valori etici ed estetici.
2) Condivido altresì la critica di Salvatore D'Agostino: anch'io vivo nello strano suo paese, in cui i danni maggiori all'architettura sono stati fatti da imprenditori detiti solo al soldo facile e alla speculazione (per non dire di peggio), a geometri che si credono Bernini (quando invece non sanno neppure fare i calcoli per il rapporto aeroilluminante dei locali), ad architetti "che tanto poi i pilastri li sistemano gli ingegneri" e agli ingegneri che fanno i calcoli di questi pilastri messi alla "bell'e meglio" con metodi vecchi di 60 anni.
Ah, e sempre per la "profonda incultura", come non citare il vecchiardo che capisce tutto lui di costruzioni: "che io la casa me la sono fatta da solo, perchè è 50 anni che faccio il muratore".
Ma perchè dunque sbattersi a fare 5 anni di ingegneria e studiare il comportamento statico e dinamico delle strutture quando basterebbe un buon praticantato di muratore?
Questa è gente che non leggerà mai un libro di architettura (ma probabilmente neanche un romanzo giallo): figuriamoci quindi cosa importa a loro del dibattito sulle archistar...
La cultura si crea con l'insegnamento e la valorizzazione delle competenze: occorre tagliare le gambe a chi non ha le competenze per progettare.
Ma questo è un problema politico, e quindi esula sicuramente da un forum sull'architettura.
A presto
Matteo Seraceni
http://arching.wordpress.com
---> Pietro e Vilma,
credete veramente che quella attuale sia «l’epoca dell’apparire più che dell’essere.» Leggendo la storia conosco pochi potenti e architetti ‘famosi’ modesti e virtuosi.
---> Pietro,
credo che Vilma si riferisse a una mutazione che occorre indagare e non criticare semplicisticamente: «Tutto ciò sta accadendo, e non vedo perché/come opporvisi, essendo io del parere che ciò che accade ha in sé le sue ragioni d’essere. Niente per caso.»
---> Robert,
«secondo me no, vi sono tutti i sintomi perchè si stia "tornando indietro" ad un'architettura più legata al contesto e che va vissuta e abitata e non solo fotografata/comunicata.»
Avverto anch’io questa tendenza, che non è da intendersi in senso negativo, anzi, mi auguro che si faccia strada l’idea di un’architettura più consapevole, ovvio, non nel senso ‘tradizionalista’ sappiamo fare di meglio.
---> Matteo,
io credo che occorre capire meglio il ‘fenomeno mediatico’, pensare che alcune architetture non possono esulare dall’essere esse stesse dei media (nel senso McLuhiano contenere un messaggio).
Sul voto popolare ho gli stessi tuoi dubbi, vincerebbe l’architettura populista e non di qualità.
Pietro, in fondo è un massone, pensa di utilizzare il popolo con la stessa logica di un secolo fa.
Ma il popolo adesso è un più po’ barbaro nel suo senso positivo.
Saluti,
Salvatore D’Agostino
"credete veramente che quella attuale sia «l’epoca dell’apparire più che dell’essere.» Leggendo la storia conosco pochi potenti e architetti ‘famosi’ modesti e virtuosi."
Be', Salvatore, leggendo la storia incontrerai pochi potenti e architetti modesti e virtuosi perchè quelli la storia non ce li ha tramandati, non erano abbastanza 'famosi'. Dire che l'oggi è l'epoca dell'apparenza non implica alcun giudizio di merito, lo è perché oggi, come non mai in passato, ci sono i mezzi per 'apparire'. Cosicché oggi non 'sei' se non 'appari', perché mancando notizia di te manca anche la possibilità di giudicarti ed eventualmente apprezzarti.
Il fatto che un'architettura venga 'fotografata/comunicata' non esclude la possibilità che venga anche 'vissuta e abitata', la tendenza che io leggo nell'attualità non è tanto un 'tornare indietro' quanto il tentativo o l'aspirazione a conciliare 'essere' e 'apparire'.
Il fatto che oggi anche in architettura valga che "the medium is the message" è dovuto proprio alla grande possibilità di 'apparenza', l'architettura è diventata un medium quando ha scelto di 'apparire'.
Almeno io così la vedo.
Saluti
Vilma
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