Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


31 gennaio 2010

STRADE, PIAZZE, FUNZIONI, EVENTI

Pietro Pagliardini

Un titolo di giornale su un fatto apparentemente marginale avvenuto nella mia città mi offre lo spunto per tornare sul tema delle strade.
Il mercato nell’area delle caserme ha fatto flop”, questo è il titolo del giornale sullo spostamento provvisorio del mercato rionale da una piazza in ristrutturazione ad un altro luogo. Non è tanto interessante il fatto locale, anche perché si tratta di una inevitabile operazione temporanea in attesa della fine dei lavori nella sede storica del mercato, quanto è invece sintomatico delle aspettative e delle speranze che si ripongano sulle “funzioni”, per la “riqualificazione” di certe aree urbane.

Si ritiene, da parte di architetti e di amministratori, che per dare o ridare vita ad alcuni luoghi urbani sia sufficiente scegliere una destinazione, quasi prescindendo dalla conformazione della rete stradale, che ne costituisce la struttura capace di determinare luoghi privilegiati di importanza nodale o luoghi inevitabilmente più marginali.

La formula tipica è: prendi un’area dismessa o mai utilizzata, spremiti il cervello per trovargli una funzione principale e alcune altre accessorie, mettici un po’ di residenza, magari facci un bel concorso d’idee e l’area è ri-qualificata. Sembra quasi che ciò che si desidera automaticamente si dovrà avverare, grazie alla mitica, ricorrente, parola “funzione”; è solo una dimostrazione di perdita del senso di realtà dovuta, in questa caso, alla mancanza di una lettura della città.

D’altra parte anche le leggi urbanistiche prevedono il piano per la “distribuzione delle funzioni”, formula che da sé la dice lunga sull’ideologia che guida il legislatore e, di conseguenza, l’urbanistica applicata alla redazione dei piani.
Un articolo della Legge Urbanistica Toscana dice tra l’altro:
Con riferimento a ciascun ambito la disciplina della distribuzione e localizzazione delle funzioni individua e definisce:
a) le funzioni non ammesse anche in relazione a singoli complessi immobiliari, a singoli immobili o a parti di essi;
b) le quantità massime e minime per ciascuna funzione in relazione alle reciproche compatibilità;
c) i mutamenti di destinazione comunque soggetti a titolo abilitativo;
d) le condizioni per la localizzazione delle funzioni in determinate parti degli ambiti;
e) specifiche fattispecie o aree determinate nelle quali il mutamento delle destinazioni d’uso degli immobili, in assenza di opere edilizie, è sottoposto a denuncia di inizio dell’attività.
4. La disciplina della distribuzione e localizzazione delle funzioni ha validità quinquennale
”.

Ho citato questo articolo per mostrare quanta importanza si attribuisca alle funzioni e con quanta meticolosità esse debbano essere regolate, quantificate, casa per casa, addirittura. E’ un piano quinquennale, per l’appunto, che corrisponde alla durata di un Consiglio Comunale, ma che non può non evocare famosi antenati dei quali rinnova i fallimenti. E’ vero che la legge non dice di prevedere alcune funzioni piuttosto che altre né dice che deve esservi mono-funzionalità, ma chi deve interpretare ed applicare queste leggi nei piani non può non ragionare in termini di zonizzazione e, infatti, molti continuano ad applicarla rigorosamente.

E’ un circolo vizioso: le leggi urbanistiche le fanno gli architetti regionali ma il fatto è che poi queste leggi vengono applicate e l’approccio dirigista che le guida tende a determinare l’impostazione di tutto il piano e questa cultura si auto-alimenta.
Si stimola in questo modo un metodo che privilegia il software urbano, cioè il metodo secondo cui la città dovrebbe funzionare secondo gli schemi del pianificatore, basandosi su funzioni, il più delle volte astratte perché imposte dall’alto, ma, anche se realistiche, sempre a tempo, transitorie, legate ad un determinato momento storico ed economico e destinate inevitabilmente a morire e trasformarsi. E’ in questo momento, quando la funzione si esaurisce o decade, che conta l’hardware della città, cioè la sua conformazione urbana, la sua rete viaria, la centralità vera o la marginalità di piazze o aree particolari.

Se nella fase del progetto, e prima ancora di lettura della città, non si è tenuto conto della possibilità, anzi della certezza del decadimento di quella funzione principale, la capacità attrattiva dell’area rischia di non iniziare nemmeno e, se inizia, inevitabilmente avrà una fine, e con essa anche l’area degraderà.

D’altra parte questo metodo sembra funzionale ad un sistema della comunicazione che mette in primo piano l’evento, che sia esso di carattere architettonico o legato a qualche manifestazione; quale giornale importante e, a maggior ragione, quale TV prenderanno mai in esame o faranno un servizio su una zona della città "normale", che non abbia eventi particolari, che non sia capace di attirare l’attenzione del giornalista e del pubblico? La normalità, è noto, non premia le vendite.

L’architettura e l’urbanistica, predicando l’oggetto unico e singolare piuttosto che l’insieme e il contesto, si sono focalizzate sull’evento ormai da decenni, oggi in maniera addirittura parossistica, e il fenomeno archistar è solo la parte emergente dell’icerberg (per questo va combattuto). Il guaio è che la politica, in specie quella locale e con distribuzione del tutto bipartisan, in molti casi si è accodata con entusiasmo e senza filtro critico a questa tendenza, trovando in essa la possibilità di apparire, di fare qualche intervista, qualche mostra, qualche inaugurazione. Esiste, insomma, una perfetta sinergia tra urbanistica e architettura dello spettacolo da una parte e politica dall’altra, il tutto però a scapito della qualità della città.

Ecco dunque lo stupore di alcuni sul fatto che un luogo marginale, nonostante la pubblicizzazione sui giornali, superato il primo momento di curiosità, non attiri più persone. Se un’area abbastanza centrale è da cent’anni utilizzata per un uso assolutamente specialistico, nel caso specifico caserme dell’esercito, un motivo ci dovrà pur essere! C’è da pensare che già prima di questo uso non fosse evidentemente idonea a certi usi urbani, non fosse cioè nodale. Ora è certamente possibile che per una serie di trasformazioni avvenute al contorno possa esserlo diventata ma, nel caso specifico, non è avvenuto. Prima c’erano orti conventuali e poi caserme. Siamo di fronte ad un grande isolato chiuso che difficilmente potrà diventare un luogo con una sua centralità.

Se questo fosse vero, ed è vero, non c’è funzione che potrà farla diventare tale, almeno nel lungo periodo. Da qui il flop del mercato: perché la gente dovrebbe andarci apposta? Tanto vale, purtroppo, prendere l’auto e andare al supermercato dove c’è il parcheggio e dove trova tutto. Ripeto, in questo caso il problema è solo temporaneo, perché i banchi torneranno al loro posto a lavori finiti e gli affari degli ambulanti rifioriranno, e la vita riprenderà laddove c’è sempre stata e dove la gente transita in maniera naturale, lungo una direttrice importante e vicina la centro. Ma l’esperienza dovrebbe insegnare qualcosa sulle funzioni e sul perché non siano esse, da sole, a determinare la vita di una piazza o di una strada. Questa nasce di conseguenza all’esistenza di una rete di strade gerarchizzate (tradizionali, cioè delimitate da edifici e non da vuoto) che creano in determinati punti dei nodi i quali, in base ad una legge geometrica, sono attrattori di informazione, vale a dire di persone, di attività economiche o sociali.

E’ in questi nodi che si collocano certe attività di carattere urbano, che rivestono cioè un’importanza simbolica e sociale per la stragrande maggioranza dei cittadini. Certo, all’origine può essere una funzione a costituire, nel tempo, un nodo (una abbazia, un convento, forse anche un centro commerciale) ma in un tessuto preesistente e consolidato questo non avviene o è molto difficile che possa avvenire.

Sono certo invece che qualcuno penserà, nel caso da cui ho preso spunto, che il mercato non sia la “funzione” giusta e che basterà, cioè, “azzeccare” quella giusta e il gioco sarà fatto.

Non è così, la forza delle regole della città vince sempre alla lunga, l’effimero è perdente.
In ambito urbano non è la forma (hadware) a seguire la funzione (software) ma è la funzione che si colloca entro la forma
.


Foto tratte da Google Earth:
Foto in alto Aree Caserme
Foto in basso: al centro sede storica del mercato

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23 gennaio 2010

LO SKYLINE CHE NON C'E' PIU'

Su La Nazione di martedì 19 gennaio è apparso questo articolo del Prof. Attilio Brilli sulla scomparsa di una veduta più importanti della città di Arezzo, a causa della costruzione di un edificio alto e ingombrante. Con il permesso dell’autore lo pubblico perché, come dice Brilli in chiusura, “il patrimonio d’immagine..in senso stretto nemmeno le appartiene (alla città), perché fa parte del patrimonio della civiltà occidentale”.
Brilli affronta il tema con rassegnata ironia, dato che non c’è più niente da fare, e con un approccio culturale di tipo sintetico-umanistico, che è poi quello più adatto a comprendere meglio i valori permanenti ed essenziali di una città e di un territorio, contrariamente a quella analitico-statistico con cui ormai si affronta il tema della città. C’è una grande presunzione in quest’ultimo atteggiamento, dato che, fino a prova contraria, nessuna città è uscita migliore di prima dopo qualsiasi piano regolatore e dunque che almeno se ne riconoscano i valori veri e si preservino; invece si continua pervicacemente allo stesso modo.


Il prof. Attilio Brilli è Professore ordinario di Letteratura anglo-america presso l’Università di Siena.
E’ autore di numerose pubblicazioni tra cui pregevoli e raffinate guide di molte città.

*****
LO SKYLE CHE NON C’E’ PIU’
di Attilio Brilli

Veduta dall’Apparita, all’Olmo, Arezzo presenta bellissimo e grandioso aspetto, soggetti di magnifica fotografia”, così recita Giovambattista Ristori nella sua guida del 1871 mettendosi nei panni del forestiere che giungeva ad Arezzo da Perugia e da Roma e che si apprestava ad imboccare la via Romana.

Fra le città collinari dell’Italia centrale, Arezzo ha una sua inconfondibile fisionomia, avendo occupato soltanto il versante solatio di una modesta altura. Non a caso, quasi tutte le vedute storiche sono prese, a maggiore o minore distanza, da questo punto di avvistamento. Esso infatti offre al viandante la città in tutta la sua estensione e con i segni che la rendono inconfondibile, dalla torre forata della Pieve, a quella del Comune, al campanile in forma di matita del Duomo.
Arezzo ha sempre avuto un profilo di sintesi e non si è dovuta inventare il suo skyline. Anche se oggi si giunge ad Arezzo ricorrendo in prevalenza al più prosaico raccordo autostradale, la foce dell’Olmo costituisce pur sempre un nodo trafficatissimo e un affaccio privilegiato sulla città, almeno per chi viene dal senese e dal perugino.
Ma la veduta di cui parla Ristori è scomparsa per sempre, cancellata da un albergo particolarmente alto e imponente (e tale appare in relazione al contesto ambientale e al cannocchiale prospettico), elevato all’incrocio tra fra via Romana e la tangenziale.

E’ come se con un colpo di spugna fossero state cancellate le più belle vedute della città, da quella vespertina di Teofilo Torri, a quella nitida di Antonio Terreni, a quella romantica William Brockedon, solo per citare esempi di epoche diverse.


O forse si dirà che quelle raffigurazioni acquistano ora un ulteriore pregio documentario, proponendoci una veduta della quale, dal vero, non ci è dato più godere?

Giotto ha dipinto Arezzo fornendo al mondo intero il prototipo della città occidentale, bisognosa di pace, abbarbicata sul colle e compresa nel circuito delle mura che la cingono simili ad una corazza. E come tale ricorre nei libri di storia degli studenti di tutte le nazioni. Da allora in poi, e per secoli, i viaggiatori stranieri hanno continuato a diffondere l’immagine della città con le loro descrizioni e i loro disegni.

Quei viaggiatori scendevano appunto dalla foce dell’Olmo e vedevano Arezzo inerpicarsi, su per il colle che si trovavano in faccia e dalla cui sommità “la cattedrale domina la pianura e si rende visibile sin dal fondo delle convalli”, per dirla con il botanico ottocentesco Otto Speyer.

La cancellazione di quella veduta equivale allo strappo di un capitolo dal libro di storia, e per Arezzo ad un’ulteriore perdita d’identità.
D’altronde parlare di una città collinare toscana significa riferirsi ad un patrimonio che va ben al di là delle mura cittadine, ad un patrimonio d’immagine che in senso stretto nemmeno le appartiene, perché fa parte della memoria della civiltà occidentale.




N.B. Le immagini rappresentana La cacciata dei demoni da Arezzo; la prima è di Giotto, la seconda di Benozzo Gozzoli

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17 gennaio 2010

JANE JACOBS (2): STRADE

Pietro Pagliardini

In Vita e morte delle grandi città di J. Jacobs, Einaudi 1969, è ricorrente il tema della strada come struttura di base della comunità cittadina. L’autrice è una giornalista, perciò l’argomento è trattato da un punto di vista sociologico, ma le sue osservazioni portano inevitabilmente a conclusioni che gli urbanisti dovrebbero tenere in considerazione.
In verità non esiste un capitolo del libro intitolato “La strada”, ma esiste un capitolo dal titolo “Le funzioni dei marciapiedi”, con le sue articolazioni: la sicurezza e i contatti umani.
Va sempre tenuto conto che il libro è stato scritto negli anni ’50 e il campo di studio sono gli USA e prevalentemente una metropoli, New York, oltre ad altre città sempre e comunque di grandi dimensioni, quindi con una realtà temporale e fisica molto diversa da quella di oggi e da quella dell’Italia e dell’Europa. Ma ciò nonostante, basta escludere parti specifiche decisamente datate e localizzate, le considerazioni svolte potrebbero essere riferite ad una qualsiasi città europea e, in alcuni casi, come il tema della sicurezza su cui si insiste molto, addirittura sembrano scritte in funzione della nostra quotidiana cronaca.
Le funzioni di autogoverno delle strade sono tutte modeste, ma indispensabili. Nonostante molti tentativi, pianificati o no, non s’è ancora trovato nulla che possa sostituire una strada vivace e animata”: in queste due frasi è sintetizzato gran parte del pensiero di J.Jacobs.


L’osservazione continua della sua strada, del suo quartiere, della sua e di altre città, con animo sgombro da precostituiti dogmi urbanistici, ma tesa invece all’analisi dei comportamenti sociali e personali della gente, la induce a ricavare alcune regole generali in ordine alle differenti conseguenze che un tipo di organizzazione urbanistica di vicinato ha rispetto ad un altro tipo.

E ne ricava che:
Le strade e i marciapiedi costituiscono i più importanti luoghi pubblici di una città e i suoi organi più vitali. Quando si pensa ad una città, la prima cosa che viene alla mente sono le sue strade: secondo che esse appaiano interessanti o insignificanti, anche la città appare tale”.
E poi:
Caratteristica fondamentale di un quartiere urbano efficiente è che chiunque per strada si senta personalmente al sicuro, senza sentirsi minacciato dalla presenza di tutti questi estranei”.

A scanso di equivoci, alla parola “estranei” non deve essere attribuito un significato negativo ma è solo una qualità oggettiva riferita a tutti coloro che non vivono direttamente nella strada e a tutti coloro che, in una grande città, sono naturalmente sconosciuti agli altri. L’estraneità in J.Jacobs è un valore, casomai, positivo perché è una caratteristica propria della città, di quella grande in particolare, che permette di incontrare tanta gente diversa e di arricchire la propria vita.

La Jacobs ne ricava anche una regola su cosa possa garantire senso di sicurezza:
La prima cosa da capire è che l’ordine pubblico nelle strade e sui marciapiedi della città non è mantenuto principalmente dalla polizia, per quanto questa possa essere necessaria: esso è mantenuto da una complessa e quasi inconscia rete di controlli spontanei e di norme accettate e fatte osservare dagli abitanti stessi. In certe zone urbane, come ad esempio in molti vecchi complessi di case popolari e in molte strade con rapido cambio di popolazione, il mantenimento della legge e dell’ordine sui marciapiedi è affidato quasi interamente alla polizia e a guardie speciali: ebbene queste zone sono vere giungle, perché non c’è polizia che basti a garantire la civile convivenza una volta che siano venuti meno i fattori che la garantiscono in modo normale e spontaneo. Il secondo punto da tener presente è che il problema della sicurezza non si risolve accentuando la dispersione degli abitanti, sostituendo cioè al carattere urbano quello tipico del suburbio. Se così fosse Los Angeles dovrebbe essere una città sicura”.

Allora cos’è che contribuisce a rendere sicure strade e marciapiedi?:
Tutti sanno che una strada urbana frequentata è probabilmente anche una strada sicura, a differenza di una strada urbana deserta. Ma come vanno effettivamente le cose, e che cosa fa sì che una strada urbana sia frequentata oppure evitata? Perché viene evitato il marciapiede di Washington Houses, che dovrebbe costituire un’attrazione, e non i marciapiedi della città vecchia immediatamente adiacente? Che cosa avviene nelle strade che sono animate in certe ore ma ad un certo punto si spopolano improvvisamente?
Per essere in grado di accogliere di accogliere gli estranei e di approfittarne per accrescere la propria sicurezza, come sempre accade nei quartieri più vitali, una strada urbana deve avere tre qualità principali:
1. Dev’esserci una netta separazione tra spazi pubblici e spazi privati; lo spazio pubblico e quello privato non devono essere compenetrati, come in genere avviene negli insediamenti suburbani o nei complessi edilizi.
2. La strada deve essere sorvegliata dagli occhi di coloro che potremmo chiamare i suoi naturali proprietari. In una strada attrezzata per accogliere gli estranei e per garantire lo loro sicurezza e quella dei residenti, gli edifici devono essere rivolti verso la strada; non è ammissibile che gli edifici lascino la strada priva di affacci, volgendo verso di essa la facciata posteriore o i lati cechi.
3. I marciapiedi devono essere frequentati con sufficiente continuità sia per accrescere il numero delle persone che sorvegliano la strada, sia per indurre un congruo numero di residenti a tenere d’occhio i marciapiedi dagli edifici contigui. A nessuno piace starsene seduto sul terrazzino d’ingresso o affacciato alla finestra a guardare una strada deserta (e infatti quasi nessuno lo fa), mentre c’è molta gente che si diverte a dare di tanto in tanto un’occhiata a ciò che avviene in una strada animata”. 

Omissis
Condizione essenziale per attuare tale sorveglianza è che lungo i marciapiedi del quartiere sia disseminato un congruo numero di negozi e di altri luoghi pubblici, e in particolare di esercizi e luoghi pubblici frequentati nelle ore serali e notturne. Così soprattutto i negozi,i bar e i ristoranti possono favorire in modi diversi e complessi la sicurezza dei marciapiedi
”.
Omissis
L’idea stessa di eliminare per quanto è possibile le strade urbane, di degradare e minimizzare il ruolo sociale ed economico che esse hanno nella vita cittadina, è la più pericolosa e deleteria invenzione dell’urbanistica ortodossa”.

Il quadro urbano che emerge è quello di una città fatta di edifici posti lungo la strada e su questa affacciati con il loro prospetto principale, con negozi a piano terra, con una chiara distinzione tra ciò che è privato e ciò che è pubblico. L’esatto contrario di un edificio lontano dalla strada e a questa indifferente, immerso in un verde che non è pubblico e non è privato, cioè non è di nessuno. L’idea folle di edifici staccati immersi nel “verde” viene liquidata dalla Jacobs, nell’originalissimo capitolo in cui parla dei parchi, con la seguente, lapidaria espressione:
Il fatto è che i frequentatori dei parchi urbani non vanno in cerca di un ambiente per gli edifici, ma di un ambiente per se stessi: per loro, i parchi rappresentano il primo piano e gli edifici lo sfondo, e non viceversa”.


Altro elemento essenziale è quella della varietà delle destinazioni che determina la complessità della vita sociale urbana, contro la monofunzionalità della zonizzazione, che la impoverisce fino ad annullarla.
Queste condizioni, quasi mai rispettate in quelli che l’autrice chiama i “complessi edilizi”, cioè quegli insediamenti progettati unitariamente seguendo le regole del’urbanistica “moderna”, consente una sicurezza intrinseca che nasce dalla presenza di vita in tutto l’arco della giornata, e che fa sì che siano i cittadini stessi ad esercitare tale controllo.
Non c’è niente di bucolico o di idealizzato in questa visione, solo la constatazione di fatti, che la Jacobs racconta ed enumera in maniera ricorrente e documentata.
La sua visione coincide, senza che questo sia il uso scopo, con una città tradizionale, intesa non in senso stilistico, naturalmente, ma come struttura urbana che si è evoluta nell’arco dei secoli e che da un certo momento in poi si è voluto abbandonare, proponendo alternative ideologiche e che non trovano alcuna giustificazione nei comportamenti umani.

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15 gennaio 2010

STEFANO ZECCHI SUI GRATTACIELI

Su IL GIORNALE di oggi, 15/12/2010 è pubblicato un articolo-recensione di Stefano Zecchi al libro di Nikos Salìngaros, No alle archistar, LEF, Firenze.

Zecchi riesce a cogliere in poche righe il contenuto del libro, sia in relazione all'assurdità dei grattacieli, sia in ordine al ruolo delle archistar e al gioco di sponda che si instaura tra queste ultime e la politica-spettacolo. Consapevole della difficoltà di combattere l'idea stessa del grattacielo, ritiene tuttavia necessario "lavorare per una cultura estetica della città".

Questo il link:

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12 gennaio 2010

OUTLET

La settimana scorsa Aldo Cazzullo, noto giornalista del Corriere della Sera, ha dato il via, involontariamente, ad una serie di riflessioni sugli Outlet.
Mi limito a riportare, in ordine cronologico, alcuni estratti degli articoli dai giornali e una mail inviata da Giulio Rupi all’autore dell’articolo scritto sulla Cronaca di Arezzo de La Nazione.
I giornalisti sono: Aldo Cazzullo, Francesco Borgonovo, Camillo Langone.
Il prof. Attilio Brilli è ordinario di letteratura anglo-americana all'Università di Siena, autore, tra l'altro, di raffinate guide di città.




Aldo Cazzullo: Che tristezza quegli outlet, dal Corriere della sera del 5/1/2010
La coda dei milanesi all’outlet di Serravalle, dove i saldi non erano ancora iniziati, con il centro di ilano semideserto, tranne corso Buenos Aires e via Montenapoleone, dove i saldi c’era già, è un dato che va oltre la cronaca. Segna la definitiva trasformazione del centro commerciale in piazza, città, posto non solo di commercio, ma anche di incontro. Non ha più senso chiamarli “non luoghi”. Non sono spazi artificiali dove non si depositano memoria e identità………….

Francesco Borgonovo: La democrazia al centro commerciale, da Libero del 6/1/2010
Fosse solo un problema di soldi ci sarebbe da discutere. Ma la questione è culturale. Se esiste un’Italia dell’outlet, che è piccola e un po’ schifosa. Significa che ne esiste un’altra migliore. Quella che consuma cibo ecocompatibile prodotto nella sua tenuta in Toscana (dai dipendenti indiani). E’ quell’Italia migliore che, dopo aver menato per anni il torrone con il progresso e le magnifiche sorti e progressive dell’umanità, ora vuole scoprire la cascina, prodotti non ogm, il biologico e la trattoria (dove tutto è artefatto per sembrare sciatto e “casereccio”). Salvo poi ridere delle feste della lega e maledire il “populismo” di Berlusconi.
Il fatto è che la bottega sotto casa, oggi, è gestita da indiani o egiziani e la merce non sempre si sa da dove provenga. La trattoria a poco prezzo, ormai, è il ristorante cinese che perfora il fegato quasi come i vecchi ristornati per camionisti. Se una famiglia di quattro persone vuoel uscire a pranzo, spesso non può permettersi altro che il McDonald (non è eccesso, guardate i prezzi a Milano). I centri storici delle città di provincia sono diventati pericolosi, qualche vlta trasformati in ghetti dell’immigrazione selvaggia. Sono privi di cinema perché mancano i parcheggi e le vecchie sale non si adeguano ai nuovi standard, ma guai parlare di nuova edilizia popolare o demolizioni, di grandi opere o tangenziali. E per “rivitalizzarli” si strapaga la prima archistar di passaggio con una cattedrale nel deserto sottobraccio ……. Allora ci si consola con l’outlet, che è ben fornito e illuminato. E mentre fuori, alla faccia del riscaldamento globale, l’inverno è gelido, all’interno si gode un dolce tepore di democrazia.

Camillo Langone: Preghiera del 7 gennaio, da IL FOGLIO del 7/1/2010
Che le file chilometriche all’outlet vengano interpretate per quello che sono, una grande lezione di architettura. Le città di Mammona erette a Serravalle Scrivia e Noventa di Piave sono state edificate imitando la città di Dio (diabolus simia Dei) ovvero le città tradizionali, socievole i dolci dell’Italia di sempre: archi, torri, piazze, portici, logge, affreschi, non grattacieli, pareti di vetro, minimalismo, astrattismo, hangar, capannoni. Scala umana, non babelica. Stile locale, non globale. Perché puntano al consenso del pubblico, quei furbi mercanti, a differenza dei vescovi sciocchi della CEI che puntano al consenso della critica, delle riviste di architettura, e perdono clienti commissionando spigoli.


Prof. Attilio Brilli: Outlet, i non luoghi con la scenografia dell’antico borgo toscano, da La Nazione-Arezzo, dell’8/1/2010
…Il Centro commerciale, o outlet che dir si voglia, giuoca su una più sofisticata strategia di seduzione. Per farlo simula di essere un luogo socialmente organizzato con una piazza centrale, portici, luoghi di ristoro e intrattenimento e naturalmente negozi. La configurazione del luogo s’avvale a sua volta di una scenografia che allude alla tradizione storica locale. Così in Toscana il centro commerciale non può che assumere la fisionomia dell’antico borgo toscano, che è il simbolo tanto del sapere che del sapore architettonico. In altri termini il centro commerciale è un suo “replicante”. E come dicono i dizionari, replicante significa copia articiale del tutto identica ad un essere vivente: riproduzione senza sapore, senza la ruvida carezza della mano del tempo. Sarebbe facile dire che è proprio quello che ci vuole per una società che vive di uan cultura semplificata fino alla banalità. C’è da sperare semmai che gli ospiti di questi centri sappiano liberarsi dalla fanciullesca compiacenza con cui li frequentano e si rendano conto delle strategie di seduzione dalle quali sono blanditi. E rendersi conto di come si viene condizionati vale molto di più dello sconto ottenuto sulla merce.



Mail di Giulio Rupi al Prof. Attilio Brilli che è, naturalmente, un suo amico, del 9/1/2010
Sugli outlet: d'accordo che distruggono i Centri storici e sulle molte cause sociali, economiche, culturali, migratorie etc, totale disaccordo con la critica della loro progettazione urbanistica come borghi antichi!
E il discorso non è di poco conto, perché cotesto atteggiamento di critica della inautenticità, come ti dico in seguito, porta a delle conseguenze disastrose oggi, nella progettazione della nuova città.
Tu scrivi:
"...C'è semmai da sperare che gli ospiti di questi centri sappiano liberarsi dalla fanciullesca compiacenza con cui li frequentano e si rendano conto delle strategie di seduzione dalle quali sono blanditi e rendersi conto di come si viene condizionati vale molto di più dello sconto ottenuto sulla merce."
E invece le file agli ingressi degli outlet così progettati vanno interpretate del tutto diversamente: UNA GRANDE LEZIONE DI URBANISTICA E DI ARCHITETTURA! (citazione dalla Preghiera di Langone)

Da quando Marinetti e Le Corbusier predicarono la fine della città europea, da sostituirsi con edifici isolati sparsi nel verde (la ville radieuse) le periferie moderne non sono più fatte di strade con edifici sul fronte, di vere piazze agli incroci di tali strade, ma di lotti con edifici isolati e, soprattutto, specializzati. La città storica con i suoi spazi "amichevoli" per il pedone, con la mescolanza delle funzioni (al piano terra negozi e botteghe artigiane, ai piani superiori uffici e abitazioni etc.) non la si è più voluta copiare nel progettare le nuove periferie PERCHE' INAUTENTICA.
La lezione che ci danno queste file davanti ai finti borghi medievali è che la gente vuole ancora vivere in quegli spazi amichevoli e pedonali che gli urbanisti moderni non gli hanno saputo dare nelle loro nuove lottizzazioni. Vuole ancora porticati, piazze, archi, negozi e abitazioni mescolate (negli outlet chiedono: "ma ci sono appartamenti in vendita al primo piano?").
E' quindi sacrosanto lamentarsi del fatto che i grandi centri commerciali e di divertimento e le multisala distruggono i centri storici, ma sprezzare nel contempo la loro progettazione "tradizionale" che punta al consenso del pubblico invece che a quello della critica significa alla fine giustificare chi ha progettato da 70 anni le periferie delle nostre città (cioè ormai il 70% del costruito).
Significa giustificare il nuovo regolamento Urbanistico e la progettazione urbanistica della Arezzo dei prossimi 50 anni, che si sta facendo proprio di questi tempi e che nulla ha imparato dai fallimenti degli ultimi 70 anni.
Perché è una progettazione urbanistica che ripeterà quell'errore, che ripeterà le zone specialistiche residenziali, quelle specialistiche produttive e via dicendo. Che non si pone neanche il problema della bellezza del Centro Storico perché sta scritto (dove ?) che riuscire a riprogettarne i valori, gli spazi, le felici contaminazioni e promiscuità è, più che impossibile, INAUTENTICO, FALSO, QUINDI IMMORALE!
Vedi bene quali enormi e determinanti implicazioni abbia un atteggiamento invece che un altro nel campo della critica architettonica!
Attenzione, in Architettura e soprattutto in Urbanistica, a porsi al di sopra del giudizio comune. Non sono discipline come le altre: è la gente che è costretta a vivere in periferie disumane e la sua ripulsa (ad esempio quando si mette a bruciare le periferie di Parigi) che deve avere l'ultima e definitiva parola critica.

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7 gennaio 2010

ARCHISTAR E PARTECIPAZIONE

Leggo su Avvenire di domenica 3 gennaio e commentato dal sito SARZANA, CHE BOTTA!, come segnalatomi in un commento da Enrico Bardellini, una pagina sulle archistar e, da contraltare, alcuni spunti sulla partecipazione dei cittadini alle scelte per la città. Scrivono il sociologo Franco La Cecla e rispondono a Leonardo Servadio, Mario Botta e Ray Lorenzo.
L’Avvenire, con Leonardo Servadio e non solo, è un giornale molto attento al fenomeno dell’architettura e della città, sempre con un taglio non modaiolo ma problematico in cui si mostrano anche aspetti più nascosti e meno esplorati della realtà.


Sul tema archistar credo di aver già detto cento volte ma Mario Botta, ammesso che appartenga al mondo delle archistar in senso stretto (credo appartenga più a quello dei “Maestri”, che sono i padri delle archistar, non tanto per età anagrafica quanto per appartenenza ad un’epoca) non delude mai e offre sempre spunti di discussione.

Botta mi sembra essere affetto più che da “polarità schizofrenica”, come scrive La Cecla, da una certa indeterminatezza nelle sue affermazioni, un dire e non dire che lascia le porte aperte ad interpretazioni diverse, anche se è certamente vero che poi sono i suoi progetti a parlare, come deve essere per ogni architetto, e quelli sono chiarissimi: troppo uguali a se stessi ovunque.

Dice Botta: “L’architettura è ineludibile. Non si può spegnere come fosse una trasmissione che non ti piace o accantonare come un libro che ti delude”.
Io credo che questa sia una profonda verità ma non sono sicuro affatto che Botta gli attribuisca lo stesso significato che gli attribuisco io, cioè che l’architettura non produce beni di consumo ma edifici per l’uomo realizzati per durare nel tempo, per l’eternità nelle intenzioni di ognuno, per cui, una volta costruiti, hanno il dono o la dannazione della permanenza, restano lì a perenne godimento o condanna di chi vi passa davanti e di chi vi abita e, appunto, non si possono spegnere come la radio, né rimuovere in soffitta come un quadro venuto a noia.
Può anche darsi che Botta intenda che l’Architettura, con la A maiuscola naturalmente, promana con tale forza dalle profondità interiori del suo autore da non poterla controllare o spengere.
Può darsi, dico, perché appunto l’indeterminatezza, e non la schizofrenia, mi sembra la cifra di Botta.
E prosegue: “l’architettura non è lo strumento per costruire in un luogo, ma per costruire quel luogo”.
Questa frase è ancora più scivolosa.
Esaminiamone il significato:
Potrebbe essere il segno di una grande attenzione ai luoghi perché potrebbe significare che ogni edificio contribuisce a dare vita (o morte)ad un luogo ma potrebbe anche significare che è l’architetto, indifferente ai luoghi, a crearli ogni volta proprio con le sue architetture. C’è del vero anche nella seconda possibilità, ma questa senza la prima vuol dire attribuire all’architetto una potenza che sovrasta i luoghi.

In entrambe le espressioni, e ancor più dal combinato disposto delle due, traspare in filigrana una concezione “titanica” della figura dell’architetto capace di creare, con la sua architettura ineludibile, la vita dei luoghi. E’ certamente una visione da archistar o Maestro, temperata, questa volta sì, da una specie di pudore, o polarità schizofrenica come dice La Cecla, quando Botta afferma che “gli architetti sono chiamati a lavorare anche sul terreno della memoria, che oggi è il vero antidoto alla globalizzazione”.
Come non essere d’accordo! Solo che Botta dà l’impressione di lavorare sulla memoria di se stesso, dato che i suoi progetti si assomigliano sempre e sono firmati, poco connessi alla memoria dei luoghi, della comunità, della funzione reale e simbolica stessa dell’edificio (si vedano le sue chiese), casomai al richiamo ad elementi costruttivi che costituiscono la memoria dell’architettura, e non dei luoghi, come l’arco o certe forme geometriche astratte o l’uso del paramento a blocchi pesanti o volumi fortemente legati al terreno (salvo alla Scala, dove c’è un ribaltamento gravitazionale con l’astronave levitante sul tetto).

Ma Botta si esprime anche sulla partecipazione dei cittadini alle scelte per la propria città.
Qui il discorso è davvero più difficile perché si corre il rischio della facile demagogia politica o, all’opposto, dell’aristocratico disprezzo verso le masse ignoranti.
Mi sembra che raramente si affronti il problema in maniera “laica” e razionale, rispettosa della realtà, cioè quella di considerare, semplicemente, gli individui come cittadini facenti parte di una comunità e quindi, per definizione, detentori del diritto di esprimersi e di decidere le sorti e la forma del proprio ambiente di vita, cioè la città. Questa è per me una certezza che risiede nell’essenza della città, invenzione che ha qualche millennio di storia e senza la quale dubito avrebbe potuto esserci la storia stessa.

L’unica incertezza e l’unico motivo di discussione, e anche di divisione, dovrebbe essere quello legato alla rappresentatività e alle modalità di accesso a quel diritto, vale a dire se ricorrere ad una democrazia diretta o ad una rappresentativa. Certamente è esclusa del tutto la possibilità che possano essere gli architetti a decidere da soli: non è proprio previsto nei moderni manuali di filosofia politica, essendo Platone superato da un pezzo, almeno su questo argomento.

Ray Lorenzo non lo conosco, le cose che dice nell’intervista mi sembrano molto ragionevoli e di buon senso. Credo tuttavia, ma davvero mi posso sbagliare, che l’esperienza di cui è portatore, cioè quella americana, non possa essere trasferita meccanicamente in Italia dato che penso che là la società civile americana sia molto più strutturata in maniera spontanea attraverso gruppi e associazioni libere da legami politici. In sostanza credo che la società civile sia molto più forte che da noi, dove tutto tende ad essere istituzionalizzato per essere ricompreso all’interno del più ampio e complicato processo politico. Ogni occasione da noi è buona per creare un’agenzia, un comitato ufficiale, un Ente, un gruppo di lavoro che, in un modo o nell’altro, fa riferimento a qualche forza politica o a qualche istituzione pubblica. Insomma mi sembra che in Italia il rischio di addomesticare ogni gruppo nato spontaneamente, quando non creato istituzionalmente dall’alto, sia altissimo.

Leggendo l’articolo di La Cecla sento parlare di facilitatori (un nuovo lavoro, né più né meno), di una stabile Agenzia a Torino e mi metto subito sul chi va là: qui c’è sotto qualcosa, qui non c’è nessuna spontaneità, qui c’è un sistema istituzionalizzato e addomesticato che poco ha a che vedere con la partecipazione vera. Assomiglia molto al Garante dell’informazione della Legge Urbanistica della Regione Toscana: non dico che sia un errore in senso assoluto, ma che sia da esaltare proprio no, perché la partecipazione per legge proprio non funziona, si riduce ad uno stanco rito privo di contenuti, come, ad esempio, le assemblee partecipative istituzionalizzate in ambito scolastico, ormai buone solo per saltare una mattina di lezione.
Personalmente, ma posso ricredermi, sono convinto che sia estremamente difficile coinvolgere davvero i cittadini nel corso del progetto. Ascoltare i cittadini prima è doveroso, saggio, utile e necessario, al pari di quello che avviene quotidianamente nel rapporto tra un architetto e il proprio cliente; progettare insieme ad una moltitudine di persone mi sembra utopico e non proprio agevole.
Credo invece, fermamente, nella scelta dei cittadini, nella consultazione popolare sul progetto o su più progetti. E’ successo spesso nel passato lontano e recente, deve succedere molto più spesso. E’ la democrazia, niente di più, niente di meno; è la politica.
E Botta che dice? Cosa può dire se ultimamente viene contestato a Genova, a Sarzana!
Alla domanda se può funzionare l’architettura partecipata, risponde: “Funziona dove l’architetto è in grado di dar forma al consenso. Che però può configurarsi anche come ‘rapina’… “.
Evidentemente lui ritiene di non essere adatto a dare forma al consenso ma anche a non fare rapine. Almeno la sincerità e l'onestà deve essere apprezzata.

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3 gennaio 2010

JANE JACOBS

"Chi concepì nel modo più drammatico l’idea di realizzare nelle roccaforti stesse dell’iniquità metropolitana questa visone “antiurbana” dell’urbanistica (si riferisce alla città giardino) fu Le Corbusier, che negli anni ’20 escogitò una città ideale, da lui ribattezzata “Città Radiosa”, costituita essenzialmente, invece che dai bassi edifici cari ai decentratori, da grattacieli immersi in parco. (Omissis)
Anche Le Corbusier non si limitava a pianificare un ambiente fisico, ma perseguiva un’utopia sociale. (Omissis)
La Città Radiosa di Le Corbusier deve anche alla città-giardino la sua accettazione relativamente facile da parte del pubblico. Gli urbanisti della città-giardino e il loro sempre più folto seguito di riformatori dell’edilizia residenziale, di studenti e architetti avevano propagandato instancabilmente idee come il grande isolato, l’unità di vicinato, il piano non modificabile, e il verde, il verde, il verde.
 La concezione di Le Corbusier aveva quindi tutte le carte in regola, dal punto di vista umano come da quello della funzionalità urbana. Visto che il grande scopo dell’urbanistica era di permettere alla gente di andare saltellando per i prati come folletti, quale accusa poteva essere mossa a Le Corbusier? (Omissis)




Il sogno urbanistico di Le Corbusier ha avuto un enorme influsso sulla nostra città. (Omissis)
La sua città assomigliava ad un meraviglioso giocattolo meccanico e per di più era, come opera d’architetura, di una semplicità, un’armonia e una chiarezza abbaglianti. Era così ordinata, così evidente, così facile a capirsi: diceva tutto in un lampo, come un buon cartellone pubblicitario.
La visione di
Le Corbusier e il suo audace simbolismo hanno avuto un effetto irresistibile sugli urbanisti, sugli architetti e sui progettisti di edilizia residenziale, come pure sui lottizzatori, sui finanziatori e sugli amministratori comunali; quest’azione si è estesa anche agli esperti di zoning “progressisti”, che coi loro regolamenti cercano d’incoraggiare anche i liberi costruttori a conformarsi almeno in parte alla splendida visione.
Per quanto goffa e di maniera possa essere l’architettura, per quanto tetri e inutili gli spazi liberi, per quanto smorte le visuali da vicino, ogni imitazione di Le Corbusier si presenta come una vistosa realizzazione individuale in cui sembra che qualcuno esclami: “Guardate che cosa ho fatto”. Ma per quanto riguarda la funzionalità urbana, la città di
Le Corbusier, come la città-giardino, non è che una favola
".

Questo brano è tratto da Vita e morte delle grandi città, di Jane Jacobs, 1961. No, non è un errore, è proprio 1961, in Italia è uscito nel 1969 per Einaudi.
Jane Jacobs, giornalista e non architetto o urbanista e nemmeno sociologo, anche se il libro è un libro di sociologia urbana ricavato però dall’esperienza quotidiana nelle strade delle città d’America, già quasi 50 anni fa denunciava la trasformazione brutale della città, non solo, come si potrebbe credere da questo brano dell’introduzione, attaccando le fonti del male, ma analizzandone le cause con argomentazioni originalissime, sempre tratte dalla realtà, che oggi sono diventate patrimonio comune di tutti coloro che hanno a cuore la rinascita del disegno urbano delle città tradizionali, non in senso stilistico ma in quanto luoghi della socialità e della complessità delle relazioni tra i cittadini.

La strada e la commistione di tutte le funzioni sono al centro del pensiero di J.Jacobs, con anticipazioni del problema della sicurezza urbana e, ovviamente, trattandosi di USA, della integrazione razziale e di quella tra classi sociali diverse.

Concludo questo primo post su J.Jacobs con un brano della prefazione all'ultima edizione italiana scritta da Carlo Olmo:

"Contro i troppi programmi mancati, ma anche il primato di tecnici, architetti, urbanisti, ma poi nei suoi successivi testi economisti, psicologi e scienziati sociali) nella definizione dell’organizzazione spaziale e sociale, la radicalità di Jane Jacobs è stata letta nei modi più svariati: la famosa ballata di Hudson Street non è in realtà che un paradigma della riappropriazione dello spazio da parte di attori sociali senza nome, del primato delle regoli informali sugli apparati di norme e di tecniche che cercano di governare la strada, quasi di un’antropologia urbana sulla storia della città.

Forse gli aspetti ancor oggi più interessanti di The Death ad Life e del lavoro di Jane Jacobs sono proprio nella riaffermazione della possibile autonomia dello spazio da un tempo (e da una storia) che sono diventate previsioni e prescrizioni, improbabili mappe mentali, non solo cartacee o computerizzate: luoghi di un’organizzazione condivisa, ma non tradotta in norme, che appare in grado di contrastare chi crede di rendere lo spazio urbano trasparente, nel XVIII secolo si sarebbe detto parlante, e omologo. Più che le contingenti e strumentali polemiche con utopisti e pianificatori urbani, con burocrati pubblici e gli ingegneri delle infrastrutture, soprattutto quelle culture professionali europee che hanno guardato al libro della Jacobs con sufficienza, quando non con disagio o derisione, dovrebbero oggi saper riflettere sugli anonimi inquilini di Rivington Street
".

Tutto vero, ma le polemiche con utopisti e pianificatori, colonna sonora del libro, sono sì strumentali, ma all’affermazione di un’idea forte di città che c’è dietro il pensiero di J. Jacobs, completamente diversa e opposta a quella corrente al tempo e in voga tutt’ora, tant’è che questo libro ha costituito la base di partenza del New Urbanism negli USA, come riconosce anche lo stesso Carlo Olmo.

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31 dicembre 2009

BUON ANNO

Agli architetti auguro di sentirsi un po’ meno Architetti e di ricordarsi che siamo solo professionisti e non profeti.

Agli urbanisti auguro di sentirsi un po’ più Urbanisti e di ricordarsi che il loro compito è disegnare città nella loro unità e non dormitori, zone industriali, centri storici, verdi pubblici, zone direzionali e commerciali. Auguro loro di ricordarsi anche che nelle città ci abitano i cittadini e che l’urbs è importante ma l’urbs senza civitas è un cimitero.

Ai bio-architetti auguro di ricordarsi che il futuro è nel passato.

Ai professori di Storia dell’architettura auguro di insegnare le diverse verità e non la loro verità.

Ai professori di Composizione auguro di insegnare la progettazione e non la creatività e la fantasia, cioè niente.

Ai professori in genere auguro di insegnare, e basta.

Ai membri di giuria di concorso auguro di essere giudicati con la loro stessa competenza e rettitudine.

Agli architetti delle Regioni…..è meglio non dica cosa ho in testa per non fare peccato di parola, oltre che di pensiero.

Ai miei conterranei toscani auguro di avere una nuova e migliore legge urbanistica (ci vuole poco) che si ispiri al motto evangelico “il sabato è fatto per l’uomo, non l’uomo per il sabato”.

A tutti coloro che scrivono leggi auguro di ricordarsi che “il sabato è fatto per l’uomo, non l’uomo per il sabato”.

Ai miei concittadini aretini auguro un futuro migliore del presente (e anche qui ci vuole poco).

Alle archistar auguro un 2010, e oltre, di giusto riposo e meditazione (a Camaldoli e La Verna, troveranno silenzio, accoglienza e indulgenza).

A chi legge il blog ed è d’accordo con me auguro di non pentirsi.

A chi legge il blog e non è d’accordo con me auguro di pentirsi.

A chi ha lasciato commenti auguro, nel 2010, risposte più intelligenti.

A tutti gli amici auguro un 2010 di serenità.

A tutti i nemici …. non sono così importante da averne ma se per caso ce ne fosse qualcuno auguro di passare nella categoria di sopra.

A qualcuno da Hong Kong che da trenta giorni almeno viene immancabilmente a farmi visita, auguro di trovare qualcosa di meglio da fare. Grazie, comunque.

A Ciro, Nikos, Stefano B., Stefano S., Stefano S. (non c’è errore), Ettore Maria, Wittfrida, Giannozzo, Isabella, Paolo, Milena, Pietro P. (non sono io), Guido, Vilma, Sabrina, Enrico D, Enrico B., Angelo, Andrea, Sergio P., Giulio, Leonardo, Michael M., Marco R., Rodolfo, Domenico, Giorgio M., Gabriele, Camillo, Emanuele e a tutti coloro di cui mi sono dimenticato per colpa della mia scarsa memoria e non della mia cattiveria auguro un 2010 che sia come ognuno di loro si aspetta che debba essere.


Buon Anno
Pietro

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27 dicembre 2009

UNA LEZIONE DI URBANISTICA

Pietro Pagliardni

Questa domenica mattina dopo Natale, ho ricevuto una lezione di urbanistica andando a comprare latte e pane, dopo due giorni di festa.
Me l’ha data un vecchio amico che abita nella stessa frazione in cui abito io. Non è un architetto, naturalmente, è un orafo in pensione. Persona facoltosa, livello di istruzione penso non superiore alla quinta elementare, inizio come operaio, poi titolare di una ditta orafa, classico esempio di quella generazione di aretini che hanno dato ricchezza alla città, oltre che alla propria famiglia.


Uomo semplice, dunque, ma di intelligenza acuta; linguaggio colorito in una versione dialettale volutamente accentuata per rimarcare, con orgoglio, la sua origine contadina della Val di Chiana; innamorato, come tutti gli aretini di campagna, del mattone e, in più, del luogo in cui è nato e continua a vivere: San Giuliano.

Fuori della bottega ci siamo messi a parlare del nuovo Regolamento Urbanistico recentemente adottato. Non ho avuto bisogno di spiegargli niente perché sapeva già tutto o quasi, comunque sapeva l’essenziale:
Ho visto la cartina tutta colorata (naturalmente dal suo geometra) e non mi piace.
Gli ho chiesto naturalmente il perché ed è qui che mi ha fatto una inaspettata lezione di urbanistica di alto livello.

Prima devo rapidamente descrivere la situazione dei luoghi: San Giuliano in origine non era niente, poco più che una manciata di case con una bottega lungo una strada provinciale. Oggi è rimasto lo stesso niente, la stessa manciata di case, il centro, ma con una notevole quantità di costruzioni recenti e meno recenti nei dintorni, con due grossi interventi unitari e altri frammentari, quasi tutte scollegati tra loro: tre insediamenti esclusivamente residenziali, due dei quali hanno strade a cul de sac, che hanno appunto come unico centro, ma direi meglio come polo di attrazione, una bottega lungo la strada provinciale, dove si va quasi esclusivamente con l’auto. Un piccolo sprawl, se vogliamo, non dovuto alle distanze o alle dimensioni, che sono modeste e assolutamente pedonabili ma al fatto che si va a piedi solo se c’è la possibilità di incontrare qualcuno o se si attraversa un borgo ma non verificandosi nessuna delle due condizioni, è bene svolgere la “funzione” e tornare a casa prima possibile.

Dunque ecco la lezione dell’orafo-urbanista:
Non ci voleva mica tanto a capire che qui ci sono tanti quartieri separati e che bastava riunirli con strade per fare in modo che questo (la zona della bottega) diventasse il centro del paese! Invece la zona del Vingone rimane totalmente separata, a 100 metri da qui ma separata, la zona delle case nuove ha una strada che finisce nel niente e bastava portarla avanti che si sarebbe collegata qui”.

Gli faccio osservare che l’idea originaria, niente affatto sbagliata, era proprio quella di dare un centro ad ognuna delle tante frazioni, e questa idea era sintetizzata dal sindaco, ingenuamente ma in maniera efficace, con lo slogan “una piazza per ogni frazione”.

In modo assolutamente sorprendente mi risponde, con un filo d'ironia, con un’espressione di questo tipo:
Ah, l’idea della piazza antica! Ma prima di tutto contano le strade: unire con le strade per far venire la gente qui in maniera facile!”.

Tralascio tutte le altre considerazioni svolte perché non essenziali al tema.
Questo “ignorante” ex contadino della val di Chiana (e lo dico non perché sono certo che non mi leggerà ma perché è la verità e se lui mi leggesse si riconoscerebbe volentieri in questa definizione) ha capito da solo, senza studiare all’Università, o forse proprio per questo, la sostanza dell’urbanistica. Ha capito quello che l’urbanistica ha voluto dimenticare ormai da decenni e che i vari Caniggia e Salìngaros hanno ripreso e diffuso: la strada, la rete viaria, la permeabilità sono l’elemento primo generatore della città, la piazza ne è la conseguenza.
Voglio forse dire che il piano lo dovrebbe disegnare l’orafo-urbanista, cioè il citadino comune? Certo che no, ma una passeggiata nei luoghi insieme a lui o a persone come lui un urbanista la dovrebbe fare, per capire ciò che a scuola non insegnano, prima di prendere decisioni che poi è difficile cambiare.

L'amico Ettore Maria Mazzola terminava qualche giorno fa un suo commento ad un post precedente con una provocazione:
Concludo con uno slogan su cui mi piacerebbe discutere: dopo il processo di "periferizzazione" dei centri storici sarebbe il caso di procedere alla "centro-storicizzazione" delle periferie”.
Questa non è una risposta definitiva, però è l’inizio di una risposta.



***
Aggiornamento in progress con un brano tratto da Vita e morte delle grandi città, di Jane Jacobs:
A New York, nello East Harlem, c’è un complesso residenziale il cui vasto prato rettangolare è diventato addirittura oggetto di esecrazione da parte degli inquilini. Un’assistente sociale che frequentava l’ambiente fu colpita dall’insistenza con cui l’argomento riaffiorava nelle conversazioni, per lo più, in apparenza, senza una ragione plausibile, e del dispregio che i residenti dimostravano per il prato, chiedendone la soppressione.
Quando l’assistente sociale chiedeva spiegazioni al riguardo, la risposta abituale era “A che serve?” oppure “Chi lo vuole?”; finalmente un giorno un’inquilina più esplicita degli altri uscì in questa dichiarazione: “Quando hanno costruito questo posto, nessuno si è curato di conoscere i nostri bisogni. Hanno buttato giù le case e ci hanno portato qui, e i nostri amici li hanno trasferiti chi sa dove; tutt’intorno non c’è un posto dove andare a prendere un caffè o un giornale o dove trovare chi ti presti cinquanta cents. Nessuno si è preoccupato delle nostre necessità: ma i pezzi grossi che vengono qui guardano il prato e dicono: “Magnifico! Ora anche ai poveri non manca nulla!
”.


Crediti:
La foto area di San Giuliano è tratta da Google earth

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24 dicembre 2009

AUGURI

Per Natale il link ad un bell'articolo di Ciro Lomonte, che trasuda fiducia e speranza, pubblicato nel blog Fides et Forma:




A tutti Auguri di Buon Natale


Piero

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12 dicembre 2009

IL FALLIMENTO DEGLI URBANISTI

Sulle pagine culturali di Repubblica del 10 dicembre compare un articolo di Francesco Erbani dal titolo assolutamente invitante: Noi urbanisti abbiamo fallito.
Lo leggo molto incuriosito, dato che non posso che convenire sull’assunto, nella speranza di trovarvi un’analisi delle cause di detto fallimento.
Il primo urbanista a cui Erbani si rivolge è Leonardo Benevolo il quale esordisce dicendo:


Oggi in Italia l’urbanistica è un’attività screditata, considerata con fastidio e preferibilmente accantonata. Nelle amministrazioni periferiche, Regioni, Comuni e Province, ha un posto secondario, con uffici ridotti al minimo e disponibilità economiche precarie; nella vita privata dei cittadini italiani compare quasi solo come un ostacolo sgradito, da eludere o eliminare. Dovunque se ne parla malvolentieri e il meno possibile”. Continua… Oggi gli atti urbanistici sono diventati enormi pacchi di carte, inconsultabili ed ermetici. La corrispondenza tra gli atti e le trasformazioni reali è difficile o impossibile da accertare. Governanti e governati, per diversi motivi, condividono il desiderio di trascurare, o fare semplicemente a meno, di questa disciplina”.

Prosegue denunciando la contraddizione che esiste tra questo abbandono della disciplina e il diffuso interesse che invece c’è per il paesaggio e la sua salvaguardia.
Mi fermo a queste affermazioni di Benevolo anche se nell’articolo ve ne sono altre di Paolo Berdini, di Edoardo Salzano e di Paola Bonora.

Ciò che accomuna i vari pareri è il disincanto e il senso di sconfitta che traspare dalle parole di tutti, ma ciò che manca del tutto è un minimo di analisi delle cause e un po' di autocritica sul ruolo svolto dagli urbanisti, forse appena accennata da Benevolo, in quel riconoscere che “gli atti urbanistici sono diventati enormi pacchi di carte, inconsultabili ed ermetici”.
Chi rimanda le colpe alla politica, chi alla speculazione ma nessuno che si azzardi a riconoscere gli errori disciplinari. Sembra che gli architetti non siano esistiti o abbiano subito chissà quali violenze da parte degli altri attori sulla scena. Benevolo stesso non coglie la palese contraddizione che c’è tra la denuncia, reale, di un’urbanistica ridotta a montagne di carte inutili, e quella della inadeguatezza dell’organico degli uffici urbanistici regionali, che sono in realtà i primi legificatori e produttori di quelle montagne di carta, utili solo a distruggere i boschi che, a parole, i piani intendono tutelare.

Nessuno che si sia posto il problema di come gli architetti abbiano svolto un ruolo politico preminente, invadendo campi altrui. Nessuno che si domandi il perché di un fallimento epocale e provi a domandarsi: ma dove abbiamo sbagliato? Le responsabilità sono sempre degli altri.

Nessuno capisce più gli architetti e gli urbanisti, nessuno apprezza, giustamente, il loro lavoro, dato che le città, cioè il risultato e il prodotto del loro lavoro, sono quello che sono ma la colpa sembra stare altrove. Mi domando: ma se tutti i pazienti dei medici morissero, la colpa sarebbe dei pazienti che non amano la vita o dei medici che non sanno curare?

Se gli urbanisti tornassero a fare il loro lavoro, cioè disegnare la città e non inventare marchingegni normativi fatti per soddisfare le loro ideologie o la loro ossessione del metro cubo o le necessità dei politici di turno, se gli urbanisti si sforzassero di farsi capire dalla gente e di entrare in sintonia con essa, invece che essere strumenti sussidiari o collaterali della politica, se, insomma, avessero l’autorevolezza necessaria per dire “non hai fatto come ti ho detto e tu sei il responsabile”, allora sarebbero credibili. Così, invece, entrando in concorrenza con la politica, alimentano solo un clima di impotenza e di sfiducia che permette alla politica di dire: “io ci metto la faccia, io prendo i voti, io rischio e tu, dunque, architetto, fai quello che dico io”.

Per fare l'urbanista non basta amare e rispettare la città e il territorio, bisogna rispettare i cittadini, ascoltarli, cercare di coglierne i bisogni, fare il possibile e il lecito per accontentare i loro desideri e i loro sogni. Vorrei sapere quanti urbanisti lo fanno con convinzione e non come puro atto formale. Io credo che i cittadini siano i veri soggetti dimenticati dagli urbanisti, oggi che c'è l'obbligo dell'ascolto più che mai, anzi, proprio per questo. Quando va bene l'urbanista si rivolge a determinate categorie di cittadini: i commercianti, gli immigrati, le fasce sociali che necessitano di alloggi sociali, le giovani coppie, gli industriali, ecc.

Leggere quell’articolo è disarmante perché non c’è traccia di ripensamento, di revisione critica dei propri errori e nessuna speranza di intravedere una soluzione al problema, con ciò coinvolgendo anche le nuove generazioni nel loro fallimento.
Edoardo Salzano, ad esempio, nel suo ultimo editoriale sul sito Eddyburg, affronta ancora una volta il tema “consumo di suolo”. Lo fa con argomenti ragionevoli e comprensibili, anche se l’espressione stessa “consumo di suolo” è terrificante perché paventa quasi la morte del pianeta sotto il peso dell’azione antropica, in una visione pessimistica dello sviluppo tout court. Tuttavia, soprassedendo su questo e convenendo invece che è assolutamente necessario, per il bene della città e dei suoi abitanti, di avere una crescita interna alla città stessa, quindi con alte densità, cioè con un numero alto di abitanti per ettaro, ma senza crescere in altezza, non una parola spende Salzano sulla forma e il disegno della città, limitandosi a dati quantitativi e mai qualitativi, con un atteggiamento che, paradossalmente, è simmetrico a quello della speculazione edilizia, cui interessa solo la quantità di metri cubi, naturalmente di segno opposto.
Sembra quasi vi sia una sorta di diabolico, innaturale e indissolubile rapporto tra coloro che vogliono costruire ad ogni costo, e per denaro, e coloro che vi si oppongono ad ogni costo per “salvare il pianeta”. Gli uni e gli altri, pur con intenzioni diverse e opposte, sbagliano e ripetono gli errori già fatti. Vorrei che fosse chiaro che non sono così pazzo da assimilare personaggi che meritano stima e rispetto, non esenti da critiche, quali L. Benevolo e E.Salzano, allo speculatore edilizio, ma dico che sono i due piatti della stessa bilancia il cui peso maggiore è sempre e comunque da una sola parte.

La battaglia sulla quantità è perdente per definizione, perché il mercato è più forte della politica e degli architetti e, se non lo fosse, significherebbe vivere in un regime autoritario e dirigista, come in effetti spesso accade.

Io credo che la battaglia può essere combattuta solo sul piano della qualità, del disegno, perfino del bello non su quello del “quantum”, del metro cubo. Occorre proporre alla gente e agli operatori uno scambio e un patto ragionevole: città belle e vivibili in cambio di qualche metro cubo in più, città simili a centri storici e non periferie squallide, senza centellinare il metro cubo.
La città storica è molto densa, molto vivibile e molto appetibile, a giudicare dai valori immobiliari. Il mercato dice quasi sempre il vero.



Crediti: L'immagine della Torre intoretto è tratta dal blog parlaBrescia.it

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6 dicembre 2009

UNA CITTA' DIVERSA E' POSSIBILE: LEON KRIER E PIER CARLO BONTEMPI (2)

Pietro Pagliardini

Continuo la pubblicazione di alcuni documenti e progetti del workshop del 2002 su Arezzo redatti dall’Arch. Pier Carlo Bontempi. Inizio con un estratto dalla relazione di presentazione del progetto.
Pier Carlo Bontempi racconta di una sua visita privata, con famiglia, ad Arezzo e descrive il panorama che si vede dalla sommità della città:

Bene, guardando il panorama verso nord i miei figli hanno commentato dicendo: “ma qui è bellissimo, non si vede la città moderna”.
Questo mi ha fatto riflettere su una grande opportunità che Arezzo ha, forse unica fra le città di una certa dimensione in Italia, di aver potuto mantenere almeno in una sua parte il fantastico rapporto che doveva esistere in tutte le città italiane fra la città murata e il paesaggio della campagna
.



Questo grande valore che avete il dovere di tramandare ai vostri figli così che possa continuare la piacevole sorpresa, che c’è stata per i miei, di vedere ancora tra cento, duecento o trecento anni questa porzione di campagna , che arriva fin sotto le mura della città e che costituisce uno spettacolo straordinario. Mi perdoni il sindaco che ha citato personaggi illustrissimi che hanno lavorato ad Arezzo, ma è forse la cosa più unica che avete ad Arezzo; affreschi bellissimi ci sono in altre città, Cimabue ha fatto qualche altro crocefisso altrettanto straordinario, ma una porzione di paesaggio quasi incontaminato, o che può tornare ad esserlo, fin sotto le mura di una città di grandi dimensioni come la vostra, forse non esiste in nessun altro luogo in questo straordinario paese.






Sono stato anche abbastanza fortunato quando Calthorpe ha deciso, discutendo insieme a noi, quale dovesse essere il tema che toccava a me sviluppare in questa settimana di lavoro, di assegnarmi questa porzione di città che guarda a nord verso la campagna.

L’idea che mi è venuta affrontando questo tipo di tema è stata quella di non trattare questa zona come un quartiere urbano, ma di considerare quella zona, la Catona, piuttosto come l’ultimo paese della campagna che si avvicina alla città, anziché un nuovo quartiere urbano che si espande e che chiude la cintura moderna intorno alla città storica.
Per questo il disegno credo sia abbastanza rappresentativo della idea che ha guidato il mio lavoro, cioè quella di circoscrivere l’abitato esistente all’interno di una cintura verde e arrivare ad una sua definizione per dargli maggiore qualità, perché se andiamo a vederlo dall’alto delle mura ci appare bello, se andiamo a percorrerlo per le strade, ci appare ancora con qualche problema da risolvere.







Allora il mio tema è stato quello di definire in maniera precisa l’insediamento come un paese di campagna, che si accosta vicinissimo città ma il cui linguaggio rimane separato dalla città. (Omissis)
Credo che l’immagine possa servire a suggerire il tipo di architettura che mi permetto di indicare come proposta per gli sviluppi edilizi nuovi all’interno di questo, che deve mantenere il carattere di un paese. E’ una edilizia che riprende il patrimonio straordinario che avete nelle vostre campagne, che lo adatta in funzione delle necessità contemporanee ma che cerca di dare una risposta in sintonia con il paesaggio straordinario che deve accoglierlo”.






L’aspetto che Bontempi coglie del rapporto stretto tra la città e la campagna nel lato nord di Arezzo è una costante in tutte le osservazioni e le descrizioni che i viaggiatori hanno lasciato della città fin dall’800. La forma a ventaglio di Arezzo il cui lato nord è segnato dalle mura che marcano ancora il confine reale e visibile tra città e campagna è stata colta sempre anche dai redattori dei piani urbanistici. Il vigente piano di Gregotti e Cagnardi aveva chiamato questa parte nord “I giardini di Arezzo”, lasciando un cono libero che partiva dalle mura fino alla corona di colline che racchiudono la piana di Arezzo a nord, proprio per mantenere e conservare questo carattere unico e distintivo della città che non si è espansa in quella direzione per motivi geografici, climatici e di rapporti territoriali.

Anche il consulente del Piano strutturale, Peter Calthorpe, ha individuato subito questa caratteristica peculiare e straordinaria, descrivendola, con l’entusiasmo tipico del viaggiatore americano, come la possibilità, dalle case del centro storico, di sentire ancora il canto del gallo (citazione a memoria).

E’ davvero una percezione immediata e istintiva che non necessita nemmeno di essere razionalizzata in chissà quali ragionamenti per essere dimostrata vera: è l’essenza stessa della città di Arezzo, orientata a sud, aperta ad est e ad ovest, ma chiusa a nord.

Ma non c’è niente da fare, nonostante questa evidenza c’è una scuola di pensiero, chiamiamola così, che ritorna ciclicamente ed è convinta che quel vuoto a nord sia una mancanza invece che una risorsa e che la città debba essere “richiusa a nord, come tutte le altre città”. Eppure questa espressione dovrebbe far venire il dubbio che forse sarebbe meglio conservare questo carattere distintivo della città. Questa scuola di pensiero ha evidentemente lavorato bene, tanto da fare accettare allo stesso Calthorpe il fatto di costruire in quella direzione.

Pier Carlo Bontempi si inserisce in questo dibattito con un compito ben preciso che è quello di dare forma al nuovo insediamento e lo fa in maniera egregia, cogliendo questa contraddizione e tentando di risolverla con un progetto che è “l’ultimo paese della campagna che si avvicina alla città, anziché un nuovo quartiere urbano che si espande e che chiude la cintura moderna intorno alla città storica”. Evidentemente ha capito che quell’insediamento è una scelta sbagliata, e come lui Calthorpe, e lucidamente tenta di limitare il danno.
Purtroppo la forte vicinanza alle propaggini della città, a quella fascia di edificato disordinato che lui garbatamente descrive come un’area che “ci appare ancora con qualche problema da risolvere” impedirebbe comunque di leggerlo come l’ultimo paese prima della città, non essendo nemmeno orientato lungo la direttrice d’ingresso.
Il vero problema è che non si sarebbe mai dovuto costruire in quel luogo, tantomeno incrementare l’insediamento.

Ma, restando all’interno di questo equivoco, il progetto è comunque significativo per la capacità di integrare l’esistente con il nuovo e di creare un villaggio che ha una sua autonomia urbanistica, un centro, una rete di strade continua e gerarchizzata e orientata in modo da lasciare visuali libere verso il paesaggio e verso le mura. Il problema è che dubito che sarà realizzato con questo impianto o con uno simile, tenuto conto delle inclinazioni culturali del redattore del piano, subentrato a Calthorpe che è stato ritenuto evidentemente un ostacolo, di genere del tutto diverso, altrimenti questi progetti sarebbero stati tirati fuori e mostrati.

L'assoluta casualità ha determinato il fatto che ad Arezzo si concentrasse il meglio del New Urbanism e di quel movimento europeo che punta alla riscoperta dell’urbanistica e dell’architettura tradizionale -Calthorpe, Lèon Krier, Per Carlo Bontempi- la volontà comune ad amministrazioni di diverso colore che si sono succedute ha voluto che quell’anomalia fosse cancellata a vantaggio di un’urbanistica burocratica senz’anima e senza altro scopo che non sia il controllo totale sui cittadini e sui processi naturali che regolano la crescita della città.


CREDITI:

La foto aerea è tratta da Google Earth. Le immagini dei progetti di Léon Krier e Pier Carlo Bontempi sono fotografie da me eseguite durante l'esposizione al workshop. Gli stralci delle relazioni sono state ottenute sbobinando registrazioni da me fatte durante la presentazione.

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3 dicembre 2009

MINARETI CONTESTUALIZZATI

Pietro Pagliardini

Guardando nel link che segue queste 12 foto di minareti sparsi in ogni parte del mondo non è difficile riconoscere, per una buona metà di essi, la regione geografica in cui essi si trovano:


Ci sono alcune stranezze, è vero, come una Giralda a Parigi, ma complessivamente queste moschee hanno saputo assimilare alcuni caratteri architettonici dei luoghi, pur conservando intatta la loro riconoscibilità di luogo di culto islamico.

Si potrà attribuire questo fatto al carattere fortemente identitario di quella religione, si potrà ipotizzare una sapiente strategia di penetrazione, si potrà perfino pensare ad una cultura che non ha fatto i conti con la modernità, in specie dal punto di vista sociale e politico, si potrà dire tutto quello che si vuole ma resta questo fatto: le moschee sembrano avere la capacità di conservare la loro forma tradizionale e contemporaneamente di adattarsi, per quanto possibile, alle varie realtà. Le chiese cattoliche hanno, invece, perso l'una e l'altra.

Ma è davvero inevitabile la coesistenza tra tradizione e modernità, identità e tolleranza? Dobbiamo proprio rassegnarci alla scelta tra una modernità indistinta, vuota e relativista, e una tradizione identitaria ma anti-moderna e totalizzante?

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1 dicembre 2009

UN ACUTO "SPROLOQUIO" SULL'ARA PACIS

Un amico, medico bolognese con una grande passione per l'architettura e l'arte, mi ha scritto queste sue impressioni sull'Ara Pacis ed io, con il suo consenso, le pubblico perché i suoi "sproloqui" sono molto acuti oltre che divertenti.

*****
IMPRESSIONI SULLA SCATOLA DI MEIER
di Enrico Delfini

Pochi giorni fa ero a Roma, e avendo un paio di ore libere, ho pensato di recarmi di persona a vedere la scatola di Meier sul lungotevere (o, come si dice da sempre nella mia famiglia, sul "Lungarno del Tevere").
Sull'opera di Meier è già stato detto tutto e il contrario di tutto; aggiungo, per quel che valgono, le mie personali impressioni.
La "scatola" come oggetto è decisamente asettica e anonima. E probabilmente è così che vuole essere. Sembra pensata per essere un corpo estraneo, privo di fronzoli, che non si mette in contatto né in rapporto con gli edifici circostanti (chiesa di San Rocco e un'altra che adesso non ricordo).

Eppure, mi trasmetteva un senso di familiarità, di conosciuto. Ho impiegato qualche minuto a capire la ragione di ciò: è un semplice, banale, capannone!

Nella mia regione, ma non solo, il capannone è un mito, un sogno. Qualsiasi contadino ne vuole uno, meglio magari due, possibilmente vicino-vicinissino a casa. Non importa se rende scomodo l'accesso alla proprietà, non importa se poi mancano i soldi per terminare la casa, o per arredarla. L'importante è erigere un bel parallelepipedo in cemento armato e mattoni, con tetto in elementi prefabbricati, per contenere macchine e macchinari che magari non ci sono, ma....un capannone è per sempre....

Appena poi un esponente di questa tribù, che non rischia l'estinzione, si trasforma in piccolo imprenditore nel commercio o nell'artigianato, bisogna dotarsi di un capannone "moderno". Solo sulla via Emilia, nei 40 chilometri tra Bologna e Modena, ci sono almeno una cinquantina di capannoni che non hanno nulla da invidiare all'opera di meier. Che sia un concessionario auto, una mostra di mobili o di macchine agricole, un centro di bricolage, o di statue da giardino, la tipologia standard è sempre quella. Forme squadrate, ampie vetrate, colore uniforme, con qualche raro elemento caratterizzante, tipo bandiere o pinnacoli vari. Elementi pseudo-decorativi tipo mensole, graticci, paraventi giganti, si sprecano.
La teca di Meier ripropone lo stesso modello, che tutto sommato è entrato nell'orizzonte comune di tanti.

Ma, essendo un'opera architettonica e non una statua, occorre valutarne, oltre l'estetica, anche l'aspetto funzionale.
Orbene, per chi arriva all'Ara pacis dal centro (via Tomacelli), non c'è dubbio che l'oggetto si presenta in modo inequivoco: nome e destinazione sono scritti a caratteri cubitale sulla parete sud; e il gioco delle scale, fontane, muretti, indirizza il turista all'ingresso senza possibilità di errore.
Ma se, per ventura, qualcuno decide di arrivare da nord, nessun segnale, nessun indizio permette di presagire che quel muro bianco è quello che è, e non il retro di una stazione di servizio, o di un ristorante cinese, o di un qualsiasi altro edificio.


In prossimità dell'angolo di nord-ovest, all'inizio della enorme parete, vetrata, una vera e propria porta, con tanto di maniglia, invita all'ingresso, ma è chiusa; solo un foglietto vergato a mano, indirizza verso la giusta direzione.

L'enorme parete trasparente, consente una buona visione dell'interno dell'"hangar" in cui sorge il monumento augusteo. Lo spazio candido è suggestivo e spoglio; forse anche troppo spoglio. Dall'esterno si può agevolmente ammirare l'altare romano, ma anche angoli disadorni, porte chiuse, seggiole vuote, bianche pareti sterminate.
Giunti all'ingresso, appena dentro, una squallida biglietteria, che funge anche da bookshop, intercetta il visitatore: l'entrata costa 7 o 8 euro, e comprende anche l'accesso a mostre temporanee ospitate nei sotterranei (credo).
Per vedere un poco più d'appresso ciò che si vede gratis da fuori è piuttosto caro. Come me devono pensarlo anche altri turisti, tra cui due gruppi di giapponesi.

Ed ora, qualcosa sui materiali. Da quel che posso capire, si tratta di vetro, e di travertino. Parrebbe una scelta in linea con la tradizione locale. ma c'è un ma: superfici tanto vaste, uniformemente lisce, in tale materiale, assumono (hanno assunto) in pochi anni un aspetto polveroso di sporco, assai poco elegante. Effetto inevitabile, potremo dire, ma che in altri palazzi del centro di Roma, è mitigato dai motivi decorativi che, paradossalmente, possono addirittura giovarsi, entro certi limiti, di un certo grado di accentuazione dei contrasti.

Per non farmi mancare niente, termino con qualche nota su come, se fossi stato architetto e fossi stato interpellato, avrei affrontato il lavoro.
1) Dovendo valorizzare un monumento prezioso, ma non maestoso, avrei cercato di valorizzarne il candore marmoreo, cercando il contrasto con qualcosa di verde, tipo prato. (in antico l'opera era colorata, ma adesso no!). Ovviamente occorrerebbero sentieri di avvicinamento in materiale calpestabile, non "fangoso".
2) Trattandosi di opera non molto grande, non è conveniente poterla osservare già a grande distanza. Nulla di male a strutture che la nascondano fino a che si giunga ad una distanza giusta per osservare e godere.
3) L'accesso deve essere libero e gratuito, trattandosi di un monumento-messaggio che da duemila anni inneggia alla pace. Un buon punto ristoro-bookshop nelle vicinanze può garantire un gettito certamente considerevole.
4) Negli spazi sotterranei, non mostre temporanee avulse dal contesto, ma un percorso dedicato al monumento stesso, alla sua storia, al suo restauro, ad altre antichità romane; magari a pagamento.
5) Come progetterei la "casa" dell'Ara pacis? Una struttura che la racchiuda, e la nasconda, pur essendo aperta; qualcosa del tipo un giro e mezzo di spirale, composta di un'unica struttura o di più pannelli affiancati, curvilinei, o a segmenti spezzati, che racchiudono un'area non troppo vasta, a prato, con al centro l'ara. Per dare un'idea, se l'ara è di circa 8x15 metri, considerare una superficie di 20x40.
6) Le mura di questo specie di pozzo semiaperto potrebbero essere high-tech, o in muratura, o in marmo, o un misto; potrebbero essere nude, o decorate con inserti in marmo. Ci si può pensare. L'altezza deve essere tale da conferire dignità e proporzione all'esterno anche da una certa distanza. Se la larghezza media fosse di una trentina di metri, bisogna considerare almeno un 16-18 metri in altezza.
7) Importante la copertura. Penso che un simile monumento debba ricevere la luce dall'alto. (Augusto era un dio; la pace è il sommo dono celeste). La tecnologia moderna consente una infinità di soluzioni, dai tempi della copertura dello stadio olimpico di Monaco'72. Da prevedere le conseguenze del tempo, dello smog e le possibilità di pulitura.
Scusa per lo sproloquio, e per...l'invasione di campo !

Enrico

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