Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


7 gennaio 2010

ARCHISTAR E PARTECIPAZIONE

Leggo su Avvenire di domenica 3 gennaio e commentato dal sito SARZANA, CHE BOTTA!, come segnalatomi in un commento da Enrico Bardellini, una pagina sulle archistar e, da contraltare, alcuni spunti sulla partecipazione dei cittadini alle scelte per la città. Scrivono il sociologo Franco La Cecla e rispondono a Leonardo Servadio, Mario Botta e Ray Lorenzo.
L’Avvenire, con Leonardo Servadio e non solo, è un giornale molto attento al fenomeno dell’architettura e della città, sempre con un taglio non modaiolo ma problematico in cui si mostrano anche aspetti più nascosti e meno esplorati della realtà.


Sul tema archistar credo di aver già detto cento volte ma Mario Botta, ammesso che appartenga al mondo delle archistar in senso stretto (credo appartenga più a quello dei “Maestri”, che sono i padri delle archistar, non tanto per età anagrafica quanto per appartenenza ad un’epoca) non delude mai e offre sempre spunti di discussione.

Botta mi sembra essere affetto più che da “polarità schizofrenica”, come scrive La Cecla, da una certa indeterminatezza nelle sue affermazioni, un dire e non dire che lascia le porte aperte ad interpretazioni diverse, anche se è certamente vero che poi sono i suoi progetti a parlare, come deve essere per ogni architetto, e quelli sono chiarissimi: troppo uguali a se stessi ovunque.

Dice Botta: “L’architettura è ineludibile. Non si può spegnere come fosse una trasmissione che non ti piace o accantonare come un libro che ti delude”.
Io credo che questa sia una profonda verità ma non sono sicuro affatto che Botta gli attribuisca lo stesso significato che gli attribuisco io, cioè che l’architettura non produce beni di consumo ma edifici per l’uomo realizzati per durare nel tempo, per l’eternità nelle intenzioni di ognuno, per cui, una volta costruiti, hanno il dono o la dannazione della permanenza, restano lì a perenne godimento o condanna di chi vi passa davanti e di chi vi abita e, appunto, non si possono spegnere come la radio, né rimuovere in soffitta come un quadro venuto a noia.
Può anche darsi che Botta intenda che l’Architettura, con la A maiuscola naturalmente, promana con tale forza dalle profondità interiori del suo autore da non poterla controllare o spengere.
Può darsi, dico, perché appunto l’indeterminatezza, e non la schizofrenia, mi sembra la cifra di Botta.
E prosegue: “l’architettura non è lo strumento per costruire in un luogo, ma per costruire quel luogo”.
Questa frase è ancora più scivolosa.
Esaminiamone il significato:
Potrebbe essere il segno di una grande attenzione ai luoghi perché potrebbe significare che ogni edificio contribuisce a dare vita (o morte)ad un luogo ma potrebbe anche significare che è l’architetto, indifferente ai luoghi, a crearli ogni volta proprio con le sue architetture. C’è del vero anche nella seconda possibilità, ma questa senza la prima vuol dire attribuire all’architetto una potenza che sovrasta i luoghi.

In entrambe le espressioni, e ancor più dal combinato disposto delle due, traspare in filigrana una concezione “titanica” della figura dell’architetto capace di creare, con la sua architettura ineludibile, la vita dei luoghi. E’ certamente una visione da archistar o Maestro, temperata, questa volta sì, da una specie di pudore, o polarità schizofrenica come dice La Cecla, quando Botta afferma che “gli architetti sono chiamati a lavorare anche sul terreno della memoria, che oggi è il vero antidoto alla globalizzazione”.
Come non essere d’accordo! Solo che Botta dà l’impressione di lavorare sulla memoria di se stesso, dato che i suoi progetti si assomigliano sempre e sono firmati, poco connessi alla memoria dei luoghi, della comunità, della funzione reale e simbolica stessa dell’edificio (si vedano le sue chiese), casomai al richiamo ad elementi costruttivi che costituiscono la memoria dell’architettura, e non dei luoghi, come l’arco o certe forme geometriche astratte o l’uso del paramento a blocchi pesanti o volumi fortemente legati al terreno (salvo alla Scala, dove c’è un ribaltamento gravitazionale con l’astronave levitante sul tetto).

Ma Botta si esprime anche sulla partecipazione dei cittadini alle scelte per la propria città.
Qui il discorso è davvero più difficile perché si corre il rischio della facile demagogia politica o, all’opposto, dell’aristocratico disprezzo verso le masse ignoranti.
Mi sembra che raramente si affronti il problema in maniera “laica” e razionale, rispettosa della realtà, cioè quella di considerare, semplicemente, gli individui come cittadini facenti parte di una comunità e quindi, per definizione, detentori del diritto di esprimersi e di decidere le sorti e la forma del proprio ambiente di vita, cioè la città. Questa è per me una certezza che risiede nell’essenza della città, invenzione che ha qualche millennio di storia e senza la quale dubito avrebbe potuto esserci la storia stessa.

L’unica incertezza e l’unico motivo di discussione, e anche di divisione, dovrebbe essere quello legato alla rappresentatività e alle modalità di accesso a quel diritto, vale a dire se ricorrere ad una democrazia diretta o ad una rappresentativa. Certamente è esclusa del tutto la possibilità che possano essere gli architetti a decidere da soli: non è proprio previsto nei moderni manuali di filosofia politica, essendo Platone superato da un pezzo, almeno su questo argomento.

Ray Lorenzo non lo conosco, le cose che dice nell’intervista mi sembrano molto ragionevoli e di buon senso. Credo tuttavia, ma davvero mi posso sbagliare, che l’esperienza di cui è portatore, cioè quella americana, non possa essere trasferita meccanicamente in Italia dato che penso che là la società civile americana sia molto più strutturata in maniera spontanea attraverso gruppi e associazioni libere da legami politici. In sostanza credo che la società civile sia molto più forte che da noi, dove tutto tende ad essere istituzionalizzato per essere ricompreso all’interno del più ampio e complicato processo politico. Ogni occasione da noi è buona per creare un’agenzia, un comitato ufficiale, un Ente, un gruppo di lavoro che, in un modo o nell’altro, fa riferimento a qualche forza politica o a qualche istituzione pubblica. Insomma mi sembra che in Italia il rischio di addomesticare ogni gruppo nato spontaneamente, quando non creato istituzionalmente dall’alto, sia altissimo.

Leggendo l’articolo di La Cecla sento parlare di facilitatori (un nuovo lavoro, né più né meno), di una stabile Agenzia a Torino e mi metto subito sul chi va là: qui c’è sotto qualcosa, qui non c’è nessuna spontaneità, qui c’è un sistema istituzionalizzato e addomesticato che poco ha a che vedere con la partecipazione vera. Assomiglia molto al Garante dell’informazione della Legge Urbanistica della Regione Toscana: non dico che sia un errore in senso assoluto, ma che sia da esaltare proprio no, perché la partecipazione per legge proprio non funziona, si riduce ad uno stanco rito privo di contenuti, come, ad esempio, le assemblee partecipative istituzionalizzate in ambito scolastico, ormai buone solo per saltare una mattina di lezione.
Personalmente, ma posso ricredermi, sono convinto che sia estremamente difficile coinvolgere davvero i cittadini nel corso del progetto. Ascoltare i cittadini prima è doveroso, saggio, utile e necessario, al pari di quello che avviene quotidianamente nel rapporto tra un architetto e il proprio cliente; progettare insieme ad una moltitudine di persone mi sembra utopico e non proprio agevole.
Credo invece, fermamente, nella scelta dei cittadini, nella consultazione popolare sul progetto o su più progetti. E’ successo spesso nel passato lontano e recente, deve succedere molto più spesso. E’ la democrazia, niente di più, niente di meno; è la politica.
E Botta che dice? Cosa può dire se ultimamente viene contestato a Genova, a Sarzana!
Alla domanda se può funzionare l’architettura partecipata, risponde: “Funziona dove l’architetto è in grado di dar forma al consenso. Che però può configurarsi anche come ‘rapina’… “.
Evidentemente lui ritiene di non essere adatto a dare forma al consenso ma anche a non fare rapine. Almeno la sincerità e l'onestà deve essere apprezzata.

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3 gennaio 2010

JANE JACOBS

"Chi concepì nel modo più drammatico l’idea di realizzare nelle roccaforti stesse dell’iniquità metropolitana questa visone “antiurbana” dell’urbanistica (si riferisce alla città giardino) fu Le Corbusier, che negli anni ’20 escogitò una città ideale, da lui ribattezzata “Città Radiosa”, costituita essenzialmente, invece che dai bassi edifici cari ai decentratori, da grattacieli immersi in parco. (Omissis)
Anche Le Corbusier non si limitava a pianificare un ambiente fisico, ma perseguiva un’utopia sociale. (Omissis)
La Città Radiosa di Le Corbusier deve anche alla città-giardino la sua accettazione relativamente facile da parte del pubblico. Gli urbanisti della città-giardino e il loro sempre più folto seguito di riformatori dell’edilizia residenziale, di studenti e architetti avevano propagandato instancabilmente idee come il grande isolato, l’unità di vicinato, il piano non modificabile, e il verde, il verde, il verde.
 La concezione di Le Corbusier aveva quindi tutte le carte in regola, dal punto di vista umano come da quello della funzionalità urbana. Visto che il grande scopo dell’urbanistica era di permettere alla gente di andare saltellando per i prati come folletti, quale accusa poteva essere mossa a Le Corbusier? (Omissis)




Il sogno urbanistico di Le Corbusier ha avuto un enorme influsso sulla nostra città. (Omissis)
La sua città assomigliava ad un meraviglioso giocattolo meccanico e per di più era, come opera d’architetura, di una semplicità, un’armonia e una chiarezza abbaglianti. Era così ordinata, così evidente, così facile a capirsi: diceva tutto in un lampo, come un buon cartellone pubblicitario.
La visione di
Le Corbusier e il suo audace simbolismo hanno avuto un effetto irresistibile sugli urbanisti, sugli architetti e sui progettisti di edilizia residenziale, come pure sui lottizzatori, sui finanziatori e sugli amministratori comunali; quest’azione si è estesa anche agli esperti di zoning “progressisti”, che coi loro regolamenti cercano d’incoraggiare anche i liberi costruttori a conformarsi almeno in parte alla splendida visione.
Per quanto goffa e di maniera possa essere l’architettura, per quanto tetri e inutili gli spazi liberi, per quanto smorte le visuali da vicino, ogni imitazione di Le Corbusier si presenta come una vistosa realizzazione individuale in cui sembra che qualcuno esclami: “Guardate che cosa ho fatto”. Ma per quanto riguarda la funzionalità urbana, la città di
Le Corbusier, come la città-giardino, non è che una favola
".

Questo brano è tratto da Vita e morte delle grandi città, di Jane Jacobs, 1961. No, non è un errore, è proprio 1961, in Italia è uscito nel 1969 per Einaudi.
Jane Jacobs, giornalista e non architetto o urbanista e nemmeno sociologo, anche se il libro è un libro di sociologia urbana ricavato però dall’esperienza quotidiana nelle strade delle città d’America, già quasi 50 anni fa denunciava la trasformazione brutale della città, non solo, come si potrebbe credere da questo brano dell’introduzione, attaccando le fonti del male, ma analizzandone le cause con argomentazioni originalissime, sempre tratte dalla realtà, che oggi sono diventate patrimonio comune di tutti coloro che hanno a cuore la rinascita del disegno urbano delle città tradizionali, non in senso stilistico ma in quanto luoghi della socialità e della complessità delle relazioni tra i cittadini.

La strada e la commistione di tutte le funzioni sono al centro del pensiero di J.Jacobs, con anticipazioni del problema della sicurezza urbana e, ovviamente, trattandosi di USA, della integrazione razziale e di quella tra classi sociali diverse.

Concludo questo primo post su J.Jacobs con un brano della prefazione all'ultima edizione italiana scritta da Carlo Olmo:

"Contro i troppi programmi mancati, ma anche il primato di tecnici, architetti, urbanisti, ma poi nei suoi successivi testi economisti, psicologi e scienziati sociali) nella definizione dell’organizzazione spaziale e sociale, la radicalità di Jane Jacobs è stata letta nei modi più svariati: la famosa ballata di Hudson Street non è in realtà che un paradigma della riappropriazione dello spazio da parte di attori sociali senza nome, del primato delle regoli informali sugli apparati di norme e di tecniche che cercano di governare la strada, quasi di un’antropologia urbana sulla storia della città.

Forse gli aspetti ancor oggi più interessanti di The Death ad Life e del lavoro di Jane Jacobs sono proprio nella riaffermazione della possibile autonomia dello spazio da un tempo (e da una storia) che sono diventate previsioni e prescrizioni, improbabili mappe mentali, non solo cartacee o computerizzate: luoghi di un’organizzazione condivisa, ma non tradotta in norme, che appare in grado di contrastare chi crede di rendere lo spazio urbano trasparente, nel XVIII secolo si sarebbe detto parlante, e omologo. Più che le contingenti e strumentali polemiche con utopisti e pianificatori urbani, con burocrati pubblici e gli ingegneri delle infrastrutture, soprattutto quelle culture professionali europee che hanno guardato al libro della Jacobs con sufficienza, quando non con disagio o derisione, dovrebbero oggi saper riflettere sugli anonimi inquilini di Rivington Street
".

Tutto vero, ma le polemiche con utopisti e pianificatori, colonna sonora del libro, sono sì strumentali, ma all’affermazione di un’idea forte di città che c’è dietro il pensiero di J. Jacobs, completamente diversa e opposta a quella corrente al tempo e in voga tutt’ora, tant’è che questo libro ha costituito la base di partenza del New Urbanism negli USA, come riconosce anche lo stesso Carlo Olmo.

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31 dicembre 2009

BUON ANNO

Agli architetti auguro di sentirsi un po’ meno Architetti e di ricordarsi che siamo solo professionisti e non profeti.

Agli urbanisti auguro di sentirsi un po’ più Urbanisti e di ricordarsi che il loro compito è disegnare città nella loro unità e non dormitori, zone industriali, centri storici, verdi pubblici, zone direzionali e commerciali. Auguro loro di ricordarsi anche che nelle città ci abitano i cittadini e che l’urbs è importante ma l’urbs senza civitas è un cimitero.

Ai bio-architetti auguro di ricordarsi che il futuro è nel passato.

Ai professori di Storia dell’architettura auguro di insegnare le diverse verità e non la loro verità.

Ai professori di Composizione auguro di insegnare la progettazione e non la creatività e la fantasia, cioè niente.

Ai professori in genere auguro di insegnare, e basta.

Ai membri di giuria di concorso auguro di essere giudicati con la loro stessa competenza e rettitudine.

Agli architetti delle Regioni…..è meglio non dica cosa ho in testa per non fare peccato di parola, oltre che di pensiero.

Ai miei conterranei toscani auguro di avere una nuova e migliore legge urbanistica (ci vuole poco) che si ispiri al motto evangelico “il sabato è fatto per l’uomo, non l’uomo per il sabato”.

A tutti coloro che scrivono leggi auguro di ricordarsi che “il sabato è fatto per l’uomo, non l’uomo per il sabato”.

Ai miei concittadini aretini auguro un futuro migliore del presente (e anche qui ci vuole poco).

Alle archistar auguro un 2010, e oltre, di giusto riposo e meditazione (a Camaldoli e La Verna, troveranno silenzio, accoglienza e indulgenza).

A chi legge il blog ed è d’accordo con me auguro di non pentirsi.

A chi legge il blog e non è d’accordo con me auguro di pentirsi.

A chi ha lasciato commenti auguro, nel 2010, risposte più intelligenti.

A tutti gli amici auguro un 2010 di serenità.

A tutti i nemici …. non sono così importante da averne ma se per caso ce ne fosse qualcuno auguro di passare nella categoria di sopra.

A qualcuno da Hong Kong che da trenta giorni almeno viene immancabilmente a farmi visita, auguro di trovare qualcosa di meglio da fare. Grazie, comunque.

A Ciro, Nikos, Stefano B., Stefano S., Stefano S. (non c’è errore), Ettore Maria, Wittfrida, Giannozzo, Isabella, Paolo, Milena, Pietro P. (non sono io), Guido, Vilma, Sabrina, Enrico D, Enrico B., Angelo, Andrea, Sergio P., Giulio, Leonardo, Michael M., Marco R., Rodolfo, Domenico, Giorgio M., Gabriele, Camillo, Emanuele e a tutti coloro di cui mi sono dimenticato per colpa della mia scarsa memoria e non della mia cattiveria auguro un 2010 che sia come ognuno di loro si aspetta che debba essere.


Buon Anno
Pietro

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27 dicembre 2009

UNA LEZIONE DI URBANISTICA

Pietro Pagliardni

Questa domenica mattina dopo Natale, ho ricevuto una lezione di urbanistica andando a comprare latte e pane, dopo due giorni di festa.
Me l’ha data un vecchio amico che abita nella stessa frazione in cui abito io. Non è un architetto, naturalmente, è un orafo in pensione. Persona facoltosa, livello di istruzione penso non superiore alla quinta elementare, inizio come operaio, poi titolare di una ditta orafa, classico esempio di quella generazione di aretini che hanno dato ricchezza alla città, oltre che alla propria famiglia.


Uomo semplice, dunque, ma di intelligenza acuta; linguaggio colorito in una versione dialettale volutamente accentuata per rimarcare, con orgoglio, la sua origine contadina della Val di Chiana; innamorato, come tutti gli aretini di campagna, del mattone e, in più, del luogo in cui è nato e continua a vivere: San Giuliano.

Fuori della bottega ci siamo messi a parlare del nuovo Regolamento Urbanistico recentemente adottato. Non ho avuto bisogno di spiegargli niente perché sapeva già tutto o quasi, comunque sapeva l’essenziale:
Ho visto la cartina tutta colorata (naturalmente dal suo geometra) e non mi piace.
Gli ho chiesto naturalmente il perché ed è qui che mi ha fatto una inaspettata lezione di urbanistica di alto livello.

Prima devo rapidamente descrivere la situazione dei luoghi: San Giuliano in origine non era niente, poco più che una manciata di case con una bottega lungo una strada provinciale. Oggi è rimasto lo stesso niente, la stessa manciata di case, il centro, ma con una notevole quantità di costruzioni recenti e meno recenti nei dintorni, con due grossi interventi unitari e altri frammentari, quasi tutte scollegati tra loro: tre insediamenti esclusivamente residenziali, due dei quali hanno strade a cul de sac, che hanno appunto come unico centro, ma direi meglio come polo di attrazione, una bottega lungo la strada provinciale, dove si va quasi esclusivamente con l’auto. Un piccolo sprawl, se vogliamo, non dovuto alle distanze o alle dimensioni, che sono modeste e assolutamente pedonabili ma al fatto che si va a piedi solo se c’è la possibilità di incontrare qualcuno o se si attraversa un borgo ma non verificandosi nessuna delle due condizioni, è bene svolgere la “funzione” e tornare a casa prima possibile.

Dunque ecco la lezione dell’orafo-urbanista:
Non ci voleva mica tanto a capire che qui ci sono tanti quartieri separati e che bastava riunirli con strade per fare in modo che questo (la zona della bottega) diventasse il centro del paese! Invece la zona del Vingone rimane totalmente separata, a 100 metri da qui ma separata, la zona delle case nuove ha una strada che finisce nel niente e bastava portarla avanti che si sarebbe collegata qui”.

Gli faccio osservare che l’idea originaria, niente affatto sbagliata, era proprio quella di dare un centro ad ognuna delle tante frazioni, e questa idea era sintetizzata dal sindaco, ingenuamente ma in maniera efficace, con lo slogan “una piazza per ogni frazione”.

In modo assolutamente sorprendente mi risponde, con un filo d'ironia, con un’espressione di questo tipo:
Ah, l’idea della piazza antica! Ma prima di tutto contano le strade: unire con le strade per far venire la gente qui in maniera facile!”.

Tralascio tutte le altre considerazioni svolte perché non essenziali al tema.
Questo “ignorante” ex contadino della val di Chiana (e lo dico non perché sono certo che non mi leggerà ma perché è la verità e se lui mi leggesse si riconoscerebbe volentieri in questa definizione) ha capito da solo, senza studiare all’Università, o forse proprio per questo, la sostanza dell’urbanistica. Ha capito quello che l’urbanistica ha voluto dimenticare ormai da decenni e che i vari Caniggia e Salìngaros hanno ripreso e diffuso: la strada, la rete viaria, la permeabilità sono l’elemento primo generatore della città, la piazza ne è la conseguenza.
Voglio forse dire che il piano lo dovrebbe disegnare l’orafo-urbanista, cioè il citadino comune? Certo che no, ma una passeggiata nei luoghi insieme a lui o a persone come lui un urbanista la dovrebbe fare, per capire ciò che a scuola non insegnano, prima di prendere decisioni che poi è difficile cambiare.

L'amico Ettore Maria Mazzola terminava qualche giorno fa un suo commento ad un post precedente con una provocazione:
Concludo con uno slogan su cui mi piacerebbe discutere: dopo il processo di "periferizzazione" dei centri storici sarebbe il caso di procedere alla "centro-storicizzazione" delle periferie”.
Questa non è una risposta definitiva, però è l’inizio di una risposta.



***
Aggiornamento in progress con un brano tratto da Vita e morte delle grandi città, di Jane Jacobs:
A New York, nello East Harlem, c’è un complesso residenziale il cui vasto prato rettangolare è diventato addirittura oggetto di esecrazione da parte degli inquilini. Un’assistente sociale che frequentava l’ambiente fu colpita dall’insistenza con cui l’argomento riaffiorava nelle conversazioni, per lo più, in apparenza, senza una ragione plausibile, e del dispregio che i residenti dimostravano per il prato, chiedendone la soppressione.
Quando l’assistente sociale chiedeva spiegazioni al riguardo, la risposta abituale era “A che serve?” oppure “Chi lo vuole?”; finalmente un giorno un’inquilina più esplicita degli altri uscì in questa dichiarazione: “Quando hanno costruito questo posto, nessuno si è curato di conoscere i nostri bisogni. Hanno buttato giù le case e ci hanno portato qui, e i nostri amici li hanno trasferiti chi sa dove; tutt’intorno non c’è un posto dove andare a prendere un caffè o un giornale o dove trovare chi ti presti cinquanta cents. Nessuno si è preoccupato delle nostre necessità: ma i pezzi grossi che vengono qui guardano il prato e dicono: “Magnifico! Ora anche ai poveri non manca nulla!
”.


Crediti:
La foto area di San Giuliano è tratta da Google earth

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24 dicembre 2009

AUGURI

Per Natale il link ad un bell'articolo di Ciro Lomonte, che trasuda fiducia e speranza, pubblicato nel blog Fides et Forma:




A tutti Auguri di Buon Natale


Piero

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12 dicembre 2009

IL FALLIMENTO DEGLI URBANISTI

Sulle pagine culturali di Repubblica del 10 dicembre compare un articolo di Francesco Erbani dal titolo assolutamente invitante: Noi urbanisti abbiamo fallito.
Lo leggo molto incuriosito, dato che non posso che convenire sull’assunto, nella speranza di trovarvi un’analisi delle cause di detto fallimento.
Il primo urbanista a cui Erbani si rivolge è Leonardo Benevolo il quale esordisce dicendo:


Oggi in Italia l’urbanistica è un’attività screditata, considerata con fastidio e preferibilmente accantonata. Nelle amministrazioni periferiche, Regioni, Comuni e Province, ha un posto secondario, con uffici ridotti al minimo e disponibilità economiche precarie; nella vita privata dei cittadini italiani compare quasi solo come un ostacolo sgradito, da eludere o eliminare. Dovunque se ne parla malvolentieri e il meno possibile”. Continua… Oggi gli atti urbanistici sono diventati enormi pacchi di carte, inconsultabili ed ermetici. La corrispondenza tra gli atti e le trasformazioni reali è difficile o impossibile da accertare. Governanti e governati, per diversi motivi, condividono il desiderio di trascurare, o fare semplicemente a meno, di questa disciplina”.

Prosegue denunciando la contraddizione che esiste tra questo abbandono della disciplina e il diffuso interesse che invece c’è per il paesaggio e la sua salvaguardia.
Mi fermo a queste affermazioni di Benevolo anche se nell’articolo ve ne sono altre di Paolo Berdini, di Edoardo Salzano e di Paola Bonora.

Ciò che accomuna i vari pareri è il disincanto e il senso di sconfitta che traspare dalle parole di tutti, ma ciò che manca del tutto è un minimo di analisi delle cause e un po' di autocritica sul ruolo svolto dagli urbanisti, forse appena accennata da Benevolo, in quel riconoscere che “gli atti urbanistici sono diventati enormi pacchi di carte, inconsultabili ed ermetici”.
Chi rimanda le colpe alla politica, chi alla speculazione ma nessuno che si azzardi a riconoscere gli errori disciplinari. Sembra che gli architetti non siano esistiti o abbiano subito chissà quali violenze da parte degli altri attori sulla scena. Benevolo stesso non coglie la palese contraddizione che c’è tra la denuncia, reale, di un’urbanistica ridotta a montagne di carte inutili, e quella della inadeguatezza dell’organico degli uffici urbanistici regionali, che sono in realtà i primi legificatori e produttori di quelle montagne di carta, utili solo a distruggere i boschi che, a parole, i piani intendono tutelare.

Nessuno che si sia posto il problema di come gli architetti abbiano svolto un ruolo politico preminente, invadendo campi altrui. Nessuno che si domandi il perché di un fallimento epocale e provi a domandarsi: ma dove abbiamo sbagliato? Le responsabilità sono sempre degli altri.

Nessuno capisce più gli architetti e gli urbanisti, nessuno apprezza, giustamente, il loro lavoro, dato che le città, cioè il risultato e il prodotto del loro lavoro, sono quello che sono ma la colpa sembra stare altrove. Mi domando: ma se tutti i pazienti dei medici morissero, la colpa sarebbe dei pazienti che non amano la vita o dei medici che non sanno curare?

Se gli urbanisti tornassero a fare il loro lavoro, cioè disegnare la città e non inventare marchingegni normativi fatti per soddisfare le loro ideologie o la loro ossessione del metro cubo o le necessità dei politici di turno, se gli urbanisti si sforzassero di farsi capire dalla gente e di entrare in sintonia con essa, invece che essere strumenti sussidiari o collaterali della politica, se, insomma, avessero l’autorevolezza necessaria per dire “non hai fatto come ti ho detto e tu sei il responsabile”, allora sarebbero credibili. Così, invece, entrando in concorrenza con la politica, alimentano solo un clima di impotenza e di sfiducia che permette alla politica di dire: “io ci metto la faccia, io prendo i voti, io rischio e tu, dunque, architetto, fai quello che dico io”.

Per fare l'urbanista non basta amare e rispettare la città e il territorio, bisogna rispettare i cittadini, ascoltarli, cercare di coglierne i bisogni, fare il possibile e il lecito per accontentare i loro desideri e i loro sogni. Vorrei sapere quanti urbanisti lo fanno con convinzione e non come puro atto formale. Io credo che i cittadini siano i veri soggetti dimenticati dagli urbanisti, oggi che c'è l'obbligo dell'ascolto più che mai, anzi, proprio per questo. Quando va bene l'urbanista si rivolge a determinate categorie di cittadini: i commercianti, gli immigrati, le fasce sociali che necessitano di alloggi sociali, le giovani coppie, gli industriali, ecc.

Leggere quell’articolo è disarmante perché non c’è traccia di ripensamento, di revisione critica dei propri errori e nessuna speranza di intravedere una soluzione al problema, con ciò coinvolgendo anche le nuove generazioni nel loro fallimento.
Edoardo Salzano, ad esempio, nel suo ultimo editoriale sul sito Eddyburg, affronta ancora una volta il tema “consumo di suolo”. Lo fa con argomenti ragionevoli e comprensibili, anche se l’espressione stessa “consumo di suolo” è terrificante perché paventa quasi la morte del pianeta sotto il peso dell’azione antropica, in una visione pessimistica dello sviluppo tout court. Tuttavia, soprassedendo su questo e convenendo invece che è assolutamente necessario, per il bene della città e dei suoi abitanti, di avere una crescita interna alla città stessa, quindi con alte densità, cioè con un numero alto di abitanti per ettaro, ma senza crescere in altezza, non una parola spende Salzano sulla forma e il disegno della città, limitandosi a dati quantitativi e mai qualitativi, con un atteggiamento che, paradossalmente, è simmetrico a quello della speculazione edilizia, cui interessa solo la quantità di metri cubi, naturalmente di segno opposto.
Sembra quasi vi sia una sorta di diabolico, innaturale e indissolubile rapporto tra coloro che vogliono costruire ad ogni costo, e per denaro, e coloro che vi si oppongono ad ogni costo per “salvare il pianeta”. Gli uni e gli altri, pur con intenzioni diverse e opposte, sbagliano e ripetono gli errori già fatti. Vorrei che fosse chiaro che non sono così pazzo da assimilare personaggi che meritano stima e rispetto, non esenti da critiche, quali L. Benevolo e E.Salzano, allo speculatore edilizio, ma dico che sono i due piatti della stessa bilancia il cui peso maggiore è sempre e comunque da una sola parte.

La battaglia sulla quantità è perdente per definizione, perché il mercato è più forte della politica e degli architetti e, se non lo fosse, significherebbe vivere in un regime autoritario e dirigista, come in effetti spesso accade.

Io credo che la battaglia può essere combattuta solo sul piano della qualità, del disegno, perfino del bello non su quello del “quantum”, del metro cubo. Occorre proporre alla gente e agli operatori uno scambio e un patto ragionevole: città belle e vivibili in cambio di qualche metro cubo in più, città simili a centri storici e non periferie squallide, senza centellinare il metro cubo.
La città storica è molto densa, molto vivibile e molto appetibile, a giudicare dai valori immobiliari. Il mercato dice quasi sempre il vero.



Crediti: L'immagine della Torre intoretto è tratta dal blog parlaBrescia.it

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6 dicembre 2009

UNA CITTA' DIVERSA E' POSSIBILE: LEON KRIER E PIER CARLO BONTEMPI (2)

Pietro Pagliardini

Continuo la pubblicazione di alcuni documenti e progetti del workshop del 2002 su Arezzo redatti dall’Arch. Pier Carlo Bontempi. Inizio con un estratto dalla relazione di presentazione del progetto.
Pier Carlo Bontempi racconta di una sua visita privata, con famiglia, ad Arezzo e descrive il panorama che si vede dalla sommità della città:

Bene, guardando il panorama verso nord i miei figli hanno commentato dicendo: “ma qui è bellissimo, non si vede la città moderna”.
Questo mi ha fatto riflettere su una grande opportunità che Arezzo ha, forse unica fra le città di una certa dimensione in Italia, di aver potuto mantenere almeno in una sua parte il fantastico rapporto che doveva esistere in tutte le città italiane fra la città murata e il paesaggio della campagna
.



Questo grande valore che avete il dovere di tramandare ai vostri figli così che possa continuare la piacevole sorpresa, che c’è stata per i miei, di vedere ancora tra cento, duecento o trecento anni questa porzione di campagna , che arriva fin sotto le mura della città e che costituisce uno spettacolo straordinario. Mi perdoni il sindaco che ha citato personaggi illustrissimi che hanno lavorato ad Arezzo, ma è forse la cosa più unica che avete ad Arezzo; affreschi bellissimi ci sono in altre città, Cimabue ha fatto qualche altro crocefisso altrettanto straordinario, ma una porzione di paesaggio quasi incontaminato, o che può tornare ad esserlo, fin sotto le mura di una città di grandi dimensioni come la vostra, forse non esiste in nessun altro luogo in questo straordinario paese.






Sono stato anche abbastanza fortunato quando Calthorpe ha deciso, discutendo insieme a noi, quale dovesse essere il tema che toccava a me sviluppare in questa settimana di lavoro, di assegnarmi questa porzione di città che guarda a nord verso la campagna.

L’idea che mi è venuta affrontando questo tipo di tema è stata quella di non trattare questa zona come un quartiere urbano, ma di considerare quella zona, la Catona, piuttosto come l’ultimo paese della campagna che si avvicina alla città, anziché un nuovo quartiere urbano che si espande e che chiude la cintura moderna intorno alla città storica.
Per questo il disegno credo sia abbastanza rappresentativo della idea che ha guidato il mio lavoro, cioè quella di circoscrivere l’abitato esistente all’interno di una cintura verde e arrivare ad una sua definizione per dargli maggiore qualità, perché se andiamo a vederlo dall’alto delle mura ci appare bello, se andiamo a percorrerlo per le strade, ci appare ancora con qualche problema da risolvere.







Allora il mio tema è stato quello di definire in maniera precisa l’insediamento come un paese di campagna, che si accosta vicinissimo città ma il cui linguaggio rimane separato dalla città. (Omissis)
Credo che l’immagine possa servire a suggerire il tipo di architettura che mi permetto di indicare come proposta per gli sviluppi edilizi nuovi all’interno di questo, che deve mantenere il carattere di un paese. E’ una edilizia che riprende il patrimonio straordinario che avete nelle vostre campagne, che lo adatta in funzione delle necessità contemporanee ma che cerca di dare una risposta in sintonia con il paesaggio straordinario che deve accoglierlo”.






L’aspetto che Bontempi coglie del rapporto stretto tra la città e la campagna nel lato nord di Arezzo è una costante in tutte le osservazioni e le descrizioni che i viaggiatori hanno lasciato della città fin dall’800. La forma a ventaglio di Arezzo il cui lato nord è segnato dalle mura che marcano ancora il confine reale e visibile tra città e campagna è stata colta sempre anche dai redattori dei piani urbanistici. Il vigente piano di Gregotti e Cagnardi aveva chiamato questa parte nord “I giardini di Arezzo”, lasciando un cono libero che partiva dalle mura fino alla corona di colline che racchiudono la piana di Arezzo a nord, proprio per mantenere e conservare questo carattere unico e distintivo della città che non si è espansa in quella direzione per motivi geografici, climatici e di rapporti territoriali.

Anche il consulente del Piano strutturale, Peter Calthorpe, ha individuato subito questa caratteristica peculiare e straordinaria, descrivendola, con l’entusiasmo tipico del viaggiatore americano, come la possibilità, dalle case del centro storico, di sentire ancora il canto del gallo (citazione a memoria).

E’ davvero una percezione immediata e istintiva che non necessita nemmeno di essere razionalizzata in chissà quali ragionamenti per essere dimostrata vera: è l’essenza stessa della città di Arezzo, orientata a sud, aperta ad est e ad ovest, ma chiusa a nord.

Ma non c’è niente da fare, nonostante questa evidenza c’è una scuola di pensiero, chiamiamola così, che ritorna ciclicamente ed è convinta che quel vuoto a nord sia una mancanza invece che una risorsa e che la città debba essere “richiusa a nord, come tutte le altre città”. Eppure questa espressione dovrebbe far venire il dubbio che forse sarebbe meglio conservare questo carattere distintivo della città. Questa scuola di pensiero ha evidentemente lavorato bene, tanto da fare accettare allo stesso Calthorpe il fatto di costruire in quella direzione.

Pier Carlo Bontempi si inserisce in questo dibattito con un compito ben preciso che è quello di dare forma al nuovo insediamento e lo fa in maniera egregia, cogliendo questa contraddizione e tentando di risolverla con un progetto che è “l’ultimo paese della campagna che si avvicina alla città, anziché un nuovo quartiere urbano che si espande e che chiude la cintura moderna intorno alla città storica”. Evidentemente ha capito che quell’insediamento è una scelta sbagliata, e come lui Calthorpe, e lucidamente tenta di limitare il danno.
Purtroppo la forte vicinanza alle propaggini della città, a quella fascia di edificato disordinato che lui garbatamente descrive come un’area che “ci appare ancora con qualche problema da risolvere” impedirebbe comunque di leggerlo come l’ultimo paese prima della città, non essendo nemmeno orientato lungo la direttrice d’ingresso.
Il vero problema è che non si sarebbe mai dovuto costruire in quel luogo, tantomeno incrementare l’insediamento.

Ma, restando all’interno di questo equivoco, il progetto è comunque significativo per la capacità di integrare l’esistente con il nuovo e di creare un villaggio che ha una sua autonomia urbanistica, un centro, una rete di strade continua e gerarchizzata e orientata in modo da lasciare visuali libere verso il paesaggio e verso le mura. Il problema è che dubito che sarà realizzato con questo impianto o con uno simile, tenuto conto delle inclinazioni culturali del redattore del piano, subentrato a Calthorpe che è stato ritenuto evidentemente un ostacolo, di genere del tutto diverso, altrimenti questi progetti sarebbero stati tirati fuori e mostrati.

L'assoluta casualità ha determinato il fatto che ad Arezzo si concentrasse il meglio del New Urbanism e di quel movimento europeo che punta alla riscoperta dell’urbanistica e dell’architettura tradizionale -Calthorpe, Lèon Krier, Per Carlo Bontempi- la volontà comune ad amministrazioni di diverso colore che si sono succedute ha voluto che quell’anomalia fosse cancellata a vantaggio di un’urbanistica burocratica senz’anima e senza altro scopo che non sia il controllo totale sui cittadini e sui processi naturali che regolano la crescita della città.


CREDITI:

La foto aerea è tratta da Google Earth. Le immagini dei progetti di Léon Krier e Pier Carlo Bontempi sono fotografie da me eseguite durante l'esposizione al workshop. Gli stralci delle relazioni sono state ottenute sbobinando registrazioni da me fatte durante la presentazione.

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3 dicembre 2009

MINARETI CONTESTUALIZZATI

Pietro Pagliardini

Guardando nel link che segue queste 12 foto di minareti sparsi in ogni parte del mondo non è difficile riconoscere, per una buona metà di essi, la regione geografica in cui essi si trovano:


Ci sono alcune stranezze, è vero, come una Giralda a Parigi, ma complessivamente queste moschee hanno saputo assimilare alcuni caratteri architettonici dei luoghi, pur conservando intatta la loro riconoscibilità di luogo di culto islamico.

Si potrà attribuire questo fatto al carattere fortemente identitario di quella religione, si potrà ipotizzare una sapiente strategia di penetrazione, si potrà perfino pensare ad una cultura che non ha fatto i conti con la modernità, in specie dal punto di vista sociale e politico, si potrà dire tutto quello che si vuole ma resta questo fatto: le moschee sembrano avere la capacità di conservare la loro forma tradizionale e contemporaneamente di adattarsi, per quanto possibile, alle varie realtà. Le chiese cattoliche hanno, invece, perso l'una e l'altra.

Ma è davvero inevitabile la coesistenza tra tradizione e modernità, identità e tolleranza? Dobbiamo proprio rassegnarci alla scelta tra una modernità indistinta, vuota e relativista, e una tradizione identitaria ma anti-moderna e totalizzante?

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1 dicembre 2009

UN ACUTO "SPROLOQUIO" SULL'ARA PACIS

Un amico, medico bolognese con una grande passione per l'architettura e l'arte, mi ha scritto queste sue impressioni sull'Ara Pacis ed io, con il suo consenso, le pubblico perché i suoi "sproloqui" sono molto acuti oltre che divertenti.

*****
IMPRESSIONI SULLA SCATOLA DI MEIER
di Enrico Delfini

Pochi giorni fa ero a Roma, e avendo un paio di ore libere, ho pensato di recarmi di persona a vedere la scatola di Meier sul lungotevere (o, come si dice da sempre nella mia famiglia, sul "Lungarno del Tevere").
Sull'opera di Meier è già stato detto tutto e il contrario di tutto; aggiungo, per quel che valgono, le mie personali impressioni.
La "scatola" come oggetto è decisamente asettica e anonima. E probabilmente è così che vuole essere. Sembra pensata per essere un corpo estraneo, privo di fronzoli, che non si mette in contatto né in rapporto con gli edifici circostanti (chiesa di San Rocco e un'altra che adesso non ricordo).

Eppure, mi trasmetteva un senso di familiarità, di conosciuto. Ho impiegato qualche minuto a capire la ragione di ciò: è un semplice, banale, capannone!

Nella mia regione, ma non solo, il capannone è un mito, un sogno. Qualsiasi contadino ne vuole uno, meglio magari due, possibilmente vicino-vicinissino a casa. Non importa se rende scomodo l'accesso alla proprietà, non importa se poi mancano i soldi per terminare la casa, o per arredarla. L'importante è erigere un bel parallelepipedo in cemento armato e mattoni, con tetto in elementi prefabbricati, per contenere macchine e macchinari che magari non ci sono, ma....un capannone è per sempre....

Appena poi un esponente di questa tribù, che non rischia l'estinzione, si trasforma in piccolo imprenditore nel commercio o nell'artigianato, bisogna dotarsi di un capannone "moderno". Solo sulla via Emilia, nei 40 chilometri tra Bologna e Modena, ci sono almeno una cinquantina di capannoni che non hanno nulla da invidiare all'opera di meier. Che sia un concessionario auto, una mostra di mobili o di macchine agricole, un centro di bricolage, o di statue da giardino, la tipologia standard è sempre quella. Forme squadrate, ampie vetrate, colore uniforme, con qualche raro elemento caratterizzante, tipo bandiere o pinnacoli vari. Elementi pseudo-decorativi tipo mensole, graticci, paraventi giganti, si sprecano.
La teca di Meier ripropone lo stesso modello, che tutto sommato è entrato nell'orizzonte comune di tanti.

Ma, essendo un'opera architettonica e non una statua, occorre valutarne, oltre l'estetica, anche l'aspetto funzionale.
Orbene, per chi arriva all'Ara pacis dal centro (via Tomacelli), non c'è dubbio che l'oggetto si presenta in modo inequivoco: nome e destinazione sono scritti a caratteri cubitale sulla parete sud; e il gioco delle scale, fontane, muretti, indirizza il turista all'ingresso senza possibilità di errore.
Ma se, per ventura, qualcuno decide di arrivare da nord, nessun segnale, nessun indizio permette di presagire che quel muro bianco è quello che è, e non il retro di una stazione di servizio, o di un ristorante cinese, o di un qualsiasi altro edificio.


In prossimità dell'angolo di nord-ovest, all'inizio della enorme parete, vetrata, una vera e propria porta, con tanto di maniglia, invita all'ingresso, ma è chiusa; solo un foglietto vergato a mano, indirizza verso la giusta direzione.

L'enorme parete trasparente, consente una buona visione dell'interno dell'"hangar" in cui sorge il monumento augusteo. Lo spazio candido è suggestivo e spoglio; forse anche troppo spoglio. Dall'esterno si può agevolmente ammirare l'altare romano, ma anche angoli disadorni, porte chiuse, seggiole vuote, bianche pareti sterminate.
Giunti all'ingresso, appena dentro, una squallida biglietteria, che funge anche da bookshop, intercetta il visitatore: l'entrata costa 7 o 8 euro, e comprende anche l'accesso a mostre temporanee ospitate nei sotterranei (credo).
Per vedere un poco più d'appresso ciò che si vede gratis da fuori è piuttosto caro. Come me devono pensarlo anche altri turisti, tra cui due gruppi di giapponesi.

Ed ora, qualcosa sui materiali. Da quel che posso capire, si tratta di vetro, e di travertino. Parrebbe una scelta in linea con la tradizione locale. ma c'è un ma: superfici tanto vaste, uniformemente lisce, in tale materiale, assumono (hanno assunto) in pochi anni un aspetto polveroso di sporco, assai poco elegante. Effetto inevitabile, potremo dire, ma che in altri palazzi del centro di Roma, è mitigato dai motivi decorativi che, paradossalmente, possono addirittura giovarsi, entro certi limiti, di un certo grado di accentuazione dei contrasti.

Per non farmi mancare niente, termino con qualche nota su come, se fossi stato architetto e fossi stato interpellato, avrei affrontato il lavoro.
1) Dovendo valorizzare un monumento prezioso, ma non maestoso, avrei cercato di valorizzarne il candore marmoreo, cercando il contrasto con qualcosa di verde, tipo prato. (in antico l'opera era colorata, ma adesso no!). Ovviamente occorrerebbero sentieri di avvicinamento in materiale calpestabile, non "fangoso".
2) Trattandosi di opera non molto grande, non è conveniente poterla osservare già a grande distanza. Nulla di male a strutture che la nascondano fino a che si giunga ad una distanza giusta per osservare e godere.
3) L'accesso deve essere libero e gratuito, trattandosi di un monumento-messaggio che da duemila anni inneggia alla pace. Un buon punto ristoro-bookshop nelle vicinanze può garantire un gettito certamente considerevole.
4) Negli spazi sotterranei, non mostre temporanee avulse dal contesto, ma un percorso dedicato al monumento stesso, alla sua storia, al suo restauro, ad altre antichità romane; magari a pagamento.
5) Come progetterei la "casa" dell'Ara pacis? Una struttura che la racchiuda, e la nasconda, pur essendo aperta; qualcosa del tipo un giro e mezzo di spirale, composta di un'unica struttura o di più pannelli affiancati, curvilinei, o a segmenti spezzati, che racchiudono un'area non troppo vasta, a prato, con al centro l'ara. Per dare un'idea, se l'ara è di circa 8x15 metri, considerare una superficie di 20x40.
6) Le mura di questo specie di pozzo semiaperto potrebbero essere high-tech, o in muratura, o in marmo, o un misto; potrebbero essere nude, o decorate con inserti in marmo. Ci si può pensare. L'altezza deve essere tale da conferire dignità e proporzione all'esterno anche da una certa distanza. Se la larghezza media fosse di una trentina di metri, bisogna considerare almeno un 16-18 metri in altezza.
7) Importante la copertura. Penso che un simile monumento debba ricevere la luce dall'alto. (Augusto era un dio; la pace è il sommo dono celeste). La tecnologia moderna consente una infinità di soluzioni, dai tempi della copertura dello stadio olimpico di Monaco'72. Da prevedere le conseguenze del tempo, dello smog e le possibilità di pulitura.
Scusa per lo sproloquio, e per...l'invasione di campo !

Enrico

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30 novembre 2009

UNA CITTA' DIVERSA E' POSSIBILE: LEON KRIER E PIER CARLO BONTEMPI (1)

Nel luglio 2002 si tenne ad Arezzo un Workshop in occasione della redazione del Piano Strutturale. Il Consulente scientifico del piano era, al tempo, Peter Calthorpe. Al Workshop erano stati invitati, tra gli altri, Lèon Krier e Pier Carlo Bontempi. Di quei pochissimi giorni di lavoro cui seguì una mostra e un dibattito pubblico di grande successo e interesse, sembra che si sia persa ogni traccia: nel sito del Comune c’è una cronologia puntigliosa e dettagliata dei lunghi anni di gestazione del PS, ma del workshop solo questa comunicazione.
Poiché a suo tempo avevamo fatto foto e raccolto un po’ di materiale, sono andato a ripescarlo e lo pubblico in due parti.


In questa prima parte ci sono stralci della relazione di Lèon Krier e alcuni dei suoi disegni, nella prossima ci saranno stralci della relazione di Pier Carlo Bontempi, sempre con disegni.

Stralci dalla relazione svolta da Lèon Krier:
Calthorpe è forse, all’interno del movimento del New Urbanism, il teorico che più di ogni altro fa riferimento alla grande scala territoriale, riuscendo a fare una sintesi di concetti molto atomizzati, simili alla mia concezione di quartiere o di struttura della città della piccola città.
Calthorpe ha concepito l’idea della città policentrica, basati su una catena di villaggi collegati tra loro da sistemi di trasporto pubblico. Penso che Arezzo sia una città “felice” per la sua collocazione geografica, ma che la sua periferia presenti le stesse problematiche delle altre aree suburbane italiane.
In particolare Arezzo presenta problemi difficili da risolvere dal punto di vista strutturale, poichè i suoi sobborghi risultano estremamente frammentati dalla presenza di infrastrutture del traffico, dei trasporti e dei percorsi d’acqua; elementi questi che non aiutano una buona forma urbana.


Il grande concetto di Calthorpe è di “legare” la città diffusa, periferica, in una catena di quartieri a forma di “ipsilon” e di concentrare la crescita futura della città su questi tre assi. Mi sembra una scelta molto pragmatica ma anche possibile, perché su questi tracciati ci sono vaste aree per lo sviluppo, che possono permettere ad una grande città di espandersi ulteriormente, come ha fatto negli ultimi 50 anni.
Dunque, invece di una crescita atomizzata, si potrà prevedere il completamento dei quartieri, e avere così una crescita all’interno, piuttosto che una crescita esplosiva.
(omissis)

Girando per la città ci rendiamo conto quanto sia vero l’assunto che una grande quantità di spazio è contraria ala qualità urbana dello spazio. Le immagini che seguono sono un esempio che mostra quanto queste aree frammentate possano nel futuro divenire aree di crescita urbana, fino a raggiungere una densità forse non uguale a quella del centro storico, ma certamente uguale alla qualità spaziale del centro storico, anche se meno densa.

Gli isolati che abbiamo disegnato, oltre a contenere gli edifici esistenti, avranno in futuro la tendenza a creare fronti edilizi continui, anche se di diversa altezza, secondo il vecchio sistema di facciate e di muri, talcolta così raffinati nei centri storici o nei piccoli nuclei di campagna fuori città. Questi servono come modello diretto, e li percepiamo non come segni della storia, ma segni della tecnologia per creare nuovi centri storici. (Omissis)

Ogni quartiere avrà il suo centro, e una piazza, e un suo limite chiaramente leggibile. (Omissis)

Automobile e pedoni devono poter coesistere in armonia piuttosto che in conflitto. (Omissis)
Strade come Corso Italia e Via Roma, che attraversano tutto il corpo della città antica, hanno la capacità di legare al centro storico tutti i quartieri della nuova Arezzo, e soprattutto di superare la terribile frattura creata dalla ferrovia e permettere alla città di collegarsi all’università e all’ospedale, che in futuro potrà espandersi e diventare un quartiere indipendente”.

E’ ovvio che lo scopo di questo e del prossimo post non è quello di alimentare un dibattito su Arezzo, dato che sarebbe impossibile per chi non conosce la città; tuttavia dal confronto del testo con le immagini si comprendono bene i principi essenziali che stanno alla base del pensiero di Lèon Krier e di Peter Calthorpe e che, pur applicati ad una situazione specifica, hanno una portata assolutamente generale:
1. una città costruita in continuità con il centro storico, fatta di quartieri ognuno dotato di un proprio “centro storico”, capace di ridare dignità a zone oggi monofunzionali e anonime;
2. un potenziamento del trasporto pubblico con la valorizzazione del sistema ferroviario attualmente esistente lungo il quale andare ad individuare le aree di crescita della città, alleggerendo così la pressione del traffico privato in ingresso e in uscita dalla città;
3. una città che cresce su se stessa con densità molto alte simili a quella del centro storico;
4. una crescita che si innesta sui due assi viari principali esistenti.

Ma il successo di questi propositi non è indifferente al tipo di disegno urbano, e questo non è una variabile indipendente tale da dare esiti positivi qualunque esso sia: quando si dice alta densità si intende che il pieno deve prevalere sul vuoto, non che si realizza con edifici di maggiore altezza; si intende che il nuovo tessuto urbano dovrà essere analogo a quello della città storica, fatto da isolati e strade racchiuse da fronti edilizi continui. Senza queste caratteristiche i buoni propositi, le scelte “politiche”, sono destinate al fallimento e alla ripetizione degli errori del passato, lontano e più recente.

Per questo c’è da augurarsi che, a distanza di sette anni, questi disegni non siano stati rimossi dalla memoria, oltre che abbandonati in archivio come spesso accade nei nostri comuni, che vengano ripresi, sviluppati, perfezionanti, anche corretti se è il caso. Non esiste progetto che non contenga errori o analisi non del tutto condivisibili, e anche questo non sfugge alla regola, ma il workshop è stata una occasione davvero unica e straordinaria di elaborazione concreta di proposte e progetti fatti da straordinari architetti e urbanisti quali Lèon Krier, Pier Carlo Bontempi, Peter Calthorpe; nato probabilmente per caso, se non addirittura per un equivoco, ha fornito materiale di grande qualità che sarebbe insano fare finta che non sia mai esistito per ricominciare con nuovi progetti, naturalmente nel solito filone modernista.


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29 novembre 2009

LANGONE ANCORA CONTRO I GRATTACIELI

Su Il Foglio ancora una Preghiera di Camillo Langone contro i grattacieli.


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26 novembre 2009

UN OMAGGIO AI RAFFINATI DISTINGUO SU LE CORBUSIER (e sui suoi seguaci)

Pietro Pagliardini

Quella che alcuni giudicano essere una demonizzazione acritica perpetrata da parte di questo blog ai danni di Le Corbusier pare essere invece una corrente di pensiero piuttosto diffusa e che si va consolidando sempre più. Evidentemente l’aumento della distanza temporale fa perdere i freni inibitori verso quell’aura di intoccabilità e sacralità che si “deve” avere verso un personaggio che, nel bene o nel male, fa parte della storia del XX secolo.
Un esempio addirittura eclatante ne è un articolo di Theodore Dalrymple sul City Journal, segnalatomi ancora una volta da Angelo Gueli, il cui titolo non lascia spazio a incertezze: L’Architetto Totalitario.
Ma è l’attacco del pezzo assolutamente fulminante:

Le Corbusier sta all’architettura come Pol Pot sta alle riforme sociali”.



Difficile trovare qualcosa di più dissacrante. Come si vede non si lavora secondo le raffinatezze critiche che talvolta nascondono l’incapacità di vedere la realtà nella sua crudezza.

Continua l’articolo:
In un certo senso egli ha meno attenuanti per la sua attività di Pol Pot: diversamente da questo egli possedeva un grande talento, persino del genio. Sfortunatamente ha orientato i suoi doni a fini distruttivi e non è una coincidenza il fatto che abbia servito volentieri sia Stalin che Vichy. Come Pol Pot egli voleva ripartire dall’Anno Zero: prima di me, niente, dopo di me, tutto.
Con la loro presenza, le torri rettangolari rivestite di freddo cemento che lo ossessionavano, spazzarono via secoli di architettura.
Difficilmente ogni paese o città in Gran Bretagna (per prendere solo una nazione) non ha avuto la sua forma distrutta da architetti e urbanisti ispirati dalle sue idee
”.

Quest’ultima è, secondo me, la conseguenza fondamentale che sfugge ai più: il contributo degli allievi, consapevoli o meno, che, nonostante i soliti raffinatissimi critici neghino decisamente, continuano imperterriti e impuniti sulla scia del Maestro a disegnare piani e progetti; ed è normale che sia così perché l’imprinting culturale ha memoria lunga e si può cambiare solo con il tempo o con una scossa, come quella che è avvenuta nella prima metà del secolo scorso, ovviamente diretta da pochi ai danni di molti. Sui meccanismi di questa aristocratica imposizione dall’alto di canoni sgraditi ai più è illuminante Tom Wolfe in Maledetti architetti, uno dei primi libri a fare contro-informazione in questo campo (ma anche Tom Wolfe viene giudicato poco meno che uno zotico dai nostri esigentissimi critici).

Prosegue l’articolo:
Gli scritti su Le Corbusier iniziano spesso con un riconoscimento alla sua importanza, qualcosa come: "E 'stato l'architetto più importante del ventesimo secolo”. Amici e nemici sarebbero d'accordo con questo giudizio, ma importante è, ovviamente, l’ambiguità morale ed estetica. Dopo tutto, Lenin è stato uno dei politici più importanti del ventesimo secolo, ma fu la sua influenza sulla storia, non i suoi meriti, a renderlo tale: allo stesso modo Le Corbusier. Eppure, proprio come Lenin è stato venerato a lungo dopo che la sua mostruosità avrebbe dovuto essere evidente a tutti, così Le Corbusier continua ad essere venerato”.

L’articolo, che è molto lungo, prosegue parlando di libri e mostre che recentemente hanno celebrato LC e l'autore racconta episodi a lui accaduti durante la visita ad una di queste mostra a Londra:
Ho segnalato alle signore una sezione della mostra dedicata al piano Voisin, un progetto di Le Corbusier per sostituire un ampio quartiere di Parigi con edifici fondamentalmente dello stesso disegno di quelle che abbellisce la periferia di Novosibirsk e di ogni altra città sovietica (per non dire niente di Parigi stessa e delle sue alienanti banlieues). Se realizzato, il piano avrebbe cambiato, dominato, e, a mio avviso, distrutto l'aspetto di tutta la città. Qui, la mostra trasmetteva un film del 1920 che mostrava Le Corbusier di fronte a una mappa del centro di Parigi, una gran parte del quale egli procedeva a coprire con un pennarello nero con tutto l'entusiasmo di Bomber Harris (1) che pianifica l'annientamento di una città tedesca durante la seconda guerra mondiale.

Le Corbusier esaltava questo tipo di distruttività, come immaginazione e coraggio in contrasto con la convenzionalità e la timidezza di cui ha accusato tutti i coetanei che non siano caduti in ginocchio davanti a lui. Dice qualcosa dello spirito di distruzione che alligna ancora in Europa il fatto che un simile film venga fatto vedere non per suscitare orrore e disgusto, o almeno ilarità, ma ammirazione
”.

Salto tutta la parte centrale, di cui consiglio vivamente la lettura, e riporto la conclusione del pezzo:
Le Corbusier non appartiene così tanto alla storia dell'architettura quanto a quella del totalitarismo, a quella deformità spirituale, intellettuale e morale degli anni tra le due guerre in Europa. Chiaramente, non era solo, era sia un creatore che un sintomo dello Zeitgeist. I suoi piani per Stoccolma, dopo tutto, sono stati una risposta a un concorso ufficiale svedese su come ricostruire la bellissima città vecchia, e la sua distruzione era sul programma. È un segno della forza ancora presente della tentazione totalitaria, come il filosofo francese Jean-François Revel l’ha chiamata, il fatto che Le Corbusier sia ancora venerato nelle scuole di architettura e altrove, piuttosto che universalmente vituperato”.

A chi pensasse che questo su Le Corbusier è un giudizio solo politico che però nulla toglie alle qualità dello stesso e che il giudizio sul genio architettonico deve essere tenuto separato e distinto da quello sull’uomo e sulle sue debolezze io dico che non ha capito niente del personaggio e del suo pensiero e che, tra l’altro, non gli renderebbe giustizia.
Le Corbusier ha fatto azione politica per mezzo della sua architettura, della sua urbanistica, della sua teoria e del suo pensiero e le opere, sue e dei suoi seguaci, sono l’espressione materiale della sua visione  della politica e della società: non si può apprezzare l’architetto e teorico e condannarne il pensiero politico; il pacco va preso tutto insieme, volenti o nolenti.



***

Theodore Dalrymple, un medico, è un redattore di City Journal e Dietrich Weismann Fellow presso l'Istituto di Manhattan. Il suo libro più recente è Non con un bang, ma con un gemito.

(1) Soprannome del comandante in capo della RAF durante i bombardamenti inglesi sulla Germania.

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21 novembre 2009

LE ARCHISTAR SECONDO MARC AUGE'

Pietro Pagliardini

Salvatore d’Agostino ha pubblicato su Wilfing Architettura un articolo di Marc Augé tratto da Le Monde, dal titolo L’architettura globale. Rimando al link per la lettura del testo.
L’analisi che Augé svolge sul fenomeno archistar, facendo ricorso a concetti del tutto analoghi a quelli di Nikos Salìngaros nel libro No alle archistar, LEF, 2008, e non tanto diversi da quelli ripetuti più volte in questo blog, è oggettiva; le proposte per il futuro che auspica rischiano di essere, a mio avviso, peggiori del male.
La critica all’architetto demiurgo che progetta per il villaggio globale non sembra affatto finalizzata al rispetto delle culture locali e dei luoghi ché anzi, dice Augé:
Le polemiche sull’importanza di adattarsi al contesto non hanno senso in un’epoca in cui ogni contesto locale vuole anche essere globale e in cui la firma dell’architetto diventa il simbolo di questo cambiamento di scala”.
Quindi l’autore sembra prendere atto di questa realtà giudicandola coerente con le aspettative delle comunità locali.(1)



Poi prosegue:
La retorica dei suoi discorsi (dell’architetto) serve a conquistare mercati: per questo, spesso imita l’ideologia degli imprenditori. Per lo stesso motivo incarna il cammino della storia”.
Ma dove vada la storia, per fortuna, neanche Augé si azzarda a prevederlo. Da notare che Augé non distingue la figura dell’architetto da quella dell’archistar, a riprova che sono proprio loro, le archistar, a dare il passo agli architetti in genere. E non è un caso che l’antropologo abbia colto nella mitica espressione “cultura del progetto”, che poi altro non è che la "cultura del proprio progetto”, ciò che accomuna gran parte degli architetti.

Ma a questo punto c’è il passaggio decisivo, il cambio di marcia. La disapprovazione di Augé per gli architetti che sono “più affascinati dalla possibilità di lasciare la loro impronta sui luoghi più importanti del pianeta… che dall’idea di affrontare i problemi tecnici e sociali causati dall’urbanizzazione mondiale” non è però rivolta alle loro architetture nè all'essere le archistar simbolo di una globalizzazione che rende tutti uguali “i luoghi più affascinati del pianeta” (con progetti di seconda mano dice addirittura) e che quindi dopo il loro intervento tanto affascinanti non saranno più, bensì è rivolta alla mancanza di un impegno sociale che si dovrebbe esprimere nella formulazione di proposte “sugli alloggi in città, su come affrontare l’emergenza pensando anche sul lungo periodo”.

Assolutamente incomprensibile e contraddittorio il confronto in negativo con Le Corbusier, che Augé stesso riconosce avere fatto molti danni proprio per la sua mania di risolvere il problema dell’abitare facendo tabula rasa e rifiutando la città storica!
Ebbene, cosa chiede Augé agli architetti? Di preoccuparsi del problema dell’abitare e di “tornare ad essere visionari del mondo”, esattamente quello che lui riconosce come contributo negativo di Le Corbusier! Tornare a preoccuparsi d’altro che di architettura e di città ma di problemi globali, quelli che, ad esempio, Bauman esclude possano rientrare nel campo di azione e di controllo a parte degli architetti.

L’alternativa all’archistar egomaniaca sarebbero dunque l’archistar visionaria in chiave socio-politico-utopica, un deja vue fallimentare.

Sembra che all'autore del'articolo sfugga un aspetto assolutamente elementare: che gli architetti debbono fare il loro mestiere e lasciare i problemi globali alle dinamiche della società, alla cui risoluzione possono certamente contribuire positivamente ma solo con la loro disciplina che consiste nel dare forma all’ambiente di vita dell’uomo, ciò che da decenni non sembra essere al centro dell’attenzione di molti.
Seguendo invece il suo invito si continuerebbe nella sperimentazione di nuovi modelli abitativi e urbani (e di modelli di ingegneria sociale) che hanno dato esiti catastrofici per la città e i suoi abitanti.
Ce n’è voluto di tempo per tornare a parlare di forma urbis e di disegno urbano, e adesso Augé ci propone un nuovo ’68 con l’immaginazione al potere!?


(1) Per smentire questa realtà si legga questo articolo del Corriere della Sera, I dieci edifici più brutti del mondo.

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17 novembre 2009

200 ANNI IN ....12 SECONDI

Ringrazio Angelo Gueli di avermi segnalato questo divertente e significativo video sulla trasformazione di una strada di New York:

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16 novembre 2009

DORATO INCUBO METROPOLITANO

PALM BEACH, FLORIDA, USA

Foto 1



Foto 2

Foto 3

Foto 4

Foto 5 (altro incubo in costruzione)

Immagini tratte da Google Earth

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12 novembre 2009

SARA' VERO?

Un link al giornale Libero con un'intervista a Luca Molinari, curatore del Padiglione Italia della prossima Biennale:


La domanda è: sarà vero? A giudicare dalla biografia del nuovo direttore della Biennale, Kazuyo Sejima, non c'è da esserne affatto certi!

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8 novembre 2009

MURI CADUTI E MURI...CADENTI

Pietro Pagliardini

Durante la presentazione del libro di Nikos Salìngaros, No alle archistar, LEF, 2009, tenutasi a Firenze, si è svolto un dibattito che, dato il tema, non avrebbe potuto che essere alquanto radicalizzato.
Ma non è questo l’argomento, quanto la seguente affermazione del Prof. Arch. Gianfranco Di Pietro, che presentava il libro, detta a completamento di un suo punto vista sulla pensilina di Isozaki a Firenze:
Una cosa è sicura: nei centri storici non si deve più costruire architettura contemporanea”.



Prima un brevissimo profilo del Prof. Di Pietro: in Toscana è stato, per lungo tempo, tanto autorevole quanto temuto membro della C.R.T.A, in pratica la commissione urbanistica della regione presso la quale tutti i PRG e i piani attuativi dovevano necessariamente transitare, oggi abolita ma allora dotata di ampi poteri decisionali, di interdizione e di indirizzo (e di cui si comincia a rimpiangere la fine). Redattore di piani regolatori, piani paesistici, piani territoriali di coordinamento, tra cui quello delle Province di Arezzo e Siena, i suoi piani sono impostati su schedature dettagliatissime e su norme fortemente vincolistiche. Ha svolto attività di progettazione sia nel campo della nuova edilizia sociale che nel recupero di fabbricati storici. Già docente di urbanistica alla facoltà di Architettura di Firenze, ha pubblicato libri insieme ad Edoardo Detti.

Premetto che Di Pietro, pur condividendo la critica del libro al fenomeno archistar, non ha nascosto le sue perplessità in ordine all’analisi di Salìngaros, da me invece condivisa, che buona parte del disastro architettonico e urbanistico delle nostre città affonda le sue origini nelle avanguardie del novecento, ed ha anche detto di provare ammirazione, per la loro impronta etica, per diversi interventi di quel tempo, citando in particolare il Weisenhof e le Siedlungen di Bruno Taut.




Cosa c’è dunque dietro l’idea stessa di escludere ogni forma di architettura contemporanea dai centri storici da parte di chi non rifiuta affatto l’architettura moderna?
A quali conseguenze porta un scelta di questo tipo?
La più semplice ed immediata risposta è l’ovvia constatazione che tra il contrasto e il contesto è preferibile quest’ultimo. Non ha detto infatti: non bisogna intervenire nei centri storici ma: "non bisogna farlo con progetti che sono per loro natura dissonanti e contrastanti".

Dunque un architetto che apprezza l’architettura moderna esclude che questa possa armonizzarsi con l’architettura della storia. Ma il prof. Di Pietro non è solo amante dell’architettura moderna, è anche un tipologo e un appassionato custode dei centri storici e del paesaggio.
La contraddizione è tanto evidente quanto, per assurdo, apparente.

E’ evidente perché certifica il riconoscimento di una indiscussa superiorità dell’architettura del passato su quella presente. Se, infatti, così non fosse e dato che la città storicamente si è sempre trasformata ed evoluta con l’aggiunta e la sovrapposizione di edifici di epoche successive fino alla configurazione attuale che noi tanto apprezziamo, allora non si capirebbe il motivo per cui non dovrebbe continuare a crescere con edifici contemporanei.

La contraddizione è tuttavia apparente per il fatto che modernità fuori e conservazione dentro sono due facce della stessa medaglia, la conseguenza di quella rottura violenta con la tradizione e con la storia voluta dalle avanguardie che segna una linea di confine netta e invalicabile tra un prima e un dopo e perciò anche tra un centro e una periferia. In giorni di celebrazione del 9 novembre 1989, è fin troppo facile la metafora della costruzione di un “muro” che divide un passato superbo, ritenuto morto, da un futuro fatto di sperimentazione di nuove forme architettoniche e urbane di cui l’avanguardia rivendica la paternità e la guida.

Io credo che questa “doppia morale”, mi piace chiamarla così, ha sì il merito di salvare il centro storico ma condanna la città nel suo complesso.
Di Pietro ha detto, e c’è del vero, che la ricerca effettuata nella prima metà del secolo affondava le sue ragioni nei velocissimi cambiamenti sociali ed economici delle società occidentali e che occorreva perciò trovare risposte a nuovi fenomeni quali la mobilità individuale e collettiva, l’inurbamento e la formazione di nuove classi sociali, ecc. Tuttavia è altrettanto vero che la oleatissima macchina dell’avanguardia non è stata capace di accorgersi in tempo del fatto che le soluzioni date erano profondamente sbagliate sia nelle forme architettoniche, completamente prive di ogni radice con il passato e quindi non accettabili proprio da coloro verso cui diceva di orientarsi la ricerca, cioè gli esseri umani (ed esistono prove in tal senso divertentissime sulla trasformazione spontanea da parte dei residenti di nuovi quartieri funzionalisti), sia nella struttura della città, la quale ha dovuto subire la rozza ed elementare razionalizzazione di essere frammentata in zone diverse che tuttora viene insegnata e perpetrata e di cui la città tutta, compreso il centro storico (che ha assunto appunto questa sacrale funzione), sta pagando il prezzo.

L’avanguardia non ha saputo né voluto fermarsi ed ha cristallizzato il suo potere e la sua ideologia occupando tutti gli spazi possibili e anche di più. Da avanguardia che voleva essere si è trasformata nella peggiore accademia, con i relativi accademici, fondendosi con il potere economico dei media fino alla sua forma più evoluta nell’ambito della globalizzazione con il fenomeno delle archistar, i divi creatori di forme nuove per definizione, indifferenti ai luoghi e alle genti, ogni nuovo progetto delle quali “deve” diventare evento mediatico globale per vendere gli stessi oggetti edilizi a Dubai come a Ostia, a New York come a Savona.

Se dunque l’identità dei luoghi e dei popoli va perduta con l’architettura moderna e tanto più contemporanea, è opportuno conservare e congelare ciò che resta del patrimonio storico urbano e architettonico come un reperto archeologico.

Questa, credo, sia la molla che crea questa “doppia morale”. Fare i conti con la storia significa anche salvare quel poco di buono che può esserci stato e gettare a mare tutto il resto senza rimpianti; non significa, invece, perfezionare ciò che è sbagliato in origine, non significa arrampicarsi sugli specchi giustificando gli errori come “deviazioni”, significa riconoscere un fallimento e basta, al pari dell’abbattimento del muro di Berlino che è un gesto liberatorio di condanna totale di un passato sbagliato e disumano. Ma non è facile che avvenga, o almeno non dal di dentro, visto che insieme al muro cadrebbero anche i suoi fedeli Vopos.

A coloro che in questi giorni condannano e dileggiano i “frattali”, consiglio di fare i conti con ciò che esiste e che hanno davanti agli occhi ogni giorno, e di cui potrebbero essere in parte responsabili, invece di trastullarsi nel gioco autoreferenziale del critico che si scaglia contro ciò che potrebbe minare la sua personale posizione di potere.

Oggi riprendere il cammino interrotto vuol dire, prima di tutto, cercare di ricostituire un corpo disciplinare minimo condiviso tra gli architetti e soprattutto nelle università, dopo aver fatto i conti veri con la storia e mettendo da parte la folle idea primaria di creatività e artisticità e puntare sul mestiere.
E’ necessario tornare a fare della buona edilizia e riporre l’Architettura nella valigia dei sogni di ognuno di noi, pronta ad essere tirata fuori nei rari casi della vita in cui è lecito pensare di fare ricorso ad essa, e non scomodarla in ogni circostanza, come inculcato nelle aule universitarie e come mostrato nelle riviste, dal caminetto della signora Gina alla riqualificazione delle piazze del sindaco di turno. Questo significherebbe, parafrasando Di Pietro, dare una forte impronta etica al nostro mestiere.

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6 novembre 2009

ANCHE SEATTLE HA IL SUO "PIANO CASA"

Visitando il blog Planetizen ho trovato un link a questa notizia: "Il cottage nel giardino di casa ha avuto l'OK a Seattle".

Di che si tratta: di un piccolo "piano casa" per cui ogni abitazione, limitatamente ad una zona della città, potrà costruire nel giardino di casa un'altra abitazione della superficie massima di circa 74 mq e a determinate condizioni che sono dettagliate nell'articolo e per chi avesse voglia di approfondire nell'ordinanza del City Council, approvata all'unanimità.

Lo scopo è quello più naturale, cioè offrire la possibilità di costruire una casetta a costi bassi per la famiglia o da mettere sul mercato degli affitti a costi contenuti. Mi sembrano considerazioni molto poco ideologiche, ragionevoli e valide anche per la realtà italiana. Tutto qui.

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2 novembre 2009

SALINGAROS INTERVISTATO DA GIORGIO SANTILLI

Nikos Salìngaros intervistato da Giorgio Santilli su Il Sole 24 ore:


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