Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


31 agosto 2009

ELOGIO DELLA NORMALITA'

Questa bella donna qui sotto non è solo una bella donna ma è una buona notizia: si chiama Lizzi (o Lizzie) Miller e il Corriere della Sera la definisce la modella oversize che riscuote un successo enorme negli USA (credo sia apparsa su una copertina di Glamour). La buona notizia è, o sarebbe, appunto questa, il fatto cioè di un ritorno ad un modello estetico più normale, familiare, naturale, umano dopo i fasti della magrezza, della astrattezza corporea, dell’anoressia grave addirittura.
Il post potrebbe finire qui, e sarebbe già tanto, ma quando ho letto la notizia, e soprattutto ho visto la foto, non ho potuto fare a meno di associarla all’architettura e di immaginare non tanto le conseguenze che potrebbe avere, perché non ne avrà alcuna, quanto qualche confronto tra i due opposti ideali di bellezza femminile in atto e quelli tra l’architettura classica e quella contemporanea.


Che vi sia una relazione tra la percezione che la società ha del corpo umano e quella dell’architettura è un dato abbastanza evidente. Basta confrontare architetture di qualunque epoca con dipinti o sculture coeve, per rendersene conto: le Madonne gotiche hanno in genere linee flessuose e slanciate, le figure e le composizioni di Piero della Francesca sono strutturate come autentiche architetture rinascimentali; nel caso poi dell’Eretteo architettura e scultura costituiscono un tutt’uno inscindibile.

E allora questa giunonica, solare, carnale ma imperfetta Lizzi la accosterei alle curve di questa umanissima Chiesa della Salute, un’esplosione controllata di curve e attributi:



Confrontiamo ora i due opposti modelli di bellezza femminile:


Certo, il secondo è un caso estremo ma quello più “comune” non cambia poi molto. Cosa c’è di umano in quell’immagine? Poco, perché siamo nel campo della pura astrazione geometrica, drammaticamente applicata ad un corpo di donna, ridotto a campo di sperimentazione per la “valorizzazione” dei capi che indossa: siamo alle estreme conseguenze (talvolta mortali) dell’uso del corpo umano come strumento di vendita di prodotti di tendenza (mi domando, per inciso, quale superiorità morale possiamo accampare nel condannare i cinesi che sfruttano i lavoratori nel momento in cui noi occidentali facciamo di questo sfruttamento un fenomeno da star e quindi da imitare).

Il prototipo architettonico che si presta a questo ideale di bellezza potrebbe essere il seguente:


Mi sembra che la poetica da era post-atomica dello scheletro sia anche qui portata alla estreme conseguenze.

Il contrasto, non solo stilistico, tra due concezioni dell’architettura l’ho rappresentato con queste due immagini accostate:


Da una parte una cupola, quella di Sant’Ivo alla Sapienza, in cui il dinamismo e la "trasgressione" delle regole sono impostate su una complessa simmetria (o euritmia, come spiega Guido Aragona su questo post del suo Bizblog), dall’altra un edificio spigoloso, scontroso, enfaticamente asimettrico e senza la riconoscibilità dei singoli elementi architettonici; quali le pareti e quale la copertura? E come saranno i solai? Non ha nemmeno senso domandarselo perché non c’è, in questo tipo di architettura, alcuna figurabilità (imageability) e quindi nessun riferimento, anche lontano, alla natura e alla figura umana. Pensare che Bernini ha scritto del Borromini: "non fonda le proporzioni sul corpo umano... ma sulle chimere"!

E viene a proposito un bell’articolo su Il Foglio di sabato scorso scritto da Roberto Persico su un libro di Clive Staples Lewis, Quell’orribile forza, Adelphi,1999, che Persico definisce “una celebrazione della bontà della carne e della vita quotidiana”. C’è un brano che ha attinenza con l’argomento:
Il programma per la distruzione del «sistema delle preferenze istintive» prevede a un certo punto il soggiorno in una stanza in cui tutto, proporzioni, colori, quadri alle pareti, è strano, storto, squilibrato: l’allievo deve imparare che le vecchie prospettive a cui è abituato o queste nuove sono equivalenti. Ma proprio qui avviene la svolta: «Dopo circa un’ora, quella bara alta e stretta che era la stanza cominciò a produrre su Mark un effetto che il suo istruttore forse non aveva previsto. Come il deserto insegna per la prima volta ad amare l’acqua, o come l’assenza rivela per la prima volta l’affetto, su quello sfondo sgradevole e distorto si sovrappose una visione di ciò che è dolce e retto. A quanto pare esisteva davvero qualcos’altro - qualcosa che egli definì vagamente il Normale. Non ci aveva mai pensato prima, e invece eccolo lì – solido, massiccio, con una propria forma, simile a ciò che si può toccare o mangiare o di cui ci si può innamorare. Era un miscuglio di Jane, di uova fritte, di sapone, di sole, di corvi gracchianti a Cure Hardy, e del pensiero che fuori di lì, da qualche parte, in qualsiasi momento, c’era la luce del giorno». E Mark prende la sua decisione: «Sceglieva la parte con cui schierarsi: il Normale. Se il punto di vista scientifico conduceva lontano da tutto quello, al diavolo il punto di vista scientifico!».

Contro una visione anoressica dell'architettura, e soprattutto dell'umanità, questa foto:



Pietro Pagliardini

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29 agosto 2009

L'ARTISTA IMPRENDITORE

Pierre Sauvanet, in Elementi di estetica, Il Mulino 2009, così descrive l’evoluzione della condizione dell’artista avvenuta tra l’800 e il ‘900:
È dunque per progressiva derivazione che la parola «artista» si è estesa alle altre arti oltre che alla pittura e la poesia. Ciò facendo, ha portato con sé in tutte le arti il suo seguito di significati simbolici: vocazione, bohème, artista maledetto, ispirazione, genio, follia, malinconia, eccetera.
La sociologa Nathalie Heinich distingue tre, anzi quattro fasi nell’evoluzione dello status dell'artista: mestiere, professione, vocazione, e vocazione accentuata in regime di singolarità. Per la prima fase, quella del mestiere, le stesse parole «arte» o «artista» non esistono; gli artigiani pittori del Medioevo appartengono a una corporazione e sono relegati ai gradi più bassi della scala sociale. La seconda fase, quella della profes¬sione, corrisponde a una volontà di emancipazione dell'artigianato, e di riconoscimento dell'arte come arte liberale.



Quanto alla vocazione come terza fase, appare verso il 1830 (con il termine «apprendista»), si conferma alla fine del XIX secolo (in particolare con la figura di Van Gogh) e non fa che affermarsi nel secolo seguente (in particolare con la posizione di Duchamp): gli artisti evocano ora il primato della vocazione sull'apprendistato, dell'innovazione sulla tradizione, e del genio sul lavoro. È questo mito dell'artista assolutamente singolare, dapprima associato alla vita da bohème, poi all'originalità a tutti i costi, che, a torto o a ragione, ancora oggi è alla base di buona parte delle nostre rappresentazioni.

L'artista in regime di singolarità moltiplica allora i paradossi: come essere ancora singolare quando l'essere fuori dalla norma diviene la norma? Come sfuggire ai modelli volendo divenirne uno? L'anti-accademismo non è a sua volta un nuovo accademismo? E così via. Da qui, questa logica conseguenza: «L'artista non sarà più colui che produce delle opere d'arte, quanto colui che riesce a farsi riconoscere come artista».

Al limite, la questione dell'artista oggi non è più quella dell'arte, e nemmeno dell'opera, ma quella del riconoscimento. Oggi ad un artista - salvo eccezioni - produrre un'opera durevole interessa meno che essere immedia¬tamente riconosciuto dal mercato fluttuante in una società effimera. Ecco per esempio cosa rispondevano rispettivamente l'austriaca Elke Krystufek e il cinese Cai Guo-Qiang a una domanda della rivista «Beaux-Arts Magazine» all'alba dell'anno 2000 («secondo voi, che cosa significa essere artista oggi?»): «Viaggiare tutto il tempo. Passare più tempo a parlare con la gente che al lavoro. Passare più serate a delle cene d'affari o delle feste che nel proprio atelier»; «significa che bisogna correre alle ambasciate per ottenere nuovi visti, passare la dogana, attendere una sistemazione, prendere aerei, ispezionare dei siti, fare proposte e calcolare budget, tutto ciò sopportando il cambiamento di fuso orario...» [«Beaux-Arts Magazine» 1999, 26]. Si potrebbe dire che l'artista contemporaneo deve comportarsi come il capo di un'impresa, il capo della propria impresa artistica, che porta il suo nome, la sua firma, e che vende i suoi prodotti attraverso una rete internazionale di distribuzione. In ogni caso, essere un artista è divenuto «fare l'artista», cioè essere obbligato a recitare un ruolo, a mettere in scena sé stesso. Per essere riconosciuto, è ridotto alla tautologia: l'artista non fa altro che produrre ritratti dell'artista come artista
”.

Mi sembra una rappresentazione distaccata dell’evoluzione della percezione che l’artista ha di se stesso e del suo ruolo nella società e in cui, sostituendo Architetto ad Artista, si può leggere lo stato dell’architettura contemporanea, di cui la manifestazione paradossale delle archistar è la punta dell’icerberg e il punto di arrivo di un processo iniziato proprio con le avanguardie artistiche.

Le archistar, al pari dell’artista contemporaneo di successo, sono vere e proprie aziende produttrici di progetti che non conterebbero molto in se stessi, se non fosse che, a differenza dei quadri, permangono nel tempo nelle città a inquinarle e, soprattutto, a sconvolgere l'evoluzione disciplinare e l’insegnamento dell’architettura.

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24 agosto 2009

LEON KRIER A FIRENZE SUL PIANO DI NOVOLI

Mi sono occupato di questo incontro di Lèon Krier con i cittadini a Firenze per illustrare il suo Piano di Novoli e confrontarlo con quanto realizzato in altro post.
Sono quattro video di circa 10 minuti ciascuno su You Tube della registrazione effettuata. Nella seconda metà del quarto video c'è una parte del dibattito.








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19 agosto 2009

EISENMANN NON VIVREBBE NELLE SUE ARCHITETTURE

Pietro Pagliardini

Questa mi era proprio sfuggita:Peter Eisenmann non vivrebbe nelle case da lui stesso progettate!
Non è calunnia o faziosa interpretazione ma la sua risposta ad una domanda nell'intervista di Piergiorgio Odifreddi su Repubblica.
Odifreddi non sembra attribuire grande importanza alla cosa mentre chi mette ben in evidenza questa che sembra una contraddizione (ma non lo è affatto) è invece Pierluigi Battista sul Corriere della Sera, con tanto di titolo ad hoc.

Non c'è contraddizione perché è ormai noto che l'architetto modernista (meglio se archistar, attuale e anche quella di qualche tempo fa) progetta per se stesso, nel senso che quel tipo di architettura è funzionale solo alla sua professione, ma vive in belle ed accoglienti case fatte da altri, magari anonimi capomastri o architetti, trattandosi generalmente di costruzioni antiche!

Mi aspetto sottili distinguo giustificazionisti o negazionisti e commenti sulla rozzezza di questo post!
Ma la verità è rozza o è solo vera?

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18 agosto 2009

ANCORA UNA PREGHIERA DI LANGONE. SU BOTTA

Come vincere la tentazione di un altro link a Camillo Langone su Mario Botta!
Io ci ho provato, ho anche aspettato tre giorni, ma alla fine ho ceduto. Nel caso fosse sfuggito a qualcuno...

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13 agosto 2009

LEGGERO POST DI MEZZ'AGOSTO

Il Direttore de Il Foglio, Giuliano Ferrara, in una risposta ad un lettore sulla chiesa di Fuksas a Foligno, sospese il giudizio riservandosi di andare prima a visitarla. Tuttavia concluse la risposta scrivendo, più o meno: “ però mi sembra imponente…..”. Questo post di ferragosto è una lettera virtuale al Direttore.


*****
Direttore, lei chiude una sua risposta sulla Chiesa di Foligno definendola "imponente .….” e io mi attacco a questi puntini. Definizione di imponente: “che si impone all’attenzione per la propria grandezza, maestosità o potenza”. Quale scegliere tra i tre attributi? Al massimo direi l’ultimo, la potenza, come constatazione del fatto che “si impone” per la sua forma in rapporto alle dimensioni e per l’uso del materiale, il cemento armato, che è potente per natura.
E’ potente come le torri di raffreddamento delle centrali nucleari o i caveau delle banche, è potente per la sua semplicissima e, allo stesso tempo, inconsueta forma cubica e fuori scala rispetto a tutto ciò che sta intorno.

E’ la potenza della geometria astratta che si materializza nella realtà, al pari delle piramidi dice qualche entusiasta, con la non insignificante differenza che quelle rappresentano il punto di arrivo, anche tecnico, di una tradizione costruttiva millenaria , sono intimamente legate all’idea di morte degli egizi ed espressione della conoscenza geometrico-astronomica di una civiltà di circa 5000 anni fa e, soprattutto, sono montagne artificiali, luogo di contatto tra la terra e il cielo, come dice Norberg-Shultz. Ma oggi non ci stupisce più la costruzione di un cubo, di una sfera o di una piramide come, ad esempio, quella del Louvre, che non ci ha certo stupito per la sua tecnica ma per il fatto di essere stata collocata in quel determinato contesto. Né è in grado di stupirci questo para-cubo (è un parallelipedo, in realtà) con la sua rude e ordinaria tecnologia, dovuta tra l’altro agli ingegneri più che all’architetto, e neppure il simbolismo del cubo che, da solo, non appartiene al cristianesimo ma ad altri culti.

Se questo edificio ci trasmette un’idea di potenza maggiore di quella di un inceneritore, del quale richiama la poetica, questo deriva dal fatto dell’essere noi informati, senza capirlo però istintivamente, che esso è un luogo di culto cattolico. Poiché la forma è impropria e inusitata per una Chiesa, ci meraviglia e si impone all’attenzione, cioè è potente. Dunque l’unica potenza vera che esprime è quella comunicativa e mediatica in base alla quale lei ha scritto, io sto scrivendo e centinaia di altri hanno scritto, non importa se bene o male. E’ la potenza del suo autore e del sistema di cui egli fa parte che “si impone” all’attenzione dei media e che spingerà anche lei ad andare a visitarla. Siamo nel campo dell’effetto Bilbao che evidentemente ha fatto breccia anche nelle gerarchie cattoliche. Spogliata di questa componente essenziale, la Chiesa di Foligno non è una Chiesa cattolica e forse nemmeno cristiana.

Quando varcherà quella lunga feritoia che è la vetrata d’ingresso da supermercato anche lei, pure così “imponente”, dovrà abbassare la testa e piegare la schiena stringendosi nelle spalle, non per il rispetto dovuto alla sacralità del luogo, ma per la paura che quella giacobina lama di ghigliottina in c.a. possa improvvisamente scivolarle addosso e ridurla a ben più misere proporzioni. E una volta entrato esiterà nel procedere sotto quella cappa di camino in c.a., da super-villa hollywoodiana, sospesa innaturalmente in aria e incombente, anche quella, sulla testa dei fedeli, anzi fedelissimi, e una volta entrato…..questo non lo so perché, non essendoci stato, non posso prevedere quali sensazioni o emozioni possano eventualmente provocare i decantati effetti di luce.

Ma il deambulatorio idealmente tracciato intorno alla cappa non è, nell’atto necessario del sostare, nemmeno una lontana metafora del dantesco Purgatorio, perché mi risulta esserci in quel luogo l’attesa bramosa di entrare in Paradiso mentre qui temo vi sia la titubanza, se non la paura, di avanzare, per non fare la fine di Peppone intrappolato sotto la sua campana comunista e poi salvato dalla potenza, non solo fisica, di Don Camillo.

Questo edificio suggerisce un movimento esattamente contrario a quello delle Chiese a noi familiari, perché si esprime per linee di forza che agiscono verso il basso, che tendono a schiacciare e ad opprimere, non a elevare e liberare(1). Sembra un luogo di culto per un Dio vindice e non per un Dio fattosi uomo per annunciare la vita eterna; è un Dio che comunica paura e non speranza, timore e non amore.
Dunque più che “imponente” a me sembra più adeguato l’aggettivo “incombente”.

A meno che, una volta entrati sotto la cappa sia talmente forte il senso di elevazione, l’idea di essere aspirati in alto, come i fumi nel camino dell'inceneritore (e se riuscirà ad aspirare lei è probabile che lo faccia con quasi tutti i comuni mortali), da suggerire la metafora di un cammino dalla dolorosa vita terrena a quella eterna. In fondo una sola "m" divide il cammino dal camino.

Ma anche in questa ipotesi, che si potrà verificare solo di persona, permane la visione di una vita su questa terra non propriamente gioiosa. Sarebbe comunque meglio di niente.


1) A onor del vero, il Vescovo di Foligno Monsignor Gualtiero Sigismondi, ha detto all'apertura della Chiesa: "In alto i cuori: questo è l'appello che la nuova "casa della Chiesa", realizzata su progetto di Massimiliano e Doriana Fuksas, rivolge a chiunque vi entri". Mi viene il dubbio che avesse già preparato il discorso prima di visitarla! O forse mi sbaglio io...

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11 agosto 2009

VOTATE CONTRO LO SPRAWL!!!

Votate contro lo sprawl!!! Proprio così, votate on line in un concorso di urbanistica con varie proposte per le periferie.
Andate in questo sito, REBURBIA, e votate uno dei progetti.
Io consiglio questo progetto di Galina Tahchieva dello studio DPZ, cioè Duany Plater-Zyberk.
Lo so che mi tradirete ma non importa, almeno guardatelo e non fate i furbi, non tentate di mettere più di un voto, non funziona.
Il concorso è vero, con tanto di $ in premio (per il vincitore, non per i votanti).
Chissà quante bocche farà storcere ma a me decisamente piace. Una menzione merita anche il sito Veritas et Venustas che lo segnala.

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10 agosto 2009

ZAHA HADID SECONDO GREGOTTI

Pietro Pagliardini

Non sono un appassionato di Vittorio Gregotti, soprattutto non lo sono del Gregotti simbolo di una stagione dell’architettura legata intimamente alla politica; mi suona sempre stucchevole il suo rimpianto dei bei tempi (per lui) che furono, del suo snobistico atteggiamento di superiorità antropologica nei confronti di coloro che sono condannati a vivere nel suo Zen. Non può piacere a nessuno il Gregotti dell’ormai famosa intervista delle Iene e anche se quell’atteggiamento è largamente condiviso, nella quotidianità, da molti architetti questo non costituisce attenuante, a maggior ragione in un architetto di successo in ogni campo, anche se, a differenza di altri, il Gregotti progettista ha indubbiamente qualità e meriti.
Ma Gregotti ha molte sfaccettature e questa volta è riuscito a sintetizzare la condizione dell’architettura contemporanea con pochi tratti di penna, contrariamente alla sua abituale, tortuosa prosa che gira intorno ai problemi senza stringerli. E’ di qualche giorno fa sul Corriere della Sera un articolo su Zaha Hadid che è esemplare nel tratteggiare il carattere non solo dell’archistar irachena quanto di quel mondo della “architettura” globale, in ogni senso, che ha in Rem Koolhaas il suo geniale e disinvolto vate.
Dice Gregotti, con uno stile insolitamente efficace:

La nostra fortuna ……..è che (l' architetto?) Zaha Hadid ha costruito poche cose, in rapporto alla sua rutilante attività di illustratrice ed al minaccioso numero dei suoi progetti. Perché i suoi disegni, in uno stile che ricorda la fascinazione dell'idea di aerodinamica che ha travolto molti grafici e mobilieri, specie americani, negli anni post art déco (e che non ha niente a che vedere con i grandi artisti russi suprematisti e costruttivisti e con i loro ideali utopici), non possono che definirsi illustrazioni; né pittura, né scultura, né tanto meno architettura”.

E continua:
In quanto aderente alla tesi della «liquefazione» delle arti all' interno della multimedialità ed alla loro «coincidenza» con l'immagine intesa come comunicazione riproducibile, le sue illustrazioni hanno la pretesa di fondare un gusto figurativo la cui bizzarria è tutt' altro che gratuita. Ma che, invece, rappresenta bene le necessità di singolarità di forma indispensabile al commercio di ogni oggetto di consumo e la sua coincidenza con il conveniente successo del soggetto «creativo», come oggi si definiscono quasi tutte le attività. Peraltro, poiché le merci sono anche immateriali, esse comprendono anche la loro configurazione immaginaria come merce. Quindi, quando tutto è immagine e obbligatoriamente «estetico», niente è più distinguibile, né giudicabile. Abitabilità, ordine, costruzione, relazione con il contesto, senso della storia in generale e di quella dell' architettura in particolare, responsabilità civili e di disegno urbano sono i principali nemici delle illustrazioni progettuali di Zaha Hadid. Piuttosto che il nuovo fondato sulla differenza, esse sono il ritratto della sua definitiva dissoluzione per far posto ai mondi stellari di Flash Gordon. Tutto deve essere curvo e sghimbescio: aerodinamico, appunto. Non si tratta solo di oblio della tradizione classica, gotica del progetto europeo, ma anche di quella islamica o indiana, cinese o persiana. Futuro assoluto, sospeso al di sopra del suolo e di qualsiasi miseria umana?”.

Viene qui colta la caratteristica di indifferenza alla realizzabilità dei progetti di Zaha Hadid, il loro non appartenere al campo dell’architettura ma appunto dell’illustrazione e della pura immagine, capaci di avere influenza sui più disparati prodotti e perciò stesso indifferenti ad ogni contesto e totalmente svincolati dal luogo. I “progetti” di Zaha Hadid sono in fondo manifesti che si riproducono sempre simili a se stessi e che svolgono, nella loro ossessiva ripetitività, la funzione di creare un’immagine adatta ad ogni tipo di merce. Contrariamente a Koolhaas però, che è pura griffe vivente di se stesso e delle aziende che avvicina e i cui progetti contano poco ai fini della ripetizione da parte di seguaci ed emuli, quelli della Hadid esercitano una fascinazione sugli architetti e producono ricadute reali sul territorio, come osserva anche Gregotti nel suo articolo. Koolhaas è il teorico, Hadid è l’esecutrice. Koolhaas crea eventi chiusi in sé ma che contribuiscono a fare marketing pubblicitario per l’azienda e per se stesso, in un rapporto sinergico di straordinaria amplificazione del messaggio difficilmente spiegabile in maniera razionale, Hadid “illustra” forme, crea modelli riproducibili poi nelle scarpe, negli orologi, nei mobili, negli arredi dei negozi, negli accessori, nel design.

In questa capacità di stare sul mercato delle merci e di influenzarlo in maniera così pervasiva io ci vedo genialità e spregiudicatezza e non solo non ne sono scandalizzato ma piuttosto ammirato, invece quello che mi sconcerta è la creduloneria di architetti e critici vari nel discorrerci sopra, quasi fosse architettura, e nel coglierci “nuove spazialità”. Questo fatto dà il senso della crisi dell’architettura, confusa ed assimilata in maniera grossolana ad una merce qualsiasi, mentre l’architettura e la città hanno carattere di permanenza (che non vuol dire immobilità) e non di provvisorietà ed è una contraddizione che la nostra laicissima e secolarizzata società si perda in maniera fideistica, idolatrica ed irrazionale nel culto di personalità cui viene attribuita un’aura magica capace di trasformare, si suppone in meglio, il nostro ambiente e le nostre città.
Non si tratta di magia ma di illusione e Gregotti ha contribuito a svelarne il trucco.

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7 agosto 2009

CAMILLO LANGONE: PREGHIERA DEL 6 AGOSTO

UN LINK ALLA PREGHIERA DEL 6 AGOSTO DI CAMILLO LANGONE SU IL FOGLIO.
VI SI RACCONTA DI UN ARCHITETTO DI PARMA,
ANDREA PACCIANI, IL CUI SITO E' IN TESTA AI MIEI LINK

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4 agosto 2009

LA CHIESA DI FUKSAS A FOLIGNO

Giulio Rupi

Strani tempi i nostri, in cui il concetto di natura viene stiracchiato dal Politica-mente Corretto verso direzioni opposte e contraddittorie, a seconda delle convenienze del momento.
Da una parte, se ci si dispone a discutere di bioetica e di diritti civili, guai a tirare in ballo la natura e il diritto naturale: nell’uomo tutto è cultura e artificio, fin nelle differenze di genere tra maschio e femmina.
In questo campo il richiamo al diritto naturale come unico baluardo della libertà della persona nei confronti delle leggi della città viene considerato un argomento reazionario volto a bloccare qualsiasi evoluzione e autonomia dell’uomo.


Sull’altro versante, secondo i fondamenti dell’ecologismo, qualsiasi intervento artificiale, cioè eseguito dall’uomo (l’uomo: “il cancro del pianeta”) a modifica della natura aumenta il degrado entropico ed è un atto profanatore della divinità pagana di Gaia, un’entità in sé perfetta in cui la venuta dell’homo sapiens ha sconvolto ogni equilibrio, oltrepassando il punto di non ritorno verso la propria autodistruzione.

In Architettura le cosiddette Archistar, che producono oggetti di design anziché edifici, che progettano torri storte e sbilenche son certo da ascriversi al primo atteggiamento, quello del rifiuto di ogni riferimento alla natura.
Ed è questo il discrimine tra la tradizione architettonica di sempre e questa mo-dernità: la perdita del riferimento alle forme della natura, forgiate dalla forza di gravità e secondo le forme della crescita dettate dalla necessità dell’adattamento.
La primordiale capanna, al pari di una pianta secolare, si costruiva su solide fondamenta (come le radici della pianta), si erigeva sulla verticale a contrastare la gravità (come il tronco) e si concludeva in alto con un tetto a punta o a cupola a dialogare con il cielo (come la cupola trasparente di una querce o la punta svettante di un cipresso). Così un bambino disegna una casa: un segmento orizzontale, due segmenti verticali, due segmenti inclinati e convergenti.

Così per millenni, fino a quando Le Corbusier disse che odiava la confusione dei tetti dei centri antichi e che si dovevano demolire per sostituirli con delle coperture piane praticabili e che gli edifici dovevano alzarsi da terra per poggiarsi su pilotis, lasciando libero il suolo. Alla capanna poggiata sul terreno si sostituì il cubo librato nell’aria e l’edificio perse la sua funzione di mediatore tra la terra e il cielo.

Ma non fu solo questa la discontinuità del Moderno. Nella tradizione quel “pog-giarsi, levarsi, concludersi” non si limitava all’intero edificio ma si ripeteva ad ogni scala, in ogni finestra ben riquadrata, nel portale di ogni chiesa, così come nella pianta la forma totale si ritrova nella forma dei rami, fino alle venature delle foglie. E anche nell’edificio questo ripetersi ad ogni scala partiva dalla scala più minuta, perche le superfici non erano lisce e disadorne, ma articolate nella tessitura minuta del materiale e arricchite dalla decorazione.

Fino a quando Le Corbusier proclamò la sua devozione per le superfici di liscio cemento e per la somma di partizioni tutte uguali anziché per l’articolazione dell’autosomiglianza a tutte le scale.
Invece, comunque la pensi Le Corbusier, il disagio istintivo che ogni persona sensibile prova di fronte alla parola cementificazione non deriva dall’idea dell’aggregazione di nuovi volumi a una città compatta, ma dalla repulsione per le superfici di questi volumi, superfici vergognosamente lisce, opache, amorfe, non decorate che questo materiale evoca, con il richiamo ovvio e giustificato alla recinzione dei lager.

E veniamo infine alla “Casa di Dio”, dove la figura del levarsi lungo la verticale conta più che in ogni altro luogo perché assume per ogni religione un valore simbolico di evocazione della possibile ascesa dell’uomo a stati superiori dell’essere.
Così, ad esempio, nella chiesa romanica, le navate e il transetto individuano uno schema a croce che rappresenta il percorso terreno, definito dai quattro punti cardinali. Ma questo percorso converge sul punto centrale, su cui sta l’altare, cioè il punto focale del piano terrestre da cui si erge la verticale, quella verticale che attraversa la cupola nel suo punto più alto e raggiunge la cupola del cielo, dal microcosmo al macrocosmo.

Il significato di questa ascensione è rappresentato dalla dialettica tra le colonne (la terra) e le soprastanti volte o cupole (il cielo) e una Casa di Dio che non esprima, sia all’esterno che all’interno, questo valore ascensionale, è l’espressione di una religiosità che ha dimenticato la possibilità, per l’uomo, di salire su questo asse verticale. Ma questi concetti figurali valgono non solo per le chiese cristiane, valgono per la pagoda buddista, per i minareti delle moschee e per i templi di ogni religione.

Vediamo adesso, da tutte queste premesse, di progettare una Casa di Dio che realizzi l’esatto contrario di ognuno di questi principi, i principi attraverso i quali, da sempre e in ogni religione, si è tentato di raffigurare il rapporto tra l’umano e il divino.
Per eliminare ogni accenno alla verticalità ascensionale togliamo del tutto quella parte dell’edificio che simboleggiava il rapporto tra terra e cielo, la copertura a cupola, a tetto, a pagoda o che altro e chiudiamo il dialogo con una copertura piana.
Per eliminare anche dalle pareti dell’edificio questo rapporto, realizziamo pareti che sia all’esterno che all’interno, siano lisce, senza alcuna tessitura, con portali di ingresso e feritoie casuali, dettati dal design e senza accenni di verticalità, appunto pareti cementificate.
Avremo così una immagine esterna e uno spazio interno in cui viene esclusa qualsiasi possibilità di percepire, di intuire quel cammino ascensionale per via simbolica, cioè attraverso delle mediazioni materiali, umane, quali sono gli edifici, le immagini, i rituali, i simboli.

Questo è la Chiesa di Fuksas a Foligno, e la Religione che l’ha prodotta ha evidentemente perso ogni capacità di proporre ai suoi fedeli quel cammino verticale di salita verso il cielo.


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28 luglio 2009

LE CORBUSIER E LO STORICISMO

Questo post è un commento ad un articolo di Vilma Torselli su www.artonweb.it che si riferisce al precedente post di E.M.Mazzola, Dietro il modernismo.
Per una lettura del post è assolutamente necessario leggere prima l'articolo di Vilma Torselli.


*****
L’articolo inizia con una citazione di Karl Popper e io, furbescamente, utilizzerò Popper stesso per rispondere e cercare di smontare alcune affermazioni.
Popper dice: “La storia non ha nessun senso, siamo noi che le diamo senso”. Presa da sola,questa frase potrebbe significare l’assoluta indeterminatezza di ogni teoria storica dato che si potrebbe supporre esserci una storia per ogni individuo e dunque sarebbe inutile l’esistenza stessa del concetto di storia, dovendosi parlare piuttosto di “storie”. Le cose non stanno esattamente così: Popper fa una critica serrata allo storicismo ma non afferma l’impossibilità di leggere e interpretare la storia, piuttosto quella di “predirla”.

Dice Popper:

"a) Il corso della storia umana è fortemente influenzato dal sorgere della conoscenza umana….

b)Noi non possiamo predire, mediante metodi razionali o scientifici, lo sviluppo futuro della conoscenza scientifica…..

c)Perciò non possiamo predire il corso futuro della storia umana.

d)Ciò significa che dobbiamo escludere la possibilità di una storia teorica cioè di una scienza sociale che corrisponda alla fisica teorica. Non vi può essere alcuna teoria scientifica dello sviluppo storico che possa servire di base per la previsione storica.

e)Lo scopo fondamentale dello storicismo… è quindi infondato. E lo storicismo crolla".


E la dedica del libro “Miseria dello storicismo” è la seguente:

"In memoria degli innumerevoli uomini, donne e bambini di tutte le credenze, nazioni o razze che caddero vittime della fede fascista e comunista nelle Inesorabili Leggi del Destino storico".

Ma c’è di più: Popper afferma: “ciò che non esiste è la società. La gente crede invece alla sua esistenza e di conseguenza dà la colpa di tutto alla società o all’ordine sociale…. Uno dei peggiori errori è credere che una cosa astratta sia concreta. Si tratta della peggiore ideologia”.

Cioè esistono gli uomini e non la società e questi agiscono in base alle proprie idee; e queste loro azioni producono conseguenze intenzionali e conseguenze inintenzionali. Sono gli uomini che esistono”. (Giovanni Reale e Dario Antiseri, Storia della Filosofia, Bompiani.

Questa premessa “filosofica” per affermare un dato essenziale: Ettore Maria Mazzola e tutti coloro che come lui, tra cui anch’io, attribuiscono a determinati soggetti, in base alla lettura e all’interpretazione dei fatti, in questo caso a Le Corbusier e alla sua ideologia predittiva che la “società” avrebbe dovuto essere regolata in un determinato modo piuttosto che in un altro, con ciò affermando il suo essere storicista (dato assolutamente coerente con il suo essere vicino alle grandi ideologie totalitarie del secolo breve), la capacità di avere influito fortemente sulla cultura di un secolo e quindi sugli accadimenti urbani, compie un’analisi del tutto lecita e possibile, ma non necessariamente corretta negli esiti, proprio sulla base del pensiero di Popper che è uno dei pilastri del pensiero moderno.

E non mi sembra che E.M. Mazzola attaccando LC voglia prefigurare un modello di società perché non afferma che la “storia” andrà in qualche direzione. Mazzola analizza fatti e ne deduce conseguentemente che il pensiero di LC ha influenzato in maniera determinante il corso dell’urbanistica del secolo breve ma anche di questo secolo, dato che vi sono moltissimi architetti, urbanisti e critici che ne esaltano tuttora le qualità e dato che quel pensiero è ancora forte perché influenza quotidianamente la formazione e il disegno dei piani, a qualunque scala di intervento.

Le azioni e le idee umane, come riconosce Popper e come io credo fermamente, influiscono nel corso degli eventi in maniera intenzionale e non intenzionale e cambiano il corso degli eventi stessi. Questo mi sembra un punto centrale di un atteggiamento non storicistico, non deterministico, che afferma la nostra libertà e che è in linea con la teoria del caos tanto citata da molti architetti quanto poco da essi afferrata. Evidentemente questi si lasciano affascinare dalla sola parola “caos”.

A maggior ragione influiscono le azioni di personaggi che hanno avuto la capacità di “interpretare” istanze e problemi reali presenti nella società (ma dovrei dire popperianamente tra la gente) non in modo scientifico, vale a dire facendo ipotesi da sottoporre poi a verifica o a falsificazione, ma trattando quelle istanze e quei problemi astratti come concreti, cioè agendo secondo “la peggiore ideologia”.

Mazzola non prefigura una nuova società ma, preso atto del fatto che le conseguenze del pensiero e delle azioni di LC non soddisfano, hanno fallito (non certo per quanto si illude debolmente di credere Rosa Tamborrino, cioè per colpa degli “altri”, i cattivi che non hanno fatto servizi ed infrastrutture, che è una palese ingenuità per non dire sciocchezza, dato che non è statisticamente possibile non vi siano piani e aree basati su quel modello che siano completi di quanto essa dice mancare e, comunque, se anche fosse vero, sarebbe la riprova che il modello è sbagliato dato che richiede evidentemente condizioni al contorno non realizzabili) indica una strada diversa che non è una fantasia o la costruzione mentale di un individuo o di un gruppo di individui ma è basata su ciò che esisteva ed esiste e che ha dato ottima prova di sé in passato e che non è affatto detto non possa non darlo nel presente e nel futuro, con le inevitabili correzioni e aggiustamenti dovute ai cambiamenti delle condizioni. Il buon senso, l’atteggiamento scientifico corretto suggerisce che sarebbe opportuno tentare quella strada, invece che rimanere arroccati nella difesa testarda di ciò che è fallito. E’ lo stesso Popper che lo dice (poi uno può non credere a Popper, per carità, ma adesso è il suo pensiero ad essere oggetto di discussione); quella teoria non solo non è stata messa in discussione ma è stata attuata per decenni e il suo fallimento non comporta nessun atteggiamento di cambiamento di rotta. Più ideologico di così….!

Concludo con la teoria del complotto, che non appartiene a Vilma Torselli ma che ad altri fa piacere attribuire a noi (per noi intendendo coloro che denunciano l’esistenza di un pensiero unico, incrollabile, inattaccabile e impermeabile ad ogni modificazione e contaminazione) e che in realtà è la solita cortina fumogena che viene alzata per non discutere criticamente dei fatti che vengono esposti, citando ancora Popper che si è occupato anche di questo:

Le istituzioni e le tradizioni non sono il lavoro né di Dio né della natura; esse sono il risultato di azioni e decisioni umane , e alterabili da azioni e decisioni umane…..solo una minoranza delle istituzioni sociali sono volutamente progettate, mentre la gran parte di esse semplicemente venute su, “cresciute” come risultato non premeditato di azioni umane. La teoria cospiratoria della società consiste nell’opinione secondo cui tutto quel che accade nella società, comprese le cose che la gente di regola non ama, come la guerra, la disoccupazione, la povertà, le carestie, sono il risultato di un preciso proposito perseguito da alcuni individui o gruppi potenti [come i saggi di Sion, i monopolisti, i capitalisti, gli imperialisti]. ……[ma] i cospiratori raramente riescono ad attuare la loro cospirazione ….Poche di queste cospirazioni alla fine hanno successo”.

Mazzola dice esattamente questo, analizza le idee e le azioni di Le Corbusier e ne ricava che esse hanno avuto grandi conseguenze in ambito urbano. Dice anche che LC non era solo, se a bordo del piroscafo c’erano circa 100 persone, che molti non erano d’accordo sulle conclusioni ma che quelle conclusioni sono risultate vincenti. Se avessero vinto gli oppositori, chissà, le cose forse sarebbero andate diversamente. Dice anche che c’erano degli sponsor ma, da me sollecitato a farne i nomi, con serietà non fornisce risposta non essendo in possesso di dati certi. E se ci fossero sponsor non ci sarebbe comunque complotto ma azioni umane aiutate da altre azioni umane per conto di società o gruppi interessati ad ottenere un risultato, cosa del tutto normale dato che il lobbying è azione nota e regolata per legge, ad esempio negli USA. Solo i sepolcri imbiancati fanno finta di non vedere questa realtà che esiste, in modo lecito o illecito, è comune proprio nelle Istituzioni più importanti, quali ONU, OMS, UNESCO, CEE, FAO, ecc. e chi attribuisce ad altri strategie complottistiche in genere tende a mancare della capacità critica per discernere complotti da azioni umane finalizzate ad ottenere risultati (generalmente denaro e/o potere).

Mi rendo conto che, nell’essermi soffermato molto su quella citazione iniziale, che però potrebbe dare un senso completamente ribaltato a tutto l’articolo, sembra che abbia voluto eludere le obiezioni che Vilma Torselli fa al post di Mazzola, ma non è esattamente così:

1) intanto la visione “responsabilistica” assume una sua dignità e ragion d’essere nel fatto che “esistono gli uomini e non la società e questi agiscono in base alle proprie idee; e queste loro azioni producono conseguenze intenzionali e conseguenze in intenzionali”;

2)infine considerare la storia come entità autonoma e indipendente dagli uomini, dato che “la situazione economica, culturale e sociale di quel momento glielo permette, anzi glielo richiede” è assolutamente lecito e fondato, ma non popperiano, trattandosi di storicismo e determinismo allo stato puro. Io penso invece che se la situazione era quella che Vilma rappresenta, e certamente lo era, la risposta avrebbe potuto essere diversa e, visto come sono andate le cose, certamente non peggiore.

Personalmente non contesto affatto che siano le elite ad incidere in maniera profonda nella cultura, anche perché è sempre stato così, contesto le scelte di quelle elite quando sono sbagliate e quando le elite diventano inamovibili nonostante il loro fallimento.

Pietro Pagliardini

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19 luglio 2009

DIETRO IL MODERNISMO: ALCUNE VERITA' NASCOSTE

di Ettore Maria Mazzola
The University of Notre Dame
School of Architecture
Rome Studies Program


INTRODUZIONE
Unanimemente, la nascita dell’Architettura e dell’urbanistica modernista è fatta risalire al IV CIAM tenutosi ad Atene nell’agosto del 1933, in realtà a bordo del Piroscafo Patris I partito da Marsiglia, e lì tornato dopo aver fatto scalo in Grecia per redigere “La Carta”.
Quella Carta, per volontà dei suoi autori, specie di Le Corbusier, divenne una sorta di “Bibbia” per gli architetti e i legislatori, portando così le città di tutto il mondo a perdere ogni possibile relazione con la sana tradizione che aveva sovrinteso al loro sviluppo millenario. Quella tradizione, fatta di architettura monumentale e “minore”, nobile e vernacolare, a seconda delle condizioni climatiche, orografiche, culturali, religiose, ecc. aveva fatto sì che ogni popolazione sviluppasse una sorta di “dialetto” architettonico-urbanistico che, nel tempo, è stato in grado di affinarsi e di definire l’identità dei luoghi e la capacità degli individui – e dell’intera collettività – di riconoscersi come appartenenti a quei luoghi. L’imposizione di un linguaggio unico, e quindi spersonalizzante, di forme, proporzioni basate su ipotetici modelli matematici lontani dalle reali esigenze umane, ha fatto sì che le città del XX secolo, e le singole architetture, abbiano perduto ogni possibile relazione con l’uomo, cercando di celebrare, in maniera sempre più astrusa, la presunta civiltà tecnologica.


Oggi, il risultato dell’imposizione di questa visione modernista della città, ci deve far riflettere sul fatto che l’utopia della “città funzionale” ha fallito in toto. Le ripercussioni socio-economiche ed ecologiche di quella visione ci dimostrano che il sogno di rendere funzionale e ordinata la città era viziato da una ideologia fuori da ogni logica.

Del resto è difficile poter pensare che delle città, ritenute “funzionanti” per più di duemila anni, non potessero essere ancora valide. Probabilmente si sarebbe dovuto ragionare in maniera meno radicale, per poter consentire un uso dell’automobile al loro interno, ma non di certo si doveva pensare tutto in funzione dell’autotrazione.

Né tantomeno si può accettare che delle città, cresciute su sé stesse per duemila anni nel rispetto del delicato rapporto città-campagna, nonché l’esigenza di avere tutto a portata di mano, si siano dovute ripensare in nome della zonizzazione: aver separato le funzioni, aver aumentato le distanze, aver ragionato per griglie urbane e regole assolute, aver dimensionato il tutto su degli standard numerici piuttosto che sulle dimensioni a scala umana, ha portato le città a raggiungere dimensioni, costi e mancanza di sicurezza che mai in passato si erano raggiunti.

Oggi diviene sempre più difficile poter pensare di restaurare il rapporto città-campagna, e all’interno delle città quello tra l’edificato e gli esseri umani, questo perché tutta la normativa che è venuta dopo il 1933 si è fondata su quelle certezze assolute.
In Italia le varie leggi urbanistiche si sono basate su quelle teorie e, ancora oggi, la 1150/42, la 167/62 e i DPR 1404 e 1444/68 la fanno da padrone. È difficile pensare di poter cambiare le cose se chi legifera continua a ragionare in funzione di quelle norme, ma soprattutto di quell’ideologia. Probabilmente bisognerebbe iniziare a riscoprire una serie di norme, codici, regolamenti e statuti precedenti quello sciagurato 1933, studiarle opportunamente e comprendere come possano adattarsi al vivere contemporaneo e ad alcune norme recenti degne di essere prese in considerazione, poiché, come diceva Edmund Burke,
«Una civiltà sana è quella che mantiene intatti i rapporti col presente, col futuro e col passato. Quando il passato alimenta e sostiene il presente e il futuro, si ha una società evoluta».

Tornando al IV Ciam, e al fatto che esso è unanimemente riconosciuto come il principio del Modernismo, ciò che non si sa, o che è pochissimo conosciuto, è come andarono le cose, e quando, da chi e come venne redatta “la Carta” da cui oggi tutta la disciplina architettonica dipende.
La conoscenza di quegli eventi, penso, potrebbe aiutarci a capire chi ci ha portati alla situazione odierna e perché, e soprattutto se è giusto continuare su questa strada. Tutti, modernisti ed amanti della tradizione, si lamentano della situazione contemporanea; tanti criticano, più sulla base del proprio sentimento, ciò che non funziona della città funzionalista, ma nessuno ha il coraggio di documentare storicamente il problema e gli eventuali responsabili, forse a causa del timore di essere messo alla berlina, oppure condannato per aver osato mettere in discussione i mostri sacri della nostra professione. Così mi permetto di fare un po’ di chiarezza, nella speranza che ci si unisca al fine di rivedere tutta la normativa urbanistica che è stata prodotta a seguito di quel malaugurato “viaggio” del ’33!

GLI ASPETTI POCO NOTI IV C.I.A.M.
Il 29 luglio del 1933 dal porto di Marsiglia partiva il Piroscafo Patris I con direzione Pireo. Non si trattava di un semplice viaggio, ma di una “charrette”(1) galleggiante che doveva compiere un “duplice” viaggio, reale e metaforico: il primo, Marsiglia-Atene-Marsiglia, il secondo era invece il viaggio alla ricerca di una città più abitabile, “funzionale e radiosa”.
Il “viaggio” del IV Congresso Internazionale di Architettura Moderna, “traghettò” i partecipanti sulle coste Greche, ma anche verso una città funzionale, ovvero l’oggetto delle loro discussioni e del testo conclusivo del Congresso: la Carta.

Che le cose fossero in parte decise a priori, c’era da aspettarselo se, già nel 1931, nelle Direttive Preparatorie del Congresso si poteva leggere: “Il Congresso ha preferito il metodo materialistico-deduttivo a quello idealistico-induttivo, come unica base possibile di un’attività collettiva e di conseguenza per lo svolgimento di Congressi di lavoro”(2). In aggiunta a ciò, è bene sapere che, una volta a bordo, i partecipanti si trovarono a dover discutere di 33 diverse città, i cui pannelli esplicativi erano tutti stati preparati in base ad un’unica chiave ideologica di lettura fondata sul metodo imposto a priori. Va da sé che quella chiave di lettura, e quindi il pesante giudizio critico sulla città storica, fosse semplicemente un dato da ratificare. Tant’è che, in aggiunta alle 33 città “non funzionanti”, ce n’era una trentaquattresima città nuova prefigurata: la città funzionale(3)!
Il Punto 71 della Carta infatti confermerà che «Le città studiate per il IV CIAM hanno tutte lo stesso carattere di disordine e non soddisfano i bisogni psicologici e biologici dell'uomo».
In poche parole, si vedrà, si voleva dimostrare la validità delle teorie Le Corbusieriane della La Ville Contemporaine pour 3 Millions d'Habitants, e del Plan Voisine (che una volta rafforzate dal IV CIAM dovevano essere, da Le Corbusier stesso, tradotte nella Ville Radieuse del ‘35), che in quei giorni venivano ad essere applicate ai piani di Amsterdam e Barcellona: l’obiettivo era di trasformarle in regole universali, regole cioè da adottare a tutta l’urbanistica futura. … con grande piacere dell’industria automobilistica (p. es. Voisine) che già aveva sponsorizzato quelle idee … ma questo non verrà mai suggerito, né tantomeno ipotizzato da nessuno storico dell’architettura.

Dai lavori scaturirono delle “Risoluzioni Finali” che portarono alla stesura della “Carta”. I capitoli dedicati alle Osservazioni, sintetizzavano il lavoro analitico svolto e, come ovvio, denunciavano i “mali della città contemporanea da affrontare e risolvere”; invece, i successivi paragrafi affrontavano i modi per “Il faut exiger” (“bisogna esigere”), enunciando i principi da seguire per raggiungere una città funzionale: dei dogmi inconfutabili che, già nel titolo, si presentavano come l’imposizione dittatoriale di una presunta élite di pensatori esperti.
A conferma del fatto che si stessero cercando delle giustificazioni a dei giudizi e dei criteri decisi a priori, c’è uno scritto degli Spagnoli del G.A.T.E.P.A.C.(4) su “AC”:
«È straordinaria l’importanza dei documenti riuniti, forse ancor maggiore del materiale di base dei Congressi di Francoforte (Residenz Minimum) e di Bruxelles (Lottizzazione Razionale). Per la prima volta si può fare uno studio comparato dell’evoluzione storica e dello stato attuale delle principali città del mondo […] Il fenomeno urbano appare perfettamente chiaro in questi piani di città. Queste non vi figurano solo come macchie di colore e il loro tracciato non risulta solo come un arabesco più o meno gradevole; questi piani sono qualcosa di espressivo, di organico, in grado di spiegarci il fenomeno vitale di ogni città. L’analisi di questi piani, una volta completata, potrà dar luogo alla conferma delle teorie urbanistiche di questi ultimi anni(5)».

Guarda caso, tra gli elaborati al Congresso, i piani per Barcellona presentati dal GATEPAC vennero considerati una sorta di rivelazione, una vera anticipazione dei principi discussi e codificati ad Atene. Il Piano per la “Barcellona Futura” venne visto da Le Corbusier come una “città funzionale magnifica”, “una città radiosa e contemporanea, coerentemente inserita nel sito al quale appartiene, tra mare e colline”.

Ebbene, non tutto durante il Congresso pare sia andato come si pensava: una parte dell’organizzazione del soggiorno ateniese subì infatti delle modifiche: per esempio, secondo il programma, i congressisti avrebbero dovuto per tre giorni attraversare tutti insieme il Mare Egeo … ma per qualche ragione essi finirono per viaggiare separati in tre gruppi diversi, uno verso le isole Cicladi, un altro verso le isole dell’Argosaronicco e al Peloponneso, un terzo si diresse a Delfi. Alcuni critici hanno evidenziato come questa “separazione” di viaggio sia rappresentativa della diversità di punti di vista e dei disaccordi interni al IV CIAM (6) .
Inoltre, durante il viaggio di ritorno verso Marsiglia, i congressisti avrebbero dovuto redigere un documento unitario sulla CITTÀ FUNZIONALE che riassumesse i lavori preliminari e l’esito del dibattito svolto fin lì. Nel rispetto dell’obiettivo dei primi CIAM, l’idea era quella di stendere il documento in forma prescrittiva, con l’obiettivo di codificare e diffondere i principi dell’urbanistica e dell’architettura moderna, affermando l’autorevolezza del punto di vista modernista … anche questa cosa non andò come da previsione, e questo proprio a causa della difficoltà di “rappacificare” gli animi che si erano accesi per le divergenze evidenziatesi durante il Congresso. Questo venne confermato dallo stesso segretario Giedion, che al Congresso successivo segnalò:

«Esistono nel CIAM due indirizzi tra loro antitetici [...]. Un indirizzo sceglie come punto di partenza una prudente analisi dei fatti e sulla base di essa cerca di arrivare per gradi ad una nuova realtà. [...] Il secondo indirizzo tende a cogliere i problemi in modo globale, come a volo d'uccello, e si esprime con ampie concezioni che si slanciano in avanti. [...] (7)».

Inoltre, è cosa nota, già all’inizio del viaggio di ritorno, a bordo del Patris, davanti alle prime scaramucce il presidente del CIAM, l’olandese Cornelis van Eesteren cercò di riportare ordine e procedere sollecitamente alla redazione del testo conclusivo:
«Senza deliberazioni i nostri lavori non hanno senso. Deliberazione è uguale a resoconto [...] I nostri resoconti sono la cosa più importante. Sarebbe meglio che il Congresso rischiasse delle deliberazioni sbagliate, piuttosto che si perdesse in analisi senza fine (8)».
A cosa si riferiva? Dalle parole di richiamo all’ordine risulta chiaro che non si riusciva a raggiungere un accordo.
Ebbene, durante il viaggio di andata era stata eletta una commissione per la stesura delle risoluzioni finali, e ad Atene era stato distribuito un questionario, articolato secondo le quattro funzioni (abitazione, tempo libero, lavoro, circolazione) con l’aggiunta di una parte sulla città storica. Alla ripartenza per Marsiglia i diversi gruppi nazionali riconsegnarono il questionario. Immediatamente si evidenziò l’assenza di una posizione unitaria, per cui il penultimo giorno di viaggio vennero presentate ai congressisti addirittura tre diverse versioni di un testo conclusivo … Si noti la “strana” coincidenza del numero di versioni con quella dei tre gruppi di viaggiatori nel Mare Egeo di cui si è detto in precedenza! Motivi di disaccordo erano principalmente le questioni della proprietà del suolo, della trama fondiaria(9), (ovvero quelle che premono a chi fa speculazione) e del patrimonio storico. Il 14 agosto, concluso il Congresso, all’arrivo al porto di Marsiglia quasi tutti i componenti della Commissione per le risoluzioni si soffermarono nella città francese, tranne Le Corbusier che lasciò il gruppo. Raggiunto un compromesso, venne redatto un documento titolato Communiqué du Congrès divisé en trois parties(10).

A conferma delle divergenze e difficoltà, c’è la successiva fitta corrispondenza(11), intercorsa tra agosto e dicembre del ‘33, principalmente tra Le Corbusier e Giedion, in cui si discuteva prevalentemente della dimensione politica del lavoro degli architetti e del loro rapporto con le autorità politiche (la necessità di dover esigere!).

Il tempo scorreva, e Le Corbusier voleva a tutti i costi che le risoluzioni venissero presentate, la lettera che egli scrisse a Giedion il 29 agosto è la dimostrazione più evidente dei dissensi, la dimostrazione che tutto quanto fatto non fosse nient’altro che il tentativo di mascherare le teorie personali di Le Corbusier in un qualcosa che dovesse sembrare all’opinione pubblica il risultato “consensuale” di un gruppo e, per estensione, la traduzione in regole urbanistiche del “desiderio comune” dell’uomo moderno! Questa lettera, irriverente, mostra la faccia dispotica di Le Corbusier, ma soprattutto dimostra come egli volesse (forse a causa dei suoi rapporti con la lobby dell’industria automobilistica), far breccia negli ambienti politici in cui si prendono delle decisioni che si tramutano in leggi e codici urbanistici:

«Ascolti Giedion: sono dieci anni che sto di fronte alla realtà. Io so qual è il problema, dove sono le inquietudini, dove sono i freni, dove sono le debolezze, dove sono le buone intenzioni. Io so dove bisogna mirare […] a chi bisogna rivolgersi. Il nostro IV Congresso è un evento. Semplicemente! […] L’ultimo giorno sono state prese delle decisioni accettate da tutti. Esse sono oggettive. Ecco il fatto sensazionale: accordo su delle idee oggettive(12). Sono idee quelle che devono essere poste di fronte all’opinione pubblica. È per questo che il nostro Congresso vive. Se no crepa! Queste idee oggettive saranno una verità del 1933 per tutti, in tutti i paesi. … Non dobbiamo sottrarci. Abbiamo dei doveri: degli architetti ci attendono, dei sindaci, dei ministri: in una parola persone che hanno delle responsabilità. Non si fa un Congresso per affermare delle cose vuote, ma per costruire […] È giunto il momento. Giedion, il mondo brucia. C’è bisogno di certezze. Noi siamo i tecnici dell’architettura moderna […] io chiedo che le risoluzioni siano pubblicate. La forma mi importa poco(13)».

Nonostante tutto, solo a dieci anni dallo svolgimento del congresso, nel 1943 (o forse nel 1941 o ’42 secondo alcuni storici) Le Corbusier, a nome del Gruppo CIAM Francia, pubblicò il volume Urbanisme des CIAM. La Charte d’Aténes(14). In questo modo egli faceva “sue” le constatazioni del IV CIAM, revisionandole e articolandole in 95 punti, ognuno dei quali da lui opportunamente commentato: ciò che era partito da lui, e per il quale si era ardentemente battuto sin dal Città Contemporanea del ‘21, non poteva che essere rielaborato e codificato da lui stesso.
La conoscenza di questa “conclusione dei fatti” non può non gettare ombra sulla ipotizzata comunione di pensiero che si era tentata di sostenere. Infatti, nel 1957, seguì una nuova pubblicazione, La Charte d’Aténes, il cui unico autore era Le Corbusier ... Come ha acutamente sottolineato Pier Giorgio GerosaL'attrazione di un testo collettivo nell'orbita mitologica di una star è diventata opera compiuta(15)”.

Purtroppo era troppo tardi per rimettere in discussione l’idea di quel documento come la sintesi del pensiero e desiderio comune: alla luce di quella che è stata la legislazione mondiale successiva al IV CIAM, e conseguentemente del modo in cui l’architettura e l’urbanistica sono state insegnate nelle università – e messe in pratica dai professionisti di tutto il mondo – dovremmo riconoscere in Le Corbusier la figura di un vero monarca assoluto, un nuovo “Re Sole”, che è stato in grado (nonostante non abbia mai preso una laurea in architettura) di sottomettere l’intera popolazione mondiale al suo ideale di città e di architettura: l’Impero del Modernismo, non avendo confini territoriali riconoscibili, è da ritenersi il più grande impero che sia mai esistito a memoria umana, e il suo leader, Le Corbusier, è l’uomo che ha saputo imporre, incruentamente (se si eccettuano i danni psico-sociali della sua “città funzionale”) la sua egemonia a livello planetario.
È interessante far notare che sia stato lo stesso Le Corbusier a volersi premurare di sottolineare come
«la Carta non fosse l'opera di un individuo ma la conclusione di un'élite di costruttori appassionatamente dedita alla nuova arte di costruire, armata cioè della certezza che la casa degli uomini [...] deve essere riconsiderata [...](16)».

Allargare la “proprietà intellettuale” della Carta, serviva a darle l’immagine di un armonioso pensiero collettivo e condiviso … sebbene limitato ad “un'élite di costruttori” che prescindeva dalle volontà degli “ignorantissimi” comuni mortali che poi avrebbero dovuto vivere in quelle realtà urbane.
A conferma delle gravi ripercussioni che la Carta ha avuto sull’urbanistica planetaria, c’è il discorso di Sigfried Giedion al VI CIAM tenutosi a Bridgwater nel 1947:
«Noi oggi sappiamo che la Carta d'Atene, che nel 1933 ha gettato le basi dell'urbanistica moderna, ha avuto una grande influenza sulle autorità(17)».
Mentre, sulla faziosità che aveva sovrainteso ai lavori del ’33, c’è questa frase di Le Corbusier a far luce:
«La Carta d'Atene apre tutte le porte all'urbanistica dei tempi moderni. È una risposta all'attuale caos delle città (18)».

Questa affermazione la dice lunga anche sulla retorica delle parole di Le Corbusier(19), quando si decise di svolgere i lavori del IV C.I.A.M. in Grecia (inizialmente si era deciso per Mosca): svolgere il congresso ad Atene non significava affatto relazionarsi con la città storica poiché, “per statuto”, il CIAM non intendeva tornare al passato e orientare lo sguardo e il progetto verso una città e un'architettura che non fossero “contemporanee”, eventualmente voleva proprio negare quel “passato” in quanto tale.

La visione terribilmente critica dell’impianto storico delle città discusse dal Congresso, a partire dalla tavola presentata dal GATEPAC riguardo al Piano Cerdà per Barcellona, è la dimostrazione che la maglia urbana storica fosse considerata, a priori, quanto di più insano, confuso e dannoso per la città futura. Infatti, il capitolo conclusivo del Congresso di Fondazione dei CIAM a La Sarraz, e quello della Carta di Atene, ambedue dedicati al “patrimonio storico” erano stati espliciti nel dichiarare il rifiuto dei CIAM a «trasferire alle loro opere i principi creativi di altre epoche e le strutture sociali del passato(20)». Del resto, i teorici del Modernismo si batterono per la necessità di “Azzerare la storia!” e per lo “Zeitgeist” (lo Spirito del Tempo).

Oggi, il risultato dell’imposizione di questa visione modernista della città, ci deve far riflettere sul fatto che l’utopia della “città funzionale” ha fallito in toto. Le ripercussioni socio-economiche ed ecologiche di quella visione ci dimostrano che il sogno di rendere funzionale e ordinata la città era viziato da una ideologia sballata. Del resto è difficile poter pensare che delle città ritenute “funzionanti” per più di duemila anni non potessero essere ancora valide. Probabilmente si sarebbe dovuto ragionare in maniera meno radicale, per poter consentire un uso dell’automobile al loro interno, ma non di certo si doveva pensare tutto in funzione dell’autotrazione. Né tantomeno si può accettare che le città, cresciute su sé stesse per duemila anni rispettando il delicato rapporto città-campagna, nonché l’esigenza di avere tutto a portata di mano, si siano dovute ripensare in nome della zonizzazione. Aver separato le funzioni, aver aumentato le distanze, aver ragionato per griglie urbane e regole assolute, aver dimensionato il tutto su degli standard numerici piuttosto che sulle dimensioni a scala umana, ha portato le città a raggiungere dimensioni, costi e mancanza di sicurezza che mai in passato si erano raggiunti. Oggi diviene sempre più difficile poter pensare di restaurare il rapporto città-campagna, e all’interno delle città, quello tra l’edificato e gli esseri umani, questo perché tutta la normativa che è venuta dopo il 1933 si è fondata su quelle certezze assolute. In Italia le varie leggi urbanistiche si sono basate su quelle teorie, e ancora oggi la 1150/42, la 167/62 e i DPR 1404 e 1444/68 la fanno da padrone. È difficile pensare di poter cambiare le cose se chi legifera continua a ragionare in funzione di quelle norme, ma soprattutto di quell’ideologia. Probabilmente bisognerebbe iniziare a riscoprire una serie di norme, codici, regolamenti e statuti precedenti quello sciagurato 1933, studiarle opportunamente e comprendere come possano adattarsi al vivere contemporaneo e ad alcune norme recenti degne di essere prese in considerazione, poiché, come diceva Edmund Burke,
«Una civiltà sana è quella che mantiene intatti i rapporti col presente, col futuro e col passato. Quando il passato alimenta e sostiene il presente e il futuro, si ha una società evoluta».

ALCUNE CONSIDERAZIONI FINALI
La mia critica, in realtà, non è cosa nuova, sin dal Congresso del ’33 qualcuno, molto vicino a Le Corbusier si accorse che ci si stava indirizzando verso un vicolo cieco. Infatti, se proprio i membri del CIAM non avevano alcun interesse ad ascoltare gli architetti che, in quegli stessi anni, stavano lavorando su una modernità rispettosa della tradizione, almeno avrebbero potuto prendere in considerazione le parole contenute nel discorso agli architetti, tenuto ad Atene in quell’agosto del ’33, dal pittore francese, amico di Le Corbusier e membro degli amici dei CIAM, Fernand Léger:
«penso che la vostra epoca eroica sia conclusa […] Lo sforzo di pulizia è terminato. Fermatevi perché state superando il limite [...] Un’élite ha seguito la vostra epoca eroica. È normale. Avete costruito delle case per gente che era all’avanguardia [...] Voi volete invece che le vostre idee si estendano .. che la parola “urbanistica” domini il problema estetico”. [...] “L’urbanistica è sociale. Siete entrati in un campo del tutto nuovo, un campo nel quale le vostre soluzioni pure e radicali dovranno combattere [...] Abbandonate questa minoranza elegante e accondiscendente [...] Il piccolo uomo medio, l’“urbano”, per chiamarlo col suo nome, è preso da vertigini [...] Voi avete creato un fatto architettonico assolutamente nuovo. Ma da un punto di vista urbano-sociale avete esagerato per eccesso di velocità. Se volete fare urbanistica credo dobbiate dimenticare di essere degli artisti. Diventate dei “sociali” [...] tra la vostra concezione estetica, accettata da una minoranza, e la vostra visione urbana, che si trova ovunque in difficoltà per l’incomprensione delle “masse”, c’é una rottura [...] avreste dovuto guardare all’indietro: avreste visto di non avere seguito [...] C’è bisogno che uomini come voi osservino più attentamente uomini che stanno dietro e a fianco di loro e che si attendono qualcosa, [...]. Rimettetevi i vostri piani nelle tasche, scendete nella strada, ascoltate il loro respiro, prendete contatto, confondetevi con la materia prima, camminate nel loro stesso fango e nella stessa polvere(21)»

Purtroppo queste restarono parole al vento, da quel momento in avanti il modo di pensare all’architettura e all’urbanistica era definitivamente cambiato in nome del faut exiger!

NOTE:
(1)Termine originato dalle École des Beaux-Arts di Parigi nel XIX secolo. Il termine charrette è quello usato in francese per "carretto" o "carro": Era ben nota, agli studenti di Architettura della École des Beaux-Arts, la necessità di lavorare intensamente, fino all'ultimo minuto, sulle immagini dei loro progetti … persino mentre si recavano a scuola, con il carretto tirato dal cavallo ("en charrette "), per mostrare i progetti ai loro professori. Da qui il termine ha subito una metamorfosi fino all'uso corrente – in voga specie tra gli architetti “tradizionali” – riferito alla full-immersion che si fa nelle fasi iniziali di una progettazione collettiva.
Il termine charrette è stato applicato storicamente, anche al carro o carretta per il trasporto dei condannati alla ghigliottina. Per esempio: «Une charrette (...) traînait lentement à la guillotine un homme dont personne ne savait le nom» (Anatole France, Les Dieux ont soif, 1912, p. 44). [tr. «un carretto portò lentamente alla ghigliottina un uomo di cui nessuno conosceva il nome»].
Nei secoli XVI, XVII, e XVIII, quando il viaggiare prendeva tempi lunghi, la Charette si riferiva alle lunghe cavalcate in carrozza durante le quali, gruppi di statisti e politici si appartavano al fine di collaborare a trovare una soluzione ad una serie di problematiche prefissate prima del viaggio. Questa interpretazione del termine è quella più simile all'uso corrente applicato al mondo dell’architettura.

(2)IV Congresso internazionale di architettura moderna, Mosca 1932. Direttive per l’esposizione e la pubblicazione: “la città funzionale”, in P. Di Biagi (cura di), La Carta d’Atene. Manifesto e frammento dell’urbanistica moderna, Officina, Roma 1998, p. 407.

(3)Le tavole per le 33 città sono state tutte elaborate con uguali criteri analitici, le stesse scale, le medesime tecniche di rappresentazione. Il nuovo piano di Amsterdam, (la redazione del quale era oramai giunta alla sua fase conclusiva), era stato il loro modello (a sua volta incentrato sulle precedenti teorie di Le Corbusier): Dall’esperienza olandese erano state messe a punto le istruzioni per i diversi gruppi nazionali per rendere i materiali “facilmente comparabili fra loro e perciò rappresentati in maniera unitaria”. Le direttive per l’esposizione La città funzionale, dicembre 1931, in Antologia di testi e documenti del IV Congresso internazionale di architettura moderna, a cura di P. G. Gerosa, p. 409.

(4)Grupo de Artistas y Técnicos Españoles para el Progreso de la Arquitectura Contemporánea

(5)“AC” (Documentos de Actividad Contemporánea, Publicación del G.A.T.E.P.A.C.) n°11, ora in A.C.: Documentos de Actividad Contemporánea 1931-1937, pp. 146 e 147.
(6)Si veda Yorgos Simeoforidis, I giorni del IV CIAM ad Atene: figure, vicende, ripercussioni.

(7)S. Giedion, Habitations et loisires, “Neue Zürcher Zeitung”, 3.8.1937, citato in H. Syrkus, 1928-1934 La Sarraz e la Varsavia funzionale, in “Parametro” n. 70, 1978, p. 24.

(8)Dal verbale della seduta del 12.8.’33, ora in “Parametro”, n. 52, cit., p. 44.

(9)Cfr. Ugo Ischia, “Si deve poter disporre del suolo quando si tratta dell'interesse generale”, in P. Di Biagi (a cura di), La Carta d’Atene. Manifesto e frammento dell’urbanistica moderna.

(10)I CIAM verso Atene: spazio abitabile e città funzionale, Paola Di Biagi, Intervento presentato in occasione del convegno: EL GATCPAC Y SU TIEMPO, política, cultura y arquitectura en los años treinta V Congreso Internacional DOCOMOMO Ibérico, Barcellona, 26 - 29 ottobre 2005.

(11)In Antologia di testi e documenti del IV Congresso internazionale di architettura moderna, a cura di P.G. Gerosa, p. 440.

(12)Da quanto ho raccontato alla pagine precedente sappiamo bene che non è vero!

(13)in Antologia di testi e documenti del IV Congresso internazionale di architettura moderna, a cura di P. G. Gerosa, pp. 433-434.

(14)Le groupe CIAM-France, Urbanisme des C.I.A.M. La Charte d’Athènes, Plon, Paris 1943.

(15)P. G. Gerosa, I testi della città funzionale, dai CIAM alla Carta d’Atene (1928-1943). Esplorazioni ermeneutiche ed epistemologiche, in P. Di Biagi (a cura di), La Carta d’Atene. Manifesto e frammento dell’urbanistica moderna, p. 91.

(16)Le Corbusier, La maison des hommes, in Le groupe Ciam-France, Urbanisme des C.I.A.M. La Charte d'Athènes, pp. 48-49.

(17)S. Giedion, Des architectes se forment eux-mêmes, in S. Giedion (Hrsg), Dix ans d'architecture contemporaine, Éditions Girsberger, Zürich 1951, Kraus reprint, Nendeln 1979, p. 12.

(18)Le Corbusier, La maison des hommes, p. 48.

(19)Parlando dello spostamento del congresso da Mosca ad Atene disse: «grembo della natura umana, [...] quella terra felice [...] del razionale dove si trovano le misure alla scala umana, alle radici classiche dell’architettura razionale». Le Corbusier, La maison des hommes, in Le Groupe CIAM-France, Urbanisme des C.I.A.M. La Charte d’Athènes, p. 47

(20)La dichiarazione conclusiva dell’incontro di fondazione dei CIAM a La Sarraz: «Il compito degli architetti è [...] quello di trovare l'accordo con i grandi fatti dell'epoca e con i grandi fini della società cui appartengono e di creare le loro opere in conformità di ciò. Essi rifiutano perciò di trasferire alle loro opere i principi creativi di altre epoche e le strutture sociali del passato». Dichiarazione ufficiale, 28 giugno 1928, in M. De Benedetti, A. Pracchi, Antologia dell'architettura moderna, Zanichelli, Bologna 1988, p. 574.

(21)F. Léger, Discours aux architectes, “Technika Chronika/Annales Techniques”, n. 44-45-46, 1933, pp. 1160-1161.

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13 luglio 2009

INSUFFICIENZA DELLA DISCIPLINARITA' DELL'ARCHITETTO

Un altro brano tratto da "Il progetto nell’edilizia di base" di G.Caniggia e P.L. Maffei, 1984, che condensa temi diversi e attuali quali la crisi dell’urbanistica, l’egemonia culturale di un’idea dell’architettura dell’"io" e del "mio" fuori da ogni logica disciplinare e che fornisce una risposta non complottista o dietrologica al pensiero unico dominante che oscura ogni altra forma di pensiero che si basi sulla lettura del processo di crescita della città, il meccanismo “imitativo” dei maestri imposto nelle scuole che la dice lunga su quale sia il vero “falso” in architettura, la denuncia della volubilità modaiola della critica di architettura, l’irrazionalità di un’urbanistica basata su discipline diverse che fallisce nel momento in cui deve trasporre dati numerici nella realtà del piano, il richiamo alla disciplina contro un’architettura che attinge ovunque ma che è incapace di riversare nel progetto alcun contenuto che non sia frutto di personalismi.
Brani che non rendono giustizia ad un corpo disciplinare fortemente strutturato che può essere apprezzato e valorizzato solo dallo studio complessivo ed in sequenza logica e temporale dei due testi(1) i quali richiedono un atteggiamento culturale non effimero ma disposto a riconsiderare e rimettere in discussione gran parte di quanto appreso “nei banchi di scuola” e quanto ci viene quotidianamente propinato e spacciato dai media e dalla vulgata corrente tra gli architetti di un’urbanistica e un’architettura figlie ed espressioni di invenzioni artistiche individuali. E non gli rende giustizia nemmeno l’uso polemico che io ne faccio dato che il testo completo non ha certo le caratteristiche del pamphlet.


Gli economisti partono da dati e da indagini economiche per arrivare alla formulazione di proposte riguardanti l’economia; come i sociologi partono da dati e indagini sociologiche per giungere a rimedi dei disagi permanenti alla società. L’architetto della crisi presume di utilizzare dati propri di discipline diverse dalla sua (economia, sociologia, ma anche psicologia o magari arti figurative, ecc) e pretende di riversare tali dati nel fare che gli è proprio, in progetti e piani: ottenendo in realtà uno iato tra dati e progetti, tra dati e piano. Iato che colma, o crede di colmare, con un personalistico intervento di invenzione non suffragata da alcun dato specifico. Nella pratica l’architetto parte dal riversare in indici, in dati numerico-statistici una realtà che contiene effettivamente tali dati, ma aggregati non numericamente, bensì a configurare organismi reali, case, strade, campi coltivati ecc.: tutti organismi che perdono appunto la loro natura di “organismi” una volta trasferiti in dati numerico-statistici.
Basta ad esempio notare la progressiva indicizzazione dei dati fisico-organici dai “regolamenti edilizi”: già dall’Ottocento e nella prima metà del nostro secolo basati sulla limitazione della mera consistenza metrica degli edifici, ed ora ulteriormente astraenti nel delimitare quantità di edilizia attraverso indici metrici e “standard” quantitativi.

Quindi la pratica della pianificazione è fondata sulla traduzione del reale in indici numerici, solo in parte desunti dal costruito ed in parte preponderante derivanti dalle altre logiche disciplinari non proprie né rappresentative del costruito stesso; e sulla nuova proposizione di indici numerici, costituenti il “piano”, ma ancora estranei alla qualità del futuro assetto da questo previsto, indicando piuttosto le quantità futuribili. E’ il passo ulteriore che trova l’architetto sguarnito di strumentazione specifica: il momento in cui le proposte di quantità giudicate compatibili con un nuovo assetto si devono ritramutare in un nuovo reale costruibile, fatto di case, strade, ecc. e non di mere quantità. Ed è in questo trapasso che si rivela la insufficienza di una disciplinarità dell’architetto, che si trova ad intervenire con il solo suo personale corredo di opinioni, con il suo solipsismo architettonico, con la storia personale del “suo” progettare.
Sulla scorta di esperienze, sue e di altri, condizionate da una dialettica del “fare architettura” imitativamente, su modelli di “maestri” riconosciuti internazionalmente, su dettami di circoli elitari, di correnti, di –ismi, di scuole, al di fuori di ogni coerente rapporto con la continuità civile del costruire, e soprattutto con l’incertezza del fare data dalla pletora di modelli reciprocamente oppositivi che gli pervengono dai mass-media della “cultura” e della critica architettonica del momento. (omissis)

Così l’architetto diviene strumento e protagonista della crisi, contribuendo pesantemente a provocare un nuovo assetto condannato a priori ad un minimo rendimento per la radicale opponibilità tra strutturazione esistente ed inserimento da lui proposto: opponibilità che è un insieme di risultato, ossia tra costruito vecchio e nuovo, e di metodo, ossia tra la strumentazione che ha provocato il costruito vecchio e la strumentazione che provoca il nuovo assetto.


Nota (1):
Lettura dell'edilizia di base, 1979
Il progetto nell'edilizia di base, 1984

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11 luglio 2009

REGOLE E DE-REGULATION

Pietro Pagliardini

In un commento su Archiwatch, il blog di Giorgio Muratore, un architetto di nome Vincenzo scrive:
"Pietro…Non credo bisogna agire senza regole…non credo nell’espressione artistica come soluzione dei problemi urbani…(per fortuna) credo di venire da una scuola di architettura (bari) intelligente, che interpreta l’intervento urbano, a qualsiasi scala, non come un evento, bensì come una trasformazione che si storicizza e che con la storia fa comunque i conti…con la storia più remota e con la storia più recente. Il problema del limite, a mio modo di vedere, è solo una gabbia…è solo tracciare il confine tra luoghi in cui niente si deve fare e (non)luoghi in cui tutto è ammissibile..io penso che ci sia senza dubbio una parte di città da tutelare (sul come ne si può discutere!) con attenzione particolare, ma questo non implica che tutto il resto si possa trasformare senza senso…
da (quasi)specializzato in restauro potrebbe sembrare un’eresia, ma se definire il centro storico/nucleo antico/città consolidata deve voler dire che il resto non lo è, allora non ci sto…come si legge spesso nel suo blog, la regola è fondamentale per l’ordine delle cose ben fatte ma se questa implica deregolamentare tutto il resto, penso che sia del tutto sbagliato
buon lavoro
vincenzo
"


Se ho capito bene, Vincenzo mi attribuisce la volontà di voler deregolamentare nelle aree esterne al perimetro della città storica, dopo avere evidentemente letto qualcosa del genere in questo blog.
Immagino che potrebbe riferirsi al fatto che io ho dichiarato da subito il mio entusiasmo per il Piano casa, perché l’ho letto come occasione di libertà, e quindi indirettamente di deregolamentazione, per quei cittadini che hanno il bisogno, o il desiderio, di ampliare la propria abitazione. Se è così, nel riconfermare il mio entusiasmo per quel piano, comprendo però come si possa percepire un’apparente contraddizione tra il desiderio di regole, che in questo blog si propugnano, e la liberalizzazione del 20%. Perché è apparente la contraddizione?
Per dare una spiegazione inizio da un brano tratto dalla quarta di copertina del libro “Adesso l’architettura” di Jacques Derrida:

"Una volta che lo spazio è riempito con case, edifici, strade, templi, chiese e così via, una qualche autorità, qualche potere ha già strutturato lo spazio della città e, per la stessa ragione, ha già determinato un certo numero di norme politiche, comportamenti, costrizioni, ecc. Ecco perché non si può semplicemente decostruire l’autorità politica o il suo discorso senza seguire l’indice dell’architettura"

Prima domanda: che ci fa un libro di Derrida in casa mia? Niente, in effetti, perché dopo avere letto sette pagine l’ho abbandonato in quanto per me incomprensibile. Credo anzi che l’unica frase comprensibile l’abbiano scelta per la copertina. Il libro me lo ha regalato un amico filosofo, molto bravo, con questa dedica: “Caro Pietro, questo è un libro sicuramente più utile a te che a me e altrettanto sicuramente più comprensibile a te che a me. Ammesso che Derrida sia utile e comprensibile! Buon Natale e Buon Anno”. Fiducia mal riposta.
Dunque Derrida individua nella città lo strumento primo del potere e dichiara addirittura che non si può decostruire il potere senza decostruire la città. Questo discorso è chiarissimo anche se non ne condivido l’obbiettivo.

La città è certamente l’opera più importante che l’uomo abbia mai realizzato senza la quale nessun’altra opera, e il progresso stesso, sarebbe stato possibile. Ma Derrida vuole decostruire il potere mentre io, più modestamente, mi limito ad auspicare una minore invadenza dello Stato nella vita dei cittadini. Derrida pensa che decostruendo la città si decostruisca, quindi si annulli, il potere e io invece penso esattamente l’opposto: una città decostruita, come in effetti in gran parte è quella di oggi (ovvio che non mi riferisco alla banalizzazione modaiola della forma stilistica de-costruttiva fatta dagli architetti ma alla rottura completa delle regole urbane) decostruisce la società e lascia il campo libero ai poteri forti che poi altro non sono che i poteri globali economici e finanziari. Direi anzi che la decostruzione della città è cominciata ben prima dell’auspicio di Derrida proprio con l’emergere del potere economico come l’unico in grado di dettare legge, cui si è affiancato, per un certo periodo del secolo scorso, il potere politico delle grandi ideologie totalitarie, con una concezione urbanistica sostanzialmente de-costruttiva che ha trovato diffusione anche nelle società democratiche, dove i rapporti di forza sono determinati da molti fattori, tra cui l’egemonia culturale è uno dei fondamentali.

Dunque esiste una stretta relazione tra città, urbanistica e politica: è noto e superfluo ripetere che politica vuol dire amministrazione della città cioè urbanistica. Derrida ha drammaticamente visto giusto: distruggere la città vuol dire fare esplodere ogni relazione sociale e di civile convivenza, vuol dire minare alla radice l’ambiente entro cui si svolgono i rapporti tra gli uomini e dunque fare saltare la società e la politica.
Se questo è vero, il problema della forma della città non è una variabile indipendente dalla forma politica della società e soprattutto dal tipo di relazioni umane e sociali che si possono instaurare in un modello di città piuttosto che in un altro. Ovviamente non mi illudo che una città con regole costruttive fortemente strutturate e condivise sia necessariamente democratica, però pone certamente le condizioni ambientali perché lo sia, non fosse’altro per il fatto di dare vita a spazi urbani che permettono di intessere relazioni sociali tra gli individui e tra i gruppi invece di creare un deserto affollato di oggetti chiamati edifici.

Il modello urbano che ha decostruito la città è quello che ha cancellato la strada dal suo orizzonte, abbassandola al livello funzionale di supporto alla mobilità, ha parcellizzato la città in aree a funzioni specializzate, creando quartieri esclusivamente residenziali e quartieri esclusivamente produttivi o commerciali, ha tolto le persone dalle strade (che non esistono più) rinchiudendole nei luoghi di lavoro o a casa o in edifici specializzati per il tempo libero, che poi altro non sono che luoghi del consumo, mandandole a correre in tuta nelle specializzate aree verdi o nelle palestre; ha fatto degli edifici oggetti di brutto design sparsi in mezzo ai lotti, staccati gli uni dagli altri, eliminando così, di fatto, ogni luogo e possibilità di relazione sociale. Questa è la città delle “regole” urbanistiche attuali in cui si decanta la libertà individuale ma che in realtà non lascia nessun grado di scelta tra alternative diverse. La vita della città funziona come in un’autostrada: la corsia per viaggiare, la stazione di servizio per il rifornimento, l’autogrill per mangiare e comprare, il casello per pagare.

Questa urbanistica è l’espressione di uno Stato-padrone che tutto vuole regolare mediante un’imponente macchina burocratica cui non deve sfuggire niente, dallo spostamento di un tramezzo di casa all’apertura di una porta interna, che considera i cittadini come nemici pronti all’abuso e all’aggiramento della legge. Si assiste cioè all’apparente paradosso che da una parte si de-costruisce la città e la società e dall’altra si impone un controllo sociale attraverso il controllo edilizio. In una situazione come questa la possibilità di sfuggire a questa camicia di forza con un diritto una tantum di ampliare la propria casa di una misera ma spesso indispensabile stanza, a me sembra una ventata, per quanto effimera, di libertà.

Viceversa una città con regole tipologiche e morfologiche forti simili a quella della città storica non teme affatto una crescita naturale e continua, in base ai bisogni, degli edifici, come Vincenzo credo sappia. Non c’è scempio urbanistico nel fenomeno dell’intasamento dei lotti, anzi c’è proprio la naturale forma evolutiva della città.
Per questo non vedo nessuna contraddizione tra le regole evolutive della città e l’ampliamento in base ai bisogni della propria casa.


Io sono convinto che l’urbanistica e l’architettura tradizionale, che si realizza con regole che non sono di tipo sociale ma di riproposizione critica di quelle spontanee mutuate dalla città storica, consenta gradi di libertà maggiore ai cittadini perché il tessuto urbano che ne risulta è di tipo organico e non funzionale e/o burocratico e astratto, e può crescere in base ai bisogni.
Ciò che è superfetazione nel modello di città (cioè periferia) contemporanea e nell’architettura della geometria astratta diventa crescita naturale nel modello di città e di edilizia tradizionale.


NB: Foto tratte da Google Earth

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