Caro qfwfq,
solo adesso trovo il tempo per risponderti, anche se avevo letto subito il tuo ultimo, acuto commento, espresso tra l'altro con molta pacatezza. Preferisco risponderti in forma di post, sia a causa della lunghezza, sia perché l'argomento, o l'accusa, di una mia eccessiva e ruvida, quando non rozza, semplificazione ricorre spesso anche da parte di altri.
Commento acuto il tuo che richiede una mia spiegazione, specificando che ovviamente le mie ragioni valgono solo per me e non intendono coinvolgere altri.
Per sintetizzare al massimo, tu mi imputi, e non solo a me, un eccesso di semplificazione che porta a trascurare del tutto quanto di buono esiste nell'architettura e nell'urbanistica moderna. Mi sembra che tu non neghi che la semplificazione possa essere utile ma non ne apprezzi l'uso estremizzante e strumentale che io ne faccio.
Non c'è dubbio che io tenda, in questo blog, ma anche in situazioni diverse, alla semplificazione e non c’è dubbio che io lo faccia in maniera intenzionale, volontaria ed anche con grande convinzione. Una semplificazione che io chiamo, tra il serio e l'ironico, anche faziosità.
Esistono diversi livelli di approccio alla realtà, che vorrei semplificare (guarda caso) in approccio pubblico e approccio privato.
L'approccio pubblico è quello in cui si esprime il desiderio, la volontà, la velleità, se vuoi, di incidere, se pur in piccola parte, secondo i propri mezzi, nella realtà sociale.
E' pubblico, ad esempio, l'approccio politico. Questo è più facilmente comprensibile, specie in questo momento, perché esistono due schieramenti fieramente contrapposti. Ma, a prescindere dalla situazione contingente, io credo che la politica, vista dalla parte dei politici, richieda comunque una buona dose di semplificazione, dato che deve parlare a tutti i cittadini, deve farsi comprendere e deve distinguersi con chiarezza dalle altrui posizioni e deve, soprattutto, prendere decisioni, non struggersi nei dubbi o perdersi nei meandri dei dettagli perdendo di vista l’insieme.
Certamente, prima di decidere devono essere valutate e analizzate con precisione e raziocinio le varie opzioni e variabili, ma chi detiene il potere di prendere decisioni per gli altri ha l'obbligo di fare scelte chiare e può essere tormentato quanto si vuole, ma il suo tormento deve rimanere nell'ambito privato, pena la non credibilità, perché gli indecisi non possono affrontare situazioni gravi che riguardano la collettività. Naturalmente, maggiore è il potere, maggiore è la responsabilità, maggiore è la capacità di decidere che viene richiesta. Il presidente degli USA non può tentennare. Quei presidenti che hanno tentennato hanno fallito, vedi Carter.
La scelta richiede semplificazione del problema. E’ lo stesso caso dei giudici i quali mi immagino, o forse mi illudo, che siano molto tormentati nel decidere della vita di un imputato e di quella della vittima (se la vita è rimasta). Ma non c’è alternativa, deve decidere, sapendo che può sbagliare, sapendo che la verità processuale, per sua intrinseca natura, non necessariamente coincide con la verità in assoluto. Il dramma deve essere grande ma non c’è alternativa alla scelta: condanna o assoluzione.
Ma quello che vale per i “potenti” vale, in modo diverso, per tutti. Vista con gli occhi dei cittadini, nella scelta di un partito da votare è quasi certo che non ve ne sia uno che possa rispondere in assoluto e in tutto e per tutto alle inclinazioni di ogni singolo elettore. E’ chiaro che si sceglie quello che più “si avvicina” ai nostri desideri, interessi, modi di immaginare la società; ma è altrettanto chiaro che ognuno di noi fa, privatamente, dei distinguo e manifesta dei punti di non condivisione. Non è possibile diversamente. Ma nel momento “pubblico, quello del voto, si sceglie, si dovrebbe scegliere, razionalmente quello a noi più vicino. Si sacrifica cioè una impossibile coerenza assoluta e una sovrapponibilità totale tra le nostre aspettative e i programmi e le azioni di quel partito per non favorire altri partiti di cui condividiamo molto meno o addirittura niente. Si compie, cioè una grande e opportuna semplificazione.
Venendo all’architettura e all’urbanistica non cambia quasi niente. Da una parte c’è il chiaro, acclarato, evidente, riconosciuto da tutti (indirettamente) fallimento di un’idea di architettura e di città che si perpetra da 80-70-60 (quanti?) anni, un’idea presuntuosa quanto folle di azzerare secoli di storia, intesa come lungo e faticoso lavoro dell’uomo per creare ed adattare ai propri bisogni il suo habitat naturale, cioè la città e la casa, ritenendo che si dovesse ricominciare tutto da capo, eppure, con una testardaggine che è molto vicina alla stupidità, o alla malafede, o alla superbia, si continua, con una sorta di cupio dissolvi, a reiterare ogni giorno l’errore stesso. AD un certo momento è stato deciso di tirare una linea e tutto ciò che c’era prima è stato dichiarato come anticoe sbagliato, e tutto ciò che c’era dopo come moderno e giusto. In nessun’altro campo, se non nell’arte, forse perchè da questa mutuato, è avvenuto un fenomeno simile. Strappi ve ne sono stati, certamente, ma sempre all’interno di un processo evolutivo.
In una situazione come questa, domando, ha senso, è logico, è interessante stare a selezionare quel poco di buono o di meno peggio che è stato prodotto? Ha senso cercare la mosca bianca, la personalità individuale che non ha fatto scuola e sperare che da questa eccezione, tra l'altro fagocita e digerita dal sistema, possa nascere il cambiamento?
Io credo di no, perché in un ambiente sostanzialmente corrotto culturalmente significherebbe solo dare ad esso ulteriore legittimazione e fare il gioco di quel pensiero che domina da decenni la scena, soprattutto in Italia. Non mi interessa, e non mi deve interessare, se c’è qualcuno più bravo degli altri, perché non è una gara in cui si deve premiare il migliore ma è una lotta per la sopravvivenza della città, in cui i protagonisti non sono le star ma i cittadini. Me ne frego tranquillamente dei maestri, perché io non devo scrivere libri di critica e se li dovessi scrivere, ove ne fossi capace, li scriverei con l’intenzione di ottenere un risultato in meglio e non con quella dell’appassionato d’arte che disquisisce sulla qualità di un quadro rispetto a quella di un altro. L’architettura non è pittura, non è scultura, non è filatelia, non è collezionismo, é studio di come l’uomo si relaziona attraverso lo spazio con gli altri uomini, è una scienza sociale, con criteri e regole proprie e peculiari, attraverso la quale si manifesta un pensiero politico alto. Il Buon Governo e il Cattivo Governo si rappresentano attraverso scene di vita urbana e agreste, i due diversi scenari in cui si svolge la vita nell’uomo e che questi ha imparato a creare o trasformare, escludendo la natura selvaggia che è ambiente ostile e gradito solo a pochi avventurosi o a molti seduti in poltrona a guardare Discovery Channel.
Questo è dunque il lato pubblico delle idee urbanistiche e architettoniche, quello che ha uno scopo, un fine, ancorché modesto nei risultati (e non più di tanto, perché le idee si trasmettono e qualcosa resta sempre) ma ambizioso nelle intenzioni. Un lato pubblico che deve semplificare.
L’approccio privato può essere in molti casi molto diverso, più pensieroso, dubbioso, articolato, raffinato perfino. Può andare a verificare le sottigliezze, può essere più tollerante nel giudicare, più consapevole delle difficoltà oggettive da superare in una società aperta come la nostra, perfino affascinato da alcune soluzioni architettoniche (mai urbanistiche); ma è un fatto privato che, nel mio caso almeno, può al massimo rivelarsi nello scambio diretto con colleghi e talora persino nella prassi professionale quotidiana, dato che io considero l’architetto a livello di un artigiano, mai di un artista creatore, e come tale deve rispondere alle leggi del cliente e del mercato, nei limiti del lecito.
I due approcci diversi convivono benissimo e senza traumi né sensi di colpa proprio per la serena convinzione della totale diversità dei livelli che sono paralleli e solo raramente, per una casualità di circostanze, possono convergere. Per questo mio atteggiamento tollerante verso me e verso gli altri, a livello privato, sono totalmente estraneo e refrattario al moralismo, al perbenismo, al giustizialismo, fedele all’aforisma di B. Russel che “i moralisti sono persone che rinunciano ad ogni piacere eccetto quello di immischiarsi nei piaceri altrui”.
Per quanto riguarda la tua ultima battuta trascuri un aspetto essenziale: è vero che il comunismo non c’è più ma i comunisti sono ancora molti. Ma questa è una frase da spiegare in altra sede.
Leggi tutto...