Pietro Pagliardini
Interrompo la sosta estiva perchè solleticato da una bella discussione.
* * * * * *
Sul blog Archiwatch nei giorni scorsi si è sviluppata una, per me, piacevole e ricca discussione sulla eventuale, temuta, odiata, necessaria, auspicata, rifiutata partecipazione dei cittadini al progetto.
Intanto chiarisco la mia terminologia:
Cittadini: uso questo termine non nel senso usato dalla Rivoluzione Francese, ma solo nel senso di coloro che abitano e vivono nella propria città e che, in linea di principio, poi vedremo se e a quali condizioni, hanno il diritto di decidere sulla sua crescita, trasformazione, demolizione, alterazione, restauro, riqualificazione. Uso cittadini perché li ritengo, ma è ovvio che sia così, i padroni della città. O almeno dovrebbero esserlo. Cittadini è cioè termine che ha una forte connotazione territoriale.
Gente: uso questo termine con un significato più esteso, meno specifico, per indicare quello che io ritengo sia il recettore del “comune sentire”. In genere uso gente per indicare il corpo sociale complessivo dell’opinione pubblica non strettamente legato ad uno specifico territorio.
Tutto è iniziato da una lettera di Cristiano Cossu, in risposta ad un mio commento, in cui esprimeva seri dubbi sulla possibilità di coinvolgere la “gente” nella fase decisionale del progetto.
E’ intervenuta, infine, Vilma Torselli. Ho detto infine ma solo come espressione temporale, non di merito, perché Vilma, in genere, solleva problemi e questioni, suscita dubbi, stimola il confronto; questa volta, però, è stata più categorica e, nel caso della partecipazione, direi quasi tranchant, ha usato espressioni molto poco diplomatiche che non lasciano spazio ad interpretazioni. Non è stata demagogica (non lo è mai, in realtà) non ha giocato con le parole, non è stata politically correct e ha detto, semplificando e brutalizzando il suo pensiero, che la partecipazione è una stronzata.
Però…sto esagerando, perché Vilma ha anche detto che l’architetto “non può né deve operare da solo per conto di Dio” e non deve e non può decidere da solo. Ha portato ad esempio “la rivincita del pedone” che è quel sistema, non sappiamo se reale o mitico, per cui in Giappone prima si realizza un parco e poi si fanno i percorsi seguendo i sentieri tracciati dai pedoni sull’erba. In realtà ho visto anni fa un servizio TV in cui, sempre in Giappone, hanno messo, credo come esperimento, le strisce pedonali agli incroci anche lungo le diagonali, perché quello è il percorso che ogni pedone “naturalmente” predilige, per il semplice fatto che la diagonale ha lunghezza minore della somma dei due cateti necessari per andare da un angolo dell’incrocio all’opposto: una importante dimostrazione che la geometria non è solo un’astrazione dei libri di scuola ma risiede naturalmente nella mente della “gente” anche se non l’ha studiata o non la ricorda.
Dalla rivincita del pedone Vilma ne ricava, giustamente, l’esito che l’architetto deve comportarsi come un “cacciatore di tracce, un segugio che scopre i segni…”.
Eduardo Alamaro ha detto, sempre su Archiwatch, che questa parte del testo di Vilma ha qualcosa di poetico, ed è vero, ma è anche, secondo me, la palese dimostrazione del fallimento del nostro lavoro di architetti. Chi, infatti, vuole o può o sa che il metodo indicato da Vilma è esattamente quello che dovrebbe essere seguito per la preparazione e la redazione di un progetto? Vilma ha descritto molto bene, e direi d’istinto, come un segugio, nient’altro che il Genius Loci, che è tutto ciò che lei dice con qualcosa di più. Potrei essere in disaccordo? Ma oggi questa espressione è molto usata, anche troppo, come tutto ciò che dà suggestioni, ma raramente compresa e applicata.
Se dovessi indicare il metodo progettuale che va per la maggiore parlerei di “creatività”, di “libertà di espressione”, di innovazione e sperimentazione, insomma di tutto ciò che consente all’architetto di esaltare solo se stesso e poco il progetto.
E non mi si venga a dire che questo metodo vale solo per gli archistar, per i grandi, perché il dramma sta proprio qui, nel fatto che è una mentalità diffusa alla base, laddove si progetta la massa degli edifici e si fanno i veri danni alle città e al territorio. Poco c’entra il fatto che il cliente intervenga pesantemente sul progetto originario e il povero architetto sia costretto, dai rapporti di forza impari e dalla necessità di sbarcare il lunario, a modificare, aggiungere, togliere in genere. Intanto in molti casi hanno ragione i clienti e comunque quello che conta è l’atteggiamento con cui l’architetto si pone nei confronti del progetto che è sempre lo stesso, con la differenza che gli archistar fanno (quasi) sempre ciò che vogliono, noi architetti condotti subiamo molto di più le ingerenze pesanti dei nostri clienti.
Tuttavia io sono personalmente molto più ottimista nel buon senso della gente di quanto non lo sia Vilma e anche altri che sono intervenuti nello scambio di commenti e sono invece molto pessimista sull’atteggiamento degli architetti , perché questi hanno davanti a sé modelli troppo glamour per non adeguarvisi: soldi, potere, successo mediatico, a chi non piacciono? Un grattacielo a Dubai, che gira, che si allunga, che si piega, isole create dal nulla a forma di…tutto, la tabula rasa, liberi di creare dal nulla. E’ se è vero che a Dubai c’è poco di storia (c’è tuttavia il deserto, il mare, la natura, una cultura) in Italia e in Europa l’atteggiamento è il medesimo.
Il delirio di onnipotenza, il poter dire: “tutto questo l’ho creato io”, come si concilia con il ricercare le tracce, leggere i segni presenti ma non sempre facilmente visibili?
E’ il fascino del reality che prende molti giovani, il bisogno di uscire dall’anonimato di provincia, di essere al centro dell’attenzione. Gli Archistar sono solo la punta dell’iceberg (e in genere è ovvio che sono molto meglio dei loro emuli) il simbolo su cui mirare, la bandiera da conquistare per demoralizzare l’esercito ma non sono loro il problema, il problema è la truppa, numerosa e guidata da abili ufficiali e sottufficiali che hanno i loro quartier generali nelle università, nel mondo dei media, nell’ambiente culturale mondano, nelle amministrazioni comunali a fare PRG senza disegni, con norme assurde e funzionali quasi sempre a quel sistema che rifiuta la storia, la città, il contesto.
Questa situazione, che non è solo italiana ovviamente, ma è globale, da noi è tuttavia aggravata da due fattori:
- l’essere il nostro paese quello con più storia, con più patrimonio artistico e naturale di tutti gli altri;
- l’avere il nostro paese un’università fatta di caste, grandi e piccole, che se la giocano con altre caste, grandi e piccole, nel mondo dell’editoria e dei mass media.
Di qui la mia piccola, modesta, circoscritta proposta di fare giudicare i concorsi anche ai cittadini, gli unici titolari delle decisioni sulla città. Se gli architetti sono, siamo, quelli che ho sopra descritto, perché gli esperti, i professori dovrebbero essere migliori, essendo proprio loro che hanno formato la truppa? Di più: se anche tutti noi architetti fossimo bravi e i professori membri di giuria fossero bravissimi, perché dovrebbero essere loro a decidere le sorti di una città? Quando è mai successo storicamente? Quando mai l’architetto non ha avuto un rapporto conflittuale, se va bene di amore-odio, con il proprio committente, quando mai non ha risposto agli ordini del padrone e del proprio cliente? Chi ha messo in testa agli architetti una simile storia, talché tutti pensano di fare il proprio comodo e di essere portatori di verità? La repubblica platonica dei filosofi, cioè degli esperti, di quelli bravi, è l'esatto contrario della democrazia, è la tirannia.
Oggi non c’è il Principe, lo sappiamo tutti e ne siamo quasi tutti felici ( a Dubai c’è il Principe, in Cina c’è il Principe, andateci voi a godervelo). Amen. Inutili i lamenti di coloro che dicono: la classe politica è incolta; è probabilmente vero ma spostare il problema su altri soggetti non aiuta a migliorare sé stessi.
Da noi ci sono i cittadini che votano i propri amministratori; non è detto che scelgano i migliori ma è il meglio che ci possiamo permettere e, poiché la città è di tutti, come l’acqua, come l’aria, come l’ambiente naturale di cui tanto ci preoccupiamo; la città è una somma di proprietà private disposte su un tessuto che appartiene a tutti, alla collettività, per questo i cittadini, che costituiscono la civitas la quale esiste, è una cosa vera non un’astrazione intellettuale, devono decidere e avere voce in capitolo sulla costruzione dell’urbs.
Che poi decidano per delega, nella maggior parte di casi e per ovvi motivi di organizzazione sociale e politica, o per democrazia diretta, in pochi ma significativi casi, poco importa: ma il principio è questo. Sulle forme concrete non sta certo a me o a noi decidere.
Questo principio è il fondamento storico dell’essere delle nostre città occidentali; se esiste la pianificazione urbanistica (brutto nome), se esistono i Piani Regolatori, se esiste una normativa (snella o voluminosa è un diversivo ai fini di questo discorso), è perché nella città si devono esprimere valori collettivi e condivisi. Questo è l’unico, vero, profondo motivo che giustifica e ha sempre giustificato l’urbanistica come disciplina, da quei paesi in cui, per ovvi motivi geografici come l’Olanda, è più avanzata a quelli come il nostro in cui, per motivi geografici opposti, è più problematica, frammentaria, meno centralizzata e quindi più disarticolata. I colonizzatori hanno portato l’urbanistica in America del nord, terra sconfinata e con poca popolazione e ciò vuol dire che non è proprio possibile che ognuno disponga del territorio a suo piacimento, che c’è bisogno di un disegno che unisca un popolo intorno a valori condivisi che li facciano sentire appartenenti ad una comunità.
E la rivincita del pedone cosa c’entra con tutto questo discorso? C’entra, perché questa espressione non si riferisce solo ai giapponesi ma è la prova della distanza che c’è tra il progetto e la gente; la rivincita del pedone è appunto la libertà del pedone di non passare dai percorsi pedonali disegnati e realizzati nel verde da un architetto che ha lavorato sul foglio da disegno come si trattasse di un quadro astratto, secondo geometrie che nulla hanno a che vedere con quella che c’è in testa alle persone e che, senza ricordare o conoscere le regole dei triangoli, fa loro intuire che la diagonale è più corta dei due cateti. E così avviene che quei percorsi progettati vengono incrociati da sentieri spontanei senza erba che i pedoni scelgono naturalmente, non per maleducazione, ma per libera scelta di buon senso.
Un’altra dimostrazione sull’organicità della città, che deve consentire il massimo grado di scelte possibili, pena sentire la propria città come estranea, perché gli edifici non si possono scavalcare come i percorsi pedonali.
30 luglio 2008
LA RIVINCITA DEL PEDONE
Etichette:
Archistar,
Cina,
civitas,
Dubai,
Genius Loci
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Etichette
Alemanno
Alexander
Andrés Duany
Angelo Crespi
Anti-architettura
antico
appartenenza
Ara Pacis
Archistar
Architettura sacra
architettura vernacolare
Archiwatch
arezzo
Asor Rosa
Augé
Aulenti
Autosomiglianza
Avanguardia
Barocco
Bauhaus
Bauman
Bellezza
Benevolo
Betksy
Biennale
Bilbao
bio-architettura
Bontempi
Borromini
Botta
Brunelleschi
Bruno Zevi
Cacciari
Calatrava
Calthorpe
Caniggia
Carta di Atene
Centro storico
cervellati
Cesare Brandi
Christopher Alexander
CIAM
Cina
Ciro Lomonte
Città
Città ideale
città-giardino
CityLife
civitas
concorsi
concorsi architettura
contemporaneità
cultura del progetto
cupola
David Fisher
densificazione
Deridda
Diamanti
Disegno urbano
Dubai
E.M. Mazzola
Eisenmann
EUR
Expo2015
falso storico
Frattali
Fuksas
Galli della Loggia
Gehry
Genius Loci
Gerusalemme
Giovannoni
globalizzazione
grattacielo
Gregotti
Grifoni
Gropius
Guggenheim
Hans Hollein
Hassan Fathy
Herzog
Howard
identità
Il Covile
Isozaki
J.Jacobs
Jean Nouvel
Koolhaas
L.B.Alberti
L'Aquila
La Cecla
Langone
Le Corbusier
Leon krier
Léon Krier
leonardo
Leonardo Ricci
Les Halles
levatrice
Libeskind
Los
Maffei
Mancuso
Marco Romano
Meier
Milano
Modernismo
modernità
moderno
Movimento Moderno
Muratore
Muratori
Musica
MVRDV
Natalini
naturale
New towns
New Urbanism
New York
New York Times
new-town
Nikos Salìngaros
Norman Foster
Novoli
Ouroussoff
paesaggio
Pagano
Palladio
Paolo Marconi
PEEP
periferie
Petruccioli
Piacentini
Picasso
Pincio
Pittura
Platone
Popper
Portoghesi
Poundbury
Prestinenza Puglisi
Principe Carlo
Purini
Quinlan Terry
Referendum
Renzo Piano
restauro
Ricciotti
riconoscibilità
rinascimento
risorse
Robert Adam
Rogers
Ruskin
S.Giedion
Sagrada Familia
Salingaros
Salìngaros
Salzano
Sangallo
Sant'Elia
scienza
Scruton
Severino
sgarbi
sostenibilità
sprawl
Star system
Stefano Boeri
steil
Strade
Tagliaventi
Tentori
Terragni
Tom Wolfe
toscana
Tradizione
Umberto Eco
università
Valadier
Valle
Verdelli
Vilma Torselli
Viollet le Duc
Vitruvio
Wrigth
Zaha Hadid
zonizzazione
5 commenti:
Una bellissima conversazione con Pietro Pagliardini, Vilma Torselli, Cristiano Cossu, e Eduardo Alamaro. Spunta in direzione d'una nuova urbanistica italiana à scala umana. Però, se mescolano due topici assai diversi:
1. La selezione, secondo un voto popolare, tra disegni già fatti.
2. La participazione attuale nella proggetazione.
Evidentemente, ci sono metodi molto diversi per confrontare i due attegiamenti. Christopher Alexander ha sviluppato tecniche per la proggetazione participativa, ed i miei amici à Uni Roma 3 seguono questo lavoro utilizzando i "Patterns". Ho scritto alcune parole sul topico nel mio libro "Principles of Urban Structure, 2005". Il capitolo più relevante è disponibile in francese:
Les « modèles » : un langage commun pour la conception participative
ed in portoghese:
A linguagem de padrões e o desenho interativo
Purtroppo ancora non in italiano.
Cari saluti a tutti,
Nikos
Les « modèles » : un langage commun pour la conception participative.
L'ho letto, e mi sembra perfetto: estrarre le esigenze reali degli utenti sia dalla loro cultura che dal loro vissuto che, persino, dal loro inconscio (vedi il campus con laghetto) e trasferirli nel presente attraverso modelli matematico-geometrici tratti dal meglio delle esperienze passate (siano esse identificabili nei tradizionali luoghi sacri o in un vecchio albero), che, per successive approssimazioni, su scale dimensionali variabili, secondo varie possibilità combinatorie e con il supporto diretto di alcuni membri della comunità (pochi, uno o due, se no viene subito fuori casino), renderanno possibile progettare correttamente. Mi scuso con Nikos per la brutalità della sintesi, dico che, sì, mi sembra perfetto, ne sono veramente convinta…..
Ma sono anche convinta che l’urbanistica, purtroppo, non sia né possa essere una scienza esatta e che ogni modello, per quanto perfetto nelle premesse, nelle procedure e nei risultati, riproposto fuori del suo tempo perda credibilità ed efficacia. Estraendo, infatti, un modello dall’esperienza passata, anche se guidati da premesse il più ‘scientifiche’ possibili ci sono buone probabilità di compiere un falso in assoluta buona fede, attribuendo ad un determinato stato di cose significati che non aveva nel momento in cui si è instaurato. Molti centri antichi che oggi ci appaiono come oleografiche immagini di un bel tempo che fu sono nati del tutto casualmente, per una sorta di ‘spontaneismo urbanistico’ (il termine non è mio, è del mio amico Stefano Baratti http://arscomica.com/www/architects.html) giustificato da condizioni socio-ambientali del momento, circoscritte, uniche ed irripetibili.
Non è del tutto vero che la gente vorrebbe vivere ancora oggi come si viveva in un bel villaggio alla Krier, o in un carruggio della Genova medioevale, la gente scappa dai centri storici per essere più vicina agli ingressi delle autostrade, per aver sotto casa un parco secolare con l’aria pulita, per abitare in un loft hollywoodiano e per mille altri motivi.
Le motivazioni degli insediamenti umani sono in passato derivate dalla posizione geografica, dalla ricchezza di risorse del territorio, dalle caratteristiche climatiche, la gente si insediava lungo i corsi d’acqua, i passi di transito, lungo le vie di collegamento commerciale (ad esempio le vie del sale) o religioso (ad esempio la via francigena), il motivo era sempre utilitaristico, la struttura sociale discendeva dalla necessità di far convivere pacificamente interessi diversi e magari conflittuali, la città che ne derivava era quanto di meno peggio si potesse fare per porre ordine e convivenza civile in quel particolare tessuto sociale ed economico, in quel momento storico.
Perché dovrebbe essere oggi auspicabile resuscitare quelle interrelazioni e quei rapporti che allora erano ‘valori’ ed oggi potrebbero non esserlo più ? In base a che cosa viene loro assegnata oggi una valenza universale, atemporale e positiva? Rivisitati alla luce della modernità, e quindi radicalmente stravolti, riproposti con intento restaurativo e antistorico, sono ancora “valori collettivi e condivisi”?
L’egoismo è scritto nel DNA dell’uomo, generosità, altruismo, socialità sono strutture sovra-biologiche che ci devono essere insegnate, oppure che devono essere forzatamente adottate per ragioni …. egoistiche (magari radunandosi tutti in una città per ragioni di reciproca convenienza e cercare di convivere al meglio).
Siamo gli unici animali dominati dalla cultura, eccezioni alla regola dell'evoluzione biologica (consiglio al proposito la lettura di un illuminante libro di Richard Dawkins,Il gene egoista, ‘The selfish gene’, 1976/1989).
L’illusione che Dawkins sia stato troppo categorico si è accesa con la scoperta dei neuroni specchio, una specifica classe di neuroni localizzati in entrambe la regioni parietali frontali inferiori del cervello, che si attivano sia quando si compie un'azione sia quando la si osserva mentre è compiuta da altri. Questo filone di studi, tuttora in corso, ha rivelato la presenza nell'uomo di un complesso sistema di espressione delle emozioni che in tutte le altre specie è assente, il che farebbe intravedere la possibilità che i neuroni specchio possano in qualche modo entrarci con i meccanismi sociali presenti nella nostra specie.
Il meccanismo della comprensione di azioni compiute dagli altri renderebbe infatti possibile l'esistenza di uno spazio d'azione individuale condiviso con altri individui, originando forme di interazione sempre più elaborate, sia all'interno dell'organismo biologico come al suo esterno (il che giustificherebbe per esempio la nascita di una comunità con tutte le sue complesse regole sociali, o ‘valori’).
Questo per dire quanto il discorso sulla socialità sia complicato e tutt’altro che scontato.
Mi rendo conto di affrontare il tema da un punto di vista totalmente distante dal tuo, è
ovvio che il dibattito richiederebbe molto più spazio e sarebbe senz’altro pretesto per interessanti deduzioni, ma non in questa sede né per mezzo mio, che sono inadeguata ed ignorante in materia.
E’ divertente comunque accennare a casi estremi, che nello schema matematico potrebbero costituire l’eccezione che conferma la regola ma che, in realtà, sono tali a tanti che finiscono per confermare la regola dell’eccezione: ricordo di aver visto un filmato che documentava un disastroso tsunami abbattutosi su un villaggio giapponese andato completamente distrutto, non era la prima volta che capitava un simile accidente, la zona era tipica per essere soggetta da sempre a tsunami e inondazioni varie, tanto che le case, da parecchie generazioni, venivano costruite su palafitte (la testimonianza di ciò era costituita da pochi ruderi ancora in piedi). Ora, dico io, se guardiamo nel passato conscio o subconscio di questa comunità che continua a edificare a rischio, o a certezza, di disastro, ci troviamo davanti, escludendo benevolmente che non sia una comunità di deficienti, ad una perversa filosofia del ‘facciamoci del male ’ (hai presente ‘mai dire banzai’?) nella quale mi sembra difficile ci sia alcunché da salvare, anche se evidentemente quello strano modo di abitare è molto amato da quella gente e un'indagine 'scientifica' lo confermerebbe senz'altro. Vale anche per la gente di Sarno, che vuol continuare ad abitare su una frana, per quella di Orvieto, che continua a puntellare con inutili iniezioni di calcestruzzo un pianoro argilloso che scivola sempre più giù e per tanti altri inspiegabili casi.
Le mie obiezioni sono aneddottiche, non pretendo di formulare argomentazioni logiche, non ne sono capace e non ne ho la voglia, intendo solo 'sollevare problemi e questioni, suscitare dubbi, stimolare il confronto' (la solita rompipalle!)
ciao
Vilma
Questa volta mi risulta un pò difficile seguirti nel ragionamento, che tu dici non logico perchè non ne hai voglia (certamente è estate per te come per me)ed è più..... scusa il termine, disperato.
Voglio dire che mi sembra, anche dal ricorso che fai a Dawkins, del quale non ho mai letto nulla ma su cui ho letto qualcosa, che tu voglia come appigliarti alla certezza dell'impossibilità di trovare una soluzione al "dramma della modernità", questa buffa espressione che qualcuno ogni tanto usa.
Quale sarà stato il dramma della modernità nel XV secolo? Ce l'avranno avuto anche loro, credo, ma in architettura e urbanistica l'hanno risolto abbastanza bene. E l'avevano risolto non male anche nel 1300 e anche i romani se la sono cavati benino anche loro. Allora a Dawkins (che non è solo uno scienziato come vuole farci credere ma un filosofo) potrei opporti, come atto di fede speculare al tuo e a quello di Dawkins, il Mancuso dell'Anima e il suo destino che, più limpidamente da teologo con conoscenze scientifiche, vede la bellezza come inevitabile perchè figlia della complessità a cui tende la vita nelle sue molteplici manifestazioni.
E' evidente che non ci dobbiamo convincere a vicenda, non è questo lo scopo di una discussione, ma dobbiamo seminare dubbi e qualche piccola certezza, fare intravedere all'interlocutore che ci sono altre scelte, altre possibilità e io credo, immodestamente, di esserci riuscito, almeno con te. Non ti ho convinta, è ovvio, però.... leggo in questo tuo commento come una volontà di dimostrare, con qualche difficoltà, che non esistono valori, se non assoluti, almeno permanenti nel modo in cui gli uomini percepiscono e vivono l'ambiente urbano.
Stasera ho fatto due forzature al mio carattere: sono stato presuntuoso e mi sono lasciare andare a valutazioni psicologiche (detesto la psicologia e gli psicologi) ma non riesco a togliermi di dosso queste "sensazioni" leggendo il tuo testo. Buffo parlare di sensazioni trattandosi di rapporto via e-mail con persona che non conosco. Diciamo che sto rischiando.
Però non voglio chiudere senza una spiegazione in positivo, con una proposta e lo farò con il prossimo post non mio ma del mio collega, Giulio Rupi sempre sullo stesso tema ma con una interpretazione "gradevole" del livello di fruizione della città da parte della "gente".
Avrei voluto non bruciarmelo per un periodo estivo un pò stanco per i blog ma in questo caso credo ne valga proprio la pena.
Saluti
Piero
In realtà credo che partiamo da due punti di vista talmente differenti che non arriveremo mai a comporre la nostra disputa, anzi ho il sospetto che parliamo di due cose diverse. Io, per mia abitudine, qualunque sia l’argomento di cui si tratta che concerna l’uomo, parto dal punto di vista di quello che chiamerei io-biologico, l’uomo con la sua fisicità, la sua struttura neurologica, il suo cervello ecc., tu, come del resto Rupi nel suo contributo, parti dall’uomo sociale, abitante della civitas, con principi o valori strutturati e collaudati, e probabilmente in questa discussione la tua posizione è la più pertinente.
Io credo che la socialità sia una sovrastruttura acquisita per motivi di convenienza, che non sia una conquista definitiva, ma al contrario fluttuante ed instabile con il mutare dei tempi, tu dai per acquisito che l’uomo sia un animale sociale e che quindi vada rispettata e coltivata questa sua attribuzione, nata per necessità e divenuta poi valore assoluto.
Tu sostieni che l’ambiente urbano, quand’anche strutturatosi nel tempo come rimedio e mediazione tra vari ‘egoismi’ per gestire al meglio le esigenze anche contrastanti degli abitanti della ‘polis’ ( attraverso la ‘politica’), ha sviluppato caratteri che, in seguito, sono stati ragionevolmente riconosciuti per le città a venire come valori autonomi, assoluti e universali, io sostengo che questo passaggio è arbitrario.
E’ vero, traspare la mia sostanziale sfiducia nella possibilità che esistano "valori, se non assoluti, almeno permanenti nel modo in cui gli uomini percepiscono e vivono l'ambiente urbano", e che questi valori siano trasmissibili.
I valori di cui parliamo sono in continua autogenesi, nascono con l’uomo nel momento in cui esiste, ogni periodo ha i suoi, condivisibili nel momento in cui si formano, ma non necessariamente per sempre.
Guarda con quante difficoltà, nell’attuale momento storico di globalizzazione, le nostre strutture sociali cercano di mettere insieme, di far convivere pacificamente i mussulmani che pregano sui marciapiedi di via Jenner, i padri pakistani che sgozzano le figlie troppo occidentalizzate, i rom che vogliono vivere on the road ma vogliono anche i vantaggi della stanzialità ……… alla lunga anche da questa confusione verrà forse fuori una polis vivibile e pacificata, un’Italia che non potrà più essere la civitas sostanzialmente omogenea e identitaria che è stata fino ad oggi, ma una nazione nuova, che ci piaccia o no, con regole e valori propri nati dalla contemporaneità, non radicati nel passato di nessuna delle civiltà in gioco.
Il mio discorso è di carattere generale, mi riferisco a valori morali, culturali, religiosi ecc., che però avranno inevitabili riflessi anche sull’urbanistica futura, perché ogni cosa che accade nella storia dell’uomo è coerentemente concatenata alle mille altre che accadono.
Che io voglia ‘appigliarmi’ alla certezza dell'impossibilità di trovare una soluzione al "dramma della modernità", come dici, dimostrando un certo nichilismo, può anche essere vero, accertare una impossibilità sarebbe comunque un risultato, come può essere vero che il contraddittorio mi abbia preso un po’ la mano. Ma il bello delle discussioni è l’opposizione delle rispettive posizioni, se no che contadditorio è?
ciao
vilma
A Vilma
In effetti i due punti di vista sono molto distanti e forse opposti ma non parliamo di cose diverse. L’oggetto è sempre lo stesso: la città. Ma essendo la città fatta da uomini oltre che da edifici e strade, e le strade e le case non esistono senza l’uomo, come non esiste la natura senza l’uomo, in fondo parliamo tutti e due, in fondo, dell’uomo. Solo che io non me la sento di, non ho la preparazione per affrontare questo tema, così, direttamente.
Discutere del’uomo in Internet (e, ti dirò, ovunque) mi farebbe pensare di essere in un talk-show dove ogni invitato parla, parla, parla e sembra dire cose profonde mentre in realtà dice solo stupidaggini così, tanto per apparire in TV e sembrare anche intelligente.
Questo è argomento troppo grande per me; mi sono concesso una rapida incursione nel precedente commento ma solo perché mi è sembrato che tu fossi entrata in questo campo. Ora che ne sono certo torno subito nei ranghi, nell’orizzonte entro il quale qualcosa mi posso azzardare a dire, ma niente più.
Ti ho già detto un’altra volta che il mio obbiettivo, e anche quello di Rupi credo (lavoriamo insieme da 30 anni e credo di poterlo affermare anche senza consultarlo)è più limitato e concreto: tutti e due siamo interessati a far passare un’idea di città e di architettura che riteniamo presenti caratteri di permanenza nel tempo (non necessariamente nello spazio perché noi parliamo della città europea, al massimo della città occidentale) che vanno ben oltre le modificazioni che avvengono nella società nell’arco di un secolo, anche se questi cambiamenti sono stravolgenti. Ma questa non è una missione né per me né per Rupi perché entrambi abbiamo sufficiente ironia e intelligenza per non farci pensare di desiderare di “cambiare il mondo”; ci limitiamo a portare il nostro contributo ovunque ci è possibile, convinti come siamo che la stragrande maggioranza delle persone (architetti esclusi) preferisca vivere, non divertirsi, nel falso di Poundbury che nel vero di Dubai.
E’, ripeto, una nostra convinzione basata in gran parte sui rapporti che abbiamo avuto con la “gente” nel corso della nostra professione.
Io (qui è giusto che parli solo per me) ritengo che l’uomo sia rimasto sostanzialmente lo stesso, solo più libero di scegliere fra diverse possibilità che prima non aveva. Io credo anche, e questa è la sfida intellettuale che personalmente mi interessa ma che non credo riuscirò mai a concludere e ad esplicitare, che nell’analisi della realtà, per quanto complessa e apparentemente disarticolata, si possa procedere a cercare gli elementi di unità che in essa si manifestano.
Forse è solo il mio ottimismo o il mio bisogno di comprensione che mi fanno illudere che ciò sia vero ma un pensiero che ammette che sia vero tutto e il contrario di tutto, se anche avesse un fondamento, e non lo credo:
1) non servirebbe a niente e a nessuno, perché lascerebbe le cose come stanno e non permetterebbe alcun progresso o miglioramento della realtà urbana;
2) non si confà molto al mio convincimento che l’uomo è, prima di tutto, libertà, che vuol dire scelta, azione per modificare e non casualità o determinismo.
Su questo punto, è chiaro, sarebbe ingenuo e sbagliato tentare di convincerci a vicenda; ma su un’architettura che sia più rispettosa e più in continuità con la storia, almeno per il principio di precauzione una volta tanto utilizzato a fin di bene, credo che possiamo in gran parte convenire, almeno in base ai bei testi che scrivi nel tuo blog Artonweb (http://www.artonweb.it/architettura/cover.htm)
Comunque devo dire che ci troviamo assolutamente d’accordo su una cosa: se proprio una “rompiballe”.
Saluti
Piero
Posta un commento