Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


14 ottobre 2008

GLOBALIZZAZIONE DEL NULLA E ARCHITETTURA SENZA TEMPO

Pietro Pagliardini

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"Ed infatti il Guggenheim di Frank O. Gehry potrebbe tranquillamente collocarsi a Berlino o a Madrid anziché a Bilbao, la fiera progettata da Massimiliano Fuksas per Milano potrebbe collocarsi in qualunque metropoli occidentale, il progetto di Daniel Liebeskind per Ground Zero si adatterebbe senza fatica, fatti salvi alcuni retorici riferimenti contingenti, a Milano o a Parigi o a Kuala Lumpur, così come altre creazioni di progettisti contemporanei frutto di linguaggi personali in libertà potrebbero stare ovunque, non avendo nessun rapporto profondo con i luoghi e con le culture locali, conformati alla superficiale ecumenicità della cultura contemporanea.
E' pur vero che la sopravvivenza nell'epoca del global vuol anche dire adattarsi al nulla piuttosto che soccombere attaccandosi a qualcosa, ma esiste un limite oltre il quale la capacità di assimilare l'altro si scontra con l'ancestrale diritto alla difesa della propria identità.
Lungo questo delicato border-line l'architettura può essere, ha il dovere morale di essere, l'ultimo baluardo contro la "Globalizzazione del nulla" e preparare per le generazioni future un passato prossimo venturo che parli ad ognuno della sua storia, delle sue radici, della sua origine, perché sappia da dove viene, per sapere dove sta andando".

di
Vilma Torselli

www.artonweb.it – Architettura, forse - 2007

"C’è una maniera senza tempo di costruire. E’ vecchio mille anni ed oggi è esattamente lo stesso che è sempre stato. Le grandi costruzioni tradizionali del passato, i villaggi e le tende e i tempi in cui l’uomo si sente a casa, sono sempre stati fatti da gente che erano molto vicini al centro di questa maniera. Non è possibile fare grande edifici o grandi città, luoghi magnifici, luoghi dove ti senti te stesso, luoghi dove ti senti vivo, se non seguendo questa maniera. E, come vedrai, questa maniera condurrà tutti coloro che lo cercano verso costruzioni che sono esse stesse così antiche nella loro forma, come gli alberi e le colline, e come lo sono i nostri volti".

di
Christopher Alexander

da The Timeless Way of Building (Il modo di costruire senza tempo)

Il primo brano è tratto da un articolo di Vilma Torselli su Artonweb dal titolo “Architettura, forse”, l’altro da un libro di Christopher Alexander.

Per il momento quello che mi interessa è il primo.

Tutto il testo è, come al solito, ricco di spunti e intrigante per quell’altalenare di opposte asserzioni, per quell’affermare una cosa e poi scavarvi dentro fino a trovarne la contraddizione sulla sua veridicità.
Questo metodo che, superficialmente, potrebbe sembrare un non prendere posizione è invece la rappresentazione e l’analisi di una oggettiva situazione d’incertezza presenti non solo in architettura ma soprattutto in parti consistenti della società.

Gli scritti di Vilma Torselli sono tutti problematici, permeati dal dubbio, da quel suo essere costretta ad “adattarsi al nulla piuttosto che soccombere attaccandosi a qualcosa”, con la piena consapevolezza però del nulla che ci viene presentato, in architettura, ma non intravedendo alternative cui attaccarsi come certezze. Il titolo stesso dell’articolo, quel “forse”, resta sospeso tra ciò che c’è oggi disponibile e ciò che potrebbe esserci come alternativa.

Il fatto che questo blog si caratterizzi per una scelta di campo non significa però che esso debba chiudersi in una arroccata e ottusa difesa delle proprie idee, specialmente nei confronti di quelle che non pretendono di sopraffarti ed emarginarti. Anzi, la faziosità spinta è una deliberata, consapevole e ironica reazione ad un potere mediatico ed economico che tende ad escludere ogni voce diversa e che opera sul mercato con spregiudicatezza e arroganza, ma la faziosità non può che cadere di fronte a chi si pone problemi reali, per lasciare spazio al dialogo e allo scambio.

Nel testo sono indicati chiaramente i limiti, meglio, le colpe dell’architettura degli Archistar, il loro linguaggio assolutamente personalistico e perciò indifferente ai luoghi e del tutto autorefenziale, privo di possibilità di verifica, un’architettura che non può dare luogo ad una scala di valori che non sia semplicemente il giudizio del “mi piace” o “non mi piace”, il regno del relativismo assoluto.

E’ fin troppo forte la tentazione di interpretare questo brano alla luce degli accadimenti finanziari ed economici di queste settimane e troppo facile sarebbe costruirvi sopra una serie di considerazioni plausibili, ma non necessariamente vere, che giustificassero un cambio di rotta nella società e nell’architettura appellandosi ad una visione catastrofica del futuro. Giornali, radio e TV scoppiano, oltre che di grafici di borsa in caduta, di episodi di cronaca che indicano, come espiazione alla perdita di denari e al dramma umano che ne segue, scelte di vita monastiche dopo una vita da ricchi finanzieri, suicidi, buoni consigli per una vita quotidiana improntata ad uno stile più sobrio, insomma i soliti luoghi comuni dei media.

Non mi riferisco, ovviamente, al discorso di Benedetto XVI la cui missione è proprio quella di richiamare a valori permanenti, ma alla moda che ci opprimerà fino a quando non sarà passata la bufera e che sarà caratterizzata da catastrofismi e nuove visioni apocalittiche le quali scompariranno immediatamente ai primi sintomi d ripresa e tutto tornerà come prima. Proprio per questo non mi assocerò al coro e non farò previsioni sul ritorno ad una architettura più umana e “domestica”.
Non lo farò per due motivi:
1) il primo è che non sono del tutto certo che accadrà, o almeno che non accadrà in modo massiccio;
2) il secondo è che il bello non può e non deve affermarsi su una sciagura ma su una libera scelta consapevole.

Il primo dubbio è fortemente suffragato dal fatto che anche dopo l’11 settembre sembrava logico immaginare un cambiamento negli stili di vita occidentali e nell’architettura ma ben poco è cambiato, in realtà: qualche controllo in più negli aereoporti e nella posta elettronica, ma per il resto non si notano variazioni significative. Nulla è cambiato nel campo delle scelte architettoniche, anzi: a Ground zero ancora non si vede ancora niente ma il progetto è comunque un grattacielo; la corsa verso l’alto è continuata e ha raggiunto livelli parossistici in posti come Dubai (eterogenesi dei fini) e Cina. L’infezione si è estesa anche al nostro paese che, fino ad ora, aveva avuto il buon senso di non approfittarne.

L’incertezza sulle scelte architettoniche trova un suo fondamento nell’alternanza di messaggi e di previsioni che provengono dalla società. La corsa verso l’alto, l’architettura patinata e renderizzata viene spiegata come il frutto di una cieca fiducia nel progresso dovuto alla globalizzazione economica che ha come portato l’abbattimento delle frontiere, l’avvicinamento e la “contaminazione” tra culture diverse che tendono a perdere alcuni elementi distintivi e unici e si omogeneizzano; da qui a ritenere che anche l’architettura debba perdere le sue radici locali e storiche il passo è breve e fin troppo facile e automatico fino a diventare riflesso condizionato.

Però, come gli scenari sul futuro della società cambiano repentinamente alla prima, inaspettata crisi, così tutte le teorie architettoniche si liquefanno e perdono ogni fondamento teorico; e non si dica che è proprio l’incombere di queste crisi a determinare instabilità e a incrinare le certezze e quindi un’architettura “instabile”, perché non è che le crisi siano una scoperta di questo e del secolo scorso: la grande architettura classica, greca e romana, il romanico, il gotico, il rinascimento, il barocco, ecc. si sono sviluppati tra epidemie, carestie, guerre, passaggi di eserciti, e situazioni pressoché costanti di insicurezze e paure.
Restano però, dopo ogni crisi, gli edifici e intere città che hanno nel frattempo cambiato volto, ed è spesso un volto disumano, parti importanti di culture sedimentate dalla storia sono spazzate via (si veda la Cina, ad esempio) per fare posto al nulla.

A me sembra piuttosto l’eccesso di sicurezza, e non il contrario, a determinare gli eccessi dell’architettura contemporanea: un clima incerto dovrebbe consigliare prudenza e non protervia.

Si guardino le foto cliccando questo link:
http://sitesearch.corriere.it/gallery/Cronache/vuoto.shtml?2008/10_Ottobre/grattacieli/1&1

Basta guardare CityLife di Libeskind, Isozaki e Hadid per convincercene: quegli oggetti sparpagliati andranno a finire a Milano.
Sono diversi da quelli che andranno a Dubai? Si sono diversi, perché deve essere riconosciuta la paternità del progettista ma quello di Dubai potrebbe essere stato progettato per Milano e viceversa perché nulla hanno a che vedere con il luogo. La riconoscibilità di questi progetti non è dunque un valore positivo perché non può essere integrata con l’ambiente esistente e quindi non può offrire alcuna sicurezza al cittadino perché è un’architettura che non gli appartiene in quanto condivisa con decine di altre nel mondo: non crea nessun senso di appartenenza. Di quegli edifici si riconosce solo il loro autore, il marchio, al pari di una Ferrari che è riconoscibile a colpo d’occhio, anche senza conoscerne il modello specifico.

Eppure l’autrice di “Architettura, forse” si attacca a questo nulla di cui è perfettamente consapevole piuttosto che “soccombere attaccandosi a qualcosa” perché non la convince niente d’altro cui valga la pena di aggrapparsi per potersi opporre al nulla.Però fissa un confine oltre il quale nemmeno quel nulla diventa accettabile e richiama l’architettura ad un dovere morale di trasmettere la storia alle generazioni future perché sappiano dove andare.
Non fa una scelta stilistica, formale, tipologica o linguistica, è un principio, un punto fermo oltre il quale c’è la parola “basta”.

Per questo ho associato al testo di Vilma Torselli un brano di Christopher Alexander che non parla di stili e linguaggi ma di principi.
Parla di ordine, di architettura per l’uomo (per chi altri sennò), dell’architettura senza tempo perché l’uomo è rimasto, in quella parte di sé più vicina alla natura, sempre uguale a sé stesso e l’architettura entro cui egli prova benessere non può cambiare molto.
Non è quella di Alexander "la" risposta a Vilma , è solo una proposta da riempire di contenuti.

12 commenti:

Anonimo ha detto...

Si tratta del tema nodale della architettura oggi.
E' un tema che coinvolge tutto: - dalla tecnica costruttiva (è possibile una progettazione per componenti industriali - tendente dunque alla costruzione a secco - che non abbia l'effetto lamentato?)
- agli strumenti di progettazione (es. il ns Revit non tende forse ad essere funzionale a quel tipo di costruzione per componenti?)
- agli strumenti di comunicazione della architettura (vedi circa il discorso che ieri ho abbozzato da me)
- alle retoriche del potere contemporaneo ... nonchè alle sue necessità di continua e crescente produzione

ecc. ecc.

Anonimo ha detto...

Idee a piani senza scale:

…adattarsi al nulla… già, come quando mando al mio amico arch. copie di questi testi senza specificare il link, per non fargli leggere i miei commenti …piuttosto che soccombere…(sic) procedo alla Kissinger, eppure, mi pare, 30anni fa, abbia fatto la tesi sul costruire abitazioni seguendo le regole dei conventi, per favorire il vivere in comunità. Cos’è successo nel frattempo?

Alexander, ah! Credo esista un tipo di uomo fra i tanti tipi, con queste caratteristiche innate. Si nasce così e si resta, o in ambiente ostile e ci si riconquista per predisposizione. Forse vale anche il contrario, che spiega cosa è successo nel frattempo.

Il bello deve essere una scelta consapevole… io direi che deve essere … Riconosciuto

Dopo l’1109 avrebbero cambiato l’architettura? Io pensavo che avrebbero sviluppato un controllo radio da terra per gli aerei. Sarà deformazione professionale.

In sostanza il mio pensiero arriva alla conclusione che questo nulla di cui si parla sia solo lo specchio di quello che sta dentro l’uomo ; ciò dovrebbe spingere a considerare le epoche in cui si costruiva bello come quelle in cui lo era anche l’uomo, di ideali e tensioni; quella odierna, additata come senza-valori costruisce con gli stessi. Allo stesso modo nell’architettura religiosa è subito evidente come l’uomo del tempo si rapporta con dio.

Pietro Pagliardini ha detto...

Capisco benissimo il tuo discorso di caralbas, come capisco l'essenza del discorso di Alexander.
Però, già mi sembra di prendermi troppo sul serio a fare una scelta per l'architettura e "propagandarla", figuriamoci se mi posso permettere il lusso di immaginare di cambiare l'uomo per cambiare l'architettura!
Voglio dire che, occasionalmente, per meglio capire e farsi capire, si sviluppano argomenti che riguardano l'essenza dell'uomo e della società ma solo finalizzata a individuare qual'è la città giusta e l'architettura giusta per lui, non il contrario.
Tu lavori sulle cause, io, più modestamente sugli effetti.
Consiglio: quando mandi i commenti iscriviti come blogger così chi eventualmente li leggesse può visitare il tuo nuovo blog e conoscerti meglio. Non fosse altro, riesce ad inquadrare meglio il commento nel tuo modo di vedere le cose.
A Biz un'osservazione tecnica: è vero, il nostro Revit lavorando per componenti, è il massimo per un'architettura seriale, lo è molto meno ove si richiede lo studio di un insieme strutturato e organico e di dettagli non ripetitivi, però non bisogna sopravvalutare lo strumento, se non per il fatto che impigrisce, abituando alla comodità di ripetere gli stessi oggetti.
Saluti
Piero

Anonimo ha detto...

Pietro, ti ringrazio per l'attenzione al mio scritto e soprattutto per la puntualità con la quale hai individuato e commentato quelli che nelle mie intenzioni erano i nodi fondamentali di un discorso che, affrontato in un breve brano, poteva rischiare di essere un po' generico. Mi fa quindi molto piacere che tu lo abbia ampliato ed integrato con il tuo post, così come mi fa sempre piacere scambiare opinioni con te, che sarai sì fazioso, ma pure intelligente. ironico e preparato, il che assicura sempre uno spazio di dibattito e di proficua dialettica.
saluti
Vilma

PEJA ha detto...

Caro Pietro,
Lo so che non ci crederai mai, ma ho trattato nel mio blog temi simili, o per lo meno che si avvicinano ai tuoi. Decisamente confluenti in alcuni punti, divergenti in altri. Sicuramente non sono daccordo con Vilma Torselli, che denuncia una certa ignoranza della storia dell'architettura, dato che Oddone da Metz costruì ad Aguisgrana con gusto a metà tra il francese ed il Ravennate, così come le decorazioni di età Ottomana sono di gusto bizantino, eccettera eccettea. Un certo movimento di idee c'è sempre stato ed è necessario, anche economicamente. La crisi economica è un dato di fatto, e insieme agli altri problemi insediativi che ci affligono, necessita di una soluzione. Secondo me c'è bisogno di un quadro dello stato dell'arte. Secondo me questa biennale lo ha fatto, almeno per quel che riguarda l'aspetto più speculativo. Anche se sono sicuro che non rientra nei tuoi interessi, ti assicuro che è invece importante che ci sia speculazione di quel tipo. Renditi pure conto che l'architettura popolare olandese sarebbe inimmaginabile senza le esperienze degli archigram degli anni '60, non credi!?
A presto, ciao

Anonimo ha detto...

"E' un tema che coinvolge tutto: - dalla tecnica costruttiva"

io ci aggiungerei anche il mercato: mercato + tecnica. è tutto lì il problema. non risolvendo quello non si arriva a nulla (tradotto: è impossibile da risolvere se non facendo retormarcia a tutto gas). possiamo star qui a discutere quanto si vuole ma ormai l'architettura, volenti o nolenti, appartiene anch'essa a quell'accoppiata, e non c'è genius loci che tenga.

domanda: ma è possibile che ce la si pigli sempre con le archistar? saran sì e no lo 0.001% le loro opere rispetto alla produzione totale.

LdS

Pietro Pagliardini ha detto...

Peja, anche tu non ci crederai, ma io di tanto in tanto ti leggo. Certamente sono divergenti i nostri interessi e, più che mai, è diverso l'approccio al problema.
In gran parte credo sia dovuto ad un mio problema caratteriale e di formazione: rifuggo per natura le avanguardie, il fumo venduto per arrosto di presunti intellettuali conoscitori del tutto, l'architettese spinto alla Aron Betsky del quale, dichiaro candidamente, prima che fosse il direttore della Biennale ignoravo l'esistenza in vita e quando l'ho conosciuto non ho provato nè rimpianto nè tantomeno vergogna. Un titolo della Biennale di architettura come "Oltre l'architettura" vuol dire due cose: o è uno specchietto per le allodole, per attirare l'attenzione, e allora non si giudica la mostra dal titolo, o è una sciocchezza. Tu mi inviti a non trascurare la "speculazione". Ora la speculazione, non quella edilizia, è una cosa molto seria, troppo seria per essere demandata agli architetti che, generalmente, dovrebbero fare progetti e possibilmente farli bene. Io credo che se gli architetti fanno i filosofi, i professori fanno gli psicologi, i politici fanno tutto, i filosofi fanno i talk show, cioè se si incrementa la confusione dei generi, si fa solo una gran marmellata in cui non si distingue più il falso dal vero, il bello dal brutto, il buono dal cattivo. E questo, per la mia mente semplice e coltivata da un bravo professore di matematica e fisica del liceo a pensare il mondo in termini galileiani e cartesiani è veramente troppo. Perciò sto nel mio, giudico ovviamente, credo di essere io dalla parte della ragione, ovviamente, ma non mi avventuro "oltre l'architettura". Tanto più quando scopro che oltre l'architettura c'è solo un'altra architettura solo un po peggiore della non-altra.
Ma non voglio eludere la tua domanda: non so cosa tu intenda per architettura "popolare" olandese ma so che gli Archigram, fenomeno del mio tempo, hanno il merito di aver permesso di fare la grafica di Yellow Submarine ma a me di una canzone (rieccoci ai generi) interessa solo la canzone.
Pensa, odio i videoclip!
Dimenticavo: dire che Vilma è un po ignorante di storia dell'architettura mi sembra almeno un azzardo: di me lo puoi dire tranquillamente che non mi arrabbio e poi è anche vero ma è raro incontrare persone che dominano argomenti diversi e distanti tra loro in modo così approfondito come fa Vilma nei suoi innumerevoli articoli sparsi in quella giungla aggrovigliata che sono i siti in cui scrive.
Saluti
Piero

Pietro Pagliardini ha detto...

Scusa, LineadiSenso, ma con chi vuoi che me la prenda, con il geometra Mario Rossi o con l'architetto Giovanni Bianchi? Con questi lo potrò fare personalmente a livello locale ma nelle riviste, in TV, nei quotidiani ci vanno loro, le Archistar, e sono loro che danno il passo alla truppa, cioè al geometra Mario Rossi e all'architetto Giovanni Bianchi.

Mi piace il sottotitolo del tuo blog: "ognuno di noi ha diritto al proprio cattivo gusto". Mi sembra una giusta, orgogliosa e un po anarchica rivendicazione della propria libertà. Condivido poco (diciamo niente, va!)delle tue opinioni ma quel sottotitolo è forte.
Saluti
Pietro

Pietro Pagliardini ha detto...

Ringrazio te, Vilma, ma temo che la tua accondiscendenza sottintenda anche il fatto che il mio post non sia stato sufficientemente stimolante.
Lo dico perché so che è vero e cercherò in futuro di farti arrabbiare un po di più.
Saluti
Piero

Anonimo ha detto...

Abbiamo battibeccato così spesso che per una volta che siamo d'accordo ti vengono strani sospetti .... si sa, "timeo Danaos ....", ma ti assicuro che il tuo post era perfetto, equilibrato, acuto e coerente con l'articolo. Che dovevo fare se non ringraziarti?
Vilma

PEJA ha detto...

Sai qual'è il problema? È nel testo si sono dati dei giudizi individuali. E come dice Alessandro Viscogliosi, che di storia ne dovrebbe capire: "La storia dell'architettura non è una questione di gusto".
Alla prossima

Anonimo ha detto...

Peja, se ti riferisci al mio testo, non ho difficoltà ad ammettere che dò sempre giudizi individuali, personali ed autoreferenziali, frutto del mio modo di essere e del grado della mia cultura: non so né pretendo di fare diversamente.
Se Viscogliosi riesce ad uscire da sé, dare giudizi assoluti ed ecumenici e parlare in nome di dio, allora ti conviene leggere lui.

Vilma

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