Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


30 novembre 2010

ROMA: PROGETTI PER LA PERIFERIA

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23 novembre 2010

L'ISTINTO E LA RAGIONE

Io ho una gatta scontrosa. Anzi, avevo una gatta scontrosa. L’ho persa, in effetti, quando i miei hanno deciso a maggioranza, io all’opposizione, di prendere un altro cucciolo di gatto. Simpaticissimo questo, e ormai completamente umanizzato. Dorme nel lettone, come un figlio piccolo, ci segue ovunque andiamo, in casa o in giardino, ha i nostri stessi orari. Si sveglia con la sveglia e ci aspetta per la colazione. Cena con noi.
Però ho perso la gatta, che non ha retto al dolore di essere usurpata, o meglio, che non ha tollerato l’intrusione nel suo territorio di un estraneo. Prima dormiva spesso sopra la borsa del mio portatile lasciata per terra. Si vede che le risultava comoda, ma io mi illudevo che lo facesse perché era mia.
In realtà non l’ho persa del tutto, perché è andata a vivere dal mio vicino di casa e a cena viene spesso da noi, sempre con grande sospetto, guardandosi continuamente alle spalle temendo che arrivi l’intruso a disturbarla. Mangia e chiede subito di uscire. Come lo chiede? Lo chiede e basta.
Ieri sera sono andato a trovare il mio vicino e amico e collega. Vedo un nuovo gattino in casa sua. Domando come l’abbia presa la gatta. La risposta è arrivata prima che finissi la domanda: ha lasciato una chiara traccia nel divano, e non l’aveva mai fatto. Ben gli sta, al vicino dico.


E’ una gatta identitaria. Fortemente identitaria, ed ha uno smisurato senso della proprietà o meglio del suo territorio.
Ma lei segue il suo istinto, non la ragione, tanto meno la cultura. Noi esseri umani, fortunatamente, seguiamo, o dovremmo seguire, ragione e cultura e dunque siamo animali, sì, ma di tipo diverso e superiore.

Eppure non possiamo dimenticare del tutto certi istinti che sono latenti ma pronti a riemergere quando c’è una situazione di pericolo o di disagio o anche di benessere; non possiamo, e penso non dovremmo neanche desiderarlo, metterli a tacere una volta per tutte e fare finta che non ci siano. Anche questo è uno degli aspetti della nostra complicata umanità.
Abbiamo il dovere, però, di non comportarci come la mia gatta nei rapporti con i nostri simili. Non ci sono dubbi: in questi casi dobbiamo usare ragione, cultura, tolleranza, etica, morale. Il senso iper-identitario può andare a finire male.

Ma nel giudicare l’arte, la nostra casa, lo spazio in cui viviamo, la nostra città, non esiste obbligo morale a non giudicare anche con il nostro istinto. Non procuriamo danno a nessuno nel pensare e nel dire che un quadro di Fontana è solo un taglio su una tela, che la Merda d’artista è solo stomachevole, anche se ipotetica, merda di un artista, che un progetto della Hadid ci può disgustare e procurarci ansia e non appartiene al mondo dell’architettura ma solo a quello della vanità, pagata talora con denaro pubblico. Anzi, sono loro che procurano danni a noi, a quella parte di noi che appartiene anche alla mia gatta e che la fa scappare di casa, e quindi l’immoralità, se c’è, non è la nostra.

Non c’è motivo di vergognarsi se la scatoletta che non si sa cosa contenga davvero - e che se uno si vuole cavare lo sfizio di saperlo deve buttare una cifra variabile da 15.000 a 130.000 euro (non so se dipende dall’annata) - non solo non ci piace ma ci sembra anche una bella presa in giro. Non c’è motivo di vergognarsene perché l’istinto ci suggerisce che è una presa in giro e non c’è una vera ragione perché prevalga una cultura concettuale e astratta che confligge con un aspetto non secondario della nostra umanità, perché il prodotto contenuto nel barattolo non ci stimola propriamente il senso estetico ma quello di nausea, anche se è solo evocato.

Certo, il senso estetico appartiene all’uomo e basta, ma anche questo ha a che fare con i sensi e con la natura che è in noi; quel senso estetico che ci fa apprezzare paesaggi naturali splendidi, nel cui giudizio siamo tutti alla pari a prescindere dal grado d’istruzione e di intelligenza, se non per lo scrittore o il poeta o il pittore che riescono ad esprimere meglio di altri le proprie emozioni attraverso la loro arte; ma si tratta di comunicazione di emozioni, appunto, non di maggiore o minore capacità di emozionarsi. Nessuno può infatti supporre, e tanto meno affermare, che l’analfabeta abbia emozioni inferiori al premio Nobel.

Se un quadro di quello stesso paesaggio che tutti ammiriamo è composto da tre macchie di colore informi ecco che ci si divide e i più vedranno tre macchie di colore informi, gli altri un’opera d’arte. Entrambe i giudizi hanno diritto d’asilo, anche se il secondo richiede argomentazioni e non fuffa e non deve prevalere con la prepotenza.
Libertà vuole che ci siano persone che apprezzano la Merda d’artista o la Hadid o Libeskind e nessuno deve loro negare questo diritto (apprezzare le squallide periferie, invece, è un diritto solo per chi ci abita, gli altri non hanno titolo perché non sono credibili), ma vale anche la reciprocità e chi non le apprezza o le detesta ha il diritto di dirlo senza dover essere additato come un cavernicolo illetterato e primordiale. Libertà vuole che nessuno ha il diritto di importi ciò che ti deve piacere.
Vale per i progetti della Hadid, o per un film di Godard, o per la musica classica contemporanea (che non esiste quasi più) o per gli incubi urbani di Le Corbusier o per gli edifici storti e spigolosi di Libeskind (già, che fine ha fatto anche lui?) o per le tristi periferie che sono tristi perché intristiscono coloro che ci vivono, checché ne dicano architetti e critici e sociologi (che però non ci vivono).
Chissà che fine farà la mia gatta, senza più casa? Stasera è tornata a mangiare da me ma ha chiesto di uscire subito dopo, come sempre.
Speriamo che il mio vicino abbia capito e rinunci al nuovo gatto, che tra l’altro pare abbia già un padrone, perché fuori piove.

Pietro Pagliardini

Credits:
L'immagine Excremental Value è tratta dal blog angel's Blog

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19 novembre 2010

IL PERICOLO DI UNA CULTURA MONODIREZIONALE

Un approfondimento del tema svolto svolto in un precedente post sul crollo a Pompei, sempre del prof. Ettore Maria Mazzola.

Sui danni al patrimonio artistico derivanti da una cultura monodirezionale
di Ettore Maria Mazzola

Premessa
E così è venuto giù un altro pezzo del nostro patrimonio: la Schola Armaturarum di Pompei, una costruzione dal volume semplice, costruita in opus mixtum di tufo e laterizio, che grazie agli scavi di Vittorio Spinazzola (1910-23), era stata restituita all’umanità dopo quasi 2000 anni di oblio conseguente l’eruzione del 79 d.C.
L'edificio, che si ergeva su via dell'Abbondanza – la strada principale della città – fino alla settimana scorsa era, per motivi di sicurezza, visitabile solamente dall'esterno.
Subito dopo il crollo, l’ANSA aveva battuto la notizia dicendo: “secondo quanto si apprende dalla Sovrintendenza le cause del crollo possono essere attribuite al peso del tetto in cemento armato della palestra stessa. La casa, infatti, fu bombardata durante la Seconda guerra mondiale e la copertura è stata rifatta tra gli anni '40 e gli anni '50. È probabile - fanno sapere dalla Sovrintendenza - che le mura antiche, dopo anni, non abbiano più retto al peso del tetto".

Nella mia lettera aperta – pubblicata su una decina di blog italiani all’indomani del crollo – avevo stupidamente sperato che il crollo della chiesa delle Anime Sante di L'Aquila e quello della Torre Medicea di Santo Stefano in Sessanio, avessero aperto gli occhi a chi “sovrintende”, e che quindi non si sarebbe più dovuto rimpiangere i nostri monumenti a causa di crolli generati da restauri sbagliati, ovviamente mi sbagliavo … e ovviamente il caso della Schola Armaturarum non può ritenersi l’ultima di queste tragedie.
Dà rabbia leggere quanto è stato pubblicato sui giornali, ed è stato dibattuto in televisione, a proposito del crollo pompeiano. Gli italiani hanno dovuto assistere inermi ad un vergognoso battibecco da pollaio, in cui i politici dei diversi schieramenti hanno menato il can per l’aia, nel vano tentativo di farsi belli davanti all’elettorato: “è colpa del ministro attuale!” “No è colpa dei ministri della sinistra che hanno operato male facendo incancrenire la situazione!
Ciò che è sfuggito ai nostri politici, e ai loro “scriba”, è che, mentre loro approfittano cinicamente di queste situazioni per fare la loro campagna elettorale, la cricca, che è la reale responsabile di questa situazione preoccupante, continua imperterrita per la sua strada!
Come infatti ha ammesso anche la Soprintendenza Archeologica di Pompei, la “responsabilità va fatta ricadere sull’errato restauro in cemento armato che aveva sovraccaricato la struttura!” Il problema è ben noto a tutti da anni, è non è neppure il primo caso visto che il Prof. Marconi racconta, spesso e malvolentieri, della sua triste esperienza Pompeiana relativa alla Casa delle Nozze d'Argento, ove l'Oecus Tetrastilo venne a subire una sorte simile a quella della Schola Armaturarum, grazie all'ottusità della sovrintendenza che si rifiutò di far realizzare (con soldi stranieri per giunta) la sostituzione, con una struttura lignea, di quella in c.a. eseguita negli anni '50... motivo del diniego? Sarebbe stato un falso storico!

Il dibattito sano
In questi giorni, sul suo blog De-Architectura, Pietro Pagliardini ha denunciato l’ennesimo scempio in corso nella sua Arezzo, dove la Fortezza Sangallesca è oggetto di “restauro creativo” da parte di professionisti locali che, sotto l’egida della Soprintendenza, stanno provvedendo a ricostruire con una struttura posticcia (“curtain-wall”) la porzione di un bastione: evidentemente, per questi “tecnici illuminati” l’uso del mattone, nella città le cui mura furono menzionate da Vitruvio come il primo esempio romano di utilizzo della muratura piena di mattoni, probabilmente era troppo scontato!
Già all’indomani del crollo di Pompei tutti i blog sull’architettura in Italia si erano scatenati, raccogliendo centinaia di post e commenti, pro e contro, un determinato modo di approcciare il cantiere di restauro.
Succede che, quando si dibatte sui blog, chiunque sia legittimato a dire la propria, e questo nella maggioranza dei casi è un bene! Tuttavia, quando il discorso si fa tecnico, chi partecipa al dibattito animato dall’ideologia, raramente accetta il parere di chi invece possa essere motivato dalla sua esperienza pratica di cantiere.
Del resto, viviamo nel Paese dove tutti si credono ingegneri e allenatori della Nazionale di calcio e, diceva Pirandello, così è se vi pare!
Questa situazione fa sì che i discorsi divengano infiniti, nessuna delle parti in gioco riesce ad ammettere “ok, mi ero sbagliato!” E allora si gira e rigira la frittata, pur di dimostrare di aver ragione anche davanti all’evidenza del contrario; finché, per sfinimento, una della due parti (spesso quella nel giusto) abbandona il ring … ma agli ignari lettori il dubbio rimane.
Il rischio di questa “resa” è che essa possa venir letta come la conferma del fatto che il “restauratore filologico” – quello vuole ripristinare tutto com’era e dov’era, e con gli stessi materiali adoperati all’origine – sia mosso semplicemente dalla sua ideologia, mentre il “restauratore creativo” – o il suo sostenitore – sia invece colui che, per onestà intellettuale e storicista, vorrebbe attualizzare il monumento.
Alimentare questo dubbio, in un’epoca in cui il livello di ignoranza in materia di restauro è ai massimi storici, è quanto di più sbagliato possa avvenire.
Sarebbe invece il caso di ammettere che i vari Brandi e Pane si sbagliavano, e che aveva ragione Ceschi quando a proposito dei palazzi genovesi e del campanile di Venezia difendeva la “falsificazione della storia” a vantaggio del bene e del bello comune, e soprattutto aveva ragione quando sosteneva che il restauro debba essere sempre affrontato “caso per caso”.
In vista di una vera campagna di salvaguardia del nostro patrimonio, sarebbe doveroso un “mea culpa” da parte delle Soprintendenze e, prima di loro, da parte delle eminenze grigie che dalle cattedre universitarie impongono i loro dogmi. Spesso, tra l’altro, molti dei docenti che pretendono di insegnare come restaurare, non hanno alcuna conoscenza della pratica, e devono le loro conoscenze ai soli libri sulla Teoria del Restauro, spesso datati!
Se poi pensiamo che, la maggioranza di chi detiene il bastone del comando all’interno delle Soprintendenze, possiede una laurea in Lettere Classiche e/o Beni Culturali, ignorando in toto il processo costruttivo e la tecnologia dei materiali da costruzione, appare ridicolo che lo Stato riponga fiducia assoluta in un Ente ignorante in materia tecnica.
Ebbene, penso che si debba necessariamente dare qualche chiarimento.

Il cemento … se lo conosci lo eviti!
Il cemento è un pessimo materiale per il restauro, chi lo ha inventato non poteva conoscere i suoi effetti collaterali nel medio-lungo termine, tuttavia la Carta di Atene del '31 ne impose il suo utilizzo, e quello dei materiali sperimentali, nel restauro dei monumenti ... si ritenevano utili perché più resistenti … inoltre consentivano di riconoscere l'antico dal nuovo.
Prima di addentrarmi in discorsi chimici – ovviamente semplificati per essere accessibili a chiunque – voglio ricordare un dato fisico, ben noto sin dagli albori di questo materiale, che riguarda il suo peso rapportato a quello delle murature tradizionali.
Mentre una muratura tradizionale pesa in media 1700-1800 Kg/mc, una muratura in cemento armato ne pesa 2500! Va da sé che, se una muratura venne dimensionata (anche gli antichi facevano le loro valutazioni, pur su basi geometriche e proporzionali) per reggere un solaio ligneo, il cui peso va dai 32 ai 50 kg/mq, è ben difficile che oggi possa reggere un solaio latero-cementizio, il cui peso oscilla tra i 250 e i 300 kg/mq!
Il cemento si ottiene per cottura di marne, oppure di miscele artificiali di calcare e argilla. La caratteristica fondamentale del prodotto di cottura (clinker) è che – a differenza delle calci idrauliche – la calce vi è interamente combinata come silicati, alluminati e ferriti di calcio. Il meccanismo di indurimento di questo legante riguarda pertanto sostanzialmente l’idratazione dei composti formantisi durante la cottura.
Per prevenire fenomeni indesiderati in fase di esercizio, dei quali dirò, occorre controllare molteplici parametri (modulo idraulico, modulo silicico, modulo dei fondenti e modulo calcareo) che potrebbero inficiare la qualità del prodotto finale.
In particolare, se il livello ammissibile di “calce libera” venisse superato, si potrebbero avere seri problemi, mentre se risultasse inferiore al minimo, il cemento si polverizzerebbe spontaneamente all’aria!
Durante la cottura, la calce che si forma dalla dissociazione termica del carbonato di calcio (CaCO3) reagisce con l’allumina e con l’ossido ferrico; la parte residua (calce restante) si combina chimicamente con la silice per formare silicato bicalcico (2 CaO SiO2) e silicato tricalcico (3 CaO SiO2): questi due silicati sono i più attivi costituenti idraulici del cemento.
Il silicato tricalcico, nella sua reazione con l’acqua d’impasto, sviluppa un’elevata quantità di calore (che nelle murature antiche è molto pericolosa), inoltre presenta un’accentuata attitudine al ritiro, accompagnata da un’elevata velocità di indurimento: quest’ultima proprietà è importante ai fini della resistenza alle brevi stagionature. Esso perciò si tiene abbondante nei cementi (supercementi) che devono servire per strutture non molto spesse da disarmarsi rapidamente. Dal punto di vista chimico le sue proprietà, come vedremo, sono poco soddisfacenti. In ogni modo questa velocità fa sì che molte imprese usino questo tipo di cementi per velocizzare il lavoro!
Il silicato bicalcico, invece, sviluppa pochissimo calore durante la reazione con l’acqua, ha scarsa attitudine al ritiro, ed ovviamente una lenta velocità di indurimento: affinché raggiunga una resistenza meccanica accettabile occorrono mesi, anche se la resistenza finale è simile a quella del silicato tricalcico. È ovvio che questo tipo di cemento, nella società del mordi e fuggi non nutra le simpatie delle imprese che vogliono accelerare i cantieri. In ogni modo, considerato che il silicato bicalcico è il costituente che consente l’aumento della resistenza meccanica alle lunghe stagionature, esso viene mantenuto abbondante nei cementi utilizzati per costruzioni di grosso spessore, e per quelli che devono avere una certa resistenza chimica.
Tuttavia, nei corsi di Tecnologia dei Materiali da Costruzione, (il mio professore è stato Francesco Romanelli, già collaboratore del grande Pier Luigi Nervi) ci insegnano che “con la sostituzione del silicato tricalcico con il silicato bicalcico, entro i limiti accettabili per le resistenze meccaniche, si realizza il duplice vantaggio di ridurre il calore d’idratazione e migliorare la resistenza chimica del materiale. I cementi ricchi in C3S sviluppano, infatti, una notevole quantità di calce di idrolisi (cementi ad alta basicità) che, dal punto di vista chimico, rappresenta il “tallone di Achille” del cemento”.
Ci si dovrebbe dilungare nel raccontare i problemi collegati con la necessità di accelerare i tempi di realizzazione cercando di mantenere delle buone resistenze meccaniche, cosa che però comporta grossi problemi di fessurazioni, dovute al rapido ritiro, e con esse un indebolimento strutturale e un’elevata permeabilità. Sarebbe utile far conoscere i vari “trucchi del mestiere” escogitati dai costruttori per ottenere questi obiettivi; trucchi che però non portano a nulla di buono: per esempio, per ripristinare le caratteristiche di lavorabilità del cemento, si usa aggiungere acqua in betoniera, ma questo trucco diminuisce gravemente la resistenza meccanica ed aumenta la permeabilità del manufatto indurito!
Ciò che non viene raccontato del cemento è il perché esso tenda a deteriorarsi in tempi molto brevi se raffrontati a quelli delle malte tradizionali.
La causa di disgregazione di una pasta di cemento può essere provocata da cause sia interne che esterne: nel primo caso la disgregazione si produce in tutta la massa, che si altera profondamente in tutte le sue parti; nel secondo l’alterazione si manifesta inizialmente solo in alcuni punti della superficie, e procede poi verso l’interno. La calce libera (CaO) e la magnesia (MgO), ed un eventuale eccesso di gesso, sono le cause intrinseche di alterazione. Si noti che, anche piccoli tenori di calce non combinata chimicamente nei clinker creano enormi problemi. Questa calce, cotta all’elevata temperatura del cemento, risulta bruciata per cui si idrata molto lentamente, quando il cemento ha già fatto presa, provocando rigonfiamenti e screpolature: il cemento risulta espansivo a causa dell’espansione della calce.
La magnesia presenta fenomeni simili a quelli della calce, ovvero l’espansione si manifesta in tempi molto lunghi, anche 1 – 2 anni dopo la messa in opera!
Nel caso del gesso in eccedenza, si hanno forti fenomeni di espansione a causa della formazione di solfoalluminato di calcio successivamente alla presa, che provoca un forte aumento di volume.
Altre volte, il deterioramento è causato dall’impurità del cemento che presenta degli alcali.
Ovviamente, occorre prendere in considerazione anche le ragioni del deterioramento causato da un attacco esterno, cosa anche questa ben nota, ragion per cui risulta ridicolo che si sia teorizzato, e si continui ad adoperare il cemento a faccia vista della cosiddetta “architettura brutalista”.
Una certa influenza su deterioramento è data da fattori di origine fisica (calore eccessivo, gelo) e chimica (azioni di acque aggressive, capaci di provocare fenomeni di dilavamento e di rigonfiamento) … non volendo annoiare con discorsi troppo tecnici, lascio al lettore la possibilità di comprendere da sé per quale motivo la soprintendenza e i politici, per il crollo di Pompei abbiano accusato le piogge!
Finora ho descritto il problema limitandomi al cemento; il discorso però andrebbe fatto per quello che è il materiale che viene adoperato nei cantieri: il calcestruzzo armato, ovvero un composto di cemento e inerti, rinforzato con barre di acciaio, cui spesso e volentieri vengono addizionate sostanze chimiche, (molto tossiche), che servono a ritardare o accelerare il processo di presa e indurimento e/o altro.
Ovviamente, per renderle solidali con le preesistenze, le strutture in c.a. vengono opportunamente “ammorsate” nelle murature originarie, ragion per cui, nel caso dell’uso del c.a. nei cantieri di restauro, risulta necessario fare delle piccole (o grandi) demolizioni per realizzare gli ancoraggi tra le vecchie e le nuove strutture. C’è da dire che, mentre le strutture antiche hanno la capacità di adattarsi gradualmente ai vari cedimenti, assestandosi e mai collassando, le strutture in c.a. risultano estremamente rigide e indipendenti dalle strutture originarie, sicché, come si è visto a L’Aquila, in caso di sisma queste strutture tendono a partire per la tangente, schiantando a terra ciò che le sosteneva!
Non occorre avere una laurea in chimica per sapere che il carbonato di calcio, CaCO3, è il peggior nemico del ferro, va da sé che qualche problema all’interno di una struttura in c.a. poteva essere immaginato da chi la teorizzò.
Per quanto riguarda il calcestruzzo, un problema molto serio è quello della carbonatazione, il fenomeno consiste nella reazione dell’anidride carbonica CO2 dell’aria con l’idrossido di calcio Ca(OH)2 della pasta di cemento, con la formazione di CaCO3. In determinate condizioni tale processo si manifesta con una diminuzione di volume. L’influenza della carbonatazione non è però limitata al ritiro. Ma anche alle notevoli conseguenze per quanto riguarda la corrosione delle armature in acciaio. Infatti nelle zone carbonatate il calcestruzzo non è più alcalino, o lo è poco, e quindi non è più sufficiente ad assicurare la passività dell’acciaio. Pertanto, ai fini della durevolezza, si richiede che il copriferro esposto all’aria risulti di spessore adeguato, e l’impasto abbia bassa porosità … ma spesso e volentieri chi costruisce lo fa e basta, e se ne frega di tutte queste precauzioni.
Vanno considerati poi gli effetti collaterali dell’acqua sul calcestruzzo.
Quando una struttura di calcestruzzo è in contatto con acqua, o altri liquidi, le cause di degradazione possono essere suddivise in cause di natura chimica, fisica o meccanica. Le prime ovviamente sono le più importanti
I tipi più comuni di agenti chimici aggressivi naturali sono i sali solfatici, quelli magnesiaci, le acque ricche in anidride carbonica, le acque pure e i cloruri; l'azione corrosiva di questi ultimi riguarda più i ferri del calcestruzzo armato che non il calcestruzzo stesso. Sono esclusi da queste considerazioni i liquidi di scarico industriale, acidi alcalini o contenenti composti organici ed inorganici, i quali per la loro azione specifica nei confronti del calcestruzzo andrebbero considerati caso per caso.
L'azione di questi agenti chimici si esplica sostanzialmente in tre modi:
l) per solubilizzazione della calce d'idrolisi (dilavamento); 2) per trasformazione dell'alluminato tricalcico ad opera dei solfati in un prodotto di volume maggiore, il solfoalluminato di calcio, da cui deriva la disgregazione della massa; 3) per attacco dell'idrossido e dei silicati di calcio da parte dei sali di magnesio, con formazione di prodotti ancora espansivi o incoerenti.
L'azione dei sali di magnesio è diversa a seconda del tipo di sale; per es.: il solfato di magnesio attacca l'alluminato tricalcico con formazione del solfoalluminato, ma questo in presenza di solfato di magnesio forma solfato di calcio, allumina idrata e idrossido di magnesio. Il solfato di magnesio attacca anche i silicati con formazione di solfato di calcio, idrossido di magnesio e silice. La silice e l'idrossido di magnesio tendono ad ostruire i pori, ma col tempo formano silicato di magnesio idrato privo di coesione. In modo analogo si comporta il cloruro di magnesio.
In aggiunta ai fenomeni descritti, e ormai ben noti, ce n’è un altro silente e terribilmente dannoso per il calcestruzzo armato, si tratta di un fenomeno quasi sconosciuto e poco studiato: l’inquinamento acustico!
La costante vibrazione delle strutture in c.a. sollecitate al rumore crea un lento ed inarrestabile processo disgregativo all’interno delle strutture che, nel tempo, tendono a perdere del tutto le loro capacità meccaniche!
Concludo questo paragrafo ricordando che, peggio del calcestruzzo si comportano i materiali chimici adoperati nei cantieri di restauro, per esempio le resine epossidiche le quali, benché finalmente bandite, continuano imperterrite ad essere adoperate dai restauratori senza cultura!

Riflessioni sullo stato attuale
La maggioranza della classe docente, dei responsabili delle Soprintendenze, e dei professionisti che operano nel settore del restauro sono “cresciuti a pane e cemento armato”, sicché non conoscono altra possibilità che quella. A questo limite culturale va aggiunto il problema, prettamente italiano, generato dalla teoria del Falso Storico.
Questo presunto “reato” induce – chi interviene e/o sovrintende ai lavori – a mettere alla base dell’intervento un approccio ideologico, fondato sui contenuti delle Carta di Atene e Venezia, così si dà per giusta la necessità di differenziare il nuovo dal vecchio, e opta per la“conservazione” del bene piuttosto che per il suo “restauro” … anche se poi, lo abbiamo visto, questa conservazione dura molto poco.
I crolli di Pompei e L’Aquila, e quello della Torre Medicea di Santo Stefano in Sessanio – tutti edifici mal restaurati (addirittura consolidati!) ad opera delle soprintendenze – lasciano supporre che, presto o tardi, verranno seguiti da altri eventi simili, a meno che non si provveda sollecitamente a rimuovere le strutture “moderne” insistenti su quelle antiche. Ma per far questo risulta necessario rivedere al più presto il modo di affrontare, ed insegnare, il restauro dei monumenti, a partire dalla necessità di abbandonare il “falso” problema della “falsificazione” che ci ha indotto all’uso di materiali e soluzioni aliene ai monumenti stessi.
La situazione non è dissimile da quella che lamentava, alla metà dell’800 nelle sue Conversazioni sull’Architettura, Viollet-Le-Duc; epoca in cui l’Academie des Beaux-Arts imponeva il solo studio del linguaggio Classico e Neoclassico. Il suo dubbio può essere riassunto in questa frase: se non diamo la possibilità ai nostri architetti di conoscere l’architettura gotica, chi potrà prendersi cura del patrimonio architettonico francese?
La differenza sostanziale è che, i fin dei conti, gli “accademici” francesi producevano edifici duraturi, benché lontani dall’architettura francese, mentre noi oggi non facciamo più nemmeno quello!
Chiudo citando alcune frasi illuminanti, tratte dalle “Conversazioni” di Viollet-Le-Duc, poiché esse sono da considerarsi una sorta di “testamento morale”, testamento sul quale occorre ancora oggi riflettere a fondo. Queste frasi, infatti, potrebbero essere state scritte in questi tristi giorni, durante i quali piangiamo la perdita della Schola Armaturarum, e assistiamo inermi allo scempio della Fortezza di Arezzo.

Sulla libertà dell’Arte: “le arti si sviluppano in modo attivo quando sono, per così dire, solidamente legate ai costumi di un popolo e ne costituiscono il linguaggio sincero. Esse declinano allorquando diventano una specie di cultura privata; allora gradualmente si rinchiudono nelle scuole e si isolano; ben presto adottano un linguaggio che non è più quello della massa. L’arte allora diventa un estraneo che talvolta viene accolto senza che si associ alla vita quotidiana. Si finisce con il farne a meno perché più di impiccio che d’aiuto; pretende di governare e non ha più sudditi. L’arte può vivere solo se libera nella sua espressione, ma sottomessa nel suo principio; perisce quando, al contrario, il suo principio è misconosciuto e la sua espressione ridotta alla schiavitù”.

Sul rischio di perdere la capacità di intervenire sul patrimonio a causa di un insegnamento distorto e limitato: “per quanto riguarda la folla degli studenti, dopo aver progettato per dieci anni monumenti impossibili e indescrivibili, essi non hanno davanti a sé che la prospettiva di un posto in provincia, oppure il settore privato. Ora, bisogna riconoscere che essi non sono stati assolutamente preparati a svolgere queste funzioni. Poche idee pratiche, molti pregiudizi, nessuna conoscenza dei materiali del nostro paese e dei modi di impiegarli, il profondo disprezzo dell’ignoranza per le arti proscritte dalla scuola e difficili da studiare e conoscere; nessuna idea della direzione e dell’amministrazione dei cantieri, nessun metodo, e la mania di fare dei monumenti, quando si tratta semplicemente di edificare costruzioni solide, adeguate, adatte alle esigenze”.

Sulla necessità di conoscere la tradizione per progredire: “è necessario riunire la più grande quantità di materiale possibile, per conoscere quanto è stato fatto e approfittare dell’esperienza acquisita; poiché è importante non passare il tempo ricercando la soluzione di problemi già risolti, e partire sempre dal livello raggiunto” […]. Esaminiamo quindi a fondo i nostri procedimenti e le forme solite della nostra architettura; confrontiamoli con i procedimenti e con le forme dell’architettura antica, e vediamo se non ci siamo sbagliati, se non occorre rifare tutto, per trovare quest’architettura del nostro tempo reclamata ad alta voce proprio da coloro che ci privano degli unici mezzi atti a crearla”.

Sull’esterofilia degli architetti: ”se ci teniamo a possedere un’architettura della nostra epoca, facciamo innanzitutto in modo che tale architettura sia nostra, e che non vada a cercare le sue forme e le sue disposizioni ovunque fuorché in seno alla nostra società. Che i nostri architetti conoscano gli esempi migliori di ciò che è stato compiuto prima di noi e in condizioni analoghe; niente di meglio se a tali conoscenze associano un metodo valido e uno spirito critico. Che sappiano come le arti anteriori hanno costituito l’immagine fedele delle società nel cui ambito si andavano sviluppando”.

Sulla perdita dei principi dell’unità e dell’uniformità: “tutti i nostri antenati sono rimasti degli osservatori fedeli di questi principi primitivi, derivanti dal semplice buon senso, solo noi li abbiamo messi da parte. ... gli antichi, al pari degli artisti medievali, hanno sottomesso le loro opere ai principi dell’unità, senza mai cadere nell’uniformità”.

Sul fallimento dell’architettura alla moda: “in definitiva, per il pubblico, questa architettura ha prodotto edifici scomodi, dove i servizi non sono né posti in risalto, né tanto meno soddisfatti; che non parlano alla sua mente, né ai suoi gusti; spese enormi che lo stupiscono talvolta senza commuoverlo mai”.

Del controllo assoluto: “il corpo, ricordo di istituzioni estranee alle idee della nostra epoca, è, nonostante tutto, padrone dell’insegnamento delle belle arti, padrone della maggioranza delle amministrazioni che dispongono dei capitoli di bilancio statale e delle grandi città destinate alle belle arti; padrone, quindi, delle sorti degli artisti e in modo più particolare degli architetti che, per manifestare il loro talento, hanno solo i lavori che dipendono da queste amministrazioni”.

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15 novembre 2010

IL RESTAURO CREATIVO DELLA FORTEZZA DI AREZZO

Ecco un caso in atto di restauro diverso da quello di Pompei ma più in linea con i tempi e non meno distruttivo di quello: il restauro creativo.
Il caso: Fortezza Medicea di Arezzo. Autori: Giuliano e Antonio da Sangallo, mentre Antonio da Sangallo il Giovane ha seguito i lavori. Per altre notizie storiche rimando al link.
E' in corso l’esecuzione di un progetto generale di restauro e riuso della Fortezza. Sorvolo sul riuso perché occorrerebbe spiegare tutte le condizioni urbanistiche e sarebbe troppo lungo. Basti dire che non è affatto facile l’utilizzo continuativo di una fortezza, per natura inaccessibile, posta sulla sommità della città e separata da questa da un grande parco; dunque un’operazione difficile e una scommessa. Comunque il restauro delle mura, quello vero, cioè la manutenzione delle stesse, era senz’altro necessario e da quello che è dato vedere sembra essere stato fatto piuttosto bene.
Il problema si pone laddove l’architetto ha voluto lasciare il suo segno indelebile e trasformare un’operazione di restauro in un’occasione di “sperimentazione” architettonica e creativa. Posso dirlo senza rimorsi perché non so chi sia l’autore reale del “gesto”, dato che l’incarico è stato dato all’Università di Firenze che credo abbia lavorato di concerto con l’Ufficio Tecnico Comunale.
Cosa c’entra l’immagine in alto? E’ solo l'ideogramma del progetto.

In uno dei bastioni a nord, quello più inaccessibile dalla città, chiamato il Bastione del Soccorso, un orecchione era da lungo tempo parzialmente crollato. A terra c’era ancora molto, se non tutto, del materiale originario. In questo bastione è previsto uno dei due ascensori, e relativa scala, per accedere al complesso.
Il bastione è perfettamente simmetrico e non esisteva alcuna possibilità di “interpretare” come avrebbe dovuto essere ricostruito, almeno nella sua forma esterna. E infatti anche il progetto conserva la simmetria planimetrica originaria, ma lo fa a modo suo, cioè in vetro. Questo almeno nella prima versione.
Non sfuggirà a nessuno la esiguità del progetto, anche prescindendo dal tema principale, cioè dal fatto che si dovrebbe restaurare un’opera unitaria e di assoluto valore e non inventare, e non aggiungerò quindi inutili spiegazioni.
Evidentemente qualcuno deve essersi accorto che la soluzione era, diciamo, discutibile, non foss’altro perché la presunta unità planimetrica sarebbe stata del tutto assente nella visione reale, che sarebbe apparsa frantumata e tale che l’opera nuova avrebbe sovrastato, per la sua “originalità”, ciò che esiste, o almeno che ci sarebbe stata una certa esagerata dissonanza e deve aver pensato bene di trovare un compromesso: ricostruire la forma esterna del bastione, riportandolo dunque ad unità, ma in acciaio cortèn con tagli che servissero da appiglio per piante rampicanti!!!!

Mi spiace non disporre di un progetto più dettagliato di questo qui:
ma non è difficile poterlo immaginare.
Il tutto con il parere favorevole della Soprintendenza. Lo dico per semplice logica deduttiva dato che non potrebbe essere diversamente, anche se non sono al corrente (ma non è difficile immaginare) delle motivazioni che hanno portato ad approvare questa scelta. E’ perfino possibile ipotizzare le discussioni che vi sono state.
E infatti mi divertirò a farlo in un gioco di immaginazione di tutto il “processo creativo”.

Mi pare di sentirlo il travaglio profondo nel passare dal primo progetto, quello del grande gesto, dell’interpretazione architettonica e del dialogo tra il vecchio e il nuovo, tra la storia e la contemporaneità, tra l’originaria funzione di dominio militare da parte dei fiorentini sugli aretini con la conseguente architettura chiusa nella forma e possente nella materia e, di contro, l’apertura alla città (dei morti, perché il bastione è proprio sopra il cimitero) ben rappresentata dalla scelta del vetro, espressione simbolica di democratica trasparenza; e il secondo progetto, quello in corso di esecuzione, più misurato, rispettoso della forma ma che tuttavia non rinuncia alla, non fa un passo indietro rispetto alla, non teme la (non sia mai) contemporaneità.

Il cortèn è la soluzione giusta: materiale inattaccabile dalla ruggine perché già arrugginito, materiale post-moderno, post-industriale, post-nazionale e dunque globale.
Ha il fascino del vecchio ma denuncia chiaramente il suo essere nuovo, è adatto ad ogni circostanza, al bagno di tendenza, al ristorante del grande chef, all’arredo urbano (sedute come se piovesse), se attaccato ad una parete in forma rettangolare potrebbe sembrare perfino un quadro di arte concettuale, molto materico e dialogante con la pietra, insomma perfetto.
Di più: i tagli orizzontali (o verticali, non saprei) creano da dentro giochi di luce e di suggestive trasparenze e quindi, oltre alla suggestione emotiva, rimane anche la suggestione democratica della trasparenza del vetro.
Una pensata migliore non si poteva fare!

Last, but not least, la ciliegina sulla torta, il fascino del pittoresco e del rudere, John Ruskin, la forte tempra morale nel restauro: il rampicante, segno della natura che prevale sul manufatto e si riappropria dell’opera dell’uomo, dunque espressione della caducità di un’opera nata invece per essere aggressiva ed eterna. E poi, il ricordo, il memento della ferita che rimane come ulteriore monito all’uomo di non pensare all’eternità. Contrasti e sapori forti.

Cari Sangallo, non pensiate di essere ricordati solo voi, pur bravi ma terribilmente antichi! Adesso i posteri diranno che anche noi contemporanei abbiamo saputo "dialogare" e "confrontarci" con voi, con la storia, con la memoria, anche senza consultarvi (cioè nell’unico modo possibile, leggendo la vostra opera e rifacendola come voi l'avevate ideata).
Ci siamo confrontati sì, ma con la sensibilità di uomini del nostro tempo, con la nostra "cultura", non abbiamo ingannato gli ignari visitatori rifacendo un falso storico, noooo, come Piazza Grande o come la guglia del campanile del Duomo che sono tutti falsi degli anni '30, questi zotici, e non li costringiamo a dire "quanto è bella questa fortezza", perché se è falsa non può essere bella, per definzione, anche se a loro sembra il contrario, al pari di Piazza Grande e della guglia del campanile. Ma lo dicevano perché non lo sapevano. Ma adesso sanno e potranno e dovranno così dire "guarda l'architetto come è stato originale"!
Adesso anche noi abbiamo, finalmente, lasciato il segno, adesso anche noi esistiamo.
Forse.

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13 novembre 2010

LANGONE SUL CROLLO DI POMPEI

Un'altra Preghiera di Camillo Langone sul crollo della Casa dei Gladiatori a Pompei.
Langone ha ragione su tutto, salvo il fatto che ha trascurato (ma ne è consapevole) nel suo elenco di coloro che puntano il dito contro il cemento armato nel restauro molti nomi, tra cui Ettore Maria Mazzola, che lo afferma da sempre e l'ultima volta l'ha fatto su questo blog con il suo post del 7 novembre, PERCHE' IL CROLLO DI POMPEI, ed anche gli ingegneri più attenti che hanno fatto tesoro dei vari disastri causati dal c.a. nei terremoti che hanno martoriato la penisola.

del 9 novembre 2010
di Camillo Langone

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12 novembre 2010

STRADE- 9° : DANILO GRIFONI

Ripropongo un testo già pubblicato un paio di anni fa su IL COVILE e scritto dall'Arch. Danilo Grifoni. Il tema non si limita alla strada in ambito urbano ma è una sintesi, scritta per un incontro pubblico, della cultura dei luoghi in cui Grifoni racconta il modo in cui l'uomo, storicamente, ha preso possesso dei luoghi, dalle origini ad oggi e in cui la strada gioca un ruolo decisivo sia a livello territoriale che urbano. Ma forte è anche lo spirito civile che attraversa tutto questo scritto, con l'invito alle varie comunità a diventare "proprietari" della cultura dei luoghi in cui vivono. Uno scritto tutto sommato breve per la qualità e quantità di contenuti che riesce ad esprimere.
Danilo Grifoni è architetto e urbanista in Arezzo, vive a Castiglion Fiorentino ed è autore, insieme, alternativamente, ad altri colleghi che cito di seguito, di numerosi Piani Regolatori in Val di Chiana: Roberto Verdelli, Enrico Lavagnino, Gabriele Corsi, Santo Maria Praticò, salvo altri di cui non sono a conoscenza e con i quali mi scuso preventivamente.

LA CULTURA DEI LUOGHI
di Danilo Grifoni

L'uomo, nelle diverse fasi storiche e nei diversi luoghi da lui occupati, ha sempre cercato di utilizzare al meglio le risorse territoriali piegandosi ed adattandosi alle caratteristiche, alle specificità, alle unicità dei luoghi stessi.

L'organizzazione o, più propriamente, la strutturazione del territorio, cosi come la formazione degli insediamenti ha dovuto confrontarsi con gli assetti morfologici e più in particolare con il sistema orografico e con il sistema idrografico, in sostanza con quella che può definirsi la vena, il verso del territorio e sono proprio il verso, la vena del territorio che hanno dettato le regole che stanno alla base dei comportamenti che l'uomo ha assunto rispetto all'insieme degli interventi effettuati durante le fasi di occupazione ed utilizzazione de! territorio.

Se la vena, il verso del territorio segnati dai corsi d'acqua, dai sistemi collinari, dalle pendenze, ha di fatto stabilito quella che sarà la sua orditura, in sostanza l'orditura e la forma dei campi, il reticolo dei fossi, il reticolo viario minore, la disposizione delle alberature, la direzione dei solchi, l'orientamento dei casolari sparsi (più legati al fondo che non ai percorsi fondamentali), ecco che rispetto alla scelta del sito, del luogo degli insediamenti ha influito quasi esclusivamente il sistema dei percorsi, quelli preesistenti, utilizzati dall'uomo per i continui spostamenti durante il periodo in cui si procacciava cibo raccogliendo bacche e cacciando.

L'uomo era nomade, ma non meravigli e non ci meravigli il fatto che il nomadismo tipico di molte specie animali, sia ancora oggi nel terzo millennio patrimonio di molte popolazioni che, dedite alla pastorizia, si spostano alla continua ricerca d'acqua e di nuovi pascoli (Tuareg, Beduini, Aborigeni dell'Australia, Samoiedi ecc).

Ma ritorniamo al tema: una volta apprese le tecniche della coltivazione, con la nascita dell'agricoltura l'uomo diviene stanziale.
E' questa nuova condizione che determina la necessità di provvedere alla formazione di insediamenti ed ancor prima alla scelta del sito.
Con le pianure ancora impaludate o ridotte alla condizione di deserto, quindi non utilizzabili ai fini produttivi; con le valli poco sicure per la loro difficile difendibilità, i primi nuclei vengono collocati lungo i percorsi di crinale secondari, alla quota delle sorgive, cosa che garantisce l'approvvigionamento idrico.

I centri si uniscono attraverso le vie di mezza costa che sostituendo i crinali quali percorsi territoriali fondamentali, favoriscono rapporti tra le diverse comunità, scambi e più in generale una soddisfacente mobilità territoriale.
Per necessità legate a problemi di difesa, i nuclei vengono fondati di norma sulla testa del promontorio con la sella a monte e vanno a disporsi privilegiando o la direzione del crinale o quella della mezza costa.
Insediamenti quali Bibbiena, Poppi, Monte San Savino, Lucignano, Castiglion Fiorentino e molti altri, adagiati a cavallo del crinale privilegiano questa direttrice quasi a stabilire il loro rapporto particolare con le attività silvo-pastorali e quindi con tutto il mondo della montagna.
In queste realtà i rapporti, gli scambi sono ancora prevalentemente interni e favoriscono un rafforzamento dei comportamenti dell'area culturale che risulta poco interessata da contaminazioni esterne.

A mano a mano che vengono meno le necessità di difesa, che i territori di pianura vengono utilizzati e sottratti all'impaludamento, che vengono bonificati (l'uomo ha già appreso la tecnica della regimazione delle acque) si sviluppa contemporaneamente un vasto sistema di relazioni commerciali e culturali.
Si assiste ad un progressivo slittamento a valle degli insediamenti che nel loro procedere verso i percorsi territoriali di lungo fiume o pedecolllinari, seguono sempre il crinale che garantisce rapporti tra le diverse aree (montagna, collina, pianura) tra di loro diverse per il diverso assetto morfologico e quindi per ildiverso tipo di strutturazione determinatosi nelle diverse fasi di occupazione del territorio.
Se in questa fase i crinali tengono insieme parti dello stesso territorio, le mezzecoste ed i percorsi di valle relazionano tra di loro parti omogenee e centri creando un sistema insediativo ancora efficiente.
L'importanza dei percorsi di fondovalle, pedecollinari, quali veri percorsi territoriali fondamentali, favorisce la formazione di nuovi centri che vanno a collocarsi là dove si incontrano i crinali con i percorsi di lungo fiume o di fondovalle.
Questo è il caso di Soci, Subbiano, Capolona che occupano, come di norma, aree poste vicino
al guado(ponte) che favorisce il rapporto tra due aree culturali e quindi facilita gli scambi.

Nasce il luogo del mercato.
I centri urbani si dispongono lungo i percorsi principali che favoriscono il massimo dei rapporti possibili con gli altri insediamenti e con il territorio.
Le direzioni della crescita sono l'indicatore delle relazioni che si sono instaurate nel tempo con le aree contermini e con i centri più forti. Se quindi così il percorso territoriale diviene elemento fondativo dell'insediamento di fatto esso si connota anche per il suo essere elemento ordinatore nel senso che regola tutto il sistema insediativo che viene strutturato attraverso un reticolo viario coordinato con il percorso territoriale stesso.

Alcuni centri dove in pratica una sola strada svolge un ruolo significativo, l'insediamento si snoda a borgo quando invece il nucleo nasce dove due o più percorsi vanno a confluire, là si forma la piazza come slargo e con forme irregolari.
Sul borgo vanno a collocarsi gli edifici specialistici, l'insediamento si struttura per isolati che contengono edilizia di base costituita da edifici singoli a schiera o a corte gli uni addossati agli altri a creare cortine edilizie poste sul bordo della strada. II nuovo reticolo viario, la piazza, il disegno della città spesso lasciano leggere gli antichi segni dei precedenti tracciati, dell'orditura del territorio e ad essi si adattano strutturandosi per isolati irregolari.

Nei periodi in cui la volontà pianificatoria è forte (si pensi all'epoca romana, all'ottocento, al periodo fascista) la città si struttura secondo regole stabilite, sancite una volta per tutte, che danno ordine e regolarità che d'altra parte ritroviamo anche nel territorio.
Si pensi agli atti di pianificazione dell'epoca romana che vedono il territorio agricolo suddiviso in centurie di forma quadrata di 710 m, suddivise a loro volta in cento parti da destinare a coloni o centurioni.
Si pensi alla città costituita e strutturata attraverso un reticolo viario gerarchizzato che individua insulae (isolati) di 35,5 m x 17,75 m.
Nei centri urbani l'edilizia di base è caratterizzata dal tipo edilizio a schiera o a corte, dove si svolgono le diverse attività commerciali e produttive al piano terra direttamente relazionate con l'abitazione ai piani sovrastanti. Si sviluppa sul bordo strada con la pertinenza orto, giardino sul retro. Le diverse attività convivono all'interno dello stesso edificio e questo rapporto permane fino all'avvento della rivoluzione industriale quando la città allenta i rapporti, si spappola, nasce lo zoning.

Nelle zone agricole la casa rurale, una sorta di edificio aperto, quasi un'incompiuta, si adatta alla morfologia dei luoghi, si articola attraverso volumi semplici variamente disposti con al piano terra il ricovero degli animali ed al piano primo la zona destinata all'abitare.
La casa con gli annessi staccati, la pertinenza cortiliva (l'aia) si presenta come una variante della casa corte, che pur collocata all'interno dell'azienda, ritaglia uno spazio per le attività all'aperto, spazio verso il quale è disposta la facciata principale.
I tipi edilizi, la disposizione lungo il percorso nei centri, la scelta del sito per le case rurali che in prevalenza privilegiano il versante esposto a sud-est, i materiali quali la pietra per le murature, il legname per le coperture ed i solai, l'architrave in legno o pietra che lavorano per dimensione e non per forma, le bucature di dimensioni contenute, la pendenza dei tetti: sono la cultura.

Si pensi per un momento alle aree dove difficile era il reperimento della pietra e dove si era sviluppata la produzione e quindi l'uso del mattone.
Ecco in queste aree (Siena ) si è sviluppato in modo quasi esclusivo l'uso dell'arco alla cui forma facilmente si adatta il mattone senza che in ogni caso questo abbia comportato l'allineamento alla cultura europea.
Piace qui segnalare il grande valore della cultura ereditata, che nella nostra toscana si è dimostrata resistente alle influenze esterne, capace di piegare gli stili imperanti nei vari periodi, capace di accettare contaminazioni ma senza accogliere e tanto meno subire in modo acritico le mode del tempo.
Vorrei far presente che con il gotico imperante le nostre cattedrali adattavano le pendenze delle coperture a quelle delle tradizione, sostituivano gli archi acuti con quelli a tutto sesto, arricchivano sì i paramenti murari ma limitavano significativamente le parti vetrate operando così più in continuità che in dissonanza.
Si pensi che il barocco, la massima espressione dell'architettura, non ebbe nella terra toscana diritto di cittadinanza.

Se quindi è vero, come è vero, che esiste una cultura dei luoghi, se è vero, come è vero, che i valori che ci sono stati trasferiti quale grande lascito del passato sono ancora riconosciuti tali, credo che noi tutti dobbiamo stabilire strategie capaci di mantenere e valorizzare le nostre matrici storiche e culturali.

A fronte del rischio di una omogeneizzazione acritica ai modelli culturali, sociali ed economici che vengono quotidianamente proposti da una non ben definita cultura internazionale, una sorta di esperanto senza radici, il nostro obiettivo è quello di individuare le diversità insite nel territorio, ricercare le nostre origini, divenire in sostanza proprietari della cultura dei luoghi per poterci confrontare con pari dignità con le culture altrui.

Occorre capire le regole non scritte, i comportamenti confermati e consolidati che stanno alla base dei processi di formazione e di crescita degli insediamenti, capire le diverse forme di strutturazione del territorio che hanno interessato le diverse aree culturali nelle diverse fasi di occupazione del territorio, capire il valore del tessuto e delle forme edilizie tradizionali che si sono dimostrati in grado di accogliere nel tempo mutamenti sociali ed economici e di incorporare un accumulo di saggezza costruita che rischia di andare irrimediabilmente perduta quando viene rimpiazzata da altri assetti tipologici.
Ecco tutto questo significa capire in sostanza che l'unica scelta possibile rispetto al grande rischio della omologazione che farebbe, della nostra provincia, della toscana tutta una terra qualsiasi che non sarebbe certamente apprezzata dai turisti ma che soprattutto resterebbe per noi estranea, ecco l'unica scelta possibile è quella di recuperare la cultura dei luoghi per recuperare la nostra identità.
In questo senso sembra che l'unica qualità stia nella continuità che significa ripensare ad una città e ad un territorio dove pezzi di città e pezzi di territorio siano tra loro rapportati quali elementi collaboranti di un unico organismo.

Una città e un territorio permeabili dove le strade finiscano su altre strade, dove venga recuperata l'antica dialettica tra emergenza e tessuto, tra edilizia specialistica ed edilizia di base, dove i percorsi siano tra di loro gerarchizzati, dove le strade non siano demonizzate, ma al contrario viste come elementi ordinatori e fondativi dello sviluppo, dove vi sia continuità di tessuto costruito, commistione di funzione al suo interno, coincidenza tra facciate e limite dello spazio stradale.
Una cultura che riconosca al territorio, alla città un suo verso una sua orditura rispetto ai quali produrre interventi coordinati e non mai controvena, una cultura che vada ad individuare e valorizzare le polarità urbane e territoriali per far corrispondere a queste attività specialistiche, oggi collocate e disperse in modo casuale sul territorio.
Una cultura che strutturi la città per isolati visti quali cellule elementari di un intero aggregato, capaci di dare ordine al costruito, di rendere la città fruibile, di garantire rapporti fra le diverse parti, di gerarchizzare i percorsi e quindi i diversi pezzi della città.

Da quanto detto, credo che si evidenzi la necessità di un fare urbanistica che, esaltando le specificità culturali, i comportamenti consolidati, le regole non scritte che stanno alla base dei processi di formazione e di crescita, riconosca il ruolo che hanno svolto e possono ancora svolgere, le diverse parti della città e del territorio, da una parte rimetta insieme vecchio e nuovo eliminando conflittualità dissonanze e situazioni di separatezza e dall'altra si fondi sulla valorizzazione delle tradizioni e delle culture dei luoghi.
Cultura e tradizioni che sono manifestate e si manifestano anche attraverso l'uso dei materiali, l'uso di tecniche costruttive, l'uso di tipi edilizi di modi di rapportare gli edifici al territorio e ai percorsi, di aggregarli tra loro.

Infine un fare urbanistica che sia su misura rispetto ad una realtà ricca di storia, di cultura, di tradizioni che sulla città e sul territorio ha lasciato segni che non possono essere cancellati, ma al contrario tutelati e valorizzati, convinti tra l'altro che, troppo spesso, abbiamo dimenticato che il nostro territorio, con i suoi viali alberati, con i suoi canali, con le sue case sparse, con le sue ville, con i suoi aggregati rurali così come la città con i suoi muri, con le sue vie, le sue piazze, i suoi monumenti è ancora oggi scuola dove si forma e si affina la società civile.

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7 novembre 2010

PERCHE' IL CROLLO DI POMPEI

Dopo il crollo di Pompei, un giustamente indignato Presidente della Repubblica ha chiesto spiegazioni urgenti: «Quello che è accaduto a Pompei dobbiamo, tutti, sentirlo come una vergogna per l'Italia» ha dichiarato il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, commentando il crollo nell'area archeologica. «E chi ha da dare delle spiegazioni - ha aggiunto - non si sottragga al dovere di darle al più presto e senza ipocrisie». (dal Corriere della Sera).

Il professore E.M. Mazzola ha mandato a me e ad altri questa mail che spiega le autentiche e non contingenti ragioni del crollo, ed io la posto perché possa contribuire a fare un po' di chiarezza. Il Presidente non la leggerà certamente, ma se per una fortuita e insondabile casualità anche parte del suo contenuto potesse giungergli in qualche modo, sarebbe un bel contributo di chiarezza, dopo le banalità del teatrino della politica e delle soprintendenze lette sui giornali di oggi e di ieri.

****

Carissimi,
non vi nascondo che mi sento triste come se stessi scrivendo un messaggio di condoglianze.
Dopo il crollo della chiesa delle Anime Sante di L'Aquila, speravo che fosse chiaro oramai a tutti che il cemento armato non va d'accordo con le murature antiche ... sembrava che lo avevessero capito anche le soprintendenze. Nessuno ha mai smentito ciò che ebbi modo di scrivere 3 giorni dopo il sisma abruzzese.
Oggi siamo qui a dibattere se scrivere e come ... ma non vorrei che alla fine si scrivesse qualcosa che faccia sembrare che sia stato fatto solo per rivendicare il nome del "Gruppo Salìngaros" piuttosto che per rimpiangere un bene inestimabile che è andato perduto "grazie" all'ignoranza umana.
Abbiamo persone che ci amministrano, le quali preferiscono investire i nostri soldi per costruire il Maxxi (120.000.000 di Euro) e comprare una collezione di "opere d'arte" (60.000.000 di Euro) per dare un senso al "museo" di Zaha, pur sapendo che i nostri soldi dovremmo investirli per tutelare i monumenti che dovrebbero darci da campare con il turismo.

E' venuto giù l'intonaco di una volta del Colosseo ed abbiamo scoperto che non avevamo i soldi per fare i lavori necessari ... anche "grazie" allo spreco di denaro per costruire (ed arredare) il Maxxi e il Macro; è venuta giù una parte della Domus Aurea, ed oggi la casa dei gladiatori, ma continuiamo a pensare a costruire una serie di edifici inutili concepiti per la società dello spettacolo, fondata sulla moda passeggera. Perché dobbiamo consentire ancora tutto questo?
Il cemento è un pessimo materiale, chi lo ha inventato non poteva conoscere i suoi effetti collaterali nel medio-lungo termine, tuttavia la Carta di Atene del '31 impose il suo utilizzo, e quello dei materiali sperimentali nel restauro dei monumenti ... si dicevano utili perché più resistenti e perché consentivano di riconoscere l'antico dal nuovo.
Oggi però, a distanza di tanti anni, tutti conoscono, specie nelle soprintendenze, ciò che il cemento armato ha provocato ai templi di Selinunte e di Agrigento, a Piazza Armerina, e via discorrendo, sicchè viene da sorridere - ma in realtà dovremmo piangere - leggendo che l'ex sovrintendente Guzzo abbia dichiarato che il crollo simile verificatosi a gennaio avrebbe dovuto imporre un monitoraggio!
Non un monitoraggio, bensì una sostituzione di tutti i restauri in c.a., avrebbe dovuto farsi sin da quando si è scoperto che quel maledetto materiale non ha nulla in comune con le strutture antiche, e che semmai le distrugge.
Il prof. Marconi racconta sempre della sua esperienza Pompeiana con la triste vicenda della Casa delle Nozze d'Argento ove l'impluvium venne a subire una sorte simile a quella dell'edificio odierno, grazie all'ottusità della sovrintendenza che si rifiutò di far realizzare (con soldi stranieri per giunta) la sostituzione della struttura in c.a. realizzata negli anni '50 con una nuova struttura in legno ... motivo del diniego? Sarebbe stato un falso storico!
Spesso le tragedie lasciano un profondo dolore, ma altrettanto spesso il sacrificio di qualcuno porta beneficio ai posteri. Mi auguro che quest'ennesimo scempio causato dall'idiozia umana serva da monito affinchè si possa finalmente vietare per legge l'uso del calcestruzzo armato, e ci aiuti a dimenticare per sempre l'ottusità del "falso storico".
Se non si fosse intervenuti per sostituire con travi in legno le travi in c.a. che negli anni '50 sostituirono quelle originarie della volta a carena palladiana, probabilmente tra un paio di anni avremmo dovuto rimpiangere per sempre la Basilica di Vicenza. Anche in questo caso dobbiamo dire grazie alla saggezza di Paolo Marconi che è stato consulente per questo restauro che consentirà ai posteri di godere della vista del simbolo di Vicenza.
Occorre rivedere di sana pianta l'insegnamento distorito che si è fatto negli ultimi 70 anni nella facoltà di architettura e di ingegneria, solo così sarà possibile garantirci una riformazione dei professionisti che dovrebbero sovrintendere ai beni culturali.
Per far questo sarà necessario non abbassare mai la guardia e premere affinché i media influenzino il corpo docente, ancora ottusamente ancorato ai dettami di Brandi e Pane per il restauro e di LeCorbusier e Bardi per l'architettura e l'urbanistica. L'avvento del Modernismo potè essere possibile anche e soprattutto grazie al bombardamento mediatico di riviste come La Casa Bella, Quadrante, Moderne Bauformen, L'Esprite Nouveau ecc. che, facendo il lavaggio del cervello alla classe docente dell'epoca, consentirono la messa al bando degli architetti tradizionali, da Frigerio a Brasini.
Sicchè oggi, 70 anni e passa di pessima gestione ideologica del nostro patrimonio, fanno sì che si debba invertire la rotta, ritornando ad operare come il buon senso aveva fatto in passato, costruendo e ricostruendo con gli stessi materiali e le stesse tecniche utilizzati dai costruttori originari degli edifici che necessitano interventi di restauro. Quella saggezza costruttiva e di restauro ci ha consentito di godere della fruizione di queste bellezze che il mondo ci invidia, non è più ammissibile che l'egoismo ideologico di una minoranza di tecnici, storici e critici possa continuare a distruggere il nostro patrimonio imponendo la lettura del nuovo e dell'antico.
Si rifletta inoltre sul fatto che quando si parla di restauro, se si va a leggere il dizionario o anche la legge 457, non si parla ci "conservazione" del bene, ma di ripristino dello stesso! Nelle soprintendenze si conosce solo l'idea di conservare (male), mai quella di "rimessa in vita" che il termine restauro prevederebbe.

Ettore Maria Mazzola

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31 ottobre 2010

RIGENERARE LE PERIFERIE URBANE

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22 ottobre 2010

DALLA PERIFERIA SUBURBANA ALLA ECO-CITTÀ GIARDINO



AVOE
A VISION OF EUROPE
Università degli Studi di Ferrara
Facoltà di Ingegneria Via Saragat 1.

Seminario sulla Trasformazione delle Periferie in Eco-Città Giardino Casi di Studio Europei e Statunitensi
DALLA PERIFERIA SUBURBANA ALLA ECO-CITTÀ GIARDINO.

RICOSTRUIRE CORVIALE: 500 MILIONI DI EURO DI GUADAGNO PER L’ENTE PUBBLICO, 300 MILIONI PER IL PRIVATO E HOUSING SOCIALE PER 6500 PERSONE. RILANCIO DELL’ECONOMIA ITALIANA IN 4 ANNI

Due progetti di abbattimento dell’ecomostro e ricostruzione del Nuovo Corviale di Roma, pronti e completi di piano di fattibilità, presentati oggi all’Università di Ferrara, facoltà di Ingegneria. Nel corso dell’evento DALLA PERIFERIA SUBURBANA ALLA ECO CITTÀ GIARDINO (organizzato da AVOE, Università di Ferrara e Gruppo Salìngaros), i progetti degli architetti Ettore M. Mazzola e Gabriele Tagliaventi offrono una prospettiva innovativa all’economia nazionale e accendono il dibattito politico, alla presenza di vari amministratori pubblici.

I progetti (una piccola ecocittà giardino da 20000 abitanti nel progetto di Tagliaventi e un borgo tradizionale ispirato a S. Saba da 8500 abitanti quello di Mazzola), sono stati presentati con un solido corredo di dati numerici accuratamente documentati che dimostrano non solo la fattibilità economica ma la redditività altissima per le casse dell’ente pubblico e dei privati coinvolti nell’operazione, oltre alla possibilità di assegnare gratuitamente dei nuovi alloggi ai legittimi assegnatari dell’edilizia popolare.

Questo può essere l’inizio di una nuova politica urbanistica italiana, con allacci al mutuo sociale, e alla funzione di azienda dell’ATER” ha dichiarato l’on. Teodoro Buontempo, assessore alla casa della Regione Lazio. Gli fa eco Stefano Serafini, direttore della Società Internazionale di Biourbanistica: “Realizzare questo progetto pilota avvierebbe la soluzione del problema delle periferie italiane, restituirebbe attrattiva, vivibilità e dignità politica al nostro Paese”. “Su questa linea si sta muovendo anche il Comune di San Lazzaro di Savena”, dice l’assessore all’urbanistica di Bologna Leonardo Schippa.

In sintesi questi i dati secondo le due ipotesi di fattibilità economica proposte, da realizzarsi in 4 anni:
- Spesa abbattimento Corviale, 9 milioni di euro;
- Realizzazione di alloggi per nuovi residenti (tra 2000 e 13000), con ricavo tra 50 e 300 milioni di euro;
- Realizzazione di spazi commerciali con ricavo 180 milioni di euro;
- Profitto complessivo del pubblico da 250 a 520 milioni;
- Profitto complessivo dei privati coinvolti da 100 a 300 milioni di euro;
- Realizzazione autofinanziata di housing sociale per 6500 abitanti autofinanziata;
- Realizzazione autofinanziata di un parco, servizi pubblici e attività socializzanti;
- Sviluppo dell’occupazione e dell’artigianato edile della piccola e media imprenditoria locale, con ricadute positive nel settore del restauro del patrimonio architettonico.

A Vision of Europe
Gruppo Salingaros
International Society of Biourbanism
Laboratorio Civicarch Università di Ferrara

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15 ottobre 2010

GREGOTTI VUOLE SALVARE LE VELE DI SCAMPIA!

Leggo nel Riformista che Vittorio Gregotti vuole salvare le vele di Scampia. Dopo il sovrintendente che le vuole vincolare adesso abbiamo il grande architetto che afferma che devono essere completate e “messe sotto tutela”.
Quello del completamento è un refrain che oltre che vecchio e auto-assolutorio, comincia a diventare alquanto malinconico ma il “mettere sotto tutela” l’edilizia sociale pubblica è proprio nuova, almeno per me.
Cosa intenderà Gregotti? Farla piantonare dalla polizia? Oppure mettere insieme squadre di manutentori appositamente costituite allo scopo, a spese nostre naturalmente? Oppure una squadra di manutentori insieme a squadre di assistenti sociali e mediatori culturali? Chissà!
Ad essere sincero mi sembra molto più preoccupante il soprintendente che non l’architetto Gregotti, in cui leggo più una inconscia (o conscia) auto-difesa per interposto progetto, essendo anche lo Zen oggetto di critiche analoghe a quella di Scampia e di qualche sacrosanta proposta di demolizione.

A questo proposito ricordo una lamentela di qualche anno fa in cui si diceva che in Italia non si demolisce mai niente! Non mi riferisco a Gregotti del quale non saprei dire, ma a coloro, ed erano tanti, che lamentavano un certo immobilismo della cultura urbanistica italiana. Naturalmente, ma è davvero un ricordo senza nomi, ci si riferiva all’edilizia privata; quella certamente scadente, talvolta anche abusiva, abusi di necessità il più delle volte senza per questo voler esaltare l’illegalità come un valore, sicuramente anonima quanto ad autore. Però erano case, in cui la gente viveva, spesso frutto di lavoro e di fatiche. Erano case come Scampia (oddio, più che case queste chiamiamole riparo), come Corviale, come Zen, come Laurentino. Perché quelle si volevano demolire e queste no? Cosa hanno in comune questi formicai? Molte cose, ma due in particolare: l’essere pubblici e l’avere un padre con nome e cognome. Le altre erano orfane.

Per costruire il Laurentino leggo che sono state completamente “demolite” le case abusive precedenti. Come fossero quelle case e come fosse l’insediamento nel suo complesso non lo so. Però so che guardando alcune borgate romane, in cui l’edilizia spontanea, nel senso ex-abusiva perché condonata, è sovente intervallata da edilizia progettata e ci si rende facilmente conto che è molto più semplice integrare la prima in un disegno urbanistico che le consenta di diventare città, piuttosto che la seconda, fatta di segni forti dal disegno astratto e scollegato da ogni riferimento al territorio o alla viabilità. Non esiste alcuna possibilità di comprendere questi oggetti dalle dimensioni considerevoli e dalle forme bizzarre in un disegno urbano ragionevole.
Come non esiste alcuna possibilità che un progetto come le vele di Scampia possa diventare accettabile.

Ma i segni forti non devono essere demoliti, quelli anonimi e deboli e recuperabili alla trama urbana sì.
Vorrei fare un’ipotesi per assurdo per sapere quale sarebbe il giudizio dell’architetto Gregotti e di tutti coloro che difendono progetti come questo: mettiamo che le Vele, o il Corviale o analoghi, non fossero case popolari, ma alberghi o residence in qualche località balneare di grande popolarità. Mettiamo pure che fossero mantenute, per ovvi motivi, in buono stato di manutenzione. La domanda è: sarebbero lodate e difese a spada tratta con la stessa forza o piuttosto, in caso di minaccia di demolizione, i nostri non gioirebbero considerandola una conquista di civiltà e una vittoria sulla bieca speculazione?

La domanda è retorica perché la risposta è certa. Se è vero, e sappiamo essere vero, significa che dietro questa difesa non esistono motivazioni oggettive o merito in relazione al progetto, ovviamente, ma una scelta puramente ideologica di difendere se stessi e la propria storia. E’ una scelta di tipo puramente concettuale, perché non conta il prodotto in sè ma conta il contesto storico, politico, culturale in cui il progetto è maturato, è stato progettato ed eseguito, conta l’idea stessa che ha prodotto quel progetto. Conta la storia personale dell’architetto che l’ha progettato e quella collettiva del periodo in cui è nato.
Ad essere sinceri a me della storia personale degli architetti che hanno progettato quella roba lì non interessa proprio niente e certamente non interessa a chi è costretto a viverci.

Per questo motivo chi accusa coloro che ne vogliono la demolizione di scelta puramente ideologica in parte sbagliano ma in parte hanno ragione.
Sbagliano perché quegli stessi edifici, collocati in situazioni ambientali, storiche e culturali completamente diverse sarebbero considerati, giustamente, degli errori architettonici e umani colossali privi di qualsiasi qualità e, dato che non esiste possibilità di un loro miglioramento, l’unica soluzione sarebbe demolirli.
Hanno ragione perché quelli non sono, relativamente agli autori, tanto edifici quanto concretizzazioni di un’idea mostruosa, cioè simboli, e l’unico modo per abbattere quell'idea è abbattere gli edifici stessi. Demoliti quelli, e sostituiti con edifici civili, potrà restare la malinconia e il rimpianto solo per un ristrettissimo gruppo di persone. Ma sarebbe un fatto personale di scarso interesse pubblico.
Non posso credere, mi rifiuto di credere che Gregotti, che ha i suoi meriti, che sa cos’è e come si fa un progetto (l’importante è che non ce lo spieghi) possa ritenere le Vele di Scampia edifici da salvaguardare.
Architetto Gregotti, se le immagini dunque al mare, ad esempio sulla sputtanatissima costa spagnola accanto a centinaia di altri edifici simili, e si faccia un esame di coscienza. Nessuno chiede abiure, ma nemmeno irragionevoli e improbabili difese.

Pietro Pagliardini

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14 ottobre 2010

STRADE- 8°: LÉON KRIER

É la volta di Lèon Krier con due brani tratti da altrettanti suoi libri: Architettura. Scelta e fatalità, Laterza, 1995 e L'armonia architettonica degli insediamenti, LEF, 1995.
Personaggio carismatico per la forza e la tenacia delle sue idee, rispettato anche dai suoi avversari, negli ultimi ha ottenuto molti riconoscimenti e molti successi. In Italia, invece, e non è un caso, trova ostacoli insormontabili all'approvazione dei suoi progetti.
Nei due brani che seguono è assolutamente singolare il fatto che Krier consideri le auto come parte integrante del paesaggio urbano e prescriva precise regole per parcheggi e mobilità, tentando di rendere possibile una civile convivenza tra auto e pedoni. Tentativo difficile ma, secondo me giusto e coraggioso.

LÉON KRIER
Architettura. Scelta o fatalità
Laterza, 1995

....- Bisognerebbe evitare, se è possibile, di spianare le colline, colmare le valli, addolcire le pendenze. Gli elementi distintivi di un sito devono, al contrario, essere valorizzati; il disegno della pianta e del profilo urbano deve mettere in rilievo le specificità del luogo.
- Le strade senza uscita, i sensi unici, dovrebbero essere evitati a ogni costo, salvo per situazioni topografiche eccezionali: promontori, penisole, ecc.

Le forme degli spazi urbani
La forma della città e degli spazi pubblici non può essere l'oggetto di sperimentazioni personali. Gli spazi pubblici possono costruirsi solo sotto forma di strade (spazi lineari) e di piazze (spazi nodali). Gli spazi pubblici, che siano proporzionali alle dimensioni di una grande metropoli o che posseggano l'intimità di uno spazio locale, devono in ogni caso offrire un carattere permanente e familiare, poiché le loro dimensioni e proporzioni si fondano su una cultura millenaria di strade e di piazze. Un'insufficiente quantità e di spazi pubblici è una falsa economia, ma un'eccessiva quantità è un falso lusso.
Gli spazi pubblici non dovrebbero occupare, nel loro insieme, più del 35% e meno del 25% della superficie totale di un quartiere.
Gli spazi pubblici sono articolati in strade, piazze, cortili, passaggi.
I houlevards, i viali, le grandi piazze, i recinti, i giardini pubblici, gli spazi pubblici, i campi per le fiere, i campi da golf, non si trovano all'interno dei quartieri urbani, ma ne costituiscono i chiari limiti.
- La superficie degli isolati diminuisce verso il centro e aumenta verso il perimetro di un quartiere.
- Il limite di un'agglomerazione deve, in genere, essere una passeggiata collegata ai sentieri e alle piste, consentendo così passeggiate circolari nella campagna circostante senza dover usare le strade e l'automobile.

Traffico e spazi pubblici
- Il traffico più intenso non deve attraversare i quartieri, ma essere tangente a questi e alle circoscrizioni; deve essere canalizzato sui grandi boulevards, sui viali, sui parkways, che ne costituiscono i limiti fisici.
- Gli spostamenti veicolari e pedonali richiedono spazi a scale e geometrie differenziate.
- Il controllo della velocità dei veicoli non deve essere regolato unicamente dalla segnaletica (gobbe, coppe rotatorie, semafori, guard-rail, ecc...), ma anche articolando il carattere civile e urbano delle strade e delle piazze mediante la loro pavimentazione, il verde, le luci, l'arredo, l'architettura, la configurazione geometrica, ecc...
- Gli spazi pubblici all'interno del quartiere (le piazze così come le strade) devono presentare un elevato grado di intimità urbana. Gli edifici simbolici devono occupare i luoghi privilegiati, i punti di convergenza delle prospettive urbane. Le differenze di scala, di materiali e di volumi devono essere giustificate dal tipo e dallo statuto civico degli edifici e non devono dipendere unicamente dal capriccio dell'architetto o del proprietario.
- La piazza centrale è riservata ai pedoni.
- Alcune parti della strada principale saranno chiuse al traffico solo per alcune ore.
Il parcheggio degli autoveicoli, parallelo al marciapiede, è raccomandato almeno su di un lato nella maggior parte delle strade.
- I viali pedonali stretti passeranno attraverso gli isolati e saranno collegati tra loro in modo da creare un tessuto coerente all'interno del quartiere, non intralciato dal traffico.
I parcheggi sotterranei devono essere incoraggiati al di sotto degli isolati centrali. I parcheggi multipiani saranno piccoli e dispersi; non avranno fron¬ti su strada o saranno .mascherati da un edificio di 5 metri di profondità contenente uffici o ateliers.
Il parcheggio a corte sarà riservato agli isolati periferici del quartiere.

Zonizzazione policentrica delle funzioni
Le funzioni saranno disposte a scacchiera. Le funzioni residenziali e altre saranno congiuntamente distribuite in ogni isolato, per parcella o per piano. Lungo la strada principale e sulla piazza centrale, le funzioni commerciali saranno situate esclusivamente al piano terra; non saranno permesse al di so¬pra del piano ammezzato e al di sotto del piano terra.
Le piccole e medie imprese e altre funzioni non residenziali e non inqui¬nanti vanno localizzate all'interno del quartiere....

LÉON KRIER
L'armonia architettonica degli insediamenti
LEF, Libreria Editrice Fiorentina, 2009

Io propongo di introdurre i termini di classico e vernacolare in urbanistica e nella progettazione urbana per dare un nome alle diverse geometrie della rete urbana geografica, degli spazi pubblici e della disposizione degli edifici. E’ noto che Le Corbusier contrastò la geometria a meandro della “strada dell’asino” con la rettilineità Euclidea della “strada dell’uomo”. Allo stesso modo, la lingua francese distingue fra “insiemi spontanei” e “insiemi ordinati”. Proprio come se ciò che è spontaneo fosse un fattore di disordine: e che, al contrario, la retta e la squadra appartenessero assolutamente ad una categoria superiore, fossero la razionalità stessa.
Gli insiemi spontanei non sono più “medioevali” di quanto i piani a griglia di ferro siano “moderni”. L’andamento curvilineo non è necessariamente Romantico e quello rettangolare non è automaticamente razionale e privo di arte. L’uso consapevole dei modi dell’architettura vernacolare e classica e la loro combinazione con adeguate geometri di rete, ci permette di creare nuovi insediamenti che competono con i migliori insiemi del passato.
L’armonia architettonica degli insediamenti” concettualizza l’analisi e la manipolazione delle realtà architettoniche e urbane che fino ad adesso sono considerate il sottoprodotto di contingenze socio-politiche piuttosto che una consapevole volontà estetica.


Quadro 2

I tre quadri (esempi storici; prospettive urbane; piani urbani) illustrano le nove possibili combinazioni dell’urbanistica e dell’architettura vernacolare-classica. In realtà, raramente si incontrano esempi puri ma quasi sempre combinazioni delle nove categorie. L’ultimo quadro aiuta a meglio comprendere ed apprezzare i luoghi storici; essi consentono anche di progettare in maniera più consapevole gli ingredienti della grande scala urbana o dei complessi edilizi, armonizzano i nuovi edifici con le posizioni esistenti. In base alle circostanze ci sono giustificazioni razionali  per progettare brevi meandri o aperte vedute rettilinee.
Quadro 2
Ciò che è egualmente certo è che queste richiedono forme architettoniche estremamente differenti. Potete giudicare meglio le varie combinazioni, i dosaggi e l’armonizzazione visitando i luoghi storici e lasciar decidere alle vostre sensazioni. La “qualità del dosaggio” schedata illustra il mio personale impulso e la mia esperienza. Io trovo che generalmente gli spazi pubblici dotati di regolarità geometrica e di parallelismi richiedono un alto grado di ordine architettonico. In generale, l’architettura modesta non è appropriata agli spazi dotati di grande formalità.....

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10 ottobre 2010

VIOTTOLI - 15°: WILLIAM VON STRADEN

4 LUGLIO 2025
Viottoli 15°, William Von Straden


E’ interessantissimo il passo del trattato del Von Straden in cui si fa assertore convinto della necessità del viottolo e della sua pregnanza urbanistica. Sentite cosa dice a proposito del viottolo: “Una città è tutta nei suoi viottoli. Il viottolo è il segno della città, il suo significato intimo e più vero. Cosa c’è nella città al di là del viottolo?

In Von Straden che ha scritto questo trattato nel 1843, c’è già la contestazione della città lecorbuseriana, il presagio della crisi.
Per lui la città si esprime nel viottolo: le piazze, i punti nodali, i viali, i vialetti, le prospettive, tutto si risolve nel viottolo.
E’ un’intuizione che fa pensare...

3 Commenti
Ettore Maria ha detto...
Caro Piero, come sempre hai colto in maniera magistrale in questo tuo bellissimo Post l’essenza dello spazio e il significato della città.
Proprio ieri ho condotto i miei studenti per i viottoli dell’agro romano e si sono tutti esaltati per l’esperienza pregnante di quelle strutture viarie.
Ti manderò quanto prima i loro bellissimi schizzi.
Grande! Come sempre! Complimenti.
A presto, Ettore

Pietro Pagliardini ha detto...
Caro Ettore, mi fa piacere che tu abbia colto il significato, il grande valore del viottolo.
Pensa che nella mia città c’è un tale Architetto, l’estensore del regolamento urbanistico, che ha regolamentato i viottoli uno per uno, suddividendoli in 9 categorie diverse a seconda del fondo viottolare, dei raggi di curvatura etc. e prescrivendo per ogni tipo di viottolo le percorrenze e la cadenza del passeggio.
Gli manderò gli schizzi dei tuoi studenti!
Pietro

Anonimo ha detto...
Viottoli?
Walter Forst Whithmahnn ha scritto su questo tema pagine memorabili di grande poesia, dove l’essere umano si trascende, dove la realtà si apre a nuove esperienze:
Viottolo, viottolo, viottolo!
Ti percorro, ti rincorro, ti traverso...
Nel viottolo mi perdo e di lì più non ritorno...

Vilma

P.S.: Questo testo è chiaramente uno scherzo, e un regalo di compleanno, perpetrato da Giulio Rupi ai danni miei e di un paio di "clienti" e che io ho riproposto tal quale, in attesa di avere il suo permesso a farlo, che do per scontato arriverà. Ogni tanto vale la pena prendersi e prendere in giro.

Speriamo che Ettore e Vilma, se mai avessero più voglia di lasciare un altro commento, non si inibiscano pensando: "...ma adesso quello mi rifà il verso e quell'altro dopo lo pubblica pure!".
Non potrà accadere più: i sessanta anni arrivano una volta sola.
Pietro

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3 ottobre 2010

STRADE - 7°: FRANCESCO FINOTTO SU KARL HENRICI

Francesco Finotto è l’autore di La città aperta, Marsilio, 2001, che pone l’Ottocento al centro dei suoi interessi come il secolo in cui si pongono le basi dell’urbanistica moderna. I brani riportati nel post illustrano e commentano la teoria dell’urbanista tedesco K. Henrici (1842-1927).


FRANCESCO FINOTTO


Il pittoresco come bello relativo
Henrici non riteneva accettabile il sentimento di impotenza, la sfiducia nei confronti del pittoresco: certo ad incollar facciate pittoresche sulle piatte strade moderne, oppure ad accumular facili arredi sulle strade si otteneva solo un ridicolo ammasso di ornamenti. Il pittoresco inteso come accentauzione dei contrasti, parcellizzazione delle forme, vivacità dei contorni era solo una ricetta, che spiegava ben poco. Ma non c’era ragione per continuare ad imitare l’arte italiana o quella francese nella disposizione degli spazi urbani: bisognava riprendere la pura, antica arte tedesca, con il cuore, il sentimento e la pratica. Il pittoresco non sarebbe più stato inattuale se divantava nazionale. Se invece di utilizzare il sistema moderno di costruire le città, che appiattiva le diversità, si fosse fatto ricorso alla tradizione storica. Valorizzata in tutti i modi la diversità dei luoghi: ci si aspetta di vedere in Italia e Grecia qualcosa di diverso che in Germania; in montagna qualcosa di differente rispetto alla pianura.

Il pittoresco non è l’accumulo casuale dei detriti della storia, né il mero effetto dell’azione del tempo. In realtà il pittoresco non è altro che il bello relativo. Non quello ideale, che si può evocare con la pittura o la scultura, arti prive di scopo immediato, autosufficienti, che valgono per sé. Il pittoresco è il lato piacevole dell’architettura, che commuove il popolo e suscita l’amore per la patria.
L’arte di costruire la città, o di fare i piani urbanistici, non consiste infatti nella produzione di un oggetto in se stesso compiuto. L’impianto di una città è un oggetto di uso comune: “La completa corrispondenza allo scopo rende ogni oggetto di uso comune anche bello, e la bellezza pienamente adeguata allo scopo è il fine del’arte di costruire la città” (1). Il pianificatore deve conoscere i mezzi e i modi per determinare gli effetti di bellezza, deve possedere le capacità di prevedere gli effetti spaziali del suo piano.
Bisognava allora andare avanti nel tentativo di mettere in piedi una grammatica della visione che rendesse accettabile il volto della città moderna; continuare lo sforzo di oggettivare rapporti, regole, dimensioni, armonie in un mondo dove la modernità stava frantumando tutti gli spazi: annientando le differenze visibili, sterminando gli oggetti, disintegrando i contesti, dando per scontata una cultura della visione oggettiva, che prescindesse dalla commutazione di tutti i significati.
Si passa allora dalla meccanica dell’emozione degli architetti illuministi alla retorica della visione dei teorici tedeschi: dall’eloquenza degli spazi infiniti alla dialettica degli spazi chiusi. Ormai non si tratta più di impressionare, comunicare sensazioni, suscitare timore, sorpresa o entusiasmo: si deve solo poter vedere. Tutti gli oggetti sembrano più piccoli quando ci si allontana (2). Le prospettive interminabili, con il monumento trattato come point de vue, così care ala poetica del sublime, diventano noiose. Buone solo per lo sguardo miope che si accontenta di facili impressioni………
Bisogna andare oltre alla teoria della successione delle piazze. Concepire la strada stessa come una successione di fondali, che frantumano la prospettiva illimitata: che articolano le masse, imprimono ritmo, variano la luminosità, graudano luci e colore.

La razionalità delle strade concave
Ma come fare per non cadere nell’occasionale, nell’arbitrario? Che cosa garantisce la razionalità del disassamento stradale? Semplicemente la teoria dell’incrocio.
Nelle città storiche gli isolati arrivano agli incroci con gli angoli retti, e compensano il disassamento delle strade mediante la piegatura dei lati. In questo modo il mancato parallelismo delle strade viene assorbito nei cortili, negli spazi interni, non produce deformazione negli edifici. Nei lotti ciò che conta è l’angolo retto e la forma allungata della figura. In questo modo si facilita la suddivisione dello spazio e la costruzione degli edifici. Infatti, sia l’angolo acuto sia quello obliquo creano numerose difficoltà costruttive: non sono graditi in architettura. Inoltre la figura allungata garantisce maggior superficie, più fronte stradale, e quindi minori costi d’urbanizzazione, con lo stesso numero di angoli.

Come la teoria del’archetipo spaziale garantisce a Sitte un fondamento di razionalità nell’analisi delle piazze così la nuova teoria dell’incrocio consente a Henrici di dimostrare la razionalità delle strade curve e rendere evidente l’irrazionalità di quelle rettilinee. L’isolato tradizionale, prodotto dalla successione di singole case a schiera, pur incorporando notevoli asimmetrie non abbandona mai la regola aurea dell’angolo retto. L’isolato moderno, prodotto dall’intersezione tra il rettifilo e la strada diagonale, diventa un mero residuo triangolare. É pertanto irrazionale un allineamento che per garantire il rettifilo taglia glia gli angoli e produce isolati triangolari,. Inservibili in architettura; è razionale invece l’allineamento che tiene fermi gli angoli retti e muove i lati, alternando concavità a convessità. In fondo fino a quando l’allineamento è stato inteso come servitù è sempre prevalsa la scala architettonica: gli arretramenti o avanzamenti imposti agli edifici non cancellavano la sinuosità dei percorsi. Quando è comparsa la teoria dell’allineamento come ricostruzione per isolati, allora si è imposto il rettifilo illimitato. Questa è la ragione fondamentale per cui Henrici si schiera contro l’Umlelung, contro la ricostruzione per zone, inutile scorciatoia che altera i caratteri pittoreschi del tessuto urbano.

La città per parti
Anche per Henrici il disegno dei piani d’espansione inizia con la collocazione dei nuclei monumentali, come per Delay. La città infatti doveva essere suddivisa in parti, ognuna dotata di autonomia e caratterizzata da un addensamento di edifici monumentali, dislocati intorno a piazze. Tuttavia il loro collegamento non doveva essere attuato mediante il tracciamento dei rettifili, ma attraverso la dislocazione di un tessuto stradale differenziato, ramificato, che riproducesse il corso dei grandi fiumi, dove le correnti non procedevano mai nei due sensi; che aderisse ai luoghi, rispettasse gli invisibili limiti delle proprietà, per dar modo di costruire direttamente o di vendere a chi voleva costruire per sé.

Inoltre non bisognava esagerare con gli alberi lungo le strade: condivideva con Sitte l’idea che la bellezza delle strade dipendesse dall’effetto architettonico: era sbagliato fare di ogni strada un’allée, di ogni piazza un giardino. Gli alberi infatti nascondono le facciate, impediscono la percezione unitaria dello spazio, Andvano utilizzati con parsimonia, nei luoghi appropriati, solo lungo certi tratti stradali, e nei giardini interni agli isolati.
Così come andava utilizzato con molta parsimonia il Bauwich, l’obbligo di distanziare tra di loro gli edifici, dal momento che interrompendo la linea di fuga, segmentando lo spazio, si distruggeva la continuità della vista prospettica. L’edilizia chiusa infatti non era meno igienica di quella aperta. Come aveva dimostrato ampiamente Nussbaum: le correnti d’aria hanno una forma ad onda e penetrano in ogni spazio sufficientemente ampio, dunque l’edilizia isolata non gode di nessun vantaggio in termini di ricambio d’aria rispetto a quella chiusa. Casomai nei distacchi s’infiltra più facilmente la polvere della strada. L’edificazione retrostante poteva essere impedita semplicemente indicando dei limiti di massimo inviluppo all’interno degli isolati, in modo da riservare uan certa quantità di spazio ai giardini privati. E come aveva mostrato Retting l’edilizia aperta non era più economica di quella chiusa, ma i risultati estetici erano sicuramente disastrosi. Dunque un conto era promuovere quartieri di ville in periferia per le classi benestanti, e un altro cercare di esportare in tutte le città un sistema costruttivo tipico di altre regioni, imporre attraverso la zonizzazione tipologica un’artificiosa ed ingiusta bassa densità.
Quanto al traffico bisognava evitare gli incroci tra strade principali, risolverli mediante piazze o spazi allungati; le strade secondarie potevano solo sfociare in quelle principali, mai attraversarle.

Henrici dunque si rivela il San Paolo dell’arte di costruire la città. Trasforma il messaggio di Sitte infondendogli una nuova carica. Rivendica la superiorità dell’arte sulla tecnica: nonostante che la scienza del traffico, l’economia politica, la legislazione e l’igiene abbiano stabilito nuove condizioni spetta all’arte far da guida, prendere in mano il timone dei tempi nuovi. Non soltanto i nuclei monumentali , che davano identità a ciascuna parte della città, potevano essere costruiti sulla base della nuova retorica degli spazi chiusi, ma anche le loro connessioni, le strade, dovevano essere tracciate utilizzando io medesimo principio: l’architettura stradale doveva essere concepita come arte di concepire lo spazio, riconoscendo al principio della concavità altrettanta importanza che a quello della convessità nella costruzione delle forme plastiche.

Lo spazio, la luce, i colori sono i materiali fondamentali di quest’arte nobile, che si nutre di sottili trasgressioni, muove le masse, arretra i corpi, innalza le fronti; che davanti all’universalità della modernizzazione afferma l’individualità della storia e del sito di ogni città. Il pittoresco resta il valore guida, ma spogliato dalla patina superficiale, dallo splendore delle guglie e pinnacoli: è un pittoresco strutturale, asciutto, quasi scarnificato nella composizione dei volumi, dotato di un’intima razionalità costruttiva. Henrici mostra così, al di sotto della veste pittoresca, una propensione per lo spazio, per la regola compositiva, che rifiuta l’arricchimento superficiale, considera l’arredo, il decoro una soluzione di ripiego, minore, falsa…..

Note:
1) Woran ist zu denken bei Aufstellung eines Stadtischen Bebauungnsplanes, p.166
2) Beitrage zur praktischen Asthetik in Stadtebau, p.22


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