Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


13 luglio 2008

CITTA'-ORGANISMO o CITTA'-MACCHINA

Questo lungo post nasce da un commento di Vilma al post precedente.
Visto che, come dice lei stessa, non ci conosciamo personalmente ma io so chi è, e anche lei sa che io so, mi piace scrivere in forma epistolare, per accentuare ancora di più la finzione in cui Vilma sembra voler credere, a giudicare dalla citazione in testa al suo commento.

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Cara Vilma
Tu cominci il tuo commento con una citazione che condiziona inesorabilmente tutta la lettura del testo e sembra arrivare subito alle conclusioni, contrariamente alle tue abitudini che sono, il più delle volte, aperte e problematiche. In genere quello che mostra sicurezze e conclusioni definitive sono io, per carattere o per scelta razionale.

Con un inizio del genere non potevi che arrivare al web e alla realtà virtuale, e infatti ci sei arrivata.

Concludendo la lettura del commento mi sono reso conto che mi hai – bonariamente - preso in giro, facendomi il verso, hai rimesso in discussione tutto e sei tornata grande.
Tuttavia, ho l’impressione che quella citazione non ti sia scivolata addosso come l’acqua.

Vengo alla metafora della città-organismo.

Città-organismo e città-macchina sono le due polarità opposte alle quali tutti gli altri modelli sono riconducibili; la città-giardino, la città lineare, la città dormitorio, la città degli utopisti, la città dei filosofi, sono varianti ad uno dei due casi: o una città si comporta come un organismo o si comporta in base ad un progetto, per sua natura autoritario, in cui qualcuno decide per tutti e assegna funzioni, compiti, ruoli; per cui sediamoci pure ad aspettare “chi sarà in grado di proporre nuove grandi sintesi” ma sapendo che queste potranno essere trovate nell’ambito d queste polarità e nel frattempo le città-macchina continuano a crescere male.

Credo infatti tu possa convenire sul fatto che la città-macchina - il modello attuale- costruita, nei migliori dei casi, mettendo i vari pezzi al posto giusto dopo calcoli giusti, non funziona. Perché non funziona?

Perché l'uomo non è un prodotto che si possa muovere a comando in un grande meccanismo metallico, come le bottiglie nella macchina imbottigliatrice, senza perdere un requisito fondamentale, cioè la sua umanità, fatta di sentimenti e istinti ma anche di libertà di scegliere e nella città-macchina le scelte apparenti sono tante, quelle reali sono poche: per andare da un luogo all’altro hai efficienti strade di scorrimento veloce ma sei costretto a prendere l’auto e a sottoporti allo stress del traffico; per trovare casa di un conoscente non ci riesci senza navigatore, pena restare bloccato in strade a cul de sac da cui non sai come uscire e che ti fanno perdere l’orientamento; per incontrare persone non hai altra scelta che pagare per entrare in locali specializzati oppure andare a spendere in un ipermercato.
Non hai la libertà di lasciare soli i tuoi figli a giocare davanti a casa, a meno che tu non possieda un giardino privato; non hai la libertà di mandare a scuola i bambini piccoli da soli; non hai la libertà di uscire le sere d’estate a prenderti un gelato in mezzo alla gente senza essere costretta a prendere l’auto, a meno che tu non abiti in centro (storico) o ti rassegni ad un cono consumato lungo una squallida strada piena di auto.

La città-macchina prevede movimenti meccanici e programmati e ha pochi gradi di libertà perché poche sono le scelte di movimento sia per quanto riguarda i percorsi da fare che per quanto riguarda i mezzi con cui farle.
Non tirarmi fuori le piste ciclabili, per favore, perché la cittadinanza non è fatta di ciclisti professionisti che possano fare chilometri al giorno. Soprattutto una città non dovrebbe avere troppe piste ciclabili ma dovrebbe garantire la convivenza e la compresenza di pedoni, auto e bici, senza particolari specializzazioni, a parte, è ovvio, casi particolari. E non mi citare “ l’esemplare” caso olandese perché non esiste strada più insicura per il povero pedone che la piste ciclabile, dove rischia di essere travolto se si azzarda ad infilarci un piede; quanto è “macchinosa” la strada che ad Amsterdam porta dalla stazione al Dam: marciapiede, pista ciclabile, tram, auto, tram, pista ciclabile, marciapiede. Prova ad attraversare ”liberamente” la strada e dimmi quante probabilità hai di sopravvivere.

Questi sono solo alcuni esempi semplici, se vuoi ingenui, ma adatti però ad uno scambio epistolare. Se preferisci invece discorsi più seri ti dico che la città-macchina manca di connessioni diffuse e gerarchizzate e, generalmente, dati due quartieri confinanti vi è una strada che li unisce e un’altra strada, perpendicolare alla prima, che li divide, e allora accade che:

1) lo spostamento tra una zona all’altra è obbligato, e hai l’ingorgo;
2) pedonalmente devi attraversare un’arteria che nulla ha di urbano e rinunci.

Ma chi l’ha detto che questa affermazione sulle connessioni è vera?

Per spiegarlo basterebbe leggere la teoria delle reti di Nikos Salìngaros, che sono certo tu conosci meglio di me. Da parte mia ti parlerò delle reti piccolo mondo, small word network, e lo farò riprendendo parte di un mio testo scritto tre anni fa per un’altra occasione; è ovviamente la sintesi di un libro che non posso citarti non ricordandone né titolo né autori in quanto a me prestato da un amico, ma te lo dirò presto, se già non lo conosci:

Inizierò perciò da un singolare e incredibile esperimento scientifico eseguito in più occasioni da soggetti diversi e con diverse modalità: è stato dimostrato che il grado di separazione tra due individui qualsiasi che non si conoscono e che vivono in ambienti geografici e sociali totalmente diversi è pari a sei; cioè chiunque volesse mettersi in relazione con una persona qualsiasi nel mondo riesce ad arrivare ad essa attraverso altre sei persone solamente. Questo curioso dato ha fatto riflettere gli studiosi, in genere matematici, della teoria delle reti e ha rivoluzionato le certezze acquisite fino a quel momento.
Il nocciolo del problema è: se è possibile che tra miliardi di individui se ne possa raggiungerne uno qualsiasi in così pochi passaggi allora le relazioni tra le persone potrebbero essere non molto diverse da quelle del World Wide Web dove, con pochi links, è possibile raggiungere una pagina qualsiasi tra le oltre un miliardo esistenti e, se ciò è vero, cosa hanno in comune le relazioni tra computers e quelle tra persone? E’ forse possibile creare un algoritmo dei rapporti sociali? Esiste forse un determinismo sociale?

E’ stato esplorato il web tracciandone una mappa che gli esperti chiamano grafo e si è osservato che esso ha un ordine casuale, in quanto non programmato da nessuno (il WWW è, per costituzione, spontaneo e non programmabile da nessuno). Il grafo ha molte connessioni casuali dette anche deboli, perché poco frequentate, ma anche una certa quantità di HUB cioè quelle pagine più frequentate che sono connesse con un numero grandissimo di altre pagine. Dunque l’ordine è casuale, perché non predeterminato, ma non necessariamente caotico anzi è fortemente strutturato e le connessioni deboli sono proprio quelle che consentono di mettere in contatto siti che sarebbero, diversamente, slegati l’uno dall’altro.

Analoghi comportamenti si rilevano nella biologia, nell’ecologia, nell’urbanistica ecc. Sembra che molti sistemi funzionino come la rete dei neuroni del nostro cervello dove non meraviglia tanto l’enorme numero di questi ma la straordinaria capacità di connessioni tra essi che permettono, in caso di malfunzionamento di qualche parte, dovuto a malattia o trauma, di non interrompere del tutto la rete e di avere una funzionalità accettabile.
(Pensa ad uno che batte la testa e perde la memoria! Senza memoria si va malino ma si vive, si hanno sentimenti, si ragiona e, con le tempo, si può ricostruire un po’ di passato. Ora che ci penso lo smemorato sarebbe il cliente ideale per gli archistar!).
Ma allora cosa lega una rete informatica, l’economia di un paese, l’ecologia, la città, il nostro cervello e le relazioni sociali tra gli uomini? E’ probabile che vi siano leggi che governano le relazioni tra oggetti, animali e persone: dico probabile perché ancora non sono state individuate e, soprattutto, sistematizzate in forma matematica. O almeno io non ne sono al corrente. Una di queste possibili leggi è quella delle reti “piccolo mondo”.

Una rete piccolo mondo è caratterizzata dalla presenza di molti legami forti e di pochi legami deboli (
come la città-macchina). Ad esempio: i legami che si creano in un villaggio, diciamo di 100 abitanti, in cui ogni individuo conosce tutti gli altri sono decisamente forti perchè se si disegna un grafo praticamente tutti gli individui sono legati gli uni agli altri da legami di amicizia, conoscenza o parentela; poi vi sono alcuni individui che hanno legami con altri soggetti di altri villaggi, ciascuno dei quali conta sempre 100 abitanti; questi sono meno numerosi e frequenti, più occasionali: sono cioè legami deboli. Ma se, ad esempio, un giovane cercasse lavoro, lo troverebbe più facilmente affidandosi ai legami forti o a quelli deboli? Certamente a questi ultimi, perché, attraverso essi entra in contatto con un numero infinitamente superiore di persone: all’interno del suo villaggio il numero di contatti è al massimo di 99 persone, mentre basta conoscere 1 persona in un secondo villaggio che il numero di contatti aumenta a dismisura, non solo per i nuovi 100 abitanti dell’altro villaggio ma per quelli di altri villaggi con cui il soggetto del secondo villaggio può essere legato da altri legami deboli. Dunque i legami deboli sono proprio quelli che fanno in modo di avere un grado di separazione pari a 6 nel mondo, cioè una rete è un mix di ordine e caos: l’ordine dei legami forti e il caos dei legami deboli. Il caos, dunque, non sarebbe così caotico come sembra, ma piuttosto creatore di un ordine di tipo diverso. I legami deboli sono alla base della comunicazionesono “distributori” di informazione, .

Scusami la lunghissima citazione ma era necessaria per alzare il tono di questa lettera, per capire quanto i matematici abbiano da dire in campo urbanistico e, soprattutto, per spiegare il dato essenziale dell’importanza delle relazioni deboli che non sembra affatto generino caos, come tu pensi.

In urbanistica è esattamente la stessa cosa ed è facilmente verificabile in molte città quando ci sono lavori in corso. Ti faccio un esempio: nella mia città il traffico attraverso il centro storico in direzione ovest-est è assicurato da due sole strade: una, ottocentesca, più importante e più scorrevole, l’altra più stretta, lungo il tracciato delle vecchie mura, con una strozzatura, con soste selvagge, abbastanza marginale: ebbene se per fiere di Natale o altro viene chiusa questa strada, scoppia il caos e le ripercussioni si estendono a tutta la parte bassa del centro storico, perché la strada principale non ce la fa più; eppure sembra impossibile che una stradina del genere possa assolvere ad un compito tanto importante. Se ce fosse un’altra di quelle stradine le cose andrebbero ancora meglio e, contrariamente a ciò che dici te, vi sarebbe più ordine e non più caos.

Questa è la permeabilità, dal punto di vista automobilistico, ma anche dal punto di vista delle relazioni sociali e personali, del funzionamento generale della città con le sue innumerevoli attività.

La città deve garantire il maggior numero di gradi di libertà all’uomo.
La città-macchina è l’esatto opposto della scelta.

La città-organismo è, invece, qualcosa più di una metafora; una città costituita da una rete strutturata si avvicina sempre meno metaforicamente ad un organismo perché aumenta il grado di complessità.
La città-macchina è una strumento rudimentale: basta prendere un piano razionalista e affiancarlo alla pianta di un centro storico e non si può non percepire il dato, spontaneo, di bellezza di questo e di povertà di quello. E’ un po’ la stessa differenza che passa tra la piastra madre di un computer, piena di innumerevoli e microscopiche connessioni attraverso cui circolano milioni di informazioni e il gioco dell’oca cha ha molte variabili ma sempre lungo la stessa strada. Non farò paragoni con l’arte perché non voglio essere impallinato da te.

Nel disegno urbano la vera difficoltà sta nel riprodurre, o meglio nell’avvicinarsi il più possibile alla riproduzione del livello di complessità di un organismo. Certamente il linguaggio è metaforico: le strade sono le arterie, le arterie convergono in determinati organi fondamentali (le nodalità) e li alimentano, il tessuto connettivo è costituito dall’edilizia di base.

Rappresentare un organismo del genere non è molto difficile: io ci vivo tutti i giorni, lo frequento ed è il centro storico della mia città che è simile ai centri storici di migliaia di città e borghi europei. Il difficile non è vederlo e rappresentarlo, il difficile è riprodurlo ex novo ogni volta che qualcuno redige un Piano regolatore, una lottizzazione, perfino una singola abitazione. Perché è così difficile riprodurre ciò che crediamo di conoscere così bene? E perché sembra che "prima" sia stato così facile "inventarlo"?

Perché non è stato inventato proprio niente, è stata seguita nel costruire le città quella che viene definita la "coscienza collettiva spontanea", la quale derivava certamente da una società chiusa e quindi meno complessa e sono state seguite regole in armonia con la natura, direi meglio con la geografia, rispondendo dapprima ad esigenze elementari (la difesa, la presenza di acqua, il porsi lungo strade di collegamento, un retroterra agricolo, ecc), dopo a esigenze più alte e urbane (il commercio, l'organizzazione politica, quella religiosa, ecc).

Le città erano fortemente identitarie, il senso di appartenenza alla città era forte e per essere cittadini, come dice Marco Romano, occorreva avere casa in città. Non sono fantasie romantiche ne’ nostalgie mie o di altri, sono studi molto seri effettuati dai cosiddetti muratoriani, dai territorialisti e basta leggere "Lettura dell'Edilizia di base" di Caniggia e Maffei, per averne un’idea.

D'altronde andando su Google Earth ho trovato questa immagine di una favela ovviamente spontanea, ma ripeto spontanea, di Rio de Janeiro dove potrai osservare che il tessuto di base funziona molto meglio di quelli progettati da architetti.
Questa favela, a parte i problemi sociali, urbanisticamente è risolvibile in maniera semplice ma non altrettanto si può dire di interi quartieri di case popolari o di edilizia privata progettati da architetti e citati in libri e riviste. Certamente le case non sono case e mancano del tutto gli edifici collettivi e pubblici e i servizi minimi che sono essenziali a definire città un insieme di case, ma questo è normale perché non siamo in presenza di una società autonoma ma di cittadini marginalizzati, all'interno di una società organizzata e strutturata.

Questa coscienza collettiva non c'è più e non può più esserci. Rassegnamoci e basta.
Io credo (ma faccio una grande semplificazione) che il crescere della libertà abbia determinato la crescita dell'individuo rispetto al gruppo sociale, con l'inevitabile perdita di alcuni valori a vantaggio di altri.
Naturalmente questa trasformazione la considero positiva ma una delle conseguenze negative è proprio la fine di quella città fondata su valori collettivi condivisi.

E’ a questo punto che avviene la divisione sul che fare.

C'è chi ritiene che cambiata la società occorra prendere atto che anche la città si deve adeguare e chi invece ritiene che quei valori urbani siano da riscoprire, perché in gran parte validi, non più come coscienza collettiva ma come "disciplina" che gli architetti, gli urbanisti, gli storici studino e applichino criticamente, adeguandola ai tempi. Ci vantiamo di vivere in una società matura ed evoluta, ed in parte è vero, e ci possiamo permettere il lusso di fare una scelta critica e consapevole di studio e recupero delle regole che hanno determinato città belle e funzionali e applicarle.

Il problema non è se queste regole sono “antiche” ma se sono “valide”.

D'altronde se la stragrande maggioranza della gente (gli architetti non fanno statistica) non è soddisfatta della città vorrà pur dire qualcosa? Se i centri storici hanno valori immobiliari altissimi un motivo ci sarà! E i rapporti di vicinato, come ho scritto un po’ ingenuamente io, sono in realtà relazioni personali e fisiche di cui l'uomo ha bisogno, non sostituibili dal web, che è semmai una risorsa in più, un modo in più per conoscerci in maniera diversa, ma non un’alternativa a quella del contatto fisico e carnale di cui l’uomo non può fare a meno. Come spieghi che i giovani chattano, fanno blog in cui si scambiano sentimenti ma, alla fine, si ritrovano in luoghi deputati, vecchi o nuovi, strusci paesani e/o località balneari a cercare fisicamente i coetanei?

L'uomo non ha perso la sua umanità, ancora la tecnica non c'è riuscita del tutto, anche se ci sta provando fortemente in nome di un'ideologia (prodotto questo molto umano).

Concludo questa lunghissima lettera con il problema, per me, più difficile che tu poni, e che esemplifichi con il grande centro commerciale.
Certamente qui si combattono due diverse libertà in contrasto tra loro: quella di scegliere come spendere al meglio i propri soldi e quella di godere di una città migliore e con maggiori scelte. Intanto osservo la tendenza a piccoli centri commerciali diffusi in città che pare funzionino economicamente molto bene, se ne nascono così tanti, tuttavia è chiaro che il problema resta.

Me la caverò dicendo che ogni teoria ha qualche contraddizione e nodo irrisolto ma questo non giustifica affatto gli sprezzanti giudizi - non tuoi - da superiorità antropologica data da Bilò verso i "millenarismi" e i "pittoreschi impressionismi".

C’è chi vuole aspettare e guardare e chi è contento di come vanno le cose; meglio però i "pittoreschi impressionisti" che cercano di cambiare per fare contento anche Bilò.

Saluti
Piero

2 commenti:

Anonimo ha detto...

“Dovremmo conoscere il potere del presente e i suoi pericoli, poiché questo secolo è pieno di esempi del presente che si sovrappone al passato, abusando di esso per scopi di natura morale o politica.” (Jonathan Riley-Smith)

Per sintetizzare al massimo ciò che vorrei obiettare, mi limito a puntualizzare pochi concetti dai quali tu stesso potrai derivare i punti di convergenza e quelli di disaccordo della mia posizione rispetto a quanto hai scritto, devo dire egregiamente, in maniera colta, comprensibile e di pregevole stringatezza logica.
Io credo veramente che il nostro corpo fisico condizioni non solo la fruizione dell’architettura ma dell’intera realtà esistente, della quale percepiamo solo ciò che cade sotto i nostri sensi (cinque, ed eventualmente un sesto, opzionale, ma chi ce l’ha fa il sensitivo, non l’architetto). Non ho difficoltà ad accettare l’idea della città-organismo, che tu proponi in antitesi alla città-macchina, perché la nostra condizione umana è inesorabilmente autoreferenziale e la cosa più semplice, immediata ed intuitiva che possiamo fare è riferirci a noi stessi in quanto organismi viventi e parametrare su ciò tutta la nostra conoscenza.
La società umana, anch'essa una sorta di insieme-organismo (ontogenesi e filogenesi che si sovrappongono) si regge su una serie di rappresentazioni collettive, di valori, di norme ed istituzioni, di divieti e di sanzioni che sottintendono una coscienza collettiva di dimensione, appunto, sociale, quella che tu chiami "coscienza collettiva spontanea" secondo il concetto di società come 'organismo morale' in grado di garantire la coesione sociale e, in buona sostanza, la nascita della città (scusa la sintesi brutale dei concetti, che farebbe rabbrividire Durkheim e tutto il suo seguito, ma non voglio annoiare più di tanto).
Tu stesso tuttavia poni dei distinguo e metti un po’ le mani avanti quando dici :”C'è chi ritiene che cambiata la società occorra prendere atto che anche la città si deve adeguare e chi invece ritiene che quei valori urbani siano da riscoprire, perché in gran parte validi, non più come coscienza collettiva ma come "disciplina" che gli architetti, gli urbanisti, gli storici studino e applichino criticamente, adeguandola ai tempi.”, ed è questo per me, che sto tra quelli che ritengono “che cambiata la società occorra prendere atto che anche la città si deve adeguare”, il punto debole del discorso, questo salvare il salvabile ricavando dall'analisi del passato un "disciplina" che vada bene per il presente.
Ogni epoca è portatrice di una storia unica e irripetibile, un intrico inestricabile tra accadimenti, contesto, individui, religione, morale, filosofia ecc. un insieme che, gestalticamente, è diverso e di più della somma dei singoli elementi, dal quale non è possibile astrarre alcunché senza alterarlo, nel senso letterale di farlo diventare ‘altro’, vanificando ogni intenzione di recupero e riutilizzo. Gramsci ha detto che la storia insegna, ma non ha scolari. E’ inevitabile, e forse non è neanche un male.
vilma

Pietro Pagliardini ha detto...

Io sostengo (rapinando lo studio e il pensiero di altri)il modello della città storica ricostruita attraverso la "disciplina" per i seguenti motivi, in ordine logico:
1) La coscienza spontanea non esiste più perchè è cambiata la società ed è cambiato il comportamento degli uomini (ma non è cambiata la natura dell'uomo);
2) Credo che quel modello funzioni anche per la nostra società, con gli ovvii aggiustamenti del caso dovuti all'enorme sviluppo della tecnologia e alla libertà dell'individuo.
Voglio riportare un piccolissimo stralcio del libro citato nel post di Caniggia e Maffei:
"..per quanto grande sia, una città è pur sempre abitata da uomini della stessa dimensione di quelli che abitano in un villaggio; e questi si fanno case che, per quanto complesse, non possono che essere "case", nè più nè meno di quelle di un villaggio, casomai aggregate in modo diversificato. E' perciò che, in ogni caso, una città grande finisce per essere costituita dall'associazione gerarchizzata di tante città piccole, una piccola da un'associazione organica di paesi, un paese da una società di villaggi a loro volta fatti da una gerarchia, sia pur minima, di case. Tutto ciò implica che una metropoli dovrà essere letta attraverso un mondo di moduli progressivamente comprendenti moduli più contenuti, a loro volta fatti di moduli ancor più piccoli, ecc.; ciascuno comunque rappresentativo di un organismo relativamnete autosufficiente, gerarchizzato, ossia fornito di un ruolo peculiare in seno al modulo di più grande entità, ma in ogni caso ciascuno capace di formare un organismo urbano per suo conto, se preso in sè, se isolato, se formante per sua parte un intero nucleo urbano o insediativo, quindi se non associato nè gerarchizzato a formare un modulo di un nucleo urbano più dilatato".
Mi rendo conto che è, a dir poco, riduttivo estrapolare da un libro due o tre periodi ma credo sia rappresentativo di un pensiero.
In fondo, rispetto al nostro discorso, che può anche darsi che non sia necessariamente la verità, come l'uomo non cambia nello spazio, che abiti in un villaggio o in una metropoli, non cambia nemmeno nel tempo, che viva oggi o qualche secolo fa.
Saluti
Piero

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