Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


8 marzo 2009

LA CITTA' DELLE REGOLE

Pietro Pagliardini

Si può dedicare un post a qualcuno? Perché no? Questo post è dedicato a Salvatore d’Agostino, l’autore di Wilfing Architettura, con il quale sono praticamente in disaccordo su quasi tutto ma che con una sua risposta ad un mio commento ha messo in luce una posizione ambigua, poco chiara, credo un equivoco, che esiste in alcuni miei post precedenti.
Salvatore pensa che un’urbanistica governata con le regole su cui spesso ho scritto sia una limitazione della libertà, dell’iniziativa, della scoperta personale, riferita non ai progettisti, della quale non mi sarei minimamente preoccupato, ma dei cittadini. Riflettendoci sopra un attimo mi sono reso conto del fatto che se lui l’ha pensato è a causa di un mio errore o di una mia mancanza di chiarezza. L’equivoco va chiarito.

Probabilmente nasce dal fatto che, nel mio bisogno di semplificazione, assimilo spesso l’urbanistica delle regole all’urbanistica tradizionale tout court, intendendo con questa l’urbanistica delle città storiche europee. Non che ciò non sia vero, in gran parte, ma l’insistenza su questo punto può far credere che io pensi che si tratti di una questione esclusivamente stilistica o estetica e che la città contemporanea debba essere la replica sic et simpliciter dei nostri borghi medievali, con ciò trascurando il fatto che la società è cambiata, che tutto è cambiato; ma, soprattutto, credo che l’equivoco verta sul significato di regole.
Regola è una parola che fa paura ad ogni architetto e in genere a chiunque si occupi di edilizia. Ce ne sono talmente tante in giro, per fare un grande complesso immobiliare come un modesto ampliamento ad una casetta unifamiliare, che nessuno ne può veramente più. Tra Europa, Stato, Regione, Provincia, Comune ed Enti vari nessuno può mai avere la certezza assoluta di poter serenamente affermare: sono in regola. Diciamo che fare un progetto è come puntare alla roulette. Summa lex summa iniuria.

Le regole di cui parlo non sono quelle. Quelle dovrebbero essere falcidiate drasticamente. Quelle sono sì un limite grande alla libertà e alla giustizia, degli architetti, dei cittadini e delle imprese.
Le regole di cui parlo sono quelle che stanno alla base della nascita e dell’evoluzione della città storica ma che, interpretate alla luce della realtà e delle esigenze contemporanee, conservano intatte la loro validità, vitalità ed essenza. Il difetto, l’equivoco, sembra anche essere ingenerato da quell’aggettivo "storico" che a molti fa appunto temere trattarsi di un pensiero reazionario, nostalgico, fuori dal tempo.

Premesso che a me non fa affatto paura questo aggettivo, ché è anzi ovvio che non poter esservi forma di progresso senza le conoscenze accumulate nel passato, il fatto è che quelle regole che vigevano nelle città antiche, lette e studiate dalla scuola muratoriana, sono le stesse che hanno trovato conferma per via matematica in Nikos Salìngaros, seguendo una strada autonoma, e che mostrano straordinarie analogie con la teoria delle reti.

La città è connessione, è permeabilità, è opportunità di scelta tra alternative diverse, è libertà che si sviluppa in una struttura gerarchizzata che svolge la funzione allo stesso tempo di dare diversi gradi di ordine al sistema e di permettere la riconoscibilità dei diversi luoghi. La città non deve fare sentire estranei i cittadini ma deve farli sentire in ogni luogo come a casa propria, il cui spazio di norma non presenta segreti.
Nella città questo sentimento di sicurezza è ancora più importante che entro le mura di casa, perché fuori ci sono gli altri, la maggior parte dei quali sono estranei, sconosciuti; perdersi tra gli estranei può essere una sensazione piacevole ogni tanto nella vita, in determinate situazioni e condizioni d’animo, ma non può essere una condizione permanente.

Leggo spesso molti post e commenti in cui si attribuisce una grandissima importanza agli aspetti emozionali della sorpresa e della scoperta nei confronti dell’ignoto come se queste fossero necessità generalizzate e su queste si dovesse misurare il valore dello spazio urbano.
Premesso che progettare una simile città è impossibile perché il progetto è una previsione di ciò che accadrà e prevedere l’ignoto, prevedere la sorpresa in relazione agli stati d’animo di ciascuno non è per definizione possibile, perché ognuno ha aspettative di scoperte diverse, per cui un progetto del genere altro non potrebbe essere che dettato dal caso e dall’incertezza, come in effetti avviene, ma è anche vero che io credo che queste considerazioni, che hanno il pregio di aprire nuovi scenari e opportunità, siano limitate ad un ristretto numero di individui, tra i quali ci sono sicuramente gli architetti, e a determinate città e situazioni urbane. La domanda è: per chi deve lavorare l’urbanista, per interessi limitati, vorrei dire settoriali ma è brutto, o per quelli generali?
Lo stesso Bauman, che parla appunto di società liquida, mi sembra che prenda atto di una condizione reale della società, ovviamente non dovuta all’architettura e all’urbanistica, ma che non ne decanti affatto gli aspetti positivi. L’architettura e l’urbanistica, invece, sembrano volere e per molti dovere assecondarne il flusso, con ciò incrementando il fenomeno e facendogli da cassa di risonanza.

Certamente qui siamo in presenza di due visioni opposte della società che si scontrano tra loro: una più relativista che tende a non scegliere giudicando ogni esperienza valida in sé stessa, per il fatto stesso che essa accade, e ad adattarsi a ciò che accade; l’altra invece che attribuisce importanza ad una scala di valori, che fissa delle priorità e ritiene che l’uomo possieda le risorse intellettuali e la volontà per ottenere il risultato sperato.

Voler fare prevalere la prima visione sulla seconda è una palese contraddizione perché vorrebbe dire in realtà appartenere alla seconda classe. Il che a mio avviso, e non solo mio, dimostra che è una visione errata perché ingannevole e incoerente.
Ma nonostante questo io credo che la città contemporanea sia in grado di consentire la convivenza delle due opposte concezioni. Infatti, per quanto una città, o meglio una parte di città, possa essere studiata in base alle regole studiate da Caniggia e Maffei in Lettura dell’edilizia di base e in Il Progetto nell’edilizia di base, il processo di pianificazione non è e non può essere lineare e nel passaggio dal progetto alla sua attuazione tante sono le interferenze della società (e mi riferisco a quelle legittime), almeno quante sono i soggetti in gioco e in questo processo c’è spazio per elementi di incertezza, per “errori”, deviazioni dall’idea iniziale.

Il progetto, tanto più quello urbano, è in ogni modo un processo dinamico impossibile da governare nella sua totalità e complessità.

La città ideale non esiste nella realtà, per fortuna, al massimo esiste la migliore tra quelle possibili. Una struttura urbana forte costruite con regole non teme eccezioni, una città di sole eccezioni semplicemente non è una città, non è l’ambiente dell’uomo.




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18 commenti:

Anonimo ha detto...

Ma se si sostituisce al permesso di costruire una "perizia giurata", la deregulation sarà totale! :-)

p.s.
Cos'è già quella schifezza nella illustrazione?

Pietro Pagliardini ha detto...

La perizia giurata ho l'impressione che altro non sia che una DIA, in vigore ormai da una vita in molte regioni compresa la Toscana. L'unica preoccupazione che ho è, visti i risultati, che non essendoci più commissione edilizia, non esiste più un controllo sulla qualità del progetto, un motivo in più per fare "regole" urbanistiche, tipologiche e morfologiche differenziate per zone.
L'altro timore è che, con il caos normativo e vincolistico, ogni DIA sia un terno al lotto.
Quanto all'aumento di superficie in caso di demolizione mi sembra, in generale, una cosa buona, visto che le città devono crescere al proprio interno e non all'esterno. Poi il problema è come verrà utilizzato questo strumento.
Semmai dubbi ci sono sul così detto "atterraggio", cioè il trasferimento di volumi in altre zone. Di questi argomenti si occupa in verità anche il PRG di Arezzo, in formazione. Comune di centro-sinistra. Perché se la fa il governo è cementificazione e se lo fa un comune la stessa proposta è virtuosa? Bah!

Il quadro che mostro è il nuovo quartiere della Bovisa a Milano di Rem Koolhaas. In effetti qui si vede un "atterraggio" di Unidentified Flying Objects (UFO per gli amici).

Puoi avere qualche notizia in più sul blog Bovisiani.

Ciao
Pietro

Salvatore D'Agostino ha detto...

Pietro,
perché no? Se il clima è propenso al dialogo.
Mi permetto di correggere questa tua riflessione: «Certamente qui siamo in presenza di due visioni opposte della società che si scontrano tra loro: una più relativista che tende a non scegliere giudicando ogni esperienza valida in sé stessa, per il fatto stesso che essa accade, e ad adattarsi a ciò che accade; l’altra invece che attribuisce importanza ad una scala di valori, che fissa delle priorità e ritiene che l’uomo possieda le risorse intellettuali e la volontà per ottenere il risultato sperato.»
Con: “Una visione pedestre, intesa nei due sensi del suo significato, che tende a scegliere osservando ogni esperienza valida in se stessa, per il fatto stesso che essa accade, e a svilupparsi su ciò che accade.”
Secondo Habitat, un’agenzia delle Nazioni Unite un miliardo di persone vive negli slum.
Nello slum di Dharavi nel cuore di Mumbai in India (recentemente balzato alla cronaca per il film The Millionaire) quando le autorità cittadine hanno annunciato il progetto per raderlo al suolo e costruire un nuovo quartiere è iniziata una violenta opposizione da parte dei suoi abitanti.
Capire la vitalità e il senso civico degli slum è importante. Come dice Saskia Sassen “La storia ci insegna che gli esclusi e i deboli sono un importante fattore nello sviluppo di nuove fasi storiche”. In tal senso due recenti progetti sono da apprezzare: le scuole /biblioteche/ponti nella favela di Mendellin in Colombia e i ponti/connessioni progettate da Oscar Niemeyer a Rio De Janeiro nella favela Rochina. Progetti che non si contrappongono alla vita delle favelas ma che fanno da ponte per nuove relazioni. La città formale si connette con quella informale.
Leggendo due recenti libri di urbanistica italiana: Federico Zanfi, Città latenti, Bruno Mondadori, 2008 e Roberto Saviano, Gomorra, Mondadori, 2006, non possiamo non capire che in Italia siamo in presenza di tantissime slum un po’ più edulcorate.
Il progetto della CEI della chiesa di Tor Tre Teste a Roma, aveva la stessa logica degli interventi degli slum sopracitati. Inserire un edificio che facesse da ponte tra la città e la periferia (termine nefasto).
Se noi non consideriamo la sua valenza architettonica (se vuoi puoi ipotizzare che l’abbia costruita Caniggia o Muratori non cambia al fine della nostra speculazione), capiamo che il progetto partiva da un’idea interessante che è tipica delle nostre chiese: la chiusura visiva con gli assi viari, essere centro. Per il progettista l’autonomia materica era fondamentale, creando un edificio che si aprisse al quartiere.
Quest’idea importante è stata cassata dalla CEI, che per motivi di sicurezza (si può tradurre di una non fiducia degli abitanti del quartiere) ha circoscritto l’edificio con un muro.
Ed è su questo muro (concettuale, non m’interessa l’opera architettonica) parafrasi dei tanti muri esistenti in Italia che si basa la mia analisi.
Le città informali, devono ricevere delle risposte mature e non autoritarie dalle città formali. Capire che quando si parla di periferia come parti avulse dalla città si discrimina la popolazione. L’idea di governabilità urbana non è più auspicabile perché si basa su un concetto di esclusione e di immaturità cittadina. Cioè un’idea formale migliore di quella informale.
Bisogna osservare che la maggioranza delle città italiane, non sono città regolate ma città stratificate d’idee molteplici e spesso antitetiche di città possibili.
A mio avviso città ‘opere aperte’ nel senso echiano del termine è una delle sfide dell’architetto/urbanista.
Un’ultima considerazione, le suggestioni Baumaniane sono rilevanti, ma rimandano a una visione fisica ‘liquida’ che forse è meglio sostituire con ‘trans’.
Perché le nostre città sono attraversate dagli uomini e dalle sue nuove estensioni tecnologiche. Capire che vi è la presenza di una transcittà per i nuovi progettisti è fondamentale.
Saluti,
Salvatore D’Agostino

N.B.: Tralasciando la personale grammatica estetica della città. L’immagine del progetto della ‘Bovisa’, che hai inserito, è un esempio di un brano di città regolato e formale.

Anonimo ha detto...

Sempre sul "semi off topic".
Si, anch'io avevo dato questa interpretazione. La chiama "perizia giurata" perchè vuol far credere di fare la rivoluzione.
Però, per favore, qualcuno che gli sta vicino gli spieghi che il problema in Italia non è la mancanza di "cubatura" e dunque ottenere procedure immediate (senza "lacciui e lacciuoli") per realizzarla.
Sulle proposte di incremento una tantum e di favorire la sostituzione edilizia si può essere d'accordo, ma con le dovute condizioni. No?

Pietro Pagliardini ha detto...

Biz, siamo d'accordo. Solo un punto non ho compreso: per me i lacci e i lacciuoli ci sono, eccome. Può darsi che sia un fatto regionale, si capisce. Io so ad esempio, che a Milano si costruisce con pochi lacci e lacciuoli.
In Toscana si costruisce, eccome (si costruiva, mi correggo) ma prima devi passare da riti consumati e vecchi. A proposito, il nuovo PRG di Arezzo ha avuto inizio nel 2001, mese più, mese meno, ancora deve essere adottato il Regolamento Urbanistico, che sarebbe quello strumento che rende operativo il piano. Adottato, ho detto, non approvato. Dopo l'adozione ci sono le osservazioni e perciò le vere discussioni, perchè c'è "la ciccia". Dopo viene l'approvazione.
Cioè quasi 10 anni. Ci sono i lacci e i lacciuoli o no? Ti sembrano tempi umani?

A Salvatore rispondo più tardi perchè il suo commento è lungo e me lo devo leggere con calma. E poi ho visto che parla di Dharavi che mi interessa molto.
Pietro

Anonimo ha detto...

Certo. Oltretutto, se c'è uno che odia la burocrazia, quello sono io.
Ma da qui a dire che si possa fare tutto con una DIA (anzi, una "perizia giurata"), ce ne passa ancora.

Pietro Pagliardini ha detto...

Biz, credimi è questione d'abitudine. Ti spiego sintetizzando come funziona in Toscana.
Le DIA si applicano a tutto meno che alle nuove costruzioni. Per capirci si applicano a: ampliamenti, ristrutturazioni con demolizione e ricostruzione, ecc. Questo indipendentemente dalla cubatura e sono state fatte grosse cose con la DIA.
La DIA viene comunque esaminata dall'istruttore che, se si accorge che qualcosa non va ti ferma.
Il permesso di costruire invece...è uguale, solo che devi aspettare l'istruttoria. Non c'è commissione edilizia nè in un caso nè nell'altro, per cui che il progetto faccia schifo o meno non interessa a nessuno, salvo nei casi in cui c'è la Soprintendenza.
La differenza dunque consiste solo....nella maggiore responsabilità del progettista ma, ti dirò, è più semplice e c'è meno pericolo di sbagliare in una nuova costruzione che non nelle ristrutturazioni dove ci sono di mezzo le più svariate interpretazioni, ecc.

Non vedo questo scempio, tanto più che tutto passerà dalle Regioni e allora avremo quelle del nord che l'accoglieranno perché i tempi sono importanti, quelle del centro che non l'accoglieranno perchè vorranno ribadire che loro sono diversi dal governo, o meglio, da Berlusconi (loro lo chiamano così il governo, tanto per farsi del male) e quelle del sud.....dipende dal fatto se contano di più gli interessi economici o quelli dei dipendenti pubblici che perdono un pò di potere.
E' un pò cinica e approssimativa ma ha una sua rozza credibilità.

Ciao
Piero

Pietro Pagliardini ha detto...

x Salvatore.
Io credo che l'argomento Dharavi non debba essere affrontato con l'approccio del ponte, dell'integrazione, dell'uomo bianco buono che va incontro al povero selvaggio. Dharavi (mi devo affidare a ciò che leggo perchè sono realtà che non conosco) e dal fatto che tu mi dici che gli abitanti, giustamente, si sono ribellati al "risanamento" è una realtà sociale ed anche urbanistica viva, vera, che ha un valore perché lì migliaia di persone hanno una struttura sociale che consente loro di vivere, di lavorare, di commerciare. E' una realtà autosufficiente che non chiede niente, solo di rimanere dov'è a continuare la sua vita.
Se togli quegli abitanti dal loro ambiente e li mandi a vivere in palazzoni condominiali, distruggi una realtà economica e crei sbandati.
Non ci sono molti paragoni da fare con il nostro paese, se non forse con le borgate romane abusive del dopoguerra ma le realtà sono completamente diverse.
Urbanisticamente vi sono favelas brasiliane spontanee che non hanno niente da invidiare alle nostre "periferie" progettate male, se non la qualità edilizia ovviamente diversa. Ma paragonare la spontaneità di Dharavi con le nostre periferie non esiste, perchè da noi non c'è nulla di spontaneo, tutto è mediato dalle norme, dai progettisti, dai costruttori, insomma, è tutta un'altra storia.
A Dharavi siamo alle condizioni di origine di una città e di una società.
In un paese dove ci sono ancora le caste quello è un esempio straordinario di un gruppo che vive a suo modo, lavorando e commerciando, e che ha una vita sociale probabilmente molto più ricca della nostra.
Non siamo, per capirci, alle baraccopoli lungo i fiumi a Roma!
Come paragonare quella situazione con, ad esempio, lo Zen o le vele di Scampia, insediamenti forzati, fatti dall'alto, luoghi deputati all'esclusione in cui l'attività più probabile è la malavita!
Non confondiamo le cose.
Le nostre città sono stratificate., certamente, ma il loro disegno è fatto o dalla speculazione selvaggia o dai piani regolatori o da entrambi e chi vive in periferia (per me è il termine giusto, con valenza negativa) non ha scelto un bel niente e nei migliori casi ha scelto tra il poco che c'era da scegliere.

E la Bovisa è un incubo per ricchi, ma sempre incubo resta. A me, Salvatore, piace dialogare, però piace anche dire quello che penso.
Ciao
Pietro

Salvatore D'Agostino ha detto...

Pietro,
i ponti che descrivo sono fisici (sono stati realizzati) non concettuali.
La frase: «Progetti che non si contrappongono alla vita delle favelas ma che fanno da ponte per nuove relazioni. La città formale si connette con quella informale.» Spiega chiaramente l’idea, che qualsiasi agglomerato urbano deve essere considerato città. Perché la vita di un gruppo di persone, anche quella più disagiata ha in nuce il principio abitativo. Sta a noi stabilire come poter migliorare, senza imporre le nostre idee, le situazioni più complesse.
Sugli slums ho fatto una metafora , non un paragone. Slum edulcorati.
Tu hai una visione un po’ estetica degli slum che a me non m’interessa.
Io credo che continuare a parlare di periferie come un caso ‘negativo’ e avulso dalla città sia discriminante.
Una discriminazione che può generare rabbia com’è avvenuto nelle banlieue a Parigi o a Napoli (sedati dalla camorra).
Un luogo va ideato non in ‘valore assoluto’ ma secondo le esigenze sociali e culturali, senza ritornare all’estetica del passato perché sappiamo fare di meglio.
In questo momento in Italia mancano le moschee, le case per le badanti, luoghi per i ROM o Sinti, case per i migranti impiegati nell’edilizia, molta edilizia scolastica e via dicendo.
Queste sono le vere sfide dell’architettura.
Saluti,
Salvatore D’Agostino

P.S.: La Bovisa è un’università e non mi dispiace l’idea che possa essere realizzata bene. Ripeto ognuno ha la sua grammatica, che sia tradizionalista o diagrammatica resta fondamentale il principio di qualità edilizia e non credo che in questo progetto non ci sia (ripeto non m’interessa un commento del suo valore estetico).
Su Dharawi: Gethin Chamberlain, I figli di Mumbai, Internazionale, n. 782, 13/02/2009, pp. 48-51.

N.B.: mi piacerebbe una tua risposta, sul mio blog, sul progetto di Muratori.

Pietro Pagliardini ha detto...

La rabbia delle banlieu deriva da molte cose ma abitare in quei ghetti farebbe incazzare anche te e non le considereresti in modo così intellettualistico. Estetizzante è il tuo discorso, non il mio.

La Bovisa che vedi non è l'università ma è un quartiere residenziale, direzionale, ecc. e, a parte ogni discorso, è evidente a tutti che è una scatola di giochi di legno buttati per terra in maniera random.
Se questa è urbanistica io posso operare al cuore.
La qualità edilizia non c'entra niente con la qualità urbanistica e Dharavi ti dice questo: ottima qualità urbanistica, pessima qualità edilizia.
Comunque non voglio convincerti.

Saluti
Pietro

Salvatore D'Agostino ha detto...

Pietro,
perché ti riscaldi.
Sei tu che vedi nello slum ‘Dharavi’ la forza dell’architettura tradizionalista, non io. Quindi hai una visione estetica.
Non mi risulta che io abbia parlato degli slum come ‘città ideale’.
Ma è possibile parlare serenamente con te, rispettando i reciproci punti di vista?
E dopo, perché sei sempre così sbrigativo nei miei confronti?
Non mi risulta che la ‘Bovisia’ sia un quartiere residenziale: «EuroMilano ha così incominciato a immaginare un luogo, una sorta di villaggio, che potesse accogliere diverse realtà: le sedi del Politecnico (180.000 m2) e dell’Istituto per le ricerche farmacologiche Mario Negri – due centri scientifici di eccellenza, non solo per Milano, ma per l’Italia intera – e una serie di imprese interessate a investire, con costi contenuti, in un’area agevolmente raggiungibile e strutturata con servizi.
Un insediamento che, secondo le previsioni, può vantare delle prerogative particolari: l’età media delle persone che lo occuperanno per motivi di lavoro e di studio sarà al di sotto dei trent’anni, per una popolazione complessiva di almeno 25.000 persone al giorno.» (Domus, n. 919, 11/2008, p. 100-103)
A proposito dell’articolo apparso sul blog ‘Bovisiani’, da te tanto decantato, io concordo con il commento di Giorgio Memè: «L’ignoranza e la superficialità di chi ha scritto questo articolo farebbe impallidire chiunque, per non parlare del coretto stonato di quelli che hanno commentato questo intelligentissimo articoletto da pattumiera.»
Vedi Pietro, ecco perché occorre citare sempre le fonti autorevoli, non possiamo fidarci dei nostri ‘rozzi’ post da blog.
Per te la ‘Bovisia’ «è una scatola di giochi di legno buttati per terra in maniera random» e i grattacieli sono simboli fallaci. Va bene, ma questa tua critica ‘visiva’ analogica (estetizzante) non serve alla ‘speculazione’ dei processi che un architetto deve possedere per non scadere in facili digressioni ‘amicali’.
Possiamo cominciare a crescere o no?
Nel rispetto delle rispettive idee, senza sparare a zero per il semplice gusto di essere ‘contro’, mi devi credere, così non si va da nessuna parte.
Saluti,
Salvatore D’Agostino

Master ha detto...

E' molto interessante quello che dice Salvatore sulla dignità delle periferie. Forse troppo spesso noi architetti giudichiamo un contesto urbano solo su modelli che abbiamo nella testa senza andare a valutare quanto strutturata sia la realtà sociale che vi abita. Il termine periferia inoltre è usato spesso a sproposito con sfumature negative dimenticando quanto importante è la società che abita questi luoghi. Non sono sempre parti degradate o dimenticate, ma sempre più spesso hanno una dinamicità ed una vitalità che i vecchi e ormai tutti blindati centri storici delle nostre città si sognano.
E' un argomento molto interessante e assolutamente da approfondire.

Pietro Pagliardini ha detto...

Caro Salvatore, io sparo a zero sulle cose che ritengo sbagliate, tu spari a zero, con molta supponenza, su di me.
A me va benissimo, sono alquanto impermeabile, ma perché vuoi salire in cattedra con me e convincermi che io devo darti ragione per il solo fatto che lo dici te, senza portare uno straccio di giustificazione che non sia un certo bla, bla, di certa subcultura parolaia? Che cavolo significa la "speculazione dei processi"? Dove si arriva con la speculazione dei processi, cosa si costruisce con questa frase dall'anodino significato di cui te hai un gusto tutto particolare?
Ti pongo una domanda perché tu ti risponda, ma a me non interessa conoscere la risposta: se tu vivessi in una squallida periferia faresti i discorsi che fai oppure cercheresti di cambiarla e saresti incavolato nero oppure no?
prova ad andare a fare codesti discorsi in un bel quartiere di Catania degli anni 70 e poi fammi sapere se sei tornato vivo.
Salvatore, non è non voler dialogare, ma le cose hanno una forza lievemente superiore alle parole e ad un certo punto arriva il momento di confrontarsi con la realtà.
Come chiosa: ho detto una decina di volte che non estetizzo sull'architettura di Dharavi, io parlo di un'urbanistica spontanea che corrisponde a quella di una città vera, di quelle con le case di mattoni e pietre, invece che di baracche. Non è estetica, è saper leggere un tessuto urbano e apprezzare una comunità del genere.

Saluti
Pietro

Pietro Pagliardini ha detto...

Master, certo che la "società che vi abita è importante"! Non sono mica topi da laboratorio!

E' lo spazio delle periferie che è degradato.
Voi discutete se è degradato o meno (quando mi sembra francamente acclarato da sempre), a me interessa capire come risolvere il problema.

Ma mentre noi discutiamo il governo sta facendo una legge che darà il via ad un'operazione di rinnovamento urbano.
Mi sa che a molti è sfuggito questo dettaglio.
E adesso non dirmi che arriva la speculazione, perché questa, edilizia, politica o architettonica che sia, è già arrivata da 40 anni nella dinamica periferia di cui parli te.
Saluti
Pietro

Master ha detto...

"E' lo spazio delle periferie che è degradato."
Questa è una generalizzazione che risulta falsa in molti casi (non guardare solo l'Italia ma tutta la realtà occidentale) perchè esistono molte realtà periferiche tutt'altro che degradate e sono sicuro che se viaggiassi un po' per l'Europa le potresti vedere con i tuoi occhi.
La rabbia che metti in alcune tue risposte, e dal quel che dici è la stessa che ti ha portato a scrivere questo blog, può essere utile ma dovrebbe essere "razionalizzata" con un atteggiamento ed una visione più "aperta" del problema. Non voglio farti una critica e considero il tuo blog uno dei migliori sull'urbanistica e l'architettura ma un approccio più meditato potrebbe essere utile a tirar fuori possibili soluzioni e spunti per ulteriori riflessioni, piuttosto che chiudersi a uovo attorno alle proprie convinzioni. D'altronde a tutti noi interessa "capire come risolvere i problemi" delle città (anche delle intoccabili città storiche italiane), non solo delle periferie.
Per quanto riguarda il "piano casa" del governo non l'ho ancora letto ma spero che possa dare uno stimolo all'edilizia italiana che è un bel po' assopita. Il problema non è solo il risanamento delle periferie (alcune) degradate ma anche il rinnovamento e la riqualificazione di (alcuni) centri storici lasciati ammuffire da una cieca e irrazionale "conservazione a tutti i costi".
Speriamo, la speranza, come ripeto spesso, è l'utima a morire.

Pietro Pagliardini ha detto...

Master, ti ringrazio per l'apprezzamento. Io accetto tutte le critiche e quella che appare come "rabbia" è solo la mia vis polemica, che talvolta travalica.
Accade anche che vi siano commenti astrusi, incomprensibili e che qualcuno salga in cattedra per insegnare e io dovrei non rispondere, ma poiché non mi piace fare il supponente, rispondo anche quando non dovrei. E magari eccedo.
Io rendo meglio se sono polemico, visto che, oggettivamente non sono un critico, non ne ho la minima pretesa. Ho forti convinzioni e, probabilmente, è per questo che qualcuno legge questo blog.
Mi sembra che lo stato dell'arte sia disastroso sia da un punto di vista disciplinare che divulgativo. Se giri nei blog, salvo qualcuno come Archiwatch che è scanzonato e disilluso, ma efficace perchè supportato dalla capacità di Muratore e Bizblog, il cui autore è riflessivo, ironico, talora sinceramente indignato e riesce a mescolare i generi con una capacità straordinaria, per il resto trovo problemi e moralismo, del tpo: e Casamonti è cattivo, e quell'altro è disonesto, e in Italia comanda la speculazione,ecc. ecc.
In questa condizione la mia reazione è quella di trovare una strada alla risoluzione dei problemi.
Ti faccio un esempio per spiegarmi meglio: casualmente sono capitato sul sito di Abitare perché cercavo la vicenda del progetto di Botta a Genova Boccadasse.
Trovo un articolo del cui autore non ricordo il nome che dice cose condivisibili e in più aggiunge che in quell'area sarebbe stato necessario un concorso. Se fosse finito lì avrei detto: la solita litania dei concorsi (in cui io non credo, o meglio credo che siano sbagliati e truccati)! Invece no, aggiunge, come se fosse niente, "un concorso magari con giuria popolare come fanno in Svizzera, e Botta lo sa".
Caspita, mi dico, è la prima volta che sento dire una cosa del genere che io dico da molto e su cui ho fatto diversi post. E' quasi una mia fissazione.
Lascio un commento suggerendo che, se lo dico io non conta niente e lo leggono in pochi, se Abitare ci facesse una campagna su questo punto avrebbe tutto un altro valore. Insomma, potrebbe contribuire a fare opinione.
Silenzio assoluto. Non una risposta, niente.
Alla gente piace scrivere evidentemente per scrivere. Io cerco invece il modo di individuare azioni che possano portare a qualche piccolo risultato.
Internet arriva ad un sacco di persone e le opinioni girano. Non sottovalutiamo questo strumento. Ci sono siti, magari non di architettura, ma che hanno più lettori dei quotidiani e le voci corrono velocemente. Magari tra un pò sarà smentito da Abitare, ma io dico: magari.
Questa è quella che talora appare come la mia "rabbia".
Saluti
Pietro

Salvatore D'Agostino ha detto...

--->Pietro,
mi rincresce per il tuo risentimento ma non credo di essere stato supponente e tanto meno di essere salito in cattedra. (Fammi capire concretamente dove questo è avvenuto, senza frasi facili e invettive).
Mi coinvolgi (senza chiedere il permesso) in un tuo post, ed io, con la premessa di un dialogo ho espresso un parere, ma anche sviluppato un pensiero e un modo concreto di agire.
Credo di aver fatto molti esempi senza giri di parole inutili.
Ognuno ha il suo linguaggio, o per rispondere a un commento mi devi imporre il tuo?
Ciò che non capisco, che tu non capisca una frase semplice come: “speculazione dei processi”.
Speculazione significa: osservare, esplorare. Io utilizzo questo termine nel suo senso positivo: «Riabilita l'accezione positiva di una critica di teorie opposte come evoluzione del pensiero.» Scusa se cito un link dal mio blog ma spiega nel dettaglio l’utilizzo del termine ---> http://wilfingarchitettura.blogspot.com/2007/12/speculazione.html
Processo (non credo sia un termine astruso per noi architetti) per capire il suo senso ti cito due autori a te cari:
«Il quadro generale delle strutture architettoniche costituisce l’applicazione più approfondita del metodo di categorizzazione di Saverio Muratori fondato sullo studio dell’architettura e vuole essere una guida allo studente per i corsi di lezioni teoriche. È una classificazione logico universale applicato all’architettura e perfezionabile, applicando i procedimenti processuali, fino ad avere 256 caselle (invece di 16) per un insieme di 4096 combinazioni reali. » (Giuseppe Lonetti, Capire architettura, Laruffa, 1989, p.5 – un libro didattico di un epigono di Saverio Muratori dove spiega il metodo muratoriano. Nota: non avrei mai immaginato di riprenderlo dalla mia biblioteca e citarlo.)
«Queste note riguardano il processo della progettazione; ovvero dell’invenzione di oggetti che rivelano un nuovo ordine fisico, una organizzazione, e una forma rispondente alla funzione.» (Christopher Alexander, Note sulla sintesi della Forma, Milano, Il Saggiatore, 2° ed., 1973, p. 11)
Quindi, speculazione dei processi, non è altro che un ragionamento critico sulla configurazione basica di un manufatto, che ci permette di capire il senso dell’idea progettuale.
A proposito della tua lettura di Dharawi, Roland Barthes diceva: «Appena una forma viene vista è necessario che assomigli a qualcosa: l’umanità sembra condannata all’analogia», ribadisco la mia lettura del ‘tessuto urbano’ non è analogica/formale, ma concretamente sociale. Comunque non voglio insistere e tantomeno pretendere di aver ragione, ho detto già che sono un pedestre e che scrivo ‘rozzi’ post, quindi un fallace per eccellenza.

---> Master,
mi piace il tuo commento, intuisco che non sono stato così ‘astruso’.

Saluti,
Salvatore D’Agostino

Anonimo ha detto...

bella l'immagine di quest'articolo... sembra una bella e vivibile periferia occidentale moderna...

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