Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


28 aprile 2011

CONFERENZA: RIGENERARE LE PERIFERIE URBANE

Giovedì 5 maggio • 18.30 - 21.30
Palermo, Hotel Wagner
La conferenza è organizzata dal movimento "Noi per lo ZEN" promosso da Antonio Piraino, Ciro Lomonte e Anna Brignina


Interverranno:
  • Prof. arch. Ettore Maria Mazzola, professor of Traditional Urbanism, Architecture and Building Techniques presso la University of Notre Dame School of Architecture, Rome Studies e Vice Presidente del Gruppo Salìngaros
  • Padre Miguel A. Pertini, Parroco dello ZEN

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27 aprile 2011

ROB CARTER REMIXA LE CORBUSIER

Stone on Stone [CLIP] from Rob Carter on Vimeo.

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23 aprile 2011

PIERO DELLA FRANCESCA: RESURREZIONE - SANSEPOLCRO (AR)

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22 aprile 2011

GIORGIO VASARI: DEPOSIZIONE- CASA VASARI, AREZZO

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20 aprile 2011

VITA E MORTE DELLE GRANDI CITTA'

Un link ad un articolo tratto dal CHICAGO BLOG di Oscar Giannino, legato all'Istituto Bruno Leoni, un istituto che si definisce, ed è, liberale, liberista e mercatista.
Si tratta del ricordo di Jane Jacobs in occasione della sua morte avvenuta nel 2006 scritto da Stefano Moroni.
Un'altra dimostrazione, se ce ne fosse bisogno, che urbanistica e politica corrono su strade parallele che spesso si incrociano: l'urbanistica influenza la vita degli uomini e molte delle sue scelte hanno valenza politica, sia per il metodo, che ad esempio può oscillare dal massimo della partecipazione al massimo dell'autoritarismo, sia nel merito, che riguarda più specificamente la forma della città e l'organizzazione dello spazio e quindi il modo in cui si possono instaurare le relazioni personali, sociali ed economiche tra i cittadini. Insomma i rapporti reciproci tra le due discipline sono davvero molteplici e difficilmente riassumibili in poche righe, restando tuttavia fermo il fatto che l'urbanistica ha una sua autonomia disciplinare, culturale e tecnica da cui non si può prescindere se non si vuole sconfinare nel puro sociologismo di cui, peraltro, è stata imbevuta soprattutto nel secolo scorso.

Questo il link:

di Stefano Moroni


Post precedenti su Jane Jacobs:
Jane Jacobs
Jane Jacobs -2 - Strade
Strade 1 - Palladio e Jane Jacobs

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19 aprile 2011

EDDYBURG CONFERMA LE MIE IPOTESI

Oggi Eddyburg mi viene incontro confermando "aldilà di ogni ragionevole dubbio" le mie considerazioni fatte nel post su Italia Nostra in ordine alla svolta decisamente a sinistra di questa associazione, almeno nel suo organo nazionale. Infatti oggi il sito pubblica un articolo di Asor Rosa che conferma la sua speranza di sospensione della democrazia parlamentare da ottenere con Carabinieri e Polizia, già manifestata nel famigerato articolo del Manifesto.
A qualcuno potrebbe sembrare un argomento estraneo a questo blog, ma così non è per due motivi:

1) Italia Nostra nazionale si occupa di città, come questo blog
e
2) la democrazia è nata nella polis greca, cioè nella città. E nella città,  nella mia città, deve continuare a vivere. Se qualcuno la attenta interessa anche a me, non tanto come blogger ma come cittadino.

Pietro Pagliardini

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17 aprile 2011

PRESTINENZA PUGLISI SDOGANA LA "GENTE"

Luigi Prestinenza Puglisi, nel supplemento a Il Fatto Quotidiano del 15 aprile, nella sua recensione alla mostra Le città di Roma all’Ara Pacis, scopre che le periferie romane, fotografate senza alcuna presenza umana, come fossero cioè “natura morta” (parole sue), appaiono “devastanti”. Per la precisione scrive:
Il risultato per chi non è appassionato di immagini potrebbe essere devastante”. (1)
C’è da immaginare quanto possano apparire gratificanti a chi ci abita! E infatti anche LPP si pone questo problema e domanda, prestando la sua voce all’abitante:
Ma al Corviale o a Vigne Nuove potrei andarci ad abitare proprio io?”.
Il punto di vista della gente (sì proprio della gente), insieme a quello del critico, fa capolino nella critica architettonica: è uno scoop!


Ma non finisce qui. LPP continua affermando che la mostra è un boomerang per gli organizzatori (2) ma ammette che:
Il compito era disperato: si trattava di mettere insieme i costruttori romani, un’amministrazione di destra e la cultura di sinistra”.
Altro scoop: la cultura di sinistra è responsabile di quelle insane periferie. Chi l’avrebbe detto! Anche se non capisco perché dovrebbe essere un boomerang per il Comune che, almeno teoricamente, dovrebbe avere tutto l’interesse a prendere le distanze da quei progetti posto che l’attuale giunta non può certamente essere ritenuta responsabile di opere realizzate negli anni 70/80. Ma forse bisogna essere dentro le cose romane per capirlo. Lo scoop però resta.

Da ultimo, dopo i fuochi artificiali, il botto finale: l’unico progetto che “spicca in absentia” è la Tor Bella Monaca di Léon Krier, “strapaese dineylandiano” che “invece che acquietarsi con nature morte, si confronta almeno con un bisogno della gente”.
Inverosimile, inimmaginabile: si comincia a leggere e interpretare la gente con i suoi bisogni. Ci si avvicina, con nonchalance, con una frase buttata lì come fosse normale in questo mondo del tutto a-normale dell’architettura, a dire che la gente ha dei bisogni legittimi.
La diversità antropologica tra architetti e cittadini si attenua. Si dà per scontato, finalmente, che l’architettura “disneylandiana” non va giudicata solo per quello che appare superficialmente ma in quanto proiezione di un desiderio di tradizione e/o di classicità, di valori sicuri e condivisi che si è potuto fino ad oggi esprimere solo entro le proprie mura domestiche con la cucina rustica, i mobili in stile, gli archetti di forati nei corridoi, il camino in pietra o mattoni, la trave finto legno e tutto l’analogo, ingenuo repertorio ai più ben noto, e all’esterno negli archi in c.a. parossisticamente ribassati tanto da sembrare stretchati per errore con Photoshop.
Si dà per scontato che esista anche una cultura popolare e che ha una sua dignità degna di attenzione.

Qualunque cosa pensi realmente LPP - che in questo scritto breve lascia sempre, e molto abilmente, uno spiraglio ad una doppia lettura - non è dato sapere con certezza, tuttavia non c’è dubbio che ha fatto entrare in scena ufficialmente, tra l’architetto e il progetto, il terzo incomodo, il convitato di pietra, il grande assente, cioè il negletto uomo comune, il committente anonimo, l’abitante sconosciuto, colui che è costretto a subire il progetto della città, del quartiere, della casa e, non avendo altra scelta, in quanto relegato in stato di minorità culturale dall’Architetto, dalle riviste, dai magazine, dalle collane Grandi Architetti distribuite a prezzi popolari in edicola, esprime i suoi desideri, i suoi gusti estetici, le sue fantasie nel privato o nell’outlet village toscano o romano o ticinese.

Vale la pena seguire LPP per capire meglio e trovare ulteriori conferme.
Noi(3) che abbiamo sempre considerato la gente l’attore principale della commedia, più spesso della tragedia urbana, registriamo questa piacevole novità.


Note:
1) Da notare la sottigliezza: non ha scritto l’architetto, ma l’appassionato di immagini!
2) Promotore dell’iniziativa: ACER, associazione dei costruttori romani – Padrone di casa: Comune di Roma – Curatori: Piero Ostilio Rossi, Francesca Romana Castelli – Allestitore e critico: Pippo Ciorra
3) Noi non è pluralis maiestatis ma sta per tutto quell’ampio movimento culturale che viene banalizzato e divulgato con il nome di antichisti, in opposizione a modernisti. Non è un bel nome nelle intenzioni di chi lo usa, ma a me piace.

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12 aprile 2011

ITALIA NOSTRA, NICOLA EMERY E LA CITTA' COME BENE COMUNE

Una serie di coincidenze mi ha portato in questi ultimi giorni ad imbattermi nel medesimo argomento, su libri e sul web, intorno alla definizione di città come bene comune.
Non apprezzo molto questa espressione, non perché non ne condivida il significato letterale, che anzi sono un convinto assertore del fatto che la città appartiene a tutti e quindi è un bene comune, ma per il fatto che è una definizione ultimamente troppo abusata in politica e rischia, dietro questo suo significato primo, di portarsene altri più ambigui o diversi.

Dove mi sono imbattuto in questa espressione? Prima in un libro, dal titolo tanto lungo per quanto è breve il testo, di Nicola Emery, Progettare, costruire, curare. Per una deontologia dell’abitare, Casagrande. Poi in un decalogo di Italia Nostra nazionale, arrivato ieri per e-mail dal sito Sarzanachebotta, redatto con il contributo di cinque conosciuti urbanisti italiani, sul tema “La città è un bene comune”.
I cinque urbanisti sono: Edoardo Salzano, Vezio de Lucia, Pier Luigi Cervellati, Maria Pia Guermandi, Paolo Berdini. Mi è sembrato di capire che l’iniziativa del decalogo sia nata a seguito, o in coincidenza, non ha molta importanza, di un convegno in cui i suddetti urbanisti hanno tenuto le loro relazioni.

Ho letto l’editoriale su Eddyburg da cui ho dedotto che la mia diffidenza sulla città come bene comune è ampiamente giustificata. E’ bene intendersi: Eddyburg è un sito autorevole, schierato politicamente ma in maniera limpida, serio nelle sue analisi, una parte delle quali non possono non essere condivise; però non c’è dubbio, proprio leggendo quelle analisi, che bene comune connota chiaramente una posizione politica e si trascina dietro risposte e un atteggiamento culturale nei confronti della città che personalmente non condivido perché trascura, come ha sempre trascurato, il tema principale della città, cioè il suo disegno, la sua forma e le conseguenze che i progetti sbagliati comportano su chi li subisce. Naturalmente questa è una generalizzazione perché in realtà Cervellati ha affrontato, con la sua esperienza a Bologna, il tema del centro storico sotto il profilo tipologico e non a caso (lo ha raccontato lui stesso) si è fatto qualche nemico.

Nicola Emery, invece, affronta da filosofo il tema dell’etica in architettura per arrivare a stilare una premessa filosofica ad un Codice deontologico dell’architettura che inizia così:
Lo spazio è un bene comune: pianificatori, architetti e costruttori hanno il dovere di progettare e costruire rispettando questo bene che deve andare a vantaggio di ognuno.

L’ultima coincidenza sta nel fatto che proprio in questi giorni mi sono interessato delle Vele di Scampia, del loro auspicabile abbattimento, della reazione di una buona parte della cultura ufficiale a questa proposta e quindi del rapporto tra forma della città e comportamenti sociali nonché del ruolo che i cittadini devono avere nelle scelte per la città, proprio in quanto bene comune.
Il decalogo di Italia Nostra nazionale è il seguente:

Non credo in questo caso di poter essere accusato di faziosità se dico che, oltre ad avere una impostazione politica fortemente caratterizzata “a sinistra”, propone solo soluzioni “quantitative” e generiche, quali il “recupero delle immense periferie degradate cresciute negli ultimi decenni”.

E’ vero che è un decalogo e non un trattato, ma quale tipo di recupero si intende? E quel generico “negli ultimi decenni” - che se letto insieme all’articolo su Eddyburg è riferibile al periodo dagli anni ’80 in poi, anni di Craxi, della Tatcher e di Reagan - tutto giocato in chiave esclusivamente politica senza nessun accenno a quello direttamente urbanistico delle teorie moderniste sulla città, non lascia forse qualche dubbio che si tratti di una operazione squisitamente politica?
E quel decimo punto, la “partecipazione di cittadini e associazioni alle scelte urbanistiche”, non appare un po’ troppo di maniera in quel voler rimarcare la presenza di associazioni, ritenendo evidentemente, i cittadini da soli un po’ meno rappresentativi?

Vorrei domandare a Italia Nostra nazionale cosa ne pensa delle Vele di Scampia o dello Zen o di Corviale.
Mi piacerebbe sapere se la demolizione è da demonizzare oppure se è una delle opzioni possibili, almeno in qualche caso.
Mi piacerebbe sapere se Italia Nostra e i cinque urbanisti ritengano che anche gli anni ’70 abbiano prodotto immense periferie degradate oppure se quelle dei Piani di Zona e dei PEEP siano buone per il solo fatto di essere pubbliche e non frutto dell’urbanistica contrattata.
Vorrei sapere se l’urbanistica consociativa sia migliore di quella contrattata e se abbia prodotto splendide città dove la gente vive felice!
Vorrei sapere se Italia Nostra ritiene che il problema fosse, negli anni ’70, solo dare un tetto (metaforicamente perché di tetti neanche… l’ombra) oppure una casa, con tutti i suoi attributi connessi. E sarei davvero curioso di sapere se l’urbanistica degli standard e dei servizi (pubblici, perché il privato è escluso al punto 4) è quella che viene riproposta oggi. E, ad esempio, il negozio di alimentari o il bar o l’edicola di giornali rientrano nell’iniziativa privata oppure c’è tolleranza per un limite dimensionale entro cui questa è ammessa, al pari della Cina ai tempi di Mao?
Davvero stupefacente questo decalogo: sembra una voce dall’oltretomba, un tuffo nel passato, un ricordo di una giovinezza che non è più!

Di diverso tono è l’analisi di Nicola Emery, tutta giocata sull’idea di un’architettura che ha “un suo alto mandato sociale”. Partendo da Platone e passando per Vitruvio, probabilmente forzando un po’ il pensiero di entrambi, Emery riconosce che l’architettura, in quanto “arte utile”, non può limitarsi all’“essere-in-sé”, cioè un’arte autoreferenziale al servizio dei soli architetti, ma all’”essere-per-gli-altri” che “nei casi peggiori può rovesciarsi in un suo essere-contro-gli-altri. Non è forse questo capovolgimento d’essenza a prendere disgraziatamente forma nei così detti eco-mostri?”.
Cos’è che non mi convince del tutto nella tesi di Emery? Il fatto che facendo ricorso a Platone e alla sua affermazione che la città è come un pascolo, e come tale dovrà essere costruito in modo da “risultare nutriente e sano”, mi sembra che non afferri e non dimostri appieno la necessità della città come “bene condiviso”, risultando alla fine un discorso un po’ moralistico e retorico in base al quale gli architetti, dovrebbero rinunciare a gran parte del proprio essere-per-sé (atteggiamento archistar, tanto per intenderci) a vantaggio dell’essere-per-gli-altri.
Manca, a mio avviso, una spiegazione razionale intrinseca all’essenza stessa della città, che è bene comune in quanto spazio e luogo in cui si svolge la vita dell’uomo come essere sociale, che necessita dunque di rapporti con gli altri. La città è il luogo di scambio sociale e di relazione per eccellenza, il luogo in cui ognuno entra in rapporto con gli altri; la città è un organismo sociale di persone, la quale deve essere regolata da leggi specifiche che garantiscano ad ognuno il massimo della libertà senza invadere la libertà altrui.
A me sembra invece che la metafora del pascolo, ancorché efficace, lascia trasparire una gerarchia precisa: il pastore e il gregge, dove la legge la detta il primo. E questo in perfetta sintonia con lo spirito de la Repubblica (di Platone, non del quotidiano….)che non concede molto alla democrazia ma auspica il governo dei filosofi. Insomma, preferisco un'etica che sia intrinseca alla disciplina stessa e non un'etica basata su generiche buone intenzioni.

Quindi il termine bene comune è applicabile indifferentemente ad una città governata in modo autoritario e a quella governata in modo democratico. Personalmente preferisco bene condiviso, che significa che occorre un dialogo, uno scambio di opinioni, una lotta politica per mettersi d’accordo sulla forma della città.

E le Vele, che c’entrano le Vele? C’entrano perché Emery, con Platone e Vitruvio, ritengono che la forma città eserciti un’influenza sul benessere o malessere delle persone e incidano sui comportamenti individuali e collettivi.
Scrive Emery: “Assumendo l’idea dello spazio come bene comune, l’architettura può cercare di offrire spazi favorevoli alla coesione e alla solidarietà, spazi che con i loro pieni e i loro vitali vuoti significano altrettante offerte per mescolare in modo proporzionale i diversi. Addirittura, come si legge ancora in Platone, dovrebbe disegnare spazi per far crescere universali legami fraterni…..”.

Anche in questo caso prevale la forma e la sostanza retorica, non si sa se dovuta più a Platone o a Emery, ma comunque il significato è abbastanza chiaro. Riferendoci alle Vele potremmo dire che queste non non offrono spazi favorevoli alla coesione e alla solidarietà e il loro disegno non fa crescere legami propriamente fraterni.
E Italia Nostra nazionale che c’entra con le Vele? Mi piacerebbe davvero saperlo, anche se una vaga idea me lo sono fatta.

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11 aprile 2011

DIVERSI PARERI SULLE VELE DI SCAMPIA

Di seguito alcune opinioni prese dal web sull'abbattimento delle Vele di Scampia. In rosso i miei appunti.


… Di fronte ai continui riferimenti al così detto “stravolgimento” del progetto, divenuto ormai una sorta di leggenda metropolitana ripetuta spesse per sentito dire, ritengo necessario ribadire, ancora una volta, che le modifiche apportate al progetto non c’entrano assolutamente nulla col processo di degrado che ha trasformato le Vele in un inferno abitativo.
Le cause sono ben altre e sono quelle che abbiamo esposte sulla stampa cittadina e, in particolare, nei miei libri "Dalle case collettive alle Unità urbane", Esi, 1996, e "Il Testimone", DenaroLibri, 2001……
Con il grande Riccardo Morandi chiamato a progettare le strutture antisismiche che dimostrarono tutta la loro solidità in occasione del terremoto del 23 novembre 1980…..(1)
Gerardo Mazziotti- Le Vele/2 – Un errore abbatterle, Repubblica 17 agosto 2006
1) E’ rassicurante cominciare con un sano benaltrismo, vero collante dell’unità nazionale, atteggiamento mentale utilissimo a svicolare su problemi e responsabilità. E’ anche interessante sapere che per dimostrare la bontà dell’esecuzione si porta a prova il successo il non essere crollate durante il terremoto. Come se tutte le case di Napoli fossero crollate e le Vele no!




Eppure, quello che per Saviano è un "simbolo marcio del delirio architettonico", per i docenti di storia dell'architettura, di restauro architettonico e per diversi sovrintendenti italiani è un "segno" da salvare, come lo sono stati anche altri segni del "male", come alcune architetture fasciste, e come lo sono il Corviale, lo Zen e molti altri quartieri ad alto tasso di degrado. E intendono opporsi a un nuovo abbattimento delle vele.(2)
Pierluigi Panza - Blog Fatto ad arte, 31 marzo2011
2) Ove si evidenzia che esistono due mondi incomunicabili: quello dei docenti e di diversi soprintendenti, cioè della cultura architettura ufficiale, e quello della gente. Ingiustificabile, dato che l’architettura è per la gente

Le Vele di Scampia non sono che un esempio fra molti di questa architettura inumana, totalitaria, tipica degli anni ’60 e ’70. Quando si scoprì che la thalidomidina induceva deformazioni nei feti umani, venne bandita dal mercato farmaceutico. Gli ecomostri invece continuano a ricevere l’appoggio fervente di un’intera classe di architetti alla moda, nonché di istituzioni che si vorrebbero responsabili della formazione di giovani professionisti. C’è più di un parallelo con quelle scuole di farmacologia dove s’insegnava che il Thalidomide era un buon medicamento contro la nausea provocata dalla gravidanza; ma quel crimine, con le conoscenze raggiunte, non lo si permette più. Perché allora tanto timore reverenziale, ancora, verso gli architetti famosi che promuovano gli ecomostri, e fanno finta che Corviale, Zen2, Vele e Tor Bella Monaca sono «bellissimi»? (3)
Nikos Salìngaros, Blog Fatto ad arte, 31 marzo 2011
3) Qui si narra dell’atteggiamento antiscientifico del mondo dell’architettura che rifiuta la verifica dell’errore. Prima hanno fatto gli esperimenti, non hanno funzionato, continuano a difendere l’errore. Condanna con le aggravanti specifiche.

Il portico, l'atrio, la scala, sono divenuti luoghi di pericolo, nuove carceri piranesiane, dove, nella penombra di ogni angolo, la microcriminalità può agire indisturbata.
È una cronaca amara e questo senza arrivare a scomodare i ceffi mascherati di Arancia Meccanica di Stanley Kubrick.
Così molta gente prova rimpianto per i tempi passati nei quartieri del centro antico dove la vita, pure svolta in un basso o in un buio monolocale, certamente però avveniva in un tessuto sociale più omogeneo e compatto, ove le relazioni interpersonali si svolgevano in uno spazio prossemico noto e controllato.
Questa diffusa condizione di malessere e di ripulsa per il proprio ambiente di vita, generata da uno spazio che ha la capacità di modificare e determinare i comportamenti degli individui che ospita, genera a sua volta delinquenza.
Il fallimento dell'Unità di Abitazione di Marsiglia di Le Corbusier, rimasta prototipo, così come il fallimento delle Vele di Scampia rappresentano la disgregazione dell'ideologia e della politica dello zooning, della città considerata come insieme di funzioni separate anche se poste in luoghi vicini.
La città antica, invece, garantiva l'integrazione sociale ed economica, aggregando negli stessi luoghi realtà di estrazioni diverse, anche culturali, oltre che sociali ed economiche. (4)
Enrico Sicignano, "Costruire in Laterizio" n° 65-1998, ripreso da www.progettoscampia.net
4) Togliere le persone dai vicoli , dalla città, per cacciarli dentro una utopica città nella città è stata una deportazione di massa. Le Corbusier non l’ho citato io. Descrizione e commento molto pertinente.

«Io distinguerei due livelli - continua Gizzi - l'aspetto architettonico-progettuale, cioè l'interesse architettonico, e il degrado sociale. Anche il fatto che abbiano fatto da sfondo a pellicole cinematografiche vuol dire che segnano una presenza, alla stessa stregua dei palazzoni della ex Berlino Est che hanno fatto da fondale a molte scene dei film di Wim Wenders» (5).
Stefano Gizzi, Soprintendete Napoli - da La Stampa
5) Distinguere i livelli significa negare la relazione tra l’architettura e la sua utilitas. E significa anche indifferenza verso chi ci abita. Per il resto, no comment, perché già fatto nel precedente post.

Daniele Sanzone abita a cinquanta metri dalle Vele ed è il cantante degli A67, formazione di crossover rock che nei suoi testi parla di degrado, camorra e, appunto, di Vele.
«Quelle - spiega - sono la metafora del male. Chiedete a chi ci abita, a chi ha perso un figlio o un amico che cosa bisogna fare. Abbattere le Vele significherebbe dare un segnale a tutti, ma non basterebbe. Bisogna fare tanto per questo quartiere, dalle case al lavoro. Qui tra amianto e topi crescono bambini e non è più tollerabile».(6)
Daniele Sanzone, da La Stampa
6) L’opposto del benaltrismo: si riconosce il problema, si trova la soluzione primaria e si allarga poi il discorso alla complessità degli altri numerosi problemi correlati.

E non è assolutamente vero che, per l'esigenza di ridurne i costi, la realizzazione delle Vele è cosa ben diversa dal progetto Di Salvo. E’ vero invece che, mentre erano ancora in costruzione, senza acqua, luce e fogne, la giunta Valenzi (nella quale probabilmente c'era già Siola in qualità di assessore) assegnò gran parte degli alloggi delle Vele ai terremotati del novembre '80 e ai senzatetto storici. Ed è vero, perché da me documentato, che la trasformazione del complesso in un inferno abitativo (direi di più: in una corte dei miracoli) è da contestare, non già a carenze progettuali o esecutive, ma alle varie amministrazioni comunali che l'hanno abbandonato a ogni forma di manomissioni (verande, edicole votive, box, eccetera), di trasformazioni (devastante la chiusura dei piani porticati con alloggi abusivi) e di vandalismi (le trombe degli ascensori sono state per anni utilizzate come depositi di rifiuti).(7)
Gerardo Mazziotti, Il denaro,it
7) Qui sia afferma che progetto ed esecuzione dello stesso non sono il problema. Il problema è l’abbandono da parte delle amministrazioni comunali che avrebbero dovuto accompagnare gli edifici come un genitore fa come i propri figli piccoli. Avrebbe dovuto, in sostanza, insegnare ad abitare.

“Ananke” è parola greca che vuol dire destino; quello delle Vele è stato fermato dal soprintendente Stefano Gizzi con la proposta di salvaguardia mediante dichiarazione di interesse culturale. Non un vincolo che mantenga in eterno la condizione attuale, bensì una leva per indurre un corretto restauro e il riutilizzo, nel rispetto di quello che aveva progettato l’architetto Franz Di Salvo, considerato uno dei migliori interpreti della lezione di Le Corbusier e di Kenzo Tange (le grandi “unità di abitazione” piccole città autosufficienti in tema di servizi), ossia qualcosa di ben diverso da ciò che fu realizzato fra il 1962 e il 1975, al punto da indurlo a ritirare la sua firma dall’opera. Le sue sette Vele prevedevano in tutto 6.500 vani, ma l’intero villaggio doveva essere dotato di scuole, teatri, cinema, centri sociali, spazi per il gioco e lo sport: nulla di tutto ciò fu realizzato né in contemporanea né dopo, e vi si rinunciò del tutto quando il terremoto del 23 novembre 1980 scatenò l’ennesima ondata di occupazioni abusive. Già l’insulso sistema di punteggi per l’assegnazione delle Case Popolari comportava il concentramento di quanto di più socialmente degradato; l’aggiunta dell’abusivismo, l’assenza di servizi elementari, provocarono da subito una miscela infernale, condita anche dal rapido degradarsi dei pessimi materiali: condense diffuse di umidità nonostante l’esposizione quasi totale al sole delle abitazioni, impermeabilizzazione carente, ascensori costantemente guasti nonostante altezze di 14 piani.(8)
l’Altro quotidiano.it – Iniziativa “Salviamo le Vele”
8) Qui si afferma esattamente l’opposto del punto 7. Evidentemente tutte le ragioni sono buone pur di assolvere il progetto

“Pessime da abitare ma di notevole qualità…stupenda opera di architettura” dichiara l’ex soprintendente Mario de Cunzo. (9)
Eleonora Putillo, L'altro quotidiano.it
9) Mario de Cunzo: precedente Soprintendente di Napoli. Vedi punto 5. Bisogna riconoscere una notevole coerenza ai Soprintendenti!!

E’ stato il progettista de “Le Vele” di Secondigliano coadiuvato da un pool di valenti tecnici - uno per tutti il noto Riccardo Morandi che ha studiato le strutture portanti - realizzando quell’interessante complesso demolito di recente senza scrupoli con l’assurda motivazione che l’Architetto era addirittura responsabile del degrado sociale e culturale in cui verte tutta la zona di Secondigliano. (10)
Alessandro Castagnaro, PresS/Tiletter
10) Filone: la colpa è sempre degli altri e io mi tappo gli occhi per non vedere

Quasi d' obbligo a questo punto la scelta di Garrone e Saviano e così le Vele per tre mesi sono diventate la Cinecittà della finzione camorristica. Da antologia, le scene della piscina sul terrazzo di una Vela e del ragazzo che corre nello spettrale corridoio al piano terra. Franz di Salvo e l' architettura napoletana avrebbero volentieri rinunziato a questo supplemento di notorietà. Sperano solo in un paradosso: che il prevedibile successo mondiale del film induca a conservare e restaurare almeno una Vela, se non come testimonianza di un progetto interessante e coraggioso, almeno come location d' elezione di un film di successo. (11)
Pasquale Belfiore, repubblica 22 maggio 2008
11) Io direi che gli abitanti avrebbero fatto volentieri a meno della pubblicità. Ma evidentemente sono un problema secondario.

In un primo momento il Comune intende localizzare in una delle Vele la sede della Protezione Civile e dei Vigili del Fuoco. Ma successivamente si decide così come chiesto dai comitati di abbattere tutte le vele. Comincia la lotta per la riqualificazione.(12)
Da una slide del filmato "Comitato di Lotta Vele Scampia"- http://www.youtube.com/watch?v=BNLAi1odkPE
12) C’è poco da osservare: gli abitanti ne vogliono l’abbattimento. Ci deve pur essere qualche ragione!

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7 aprile 2011

LE VELE DI SCAMPIA? UN MONUMENTO NAZIONALE!

L’intenzione di vincolare le Vele di Scampia da parte del Soprintendente Stefano Gizzi è lo specchio del distacco totale tra la cultura italiana e la realtà. Se si domandasse infatti a qualunque persona comune cosa pensa delle Vele e se andrebbe a viverci la risposta appare scontata.
Se si domandasse a Gizzi forse non risponderebbe come Gregotti per lo Zen, ma dubito risponderebbe affermativamente.
In Italia esiste una cultura che si auto-considera alta ma che non prova disagio a dire che quell’oggetto ha valore storico e architettonico. Gizzi giustifica questa scelta con due argomenti, tra gli altri, che sono significativi (Fonte: La Stampa):
1) le Vele sono state lo sfondo del film Gomorra e, come i casermoni della Germania est sono stati lo sfondo dei film di Wenders, hanno per ciò stesso un valore culturale in senso ampio.
2) uno studio commissionato anni fa dal Ministero dei Beni Culturali a varie università ha decretato il valore di quel progetto.

Si può immaginare quanto possano interessare a chi è costretto a vivere in un inferno i film di Wenders!
Le Vele sono considerate la scenografia di un film dai colori plumbei e i suoi abitanti le comparse di quel film. Il discorso di Gizzi è tutto concettuale in quanto gli edifici dell’Arch. Franz Di Salvo sono trattati come fossero un’idea astratta e ne parla al pari di oggetti d’arte, senza lasciarsi sfiorare dal dubbio che l’architettura esiste per assolvere alla funzione dell’abitare, cioè per accogliere al proprio interno persone che ci vivono e all’esterno persone che lo vedono e che si muovono nello spazio circostante.

Gizzi trascura del tutto il valore civile dell’architettura che significa che la città appartiene a tutti i cittadini, e quindi anche le sue case appartengono, in un certo senso, a tutti e non solo ai loro proprietari. Un edificio è costituito una parte privata, l'interno, e da una parte pubblica, l'esterno, e chi è proprietario di casa non è proprietario di tutta la casa o almeno non ha diritto assoluto su tutta la casa. Lo ha certamente per quello che riguarda l’interno ma l'esterno è parte integrante della città e appartiene a tutta la città ed è per questo motivo che il proprietario ha obblighi di decoro, se non di bellezza, nei confronti dei suoi concittadini.
La città è cioè un luogo e un bene condiviso tra tutti i suoi abitanti e con essa tutti gli edifici che insieme la compongono. Non è casuale che il Sindaco abbia il potere di emettere ordinanze per ripristinare il decoro di edifici in cattivo stato di manutenzione.

Tutto ciò deriva non solo dalla storia della città europea ma dall’essenza stessa della città, che è l’ambiente entro il quale si svolge la vita dell’uomo. Per questo motivo se un’architettura è brutta e indecorosa in quanto invivibile e anti-umana non è civile ma in-civile in quanto rompe e trasgredisce le regole della città e della società e chi abita in ghetti pubblici (vorrei sottolineare pubblici) come le Vele si trova, so malgrado, ad essere automaticamente ai margini della società. Gli abitanti di posti come questo, prescindendo del tutto dai loro comportamenti e dalla loro condizione sociale, sono bollati come emarginati. Quindi la bruttezza è emarginante.

Eppure per Gizzi, che è architetto e che, come quasi tutti gli architetti, ha probabilmente assimilato all’università l’ideologia modernista di Le Corbusier e C., l’ideologia della macchina per abitare, della macro-struttura, dell’oggetto che deve riassumere in sé tutte o quasi le funzioni urbane, del falansterio, cioè dell’anti-città e dell’anti-socialità, viene, prima di tutto, il progetto e il suo progettista, prescindendo da chi lo abita.

Gizzi, con questa sua intenzione di vincolo, perpetra nel tempo e congela, storicizzandolo, l’esperimento di ingegneria sociale fatto in corpore vili.
Il movimento moderno, nato come avanguardia culturale si è trasformato ormai da anni in un movimento reazionario di conservazione dell’esistente, in teoria regressiva.
L’architetto modernista rappresenta per la città quello che il filosofo rappresenta per la polis nella Repubblica di Platone, cioè il migliore che, per questo, è l'unico abilitato a governare. Una visione profondamente anti-democratica e politicamente anti-moderna, vecchia più che antica. Così come Platone irride alla democrazia della polis greca, ritenendo che essa porti, per la troppa libertà concessa agli individui, al disordine, i modernisti sono sostanzialmente contrari al fatto che i cittadini possano avere voce nella forma della città, dove deve invece governare il loro astratto e funebre ordine geometrico. L'architetto modernista si pone da solo sullo scranno del comando, in quanto migliore, per decidere le sorti della città. Il modernismo è quindi una forma attualizzata di platonismo privo però della grandezza del pensiero di Platone. E’ una brutale reazione anti urbana e politica, nel senso di polis. E' autoritarismo allo stato puro.
E dire che a coloro i quali ritengono che i cittadini siano abilitati a scegliere e decidere la politica della città, cioè la forma urbis, viene attribuito il termine di populisti! Evidentemente i modernisti non è che siano poi così culturalmente attrezzati come vogliono sempre far credere.

Il secondo argomento, quello del verdetto delle università, è la riprova di tutto questo, perché dimostra come sia proprio il sistema culturale dell’architettura e dell’urbanistica italiana ad essere rimasto fermo all’ideologia modernista, dichiarando il valore delle Vele. Gizzi non è un’eccezione ma è parte di quel sistema culturale che va profondamente trasformato nella speranza di riportare l’architettura al suo significato originario di casa dell’uomo e per l’uomo, contro un’architettura che è invece per l’architetto e dell’architetto, che ne fa un gioco autoreferenziale sulle spalle dei cittadini.

Una riprova del sistema? Il mese scorso si è svolto un dibattito sulle Vele di Scampia nell'ambito della Fiera d'Oltremare e il Soprintendente Gizzi era annunciato nella locandina come moderatore! E' come se in un processo il Pubblico Ministero facesse anche da  giudice.
Se ha una speranza l’architettura italiana è quella di rimettere ai cittadini le decisioni sulla città, perché è la civitas a dover decidere dell’urbs.

Auguriamoci che il Comune, come ha già annunciato, si opponga al vincolo: evitiamo almeno il ridicolo.

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5 aprile 2011

RAPIDA SINTESI SULLA ZONIZZAZIONE

Ho trovato su Slideboom questa sintesi sullo zoning di cui però non conosco l'autore, a parte le varie slides che recano in basso il nome dei vari autori da cui sono tratte.
Poiché è pubblico lo posto volentieri, come pro-memoria o introduzione a quella sciagura urbana che è la zonizzazione.
Forse seguirà un approfondimento.

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4 aprile 2011

UNA RAGIONE IN PIU' CONTRO I GRATTACIELI

La mia cultura di architetto laureato nel 1976 non mi ha certamente fornito alcun pregiudizio contro i grattacieli, dai quali anzi sono stato, e sono in certi casi tutt’ora, affascinato e intrigato. Ci sono città che traggono da questa tipologia la loro forte caratterizzazione, come New York e Chicago e, non foss'altro che per la fama e il mito dato loro dal cinema americano, ritrovarsi in mezzo ad essi appena sbarcato dall’aereo è stata una delle esperienze di viaggio che ricordo con maggiore intensità.
Ricordo con commozione quel primo viaggio in taxi verso l’albergo a New York, con il naso incollato al finestrino e la testa volta in su ad ammirare luoghi ed edifici resi familiari dal cinema e dai libri: Fifth Avenue, Rockfeller Center, Empire, Chrysler Building, Pan Am e poi l’albergo vicino al City Corp Centre, incredibile edificio con i quattro angoli a sbalzo e la punta tagliata a 45°. E in quel taxi mi veniva in mente un film con Alberto Sordi nella mia stessa situazione.

Immagine tratta dal sito del Comune di Milano

E poi quella immensa parete di indirizzi dell’Empire State Building, e la sua punta che di notte cambia colore e infine la salita in cima alle Twin Towers da cui si abbracciava la penisola di Manhattan, Il New Jersey, la statua della Libertà, il ponte di Brooklyn e tutte le icone di questa città simbolo della potenza americana, del mondo occidentale e della libertà. Fosse stato per me avrei ricostruito le torri come erano e dove erano, come segnale di forza e di determinazione contro una furia distruttrice irrazionale e assassina. Ma gli abitanti hanno deciso diversamente e non si può che rispettare questa scelta.
Per me sarebbe sbagliato rinnegare tutto questo e comunque assolutamente impossibile.

Ma un conto è l’emozione e i ricordi personali, altro è ragionare.
E molte sono le ragioni per cui ritengo del tutto sbagliato la ripetizione di questo tipo in ogni angolo del pianeta, e ancor più in Italia, che di seguito riassumo:

• Esportarlo ovunque significa spogliarsi della propria identità assumendone una diversa che appartiene ad un altro popolo, pur a noi così vicino: ogni città, ogni luogo è unico e diverso dagli altri e questa unicità deve essere mantenuta e salvaguardata, allo stesso modo in cui si salvaguarda l’identità e l’unicità dei paesaggi naturali.

• Il grattacielo è l’edificio più energivoro che esista, sia per la produzione dei materiali da costruzione con cui deve essere costruito, sia per la sua gestione che richiede massicce dosi di energia per la movimentazione verticale nelle due direzioni delle persone e dei fluidi per riscaldamento, refrigerazione, rete idro-sanitaria, scarichi perfino. Il grattacielo è un edificio di grande fragilità ed è totalmente dipendente dall’energia; senza energia è l’anticamera di una bara.

• Il grattacielo è pericoloso, come si capisce bene, in caso di incendio, tra l’altro non infrequente per il tipo di materiali che deve utilizzare per ovvi motivi strutturali, tutti leggeri ed infiammabili.

• Per lo stesso motivo è, dal punto di vista dell’isolamento termico e dei consumi, estremamente inefficiente, essendo le pareti dotate di scarsa massa e quindi, non accumulando calore, necessita di calore continuo in inverno e di raffrescamento d’estate, per supplire al noto effetto baracca. La sbandierata sostenibilità ambientale ed autonomia energetica altro non è che una semplice presa in giro.

• La sua sagoma sconvolge del tutto la percezione delle nostre città e del nostro paesaggio, i cui unici elementi verticali sono le torri e i campanili delle chiese, con ciò impoverendo quella che è anche la nostra unica materia prima: la bellezza delle nostre città e del nostro patrimonio artistico.

• Il grattacielo è un formidabile attrattore di traffico, concentrando in pochi metri quadri di terreno un gran numero di persone e di attività, rendendo imprevedibile e ingovernabile quanto accade a terra.

• La vita all’interno del grattacielo è totalmente artificiale, essendo difficile dotarli di finestre apribili, date le fortissime correnti d’aria, che tra l’altro influiscono non poco sul clima circostante. Quindi l’ambiente deve essere completamente climatizzato.

• I costi di manutenzione sono altissimi, basti pensare alla pulizia o al rinnovo delle facciate, di qualunque materiale esse siano.

• L’idea che si occupi meno suolo e che si liberi una gran quantità di verde è destituita di fondamento ed è uno dei tanti falsi luoghi comuni, utili ad agevolarne l’approvazione presso le varie comunità cittadine.
Mi fermo, ma l’elenco potrebbe continuare.

Esiste però, nel caso specifico della realtà italiana, un’altra importante ragione per contrastare con forza la scelta dei grattacieli. E’ una ragione che potrei definire di carattere strumentale e vale sia per la cultura urbanistica che per la politica.
La cultura urbanistica attuale sembra pigramente e acriticamente incentrata sulla sostenibilità ambientale, articolata in maniera più o meno seria: dalla giusta attenzione che i piani rivolgono alla salvaguardie delle risorse naturali in senso ampio, dopo che la legge urbanistica nazionale era invece rivolta solo alla città (anche se in maniera sbagliata), a dichiarazioni di principio influenzate da un ambientalismo che vede l’uomo come un nemico e la natura amica (amica di chi, se l’uomo è un nemico?) con la conseguente cascata di slogan: consumo di suolo, volume zero, dimensionamento di piano e quant’altro.

Una visione urbanistica tutta in negativo e sostanzialmente anti-urbana che non va al cuore del problema, non cerca le ragioni del fallimento della città moderna, accontentandosi, al massimo, di attribuire ogni colpa alla speculazione.
Ragionamento anche questo in negativo, perché riduce l’urbanistica ad una storia di malaffare, attribuendo di fatto ogni responsabilità a tutti tranne che agli architetti, e quindi alla politica, ai palazzinari, ai cittadini cattivi, al mercato, alla rendita fondiaria. Questa svolge, ed ha sempre svolto, un ruolo importante e certamente tutto a favore degli interessi privati, ma se fosse la ragione prima dei fallimenti allora dovremmo avere, a controprova, parti importanti di città che, in quanto costruite in base a piani di iniziativa pubblica, dovrebbero essere esempi di qualità da cui attingere e da prendere a modello. Invece non è così, ed anzi la stragrande maggioranza di quei piani sono i simboli negativi par excellence.

Si rifiuta di riconoscere il fatto che le responsabilità maggiori sono proprio della cultura urbanistica che ha sposato entusiasticamente, e a tutt’oggi continua su questa strada, la zonizzazione selvaggia, la specializzazione della città in aree omogenee, la fine della strada, la logica del lotto piuttosto che dell’isolato, il principio della somma di oggetti invece che quello dell’insieme, il disegno geometrico astratto e privo di ogni relazione con lo svolgimento della vita dell’uomo, insomma il modernismo architettonico ed urbanistico.
L’ambientalismo di oggi, con le dovute eccezioni, è il frutto della cattiva coscienza che crede di poter porre rimedio alla disintegrazione della città con dosi massicce di un verde idealizzato, dopo aver creduto di fare supplenza alla mancanza di disegno urbano attraverso gli standard e i servizi. La quantità definisce meglio di ogni altra cosa l’urbanistica moderna.

Il grattacielo è, in questo senso, un’altra scorciatoia, un altro rimedio alla mancanza di analisi della realtà, il simbolo presunto di una rigenerazione urbana e di rilancio delle città verso una non meglio definita modernità, del tutto priva di contenuti. Si possono, o meglio si dà per scontato che possano, appiccicare al grattacielo le etichette di eco-compatibilità, sostenibilità, risparmio di suolo, con ciò dando la percezione di essere in linea con il fariseismo del volume zero ma permettendo ugualmente operazioni immobiliari importanti sotto il profilo quantitativo.
Il grattacielo diventa dunque l'occasione per un altro rinvio, un altro ostacolo a scelte inderogabili di vera rigenerazione urbana, basata sulla maggiore densità, su una difficilissima opera di ristrutturazione urbanistica che dovrebbe fondarsi nel ritorno alla strada, alla prossimità, alla promiscuità delle funzioni, all’identità dei luoghi.

La politica, che naturalmente possiede il dono di fiutare il vento, sfrutta il trend e vede nel grattacielo l’opportunità di veicolare attraverso di esso, che avrebbe tutte le doti di eco-compatibilità possibili e immaginabili, interventi immobiliari importanti, con quel quid plus di fascino che esercita la verticalità nell’immaginario collettivo, a perenne memoria dell’amministratore che per primo ha introdotto la propria città nella contemporaneità, che ha sprovincializzato una realtà da sempre ostile alle novità.
E così si alimenta il luogo comune, per non dire la menzogna, del grattacielo sostenibile, nelle sue varie versioni boscate e/o pannellate al silicio, energeticamente autosufficiente, con tanto verde intorno.
E così si ripetono a scala maggiore gli stessi errori e la (in)cultura urbanistica continua a rotolarsi su se stessa senza imboccare mai la strada giusta.


PRECEDENTI POST SUI GRATTACIELI:
Grattacieli sostenibili e sostenuti
Qualche numero interessante sui grattacieli "sostenibili"
Ancora sui grattacieli sostenibili
L'assioma del grattacielo

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30 marzo 2011

LA CITTA' DOPO IL NUCLEARE

Gabriele Tagliaventi osserva e descrive la condizione urbana di Detroit per ammonire su ciò che potrebbe accadere alle nostre città e in qualcuna è già accaduto.

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29 marzo 2011

DIVERTISSEMENT

…..perciò andranno privilegiate architetture contemporanee, di pregio, che sfruttino energie rinnovabili, e strutture verticali che limitino il consumo di suolo”.
Questa la testuale e meravigliosa sintesi di luoghi comuni fatta da un amministratore per un'area che prevede grattacieli.
Un'area, lo si capisce bene, in cui si prevedono grattacieli dalle forme contemporanee e che sfruttino energie rinnovabili.
Una dichiarazione tipo, uno stereotipo ormai consueto nel mondo della politica locale di qualsiasi appartenenza politica, in cui è condensata lo stato attuale della prassi urbanistica e architettonica.
Analizziamo la frase:

1) privilegiare architetture contemporanee:
Dato che sarebbe difficile privilegiare architetture megalitiche o longobarde e neppure risorgimentali, nonostante il 150°, e dato che non tutte le architetture costruite oggi, quindi contemporanee comunque esse siano, potrebbero soddisfare il significato sottinteso di particolare specialità, è chiaro che per “contemporanee” si debbano intendere architetture che assomiglino alle migliori tra quelle che si vedono in giro o nelle riviste, in TV e nei magazine, cioè più alla moda. Se infatti io ricevessi l’incarico di ordinare uno stock di abiti per conto di qualcuno che mi dicesse solo: "voglio che tu privilegi un abbigliamento contemporaneo", mi documenterei sull’ultimo pret a porter sfilato a Milano o Parigi e tra quello andrei a scegliere. Analogamente, se mi si chiedesse un’architettura contemporanea, cercherei dove devo cercare. Quindi è la moda che comanda l’architettura, è la moda che fa scegliere le “architetture”. Sottolineo questo punto a favore di tutti quei colleghi che ancora vanno cercando l’architettura contemporanea: non si prendano troppa cura, la possono trovare all’outlet a prezzi stralciati. Tra un po’ sarà reperibile anche nei mercatini rionali e pare che già ci siano in commercio molte copie taroccate, non solo di produzione asiatica ma anche italiana. La Guardia di Finanza ne ha sequestrati diversi quantitativi.

2) di pregio:
Attributo questo ridondante e pleonastico in quanto scontato. Difficile desiderare un’architettura spregevole: contemporanea già basta e avanza.

3) che sfruttino energie rinnovabili:
Tradotto significa “che abbiano sul tetto pannelli solari”. Poiché è la legge che lo stabilisce, anche questa espressione è un pleonasmo.

4) strutture verticali che limitino il consumo di suolo:
Eccoci al conquibus! Tutto quanto detto prima è l’ouverture, la preparazione, l’introduzione, l’odore di quell’arrosto che è il grattacielo e che riassume in sé tutte le caratteristiche precedentemente esposte: contemporaneità, pregio, sostenibilità ambientale. Con l’aggiunta della più corretta tra le politicamente corrette espressioni correnti, cioè risparmi nel “consumo di suolo”. Ma il grattacielo non viene chiamato con il suo nome, e neppure con il più evocativo torre, bensì: struttura verticale. La capacità d’astrazione è qui eccezionale: l’edificio si smaterializza del tutto per diventare un concetto. Struttura, infatti, non ha niente di fisico, non rimanda a qualcosa che sostiene un carico, dato che la struttura verticale è presente anche in una capanna di un piano. Struttura verticale assume qui il significato filosofico dato dalla omonima corrente strutturalista, diventa un segno che connota un qualsiasi elemento che tenda verso l’alto, quasi l’aspirazione stessa alla salita.

E subito ci si immagina un bel monolite con un meraviglioso e soprattutto grande parco intorno, logica conseguenza del risparmio di suolo: si risparmia suolo e quindi si può liberare il verde, sotto il quale ci sta un immenso parcheggio che sputa veleno sopra ma tanto ci sono le piante che fanno da filtro. E si pensa ad un parco come un green da golf, e gruppi di alberi e fiori e roseti e panchine e squadre di manutentori che tagliano l’erba, raccolgono le foglie cadute e le bottiglie di birra vuote, le siringhe e le cicche, qualche ubriaco, ogni tanto anche un cadavere finito lì chissà come; che accomodano gli irrigatori, sostituiscono le panchine rotte e quelle rubate. E se si prende uno dei tre ascensori e ci si affaccia alla terrazza del roof-garden si può osservare ad est una città compatta, con tutti i tetti rossi, dove le strade appaiono come incisioni tra le masse murarie, come il cretto di Gibellina, e dove non ci si capacita di come per secoli la gente, questa incivile, abbia potuto vivere tutta così appiccicata e per di più intrappolata dentro una cinta di mura che segna un limite preciso all’espansione, dato che oggi non ci vive più nessuno, salvo qualche architetto che ci tiene studio, ma solo per immagine e poi, per comodità, per non perdere tempo nei viaggi, ci vive anche al piano di sopra, ma con grande sacrificio. Infatti possiede anche una bella casa colonica ristrutturata in campagna, con piscina, zona collinare, grande metratura, dove si riposa nei week-end e durante l’estate. Ha cercato, è vero, una casa in una amena periferia, ma è stato sfortunato perché costano meno e lui pensa che il prezzo più basso nasconda qualche magagna. Solo per questo non l’ha comprata, perché non si fida. E poi c’è sicuramente da sanare qualche difformità, troppe grane; il centro storico, invece, pare che esistesse già prima del ’67 e tutto è regolare, dice la legge.

Ci vivono anche pochi altri professionisti, avvocati, notai, psicologi, primari di cliniche private ma anche medici generici, possidenti, commercianti, ricchi di famiglia, industriali e arricchiti a vario titolo. C’è rimasto qualche anziano pensionato ma per poco perché c’è chi gufa perché tiri il calzino per potersi così presentare agli eredi con un bell’assegno. Comunque è un luogo poco raccomandabile perché c’è qualche extracomunitario, anche se, a onor del vero, loro preferiscono i condomini in periferia, perché sono veri amanti del bello. Non ci sono invece parchi tra quelle case, ma tra i tetti e i muri spuntano chiome di alberi che non si capisce proprio da dove vengano: saranno anche quelli sui roof-garden!

Rivolgendo lo sguardo ad ovest il vuoto prevale e, dopo il pieno ad est che costringeva ad aguzzare la vista, il campo si allarga, l’orizzonte si amplia, gli occhi vagano senza meta mancando, per fortuna, un disegno leggibile. Quella città è veramente democratica perché ognuno la può interpretare a modo suo, libera la creatività e incoraggia l’iniziativa perché non c’è regola che comandi se non la mancanza di regole. Un grande parcheggio sulla sinistra, un altro mini-grattacielo sulla destra, un po’ più vecchio, non tanto contemporaneo, collezione di quattro anni fa, vintage, non è chiaramente sostenibile perché non v’è traccia di energia alternativa. Al centro quella che sembra una raccolta di scatole da scarpe tutte ordinate perpendicolari alla strada e, accanto a queste, case sparse con tetti dalle forme più varie e fantasiose, e un po’ più lontano un grande ipermercato.

Un flash di memoria ricorda che quella parte di città dentro le mura ha accolto, nei tempi di massima crescita, fino a 30.000 abitanti. Ma adesso che la città ne conta 100.000, come mai la superficie attuale è almeno 10 volte tanto? Boh!
Comunque adesso, con i grattacieli le cose cambieranno radicalmente: il consumo di suolo si ridurrà drasticamente, il verde aumenterà e …. la campagna diminuirà….. se diminuisce la campagna però cresce la città…. ma la città è verde…. sarà verde la città ma cosa ci si coltiva, l’erba all’inglese?..... no, l’erba no, semmai l’insalata e…. si possono fare gli orti urbani…… ma sull’insalata urbana ci va lo smog delle auto parcheggiate sotto…. e allora portiamole a piano terra le auto…. sì, ma così sull’insalata ci va lo smog delle auto di sopra ….. e allora….. coltiviamo l’insalata in campagna e in città facciamoci le cose da città, magari ci si vende l’insalata della campagna e anche qualcos’altro e per non consumare troppa benzina si potrebbero costruire le case più vicine e un tantino più basse della struttura verticale strutturalista, così il sole c’è per tutti non solo per quelli dei piani alti, e magari al piano terra metterci qualche negozio.
Fammi dare un po’ uno sguardo a quel fittume, tanto, tanto mi venisse qualche idea!

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25 marzo 2011

COSTRUIRE CON PARSIMONIA

di Ettore Maria Mazzola

Prefazione
La tragedia del terremoto senza precedenti avvenuto in Giappone, e soprattutto la catastrofe nucleare che si sta abbattendo su quel Paese, e che presto investirà una grande parte del pianeta adombrando gli eventi di Chernobyl, dovrebbero farci riflettere moltissimo sul nostro stile di vita.
Può sembrare demagogico, o cinico, affrontare questo discorso in questo triste momento, tuttavia ritengo che sia proprio questo il tempo per riflettere, poiché l’atteggiamento blasé che caratterizza la nostra società tende a farci dimenticare in fretta degli avvenimenti tragici.
Non voglio parlare di politica, perché non è il mio campo, tuttavia devo esprimere il mio disappunto circa alcune affermazioni recenti dei nostri politici i quali, all’indomani della catastrofe, hanno dichiarato che “il programma nucleare in Italia deve andare avanti”, oppure che “in Italia non ci sono rischi”. Non meno preoccupanti sono state le affermazioni del premier il quale, nascondendosi dietro un dito ha detto che “la decisione spetta al Consiglio d’Europa” e che, in termini di localizzazione delle centrali nucleari, la decisione non spetta a lui ma ai consigli regionali!


Nel 1987, scossi dal terrore della catastrofe di Chernobyl, i cittadini italiani votarono a larghissima maggioranza l’uscita dal nucleare, e quel referendum costò, come di consueto, tanto denaro pubblico. Come mai quindi oggi dovremmo rimettere in discussione una decisione quasi unanime del popolo italiano? Quanto conta, per i nostri politici, la volontà del popolo di fronte agli interessi lobbistici?

Ragioni
Il motivo della nuova corsa al nucleare è ovviamente intimamente connesso al fatto che, come aveva ammonito James Howard Kunstler nell’ormai famosissimo “The Long Emergency”, è terminata l’era del petrolio a buon mercato. Allora si deve trovare una soluzione energetica alternativa che non si basi sui combustibili fossili.
Tuttavia, come Kunstler ha ampiamente dimostrato senza possibilità di smentita, tutte le cosiddette “fonti alternative”, dipendono in qualche modo dal petrolio, energia nucleare inclusa. Tra l’altro questo tipo di tecnologia prevede un problema non indifferente legato alle scorie radioattive e alle acque di raffreddamento, anch’esse radioattive, del quale fingiamo di ignorare l’esistenza.

Ma perché quindi dovremmo orientarci in questa direzione? Il motivo basilare è che, nella società che abbiamo costruito per migliorarci la vita, tutto è stato, o tende a venire automatizzato. Ciò che nelle fabbriche un tempo veniva fatto dagli operai, oggi viene svolto dalle macchine, altrettanto dicasi per ciò che avviene nelle nostre case. Per spremere le arance si usa lo spremiagrumi elettrico, per spazzare le stanze si usano le aspirapolvere o, addirittura, veri e propri impianti centralizzati di aspirapolvere, ecc.
Ovviamente questo meccanicismo, se da un lato apre i tristi scenari della disoccupazione, dall’altro richiede un quantitativo di energia smisurato che, lo stiamo vedendo nei “Paesi emergenti”, comporta un danno al pianeta enorme in termini di surriscaldamento globale e, ovviamente, una domanda di combustibili fossili di gran lunga superiore all’offerta.

Ma c’è un altro aspetto, silente, alla base dello smodato fabbisogno energetico: le nostre case! Le stime (1) – in crescita – che emergono dalle conferenze, ci dicono che l’incidenza in termini di fabbisogno energetico dell’edilizia industriale attuale è pari al 36%, (a fronte del 31% dell’industria e del 31% del trasporto), mentre le emissioni di CO2 dell’edilizia sono pari al 34,5 % (a fronte del 32,5% dell’industria e del 30,5% del trasporto).
Dalle stesse stime risulta che l’intero settore edilizio è responsabile del 50% dell’energia consumata a livello Europeo, di cui il 36% è imputabile al fabbisogno energetico in fase d'uso degli edifici, mentre circa il 14% è causato dal settore industriale legato all’edilizia. Oltre a ciò va considerato che gli edifici comportano notevoli consumi di materiali ed energia sia in fase costruttiva che durante il loro uso e la loro dismissione: il settore edilizio consuma circa il 40% dei materiali utilizzati ogni anno dall’economia mondiale e produce circa il 35% delle emissioni complessive di gas serra, senza contare i consumi di acqua e di territorio, nonché la produzione di scarti e rifiuti dovuti alla sua demolizione … ma da noi c’è chi continua a costruire grattacieli ed edifici vetrati, presentandoli anche come “sostenibili”!
Da questi dati sconcertanti viene da chiedersi come possa essere possibile che la nostra società, quella che rivendica di appartenere alla specie animale più evoluta, quella che dice di appartenere alla generazione più avanzata e che ha raggiunto i massimi successi nel campo delle scienze, sottovaluti il problema e, in nome di un egoismo di massa, si limiti a rimandare la soluzione alla prossima generazione … che sono i nostri figli!!

Davanti ad affermazioni come quelle di G. W. Bush, che disse “lo stile di vita americano non è negoziabile” non possiamo quindi non pensare esattamente l’opposto. Infatti si deve proprio al profondo egoismo della nostra società – disinteressata perfino al futuro dei propri figli – che non vuole rimettere in discussione il proprio stile di vita, se questo pianeta, diversamente dai “programmi” di Madre Natura, sta velocemente andando incontro all’apocalisse!

Una possibile soluzione
Quindi, non volendo “cambiare il suo stile di vita”, l’uomo si affanna alla ricerca di un sistema per mantenere immutato il suo comportamento nei confronti dell’ambiente.
Ma non ci vuole un premio Nobel per comprendere che ciò che fa cortocircuito è proprio il non voler rinunciare alle città e agli edifici energivori!
Noi dovremmo costruire delle centrali nucleari, oppure dovremmo installare ettari di pannelli fotovoltaici (in assenza di un piano di smaltimento per i prossimi 15-20 anni quando dovranno essere sostituiti) per far sì che i nostri edifici, e le nostre città, continuino a succhiare sempre più energia.
Quando questo modello di città e di edilizia ci venne imposto, si parlava di “funzionalismo” … e non sono bastate le pagine ironiche di Tom Wolfe (2) a farci capire che molte cose di quel funzionalismo non funzionassero.

Se dunque nella nostra società consumista tutto converge sul vile denaro, perché non proviamo a seguire una strada diversa, in grado di mettere d’accordo gli interessi privati con quelli comuni? Se non altro per prolungare la vita della nostra specie su questo pianeta!
Come ho più volte ribadito nelle mie pubblicazioni, l’urbanistica del XX secolo ci ha lasciato in eredità una infinita serie di problemi, ma anche delle potenziali enormi possibilità di business. Le città che si sono sviluppate in maniera caotica, sebbene pianificata, sperperando territorio e producendo edilizia energivora, oggi si presentano come delle realtà caratterizzate da vuoti piuttosto che da pieni, e quei “vuoti urbani” sono prevalentemente proprietà demaniali.
Rivedendo il modo di pianificare le città, riportando l’essere umano al centro della progettazione e limitando l’importanza data all’autotrazione, potremmo dar vita ad un enorme progetto di ricompattamento urbanistico e di sostituzione edilizia che adoperi solo ed esclusivamente materiali naturali a chilometri zero, sarebbe possibile limitare il traffico veicolare al solo trasporto pubblico, considerando quello privato solo in caso di bisogno. Ovviamente questa circolazione veicolare dovrebbe prediligere sistemi non inquinanti.

Gli studi sulla fisica tecnica e impianti, e soprattutto quelli sulla termo-igrometria, dimostrano ampiamente che gli edifici costruiti con tecniche e materiali tradizionali richiedono circa il 40% in meno di riscaldamento invernale e fino al 100% del raffescamento estivo. Questo aspetto però, non facendo gli interessi delle lobbies dei produttori di materiali isolanti, o dei fabbricanti di pannelli solari e fotovoltaici, è stato ignorato dai legislatori che hanno stabilito le agevolazioni e gli sgravi fiscali in materia di risparmio energetico. Né tantomeno è stato preso in considerazione il danno ambientale generato dalla installazione di ettari ed ettari di pale eoliche e campi fotovoltaici che, grazie all’accesso ai contributi europei, stanno rimpiazzando i nostri campi coltivati! Quale fiducia si può dunque riporre nel Consiglio d’Europa, i cui “saggi decisori” risultano fortemente coinvolti nel sistema lobbistico privo di scrupoli nei confronti del futuro del pianeta?

Qualora rivedessimo radicalmente l’approccio, e mettessimo in pratica le cose che ho esposto, potremmo generare enormi profitti, pubblici e privati, legati al settore edilizio, al restauro, al turismo, ecc., ma soprattutto ridurremmo drasticamente quel 50% di energia consumata per produrre industrialmente, trasportare, riscaldare, rinfrescare i nostri edifici, che si tradurrebbe in un abbattimento del surriscaldamento planetario, e in una mancanza di necessità di investire sul nucleare. Non ultimo, un processo di questo tipo genererebbe un notevole abbattimento del problema della disoccupazione, e allora perché non dovremmo farlo?

Note
1) Fonte European Environment Agency e World Resources Institute - rilevazioni 1990-2004
2) Maledetti Architetti, Bompiani Edizioni, Milano 1988-2001 – Titolo originale From Bauhaus to our House

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20 marzo 2011

L'ASSIOMA DEL GRATTACIELO

Se avevo definito noioso il mio vecchio post Grattacieli sostenibili e sostenuti, al confronto di questo potrà apparire eccitante, perché qui analizzo puntigliosamente il grattacielo con calcoli di tipo geometrico per smentire luoghi comuni diffusi in buona e cattiva fede su questo tipo edilizio, con dovizia di calcoli, per evitare l’accusa di partigianeria (che comunque c’è). Chi non se la sentisse di seguire la “dimostrazione” e si fidasse, può andare direttamente alle conclusioni.
*****
La giustificazione tecnica prevalente di tipo assiomatico per la costruzione dei grattacieli è quella della “minore occupazione di suolo”, con il correlato e inevitabile corollario dei grandi spazi di “verde” liberato intorno. Successivamente ne derivano anche altre di giustificazioni, ma sono prevalentemente di tipo “ideologico”, quali la loro presunta, quanto risibile sostenibilità ambientale e autonomia energetica. Soffermiamoci però sul primo assioma che è di facile e immediato utilizzo da parte di ognuno, in specie sindaci e amministratori, ma che in effetti ha una certa presa anche a livello popolare. Perché si tratta di assioma? La definizione che Wikipedia da di assioma è la seguente: In epistemologia, un assioma è una proposizione o un principio che viene assunto come vero perché ritenuto evidente o perché fornisce il punto di partenza di un quadro teorico di riferimento. In questa definizione c’è la ragione in base alla quale un sindaco-tipo che affermi la “minore occupazione di suolo” da parte del tipo grattacielo non può essere tecnicamente considerato un mentitore. Ma è un po' come affermare solennemente che un grattacielo è alto, e sarebbe folle negare questa evidenza. Ma constatare l’altezza di un edificio e fermarci lì non ci dice molto oltre alla sua….altezza. Il sindaco-tipo non può essere accusato di menzogna ma può essere serenamente tacciato di omissione. Vediamo perché. La minore “occupazione di suolo” discende da una semplice considerazione geometrica svolta in via intuitiva: a parità di volume, all’aumentare dell’altezza diminuisce la superficie di base. Poiché questa affermazione è certamente vera, si immagina, probabilmente in buona fede in coloro che si fermano a questo dato, che per “consumare meno suolo” sia opportuno costruire sempre più in alto. Voglio dare per scontato, almeno per ora, che “consumare meno suolo” non richieda specificazioni sul suo significato reale, voglio cioè stare anch’io al gioco delle omissioni, e concentrarmi sul fatto se sia vero e in quale misura e in quali condizioni che un grattacielo occupi “meno spazio” di un edificio con identico volume ma con altezze inferiori, e quindi con maggiore superficie coperta, e quali siano le conseguenze di questo assioma applicato alla città. Consideriamo un grattacielo alto 100 metri con base di 20x20 metri, posto al centro di un lotto di dimensioni 100x100 metri (Figura 1). L’edificio sviluppa un volume di 40.000 mc e l’indice fondiario è di 4 mc/mq. Sul medesimo lotto si disegni un edificio continuo, perimetrale al bordo della profondità di 12 metri. Il lotto si trasforma in isolato (Figura 2). Perché questo edificio possa sviluppare volume pari a quello del grattacielo è necessaria un’altezza dell’edificio di 9,6 metri, cioè 3 piani. Una prima considerazione anticipata: aumentando di un solo piano l’edificio, con caratteristiche prettamente urbane, si otterrebbe un indice fondiario di 5,5 mc/mq, analogo a quelli dei centri storici e quindi una densità maggiore che, valutata a scala urbana, comporterebbe una “minore occupazione di suolo”. Torniamo al “verde”. Nel caso del grattacielo la superficie occupata è di soli 400 mq, ma si dà il caso che occorrano i parcheggi. Applicando i valori minimi di legge, largamente insufficienti, cioè una superficie pari ad 1/10 del volume, si ottengono in entrambe i casi 4000 mq di superficie necessaria. Nel caso del grattacielo ipotizziamo di porli su due piani interrati posti sotto l’edificio stesso. Se ne ricava una superficie di 2.000 mq. Rimane potenzialmente destinata a verde una superficie di 8.000 mq. Nel caso dell’isolato, poiché un piano interrato non è sufficiente, data la presenza di numerosi vani scala, ipotizziamo gli stessi due piani: se ne ricava certamente una maggiore quantità di parcheggi e una superficie libera a verde di 5.776 mq, minore dell’altra di 2.224 mq che corrisponde a 2,24 mq ad abitante. Da questo dato risulta dunque che l’assioma del sindaco-tipo è vero ma ancora non completo e non giustificativo della scelta - che io ritengo di altro genere - del tipo grattacielo. Continuiamo con le valutazioni “oggettive”. Calcoliamo adesso quanti alloggi si possono collocare, a parità di superficie per alloggio, nel grattacielo e quanti nell’edificio a corte. Consideriamo solo la destinazione residenziale, per confrontare valori omogenei. Nel grattacielo ritengo siano utilizzabili allo scopo: 29 piani totali (ottimistico) –2 piani tecnici – 1 piano al livello 0 per l’ingresso (ottimistico) e si ottengono 26 piani utili. Considerando un corpo centrale per i collegamenti verticali con almeno due ascensori e due vani scala che ipotizziamo di 100 mq (ottimistico perché occorrono anche i disimpegni per gli appartamenti e le vie di fuga) rimangono 300 mq, cioè quattro appartamenti della superficie lorda di 75 mq. Dunque otteniamo un totale di 4x26= 104 appartamenti (Figura 3). Nell’edificio a corte consideriamo 24 vani scala (pessimistico), ciascuno di 30 mq. Rimangono ad ogni piano mq (4.224-(24x30))x3= mq 10.512 di superficie che, divisa per mq 75 ad alloggio, restituisce 140 appartamenti, cioè 36 appartamenti in più del grattacielo (Figura 4). Come è possibile? Semplice, basta sviluppare il volume dei “collegamenti verticali” e si troverà una differenza in più a favore del grattacielo di circa 3081 mc che comportano 41 appartamenti . La differenza con 36 è data dalle approssimazioni al taglio degli alloggi, dunque in realtà la differenza è 41 e non 36. 41 appartamenti in più significano 41 famiglie o nuclei abitativi in più da collocare e quindi una densità nettamente superiore di quasi il 40% in più dell’isolato rispetto al grattacielo. Ho preso poi in considerazione una soluzione mista, cioè una città ad isolati con qualche grattacielo, che sarebbe la soluzione più realistica, dato che tenderei ad escludere vi sia chi auspica la soluzione estrema del tutto grattacieli (Figura 5). Ebbene, è proprio questo il caso che mostra l’inutilità del dato di minore occupazione di suolo per optare per i grattacieli, dato che l’aumento di verde nel territorio urbanizzato è solo del 3,50%, una quantità insignificante per il verde, molto significativo invece per il peggioramento della qualità della città. Conclusioni Dai dati esposti, che sono un'astrazione ma significativa per quanto riguarda i valori trovati, risulta una autentica minore occupazione di suolo della città tradizionale, perché il suolo occupato non è la mera superficie coperta degli edifici bensì la superficie complessiva del territorio urbanizzato, cioè quanto una città è espansa nel piano orizzontale e una serie di grattacieli che “vogliono” mantenere quella maggiore superficie di verde di differenza rispetto all’isolato tradizionale produce una città molto più estesa: il 20% in più della città ad isolati. In verità il dato è molto superiore, perché non tiene conto del fatto che su quella superficie inferiore del 20% ci possono abitare il 40% di famiglie in più, e con edifici di soli 3 piani. Portando i piani a 4, si liberano a piano terra spazi per attività commerciali, artigianali, fondi, magazzini, garage e quant'altro; funzioni queste del tutto assenti nella soluzione con grattacieli e che, una volta inserite, come necessario, occuperebbero ulteriore spazio a detrimento del "verde". Una città di grattacieli consuma molto più suolo, sottraendolo a quello agricolo, di una città tradizionale. O meglio, più realisticamente: la scelta di costruire grattacieli in una città, valutando la scala urbana, consuma più suolo, sottraendolo dunque al territorio agricolo. Si dirà: d’accordo, ma in città c’è più verde! Non è vero, ed è qui che l’assioma si dimostra ancora fallace, ambiguo, vero solo se valutato sul singolo oggetto (tipico atteggiamento dell’urbanistica e del’architettura contemporanea) piuttosto che nell’insieme, perché nella soluzione ad isolati è possibile prevedere grandi parchi urbani esterni al centro abitato che non sono urbanizzati, che sono a diretto contatto con il verde agricolo e che svolgono quella funzione igienica di filtro, oltre che di limite tra città e campagna, di attività ricreativa e sportiva che il parco assolve. In verità il verde tra un grattacielo e l’altro è un non-luogo insicuro e destinato a rapido degrado, come ci insegna l’esperienza di molte aree residenziali e come ha scritto con grande lucidità e preveggenza Jane Jacobs fin dal 1961. Invece il verde all’interno dell’isolato, che sia condominiale, o di uso pubblico o privato, svolge una grande funzione sociale, perché i bambini possono giocarvi, gli anziani possono frequentarlo senza pericoli, chiunque ne può godere affacciandosi alla finestra di casa, ad un tiro di voce per fare sentire la propria presenza o richiamare i figli a casa piuttosto che sporgersi dal 20° piano e guardarli con il binocolo e chiamarli con il megafono. Che poi nessuna persona di buon senso lascerebbe il proprio figlio da solo in quel grande vuoto. Un esempio in questo senso è il progetto del Borgo Corviale di E.M. Mazzola che trasforma un grattacielo orizzontale in un quartiere con corti verdi. Ma anche tutti questi calcoli dicono solo una parte della verità, che consiste nel dato essenziale, da chiunque intuibile, e cioè che una sequenza di grattacieli nel verde è la negazione, la dissipazione, l’inesistenza della città stessa, il suo esatto contrario: una vita alienante in casa, perché segregata completamente da quella degli altri condòmini e alienante fuori casa, perché segregata dentro un’automobile per poter svolgere qualsiasi elementare funzione che non sia un’abitare segregato. E’ lo sprawl verticale, sicuramente peggiore di quello orizzontale, perché astrae completamente dalla natura, dalla percezione di vivere sulla terra, e astrae dalla società, cioè dai normali rapporti quotidiani tra persone.

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17 marzo 2011

DAMNATIO MEMORIAE

Segnalo questo articolo di Vilma Torselli su Artonweb, dal titolo

Come al solito Vilma ci induce alla riflessione; lei penetra negli anfratti delle cose alla ricerca di spezzoni di verità, contrariamente a questo faziosissimo blog. Non offre soluzioni ma propone problemi, anche se vi sono affermazioni chiare sulla memoria e sul compito che l'architettura svolge rispetto ad essa.
Per adesso lo segnalo ma spero prossimamente di commentarlo.

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12 marzo 2011

shikataganai

Un link ad uno splendido articolo sul Giappone sconvolto da terremoto e tsunami, tratto da Il Foglio, non per indurci all'impossibile, e anche sbagliata, imitazione della cultura di un altro popolo, ma per rendergli omaggio e riflettere sulle rispettive diversità in casi analoghi.

I giapponesi fatalisti ripetono “shikataganai”, non ci si può fare nulla

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11 marzo 2011

RISPOSTA A QFWFQ SULLA SEMPLIFICAZIONE

Caro qfwfq,
solo adesso trovo il tempo per risponderti, anche se avevo letto subito il tuo ultimo, acuto commento, espresso tra l'altro con molta pacatezza. Preferisco risponderti in forma di post, sia a causa della lunghezza, sia perché l'argomento, o l'accusa, di una mia eccessiva e ruvida, quando non rozza, semplificazione ricorre spesso anche da parte di altri.
Commento acuto il tuo che richiede una mia spiegazione, specificando che ovviamente le mie ragioni valgono solo per me e non intendono coinvolgere altri.
Per sintetizzare al massimo, tu mi imputi, e non solo a me, un eccesso di semplificazione che porta a trascurare del tutto quanto di buono esiste nell'architettura e nell'urbanistica moderna. Mi sembra che tu non neghi che la semplificazione possa essere utile ma non ne apprezzi l'uso estremizzante e strumentale che io ne faccio.
Non c'è dubbio che io tenda, in questo blog, ma anche in situazioni diverse, alla semplificazione e non c’è dubbio che io lo faccia in maniera intenzionale, volontaria ed anche con grande convinzione. Una semplificazione che io chiamo, tra il serio e l'ironico, anche faziosità.

Esistono diversi livelli di approccio alla realtà, che vorrei semplificare (guarda caso) in approccio pubblico e approccio privato.

L'approccio pubblico è quello in cui si esprime il desiderio, la volontà, la velleità, se vuoi, di incidere, se pur in piccola parte, secondo i propri mezzi, nella realtà sociale.
E' pubblico, ad esempio, l'approccio politico. Questo è più facilmente comprensibile, specie in questo momento, perché esistono due schieramenti fieramente contrapposti. Ma, a prescindere dalla situazione contingente, io credo che la politica, vista dalla parte dei politici, richieda comunque una buona dose di semplificazione, dato che deve parlare a tutti i cittadini, deve farsi comprendere e deve distinguersi con chiarezza dalle altrui posizioni e deve, soprattutto, prendere decisioni, non struggersi nei dubbi o perdersi nei meandri dei dettagli perdendo di vista l’insieme.
Certamente, prima di decidere devono essere valutate e analizzate con precisione e raziocinio le varie opzioni e variabili, ma chi detiene il potere di prendere decisioni per gli altri ha l'obbligo di fare scelte chiare e può essere tormentato quanto si vuole, ma il suo tormento deve rimanere nell'ambito privato, pena la non credibilità, perché gli indecisi non possono affrontare situazioni gravi che riguardano la collettività. Naturalmente, maggiore è il potere, maggiore è la responsabilità, maggiore è la capacità di decidere che viene richiesta. Il presidente degli USA non può tentennare. Quei presidenti che hanno tentennato hanno fallito, vedi Carter.

La scelta richiede semplificazione del problema. E’ lo stesso caso dei giudici i quali mi immagino, o forse mi illudo, che siano molto tormentati nel decidere della vita di un imputato e di quella della vittima (se la vita è rimasta). Ma non c’è alternativa, deve decidere, sapendo che può sbagliare, sapendo che la verità processuale, per sua intrinseca natura, non necessariamente coincide con la verità in assoluto. Il dramma deve essere grande ma non c’è alternativa alla scelta: condanna o assoluzione.

Ma quello che vale per i “potenti” vale, in modo diverso, per tutti. Vista con gli occhi dei cittadini, nella scelta di un partito da votare è quasi certo che non ve ne sia uno che possa rispondere in assoluto e in tutto e per tutto alle inclinazioni di ogni singolo elettore. E’ chiaro che si sceglie quello che più “si avvicina” ai nostri desideri, interessi, modi di immaginare la società; ma è altrettanto chiaro che ognuno di noi fa, privatamente, dei distinguo e manifesta dei punti di non condivisione. Non è possibile diversamente. Ma nel momento “pubblico, quello del voto, si sceglie, si dovrebbe scegliere, razionalmente quello a noi più vicino. Si sacrifica cioè una impossibile coerenza assoluta e una sovrapponibilità totale tra le nostre aspettative e i programmi e le azioni di quel partito per non favorire altri partiti di cui condividiamo molto meno o addirittura niente. Si compie, cioè una grande e opportuna semplificazione.

Venendo all’architettura e all’urbanistica non cambia quasi niente. Da una parte c’è il chiaro, acclarato, evidente, riconosciuto da tutti (indirettamente) fallimento di un’idea di architettura e di città che si perpetra da 80-70-60 (quanti?) anni, un’idea presuntuosa quanto folle di azzerare secoli di storia, intesa come lungo e faticoso lavoro dell’uomo per creare ed adattare ai propri bisogni il suo habitat naturale, cioè la città e la casa, ritenendo che si dovesse ricominciare tutto da capo, eppure, con una testardaggine che è molto vicina alla stupidità, o alla malafede, o alla superbia, si continua, con una sorta di cupio dissolvi, a reiterare ogni giorno l’errore stesso. AD un certo momento è stato deciso di tirare una linea e tutto ciò che c’era prima è stato dichiarato come anticoe sbagliato, e tutto ciò che c’era dopo come moderno e giusto. In nessun’altro campo, se non nell’arte, forse perchè da questa mutuato, è avvenuto un fenomeno simile. Strappi ve ne sono stati, certamente, ma sempre all’interno di un processo evolutivo.

In una situazione come questa, domando, ha senso, è logico, è interessante stare a selezionare quel poco di buono o di meno peggio che è stato prodotto? Ha senso cercare la mosca bianca, la personalità individuale che non ha fatto scuola e sperare che da questa eccezione, tra l'altro fagocita e digerita dal sistema, possa nascere il cambiamento?
Io credo di no, perché in un ambiente sostanzialmente corrotto culturalmente significherebbe solo dare ad esso ulteriore legittimazione e fare il gioco di quel pensiero che domina da decenni la scena, soprattutto in Italia. Non mi interessa, e non mi deve interessare, se c’è qualcuno più bravo degli altri, perché non è una gara in cui si deve premiare il migliore ma è una lotta per la sopravvivenza della città, in cui i protagonisti non sono le star ma i cittadini. Me ne frego tranquillamente dei maestri, perché io non devo scrivere libri di critica e se li dovessi scrivere, ove ne fossi capace, li scriverei con l’intenzione di ottenere un risultato in meglio e non con quella dell’appassionato d’arte che disquisisce sulla qualità di un quadro rispetto a quella di un altro. L’architettura non è pittura, non è scultura, non è filatelia, non è collezionismo, é studio di come l’uomo si relaziona attraverso lo spazio con gli altri uomini, è una scienza sociale, con criteri e regole proprie e peculiari, attraverso la quale si manifesta un pensiero politico alto. Il Buon Governo e il Cattivo Governo si rappresentano attraverso scene di vita urbana e agreste, i due diversi scenari in cui si svolge la vita nell’uomo e che questi ha imparato a creare o trasformare, escludendo la natura selvaggia che è ambiente ostile e gradito solo a pochi avventurosi o a molti seduti in poltrona a guardare Discovery Channel.

Questo è dunque il lato pubblico delle idee urbanistiche e architettoniche, quello che ha uno scopo, un fine, ancorché modesto nei risultati (e non più di tanto, perché le idee si trasmettono e qualcosa resta sempre) ma ambizioso nelle intenzioni. Un lato pubblico che deve semplificare.

L’approccio privato può essere in molti casi molto diverso, più pensieroso, dubbioso, articolato, raffinato perfino. Può andare a verificare le sottigliezze, può essere più tollerante nel giudicare, più consapevole delle difficoltà oggettive da superare in una società aperta come la nostra, perfino affascinato da alcune soluzioni architettoniche (mai urbanistiche); ma è un fatto privato che, nel mio caso almeno, può al massimo rivelarsi nello scambio diretto con colleghi e talora persino nella prassi professionale quotidiana, dato che io considero l’architetto a livello di un artigiano, mai di un artista creatore, e come tale deve rispondere alle leggi del cliente e del mercato, nei limiti del lecito.

I due approcci diversi convivono benissimo e senza traumi né sensi di colpa proprio per la serena convinzione della totale diversità dei livelli che sono paralleli e solo raramente, per una casualità di circostanze, possono convergere. Per questo mio atteggiamento tollerante verso me e verso gli altri, a livello privato, sono totalmente estraneo e refrattario al moralismo, al perbenismo, al giustizialismo, fedele all’aforisma di B. Russel che “i moralisti sono persone che rinunciano ad ogni piacere eccetto quello di immischiarsi nei piaceri altrui”.
Per quanto riguarda la tua ultima battuta trascuri un aspetto essenziale: è vero che il comunismo non c’è più ma i comunisti sono ancora molti. Ma questa è una frase da spiegare in altra sede.

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9 marzo 2011

PERCHE' ESISTONO I TIPI (tratto da Caniggia-Maffei)

Il dibattito su Archiwatch prima e su questo blog, qui e qui, poi intorno ai progetti per la ricostruzione di parte di un isolato in Via Giulia a Roma, mi ha spinto a rileggere alcune parti di Lettura dell'edilizia di base, 1979, di G. Caniggia e G.L. Maffei.
Ne riporto qui un estratto che ha attinenza con il tema, soprattutto in relazione ad alcuni commenti lasciati.

Lettura dell'edilizia di base (1979)
di G. Caniggia e G.L. Maffei
Cap. 1.3 Specificazioni della terminologia e delle definizioni di base.
........Vediamo ora cosa succede quando mi chiedo il perché dell'esistenza dei tipi, ovvero, in altri termini, quando mi pongo il problema dell'esistenza logica, concettuale, fabbricata solo nella mia mente, oppure dell'esistenza autentica, in sé fisica, indipendentemente dalla mia presenza di osservatore, di classificatore, di tali « tipi edilizi ». Cercheremo di risolvere tale problema avvalendoci di strumenti logico-deduttivi, particolarmente propri dei momenti di crisi: ad esempio ci chiederemo se più case sono simili perché hanno utilizzato lo stesso progetto, o perché sono dello stesso autore o di più autori di una stessa scuola; oppure se le case risultano uguali per qualche imposizione a monte, un regolamento edilizio, una legge o un editto. Tutte ragioni inefficaci ai fini di capire quel « perché », nel senso che possono opporre a ciascuna notizie, osservazioni, documenti tali da smentirle — quelle case simili non sono fatte con un progetto unico, non sono dello stesso autore, ecc. -La nostra logica si arena di fronte all'evidenza che le case analoghe, dalle quali abbiamo ricavato « statisticamente » un tipo edilizio « casa a schiera » sono così fatte perché gli autori non sarebbero stati capaci di farle differentemente.

In effetti, corrispondendo ciascuna casa al concetto di casa vigente nel momento in cui ciascuna è stata fatta, ne consegue che la casa di Tizio, quella di Caio, l'altra di Sempronio, per il fatto stesso di essere state fabbricate in luoghi non lontani, e in tempi ravvicinati, hanno un identico corredo culturale alle spalle, finalizzato all'azione del « farsi la casa »: hanno, in breve, utilizzato lo stesso concetto di casa formatosi similmente nelle loro tre menti, sintetico di tutti gli aspetti che le case realmente edificate hanno poi assunto, e necessariamente precedente alla stessa presenza fisica delle tre case stesse. Ciò perché la predominante coscienza spontanea ha guidato quel « concetto di casa » a corrispondere in quell'epoca e in quell'area culturale, a un preciso progetto mentale che è responsabile di quella somiglianza tra i prodotti finiti che ora, avvalendoci della nostra coscienza critica, possiamo riscontrare ed etichettare in un tipo edilizio.
Diversamente, ma solo in parte, accade quando predomina la « coscienza critica »; analogia tra i prodotti e costanza di comportamento in tal caso sembrano ignorate.

Se al posto di S. Frediano o Santa Croce prendiamo in esame un qualsiasi aggregato alla periferia di Firenze, recentemente costruito, e andiamo a Novoli o a Sesto, o a Rifredi, è facile verificare che tre case attigue, almeno apparentemente, sono dissimili. Una ha le finestre « a nastro », correnti orizzontalmente per tutta la facciata; l'altra le ha strette e alte, da soffitto a pavimento; nell'altra ancora sono di varie misure e collocazione, frammiste a balconi in aggetto o logge rientranti. La prima sembra fatta di sole travi, che i pilastri (che pur ci saranno se la casa si regge) sono arretrati dal filo dell'involucro; la seconda di soli pilastri, portati in aggetto rispetto all'involucro stesso, mentre di travi non ne compaiono. La terza ha una parete continua, o che almeno si mostra tale; una quarta potrebbe essere di courtain wall e apparire come fosse una finestra sola, non esplicitando affatto il modo di reggersi. Il bello è che ciascuna di queste case seguita a essere « casa », fruita, abitata e perciò stesso legittima, dato che a suo modo si regge ed è utile a qualcuno; e che tali case sono tutte pertinenti allo stesso momento storico, alla stessa area culturale. Allora non c'è che da richiamarsi a quanto già detto in precedenza: quel che appare di tali case è frutto della personalizzazione del prodotto dovuta a scelte individuali nell'ambito di un repertorio di possibilità vastissimo; scelte che tuttavia incidono solo relativamente sulla fruibilità del prodotto, garantita non da quelle scelte, ma da ciò che i vari autori non hanno scelto, da ciò che è rimasto, in quel loro operare, di predeterminato a monte delle scelte stesse, da ciò che seguita a essere residuo di « coscienza spontanea », di « concetto di casa » e quindi, intrinsecamente, di « tipo edilizio » attuale. Ma, intendiamoci bene, non è che quelle scelte siano legittime, tanto che sarebbe facile confrontare il « tipo edilizio » e le scelte secondo le reciproche capacità di associarsi per il miglior rendimento; sarà facile constatare, e lo faremo, che tali scelte, e proprio in quanto tali, sono solo una forzatura espressionistica di componenti legittime del tipo, che a sua volta non le accetta ma le subisce, scapitandone, appunto, il rendimento globale. Facciamo una controprova: guardiamo queste case dal vero, in situ\ confrontiamo poi una rappresentazione planimetrica di quel quartiere con l'immagine che ce ne siamo fatti — un catastale, ma meglio un rilievo murario, come quelli che abbiamo ormai a iosa per gli aggregati antichi e che raramente sono stati fatti per i quartieri di periferia. Quelle diversità tenderanno a ridursi, se non a sparire; quelle case appariranno secondo quello che sono (e saranno certamente case in linea, che è il tipo attualmente vigente, pur con molteplici varianti) e soprattutto si vedrà quanto illusoria, parassitaria e velleitaria sia un’immagine imposta da scelte incidenti a livello estetizzante e non sulla sostanza, che resta fedele all’insaputa dell’architetto al tipo edilizio generalizzato.


Quindi, il tipo c'è e non è una finzione logica; il tipo c'è ed è prodotto di coscienza spontanea, allora e ora. Ma è vero anche che parlare di tipo, rinvenire il tipo, è frutto di coscienza critica; il fatto stesso di applicare definizioni, di incasellare la realtà, di classificare è esigenza critica, derivata da un momento di crisi. Se per assurdo potessimo domandare oggi a un muratore del Quattrocento che stesse costruendo allora, se sta facendo una casa a schiera» a tre piani, con due finestre per piano, larga cinque metri e profonda dodici, egli non capirebbe assolutamente di cosa parliamo, perché la sua operazione, nella sua mente, è unicamente e semplicemente « costruire una casa » e non un « tipo edilizio » da noi distinto per contrapposizione ad altri tipi.


Questo significa che se è vero che il « tipo » è un derivato .genuino della coscienza spontanea, è anche vero che la nozione di tipo è altrettanto genuino derivato della coscienza critica, ossia una diretta conseguenza del porsi di fronte alla realtà, e di cercare di capirla: operazione identica a quella che fa il botanico quando classifica le piante scalarmente secondo analogie di aspetti e qualità, o a quella che fa il linguista quando individua le strutture di una lingua, la grammatica o la sintassi ad esempio: queste ultime sono strutture ceno ignorate, nel senso di non averne nozione critica, da chi le ha fatte nel corso di secoli e millenni per il semplice fatto di aver parlato; e tuttavia proprie e note a livello inconscio a chiunque, oggi come ieri, parli usando una qualsiasi lingua, e che userebbe quelle strutture sintattiche e grammaticali anche se nessun linguista le avesse ricercate e sistematizzate a livello critico.

Da quanto detto, deriva che il tipo può avere una formulazione critica, desunta mediante un'analisi a posteriori: ma deve ineluttabilmente la sua esistenza all'essere « sintesi a priori », « concetto ». Ossia esiste nella mente dell'artefice prima di realizzare una casa, e non è una prefigurazione di uno o pochi aspetti che saranno assunti dal prodotto costruito, ma di tutti insieme: è un vero e proprio organismo, inverante l'intera realtà della casa prima che questa esista fisicamente. Se la situazione dello studioso di tipologia edilizia è assimilabile a quella di un linguista, la situa-zione dell'artefice è identica a quella di chiunque parli: ossia di formulare, mediante la lingua, concetti necessariamente anteriori al momento del parlare e necessariamente sintetici di ogni carattere strutturale che il linguista potrà isolare e poi classificare.


Attraverso la nostra opera critica, che ci porta al riconoscimento di un tipo edilizio, in sostanza, ripercorriamo la via della formazione dell'oggetto edilizio fino al momento in cui questo oggetto, un istante prima di esserci (esserci nella sua fisicità di oggetto costruito) ancora non esiste se non nella sua concettualità, che è presente come programma nella mente di chi lo sta per fare, con tutta la sua storicità, ossia la sua appartenenza a un momento temporale e a un luogo determinato.


Tipo è, allora, la concettualità dell'oggetto realizzato: come tale, dunque, non è concettualità di parte dell'oggetto, non è schema funzionale-distributivo, non è struttura, non è una facciata, e basta. È tutto questo insieme, e tutte le aggettivazioni che potremo poi applicare all'oggetto stesso: tipo è l'insieme unitario delle definizioni che concorrono mutuamente a formare l'oggetto stesso, integrate organicamente; è proiezione totale, prima concettuale, quando nasce, poi logica, quando lo esaminiamo, dell'oggetto esistente, conformata secondo il «concetto di casa» presente nella mente dell'artefice a livello di coscienza spontanea, vigente in un determinato momento storico, frutto del progressivo succedersi dei « concetti di casa » evoluti anteriormente a quel momento storico. La globalità delle componenti del « tipo » è riassumibile nei tre caratteri dell'edilizia, nella nota triade vitruviana firmitas, utilitas, venustas o meglio, come sottolinea molto giustamente L. Vagnetti, ratio firmitatis, ratio utilitatis, ratio venustatis: precisazione importante perché rafforza più chiaramente il senso della distinzione, riaffermandone la fondamentale unità. È un'unica ratio, un'unica ragione globale in tre aspetti concorrenti. In linguaggio odierno potremmo dire: la globale razionalità della struttura (cioè del modo di « star su » di una casa), inscindibile con l'esigenza che questa sia utilizzata secondo un'integrata globale razionalità della distribuzione (cioè dell'uso che si fa di una casa); ambedue inscindibili con una globale razionalità della leggibilità (cioè di come questa casa riesce a essere capita da chi la guarda o ne fruisce, riesce a trasmettere le sue modalità di star in piedi e di funzionare); come questa casa riesce a esprimere unitariamente tutto questo attraverso un linguaggio, un codice collettivo caratterizzante un'area e un momento civili, tanto da risultare leggibile quale proiezione totale del suo essere oggetto fatto dall'uomo.


La cognizione di tipo richiama indispensabilmente un'ulteriore definizione, quella di processo tipologico. Se esaminiamo più tipi edilizi non contemporanei, in una stessa area culturale, ci accor-giamo di una progressiva differenziazione tra questi, più sensibile tra tipi distanti nel tempo, meno vistosa se letti in intervalli ravvicinati.


L'operatore del Trecento che si fa la casa la costruisce secondo il tipo, il concetto di casa, di quel momento; l'operatore del Quattrocento agisce similmente, facendosi la casa secondo il concetto, il tipo, vigente alla sua epoca. È facile riscontrare, quindi, una scalare mutazione del tipo edilizio a seconda dell'epoca: anche se all'interno di una stessa definizione, la « casa a schiera », varia a seconda della data di edificazione; non solo, ma è facile anche notare che la casa a schiera costruita nel Trecento, soltanto per essere ancora utilizzata nel Quattrocento, tenderà a modificarsi secondo il tipo del momento. Il che vuoi dire che per ogni epoca si è raggiunta un'accezione differenziata del « concetto di casa » che ha prodotto case diverse: non solo limitatamente al tipo della casa (che chiameremo, come meglio vedremo, « tipo di base »), ma anche per qualsiasi altro oggetto edilizio, e diciamo pure per qualsiasi oggetto antropico in generale, vediamo prodursi in una stessa area similari mutazioni al variare del tempo. Tuttavia, al di là delle differenze, vediamo un vistoso fenomeno di continuità, altrettanto facilmente leggibile delle differenze, tra prodotti analoghi: cosicché la casa a schiera del Trecento avrà certi caratteri che seguiteranno ad accomunarla a quella del Quattrocento come a quella del Duecento, attestando una mutazione graduale dei prodotti attuati prima e dopo rispetto a quello pertinente ad un certo intorno temporale. Se poi confronto le mutazioni del « tipo » a più minuti intervalli temporali intermedi, mi accorgo che nel corso di un secolo il tipo è variato attraverso una serie di mutazioni intermedie, alcune caduche, nel senso che non hanno sensibilmente inciso sulla nuova formulazione del tipo, altre permanenti, che ritrovo appunto nel tipo rinnovato: ciò anche indipendentemente dalla progressiva e scalare edificazione, nel senso che quasi sempre l'attività edilizia in un luogo non è continua, ma si realizza per alterni momenti di « boom » edilizio e di stasi.

Nella meccanica di mutazioni incidono soprattutto le variazioni progressive degli edifici già esistenti, gli adattamenti capillari di quel che già c'è per renderlo atto, a volte con limitati aggiorna-menti, a un continuo rincorrersi tra processualità degli edifici e parallela mutazione processuale dei bisogni. In realtà il contributo delle mutazioni capillari risulta leggibile solo ad intervalli prolungati, confrontando un nuovo assetto raggiunto con la stesura anteriore: chiameremo fase l'intervallo cronologico di sufficiente ampiezza a che tali mutazioni siano riscontrabili con una sufficiente chiarezza. Se, dunque, esamino i tipi nella loro progressiva mutazione, nel susseguirsi di una successione di fasi, ottengo quel che chiamiamo « processo tipologico ». Il quale può anche leggersi in un delimitato intorno storico, ma tenendo ben presente che vi è di necessità un certo margine di riduttività, in tal modo, poiché per definizione il susseguirsi di tipi non può aver inizio se non dal momento in cui nella mente dell'uomo si è formato il concetto generale di « casa »; e non può aver fine se non quella, del tutto provvisoria, corrispondente al momento attuale. Diciamo ancora che, esaminando i prodotti edilizi di un'area culturale, noto che questi mostrano diversità dagli analoghi prodotti di qualsiasi altra area: e che tali diversità sono scalarmente crescenti a seconda sia del crescere della distanza puramente metrica, sia anche delle delimitazioni spaziali imposte, fase per fase, a ciascuna cultura.


Ossia in una stessa fase storica sono diversi gli edifici prodotti, mettiamo, nel Lazio o in Toscana; ma ancor più lo sono quelli della Toscana rispetto agli analoghi in Francia; e presenteranno ancora maggiori diversità, al confronto, gli edifici della Toscana e quelli della Cina, al punto che diventano quasi simili quelli tra Toscana e Lazio che a prima vista avevo qualificato come diversi. Tutto ciò sempre relativamente alla precisazione di un intorno temporale, poiché, ad esempio, sono maggiormente differenziate due case, una toscana e l'altra emiliana, nel Duecento, di quanto non lo siano due esempi analoghi nel Quattrocento.


Questo sta a significare che la stessa scalarità che leggo nel tempo in una stessa area culturale la leggo anche nello spazio, al confronto tra più aree culturali; cioè vedo che nello spazio v'è una continuità di differenziazioni dei prodotti edilizi al punto che posso parlare di un processo tipologico anche nella progressiva dislocazione differenziata di aree a contatto. Mi approssimo alla realtà processuale solo se associo ambedue le varianti, e leggo unitariamente il processo tipologico come un susseguirsi di mutazioni temporali e di distinzioni, e relative mutue influenze, spaziali: in breve, devo parlare di processualità storica. La storicità, che è condizione di esistenza sia di ciascun uomo, sia di ciascun oggetto che produce, sia di ciascun avvenimento che lo riguarda, è inscin-dibile da una duplice relazione spazio-temporale. Un uomo, un oggetto, un avvenimento esiste in quanto collocato in un tempo e in uno spazio determinato. La storia è un sistema di individuazioni spazio-temporali leggibili attraverso la loro processualità, prodotta dalla unità-distinzione che deriva dall'essere, ciascuna individuazione, collocata in un reciproco legame, che è anche reciproca contrapposizione. Nulla esiste che non sia, o non sia stato nello spazio e nel tempo: condizione di esistenza è di essere in un determinato tempo e luogo.....

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